Rapporto europeo anti-tortura e carceri italiane, utile promemoria contro le brutalità di Mario Chiavario Avvenire, 12 settembre 2017 Nelle carceri italiane, "l’anno scorso, si sono verificati 39 suicidi, la stessa cifra del 2015, nonostante l’incremento della popolazione carceraria". Non è uno scoop mediatico su un’amarissima verità che non si conoscesse ancora; contenuta nella risposta del nostro Governo all’ultimo Rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene e dei trattamenti inumani o degradanti, è la sintesi ufficiale di dati statisticamente ineccepibili (da 52.154, in un anno, i reclusi erano diventati 54.653). Eppure la frase - il testo è in inglese, ma la traduzione è letterale - rischia di suonare minimizzante e quasi tranquillizzante, quasi che fosse naturale, con la crescita globale di quella popolazione, aspettarsi invece un corrispondente aumento dei decessi. Quella frase può essere un esempio di come lo scrupolo di esattezza burocratica (o, per dirla con Pascal, l’esprit de géométrie) possa capovolgere, sia pur involontariamente, la percezione di realtà che in valori assoluti restano tragiche. Non sarebbe giusto addurla per oscurare la complessiva serietà del dialogo instauratosi tra il Consiglio d’Europa e le autorità nazionali a seguito delle visite effettuate da una delegazione del Comitato, nell’aprile 2016, in diversi penitenziari e istituti psichiatrici del nostro Paese. Quanto al Rapporto, sbaglierebbe chi vi volesse scorgere l’avallo a certe descrizioni delle nostre prigioni come se costituissero una rete di tanti lager o di tante Guantánamo: gli stessi commissari europei danno atto che "la grande maggioranza dei detenuti incontrati" durante le visite ha palesato di "essere stata trattata correttamente dal personale di polizia"; né sono taciuti gli effetti positivi degli sforzi fatti, soprattutto recentemente, per rendere più vivibile la vita delle persone private dalla libertà. Non mancano però i rilievi - molto dettagliati e, taluni, anche pesanti - desunti da carenze strutturali (come quelle che hanno portato alla riduzione degli spazi a disposizione di ogni recluso, ancora al di sotto del tollerabile e della stessa media europea) o da denunce di violenze (quali "schiaffi, pugni, calci e manganellate" contro persone arrestate), parecchie delle quali supportate da documentazione medica. Dal canto suo la risposta dell’autorità ministeriale italiana è opportunamente volta, soprattutto, a ragguagliare sulle iniziative adottate e sui risultati conseguiti nei mesi successivi a quello della visita, compreso il varo della legge per la specifica repressione, come crimine specifico, della tortura (resta però da vedere se il testo risponda alle esigenze sottolineate in sede europea, circa la necessaria adesione agli standard internazionali, e il dubbio investe anzitutto la discutibilissima esclusione, dalla descrizione legislativa della nuova fattispecie criminosa, della punizione come tortura quando si tratti di fatti singoli che pur ne abbiano tutte le caratteristiche). Quanto alle denunce, senza che ci si rinchiuda in una difesa incondizionata dell’operato delle forze dell’ordine, si forniscono dati sul seguito di quelle raccolte ufficialmente, anche nei seguiti giudiziari penali cui hanno dato luogo. Al di là di queste risposte, pur doverose, deve comunque suonare come un richiamo a responsabilità più diffuse e da soddisfare continuativamente l’appello che il Rapporto formula circa l’esigenza di trasmettere a tutto il personale di polizia il "chiaro messaggio, che i maltrattamenti sono inaccettabili e saranno perseguiti con sanzioni adeguate". Mera retorica? O monito comunque superfluo? Non si direbbe: e per smentire le frettolose liquidazioni del problema non c’è neppure bisogno di richiamare il recentissimo episodio che vede coinvolti i due carabinieri fiorentini in una bruttissima storia (in ogni caso del tutto anomalo, nella indiscussa realtà di almeno alcuni degli aspetti venuti in evidenza). Soprattutto, occorre non dimenticare la pressione che, a sostegno e a sollecitazione di reali o potenziali velleità di "giustizieri della notte" nell’ambito delle forze dell’ordine, sta montando nella popolazione: che spesso trasforma la sacrosanta esigenza di pene certe e tempestive, per chi ne turba la sicurezza e la tranquillità, in perentorie richieste del "dentro, e buttando la chiave", accompagnate da palesi o sottintesi incoraggiamenti a "non andare troppo per il sottile" nel "trattamento" di veri o presunti delinquenti. Quei sessanta bambini rinchiusi nelle patrie galere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 settembre 2017 In Italia sono almeno 60 i minorenni "reclusi". eppure la legge prevede le case famiglia. Una bimba di tre anni, in galera con la madre nel carcere siciliano "Gazzi" di Messina, ingerisce un topicida e finisce in ospedale. Una tragedia sfiorata che è accaduta domenica scorsa. La bimba - che ha anche una sorellina di poco più grande, anche lei in carcere con la madre, una donna nigeriana - è per fortuna fuori pericolo. La bustina contente il veleno per topi ingerita dalla bambina, si trovava nella cabina da dove la madre stava telefonando. Ora è fuori pericolo e ritornerà di nuovo in galera. L’episodio riporta in primo piano la grave situazione delle recluse madri e dell’adeguatezza delle strutture - molto spesso invase da topi - in cui si ritrovano rinchiusi anche i bambini. Saro Visicaro, coordinatore dell’associazione radicale "Leonardo Sciascia" di Messina, ha denunciato duramente l’accaduto. "Assurdo che una bambina di tre anni - commenta Visicaro debba stare in carcere. Assurdo che del topicida sia alla portata di un bambino. Assurdo che i topi circolino dentro una struttura penitenziaria. Assurdo che la Direzione del carcere permetta condizioni di questo tipo. Tutto ciò è ancora più assurdo considerando che il sindaco di questa città dopo innumerevoli sollecitazioni non abbia voluto nominare il Garante per i diritti delle persone recluse". Il radicale messinese infine conclude: "Solleciteremo in tutti i modi la magistratura e il ministro competente per intervenire con il rigore indispensabile su questa ignobile vicenda". Il problema dei bambini dietro le sbarre rimane tuttora irrisolto. Secondo gli ultimi dati aggiornati al 31 agosto, risultano che ci sono ancora 60 bambini e bambine in galera. Hanno dai zero ai tre anni, e sono finora costretti a vivere in un ambiente poco edificante per la formazione della loro personalità. Quella di portare i figli in carcere è una possibilità prevista dalla legge 354 del 1975. Il senso è quello di evitare il distacco dalle madri o, per lo meno, di ritardarlo. C’è anche la detenzione domiciliare come alternativa, ma non sempre il magistrato la concede. Uno dei motivi principali è la residenza inesistente oppure inadatta, e colpisce soprattutto le detenute straniere e rom. Proprio per ovviare a questo problema esiste una legge che contempla anche la realizzazione delle case famiglia protette. Esistono gli istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam) - attualmente sono a Torino Lorusso e Cutugno, Milano San Vittore, Venezia Giudecca, Cagliari e recentemente a Lauro, provincia di Avellino-, ma si trattano pur sempre di luoghi ristretti che fanno capo all’amministrazione penitenziaria. Ad oggi esiste solo una casa famiglia ed è stata inaugurata da poco grazie soprattutto al finanziamento di 150 mila euro da parte della fondazione Poste Insieme Onlus. Si chiama "Casa di Leda" ed è un edificio confiscato dalla mafia nel quartiere romano dell’Eur. La casa non a caso è intitolata a Leda Colombini, figura di primissimo piano del Pci e, negli ultimi anni, strenuo difensore dei diritti delle mamme detenute. Morì nel 2011, all’età di 82 anni, in seguito a un malore che l’ha colpita nel carcere di Regina Coeli, dove stava svolgendo la sua quotidiana opera di volontariato. Nel volontariato in carcere, come presidente dell’associazione - tuttora attiva - "A Roma Insieme" aveva promosso numerosi progetti a favore delle mamme detenute e, soprattutto, per i bambini fino a tre anni reclusi nel carcere romano di Rebibbia con le loro madri. Per ovviare al problema dei bambini dietro le sbarre, ci vorrebbero, appunto, più "case di Leda". La IV Carovana per la Giustizia: in Puglia contro il silenzio sul tema giustizia agenziaradicale.com, 12 settembre 2017 Dopo Calabria, Sicilia e Sardegna, dal 11 al 19 settembre il Partito Radicale e l’Unione delle Camere Penali Italiane organizzano infatti una "Carovana per la Giustizia" che attraverserà tutta la Puglia. "La Carovana - ha spiegato Sergio D’Elia, segretario di Nessuno Tocchi Caino - farà la prima tappa a Foggia l’11 settembre, con visita nel carcere foggiano; proseguirà poi in tutte le province pugliesi, con ingressi in tutti gli altri istituti di pena della regione: San Severo, Lucera, Trani, Turi, Bari, Brindisi, Taranto, Lecce". Gli obiettivi della Carovana sono: raccolta firme sulla proposta di legge delle Camere Penali per la separazione delle carriere dei magistrati, arrivata già a oltre 63000 sottoscrizioni; amnistia e indulto, premessa indispensabile per una Giustizia giusta; superamento di trattamenti crudeli e anacronistici come il regime del 41 bis e il sistema dell’ergastolo, a partire da quello ostativo; approvazione dei decreti delegati della riforma dell’Ordinamento Penitenziario; 3.000 iscritti al Partito Radicale entro il 31 dicembre 2017 per continuare le lotte di Marco Pannella. Nel corso della conferenza stampa di presentazione della nuova iniziativa radicale, Rita Bernardini ha voluto dare una notizia: nel carcere Gazzi di Messina una bambina nigeriana di tre anni che con la madre e il fratellino condivide la detenzione ha ingerito un potente veleno per topi che le ha provocato emorragie e ora lotta per non morire in ospedale. A ciò si aggiunge l’aumento dei suicidi in carcere: quest’anno siamo già a 41". Bernardini ha ricordato che "gli 8000 detenuti che in tutta Italia hanno deciso di aderire al nostro grande Satyagraha, una iniziativa nonviolenta che consiste nel digiuno, nello sciopero della spesa e nel rifiuto del carrello, finalizzata nel richiedere al più presto l’attuazione della riforma dell’ordinamento penitenziario". Tutto questo nel quasi totale silenzio dei mezzi di informazione che "presi da altro, ignorano la tematica della giustizia, soprattutto ciò che accade nel suo ultimo anello, ossia le carceri". Tornano i saldi parlamentari di fine stagione: leggi sbagliate di Alessandro Campi Il Messaggero, 12 settembre 2017 La ripresa dei lavori parlamentari - dopo la lunga pausa estiva - ci consegna un interrogativo delicato: in quale Paese vivono i rappresentanti politici della maggioranza di governo? Alla fine naturale della legislatura mancano sei mesi: ma i giorni effettivi di lavoro per deputati e senatori sono poco più di sessanta. Da impiegare come? Di sicuro nelle prossime settimane bisognerà varare un’impegnativa legge di bilancio. Pare invece che le grandi priorità degli italiani siano, secondo la maggioranza che sostiene il governo, una legge per reprimere l’apologia di fascismo realizzata attraverso la Rete, una legge per estendere la cittadinanza secondo il principio dello ius soli e una legge per abolire i vitalizi dei parlamentari. La prima è inutilmente ideologica, la seconda intempestiva e poco meditata, la terza demagogica e potenzialmente incostituzionale. Tutte e tre, più che a una necessità reale dei cittadini, sembrano dunque rispondere ad una comprensibile convenienza politico-elettorale del Pd. Le elezioni si avvicinano, c’è bisogno di compattare i ranghi e pazienza se si alimentano polemiche di cui si farebbe volentieri a meno o se si appesantisce il calendario parlamentare. Il provvedimento che punta a mettere al bando la propaganda nostalgica dei totalitarismi è di quelli a costo zero e ad alto tasso simbolico. Ha un intendimento pedagogico all’apparenza nobile che si basa però su una cattiva ispirazione ideale, su un’errata valutazione politica e su una concezione ipertrofica del diritto. Dal punto di vista del pluralismo liberale, per cominciare, le cattive opinioni di una minoranza non si combattono reprimendole, il che rischia di avvolgerle in un’aura di martirio e di favorirne la diffusione clandestina, ma mostrandone l’inconsistenza e la bassezza. In ogni caso, non si può impedire a nessuno di coltivare pensieri fanatici e basati sul pregiudizio. La grandezza della democrazia liberale-che persegue le azioni sbagliate secondo la legge non le idee abominevoli secondo il nostro metro morale - consiste nel lasciare libertà di parola anche a chi la odia. L’errore politico è invece quello di pensare che alla base del populismo odierno ci siano i rigurgiti ideologici del fascismo: in realtà è il cattivo funzionamento dei regimi democratici, è la discrasia tra promesse e realizzazioni, ciò che togliendo loro legittimità favorisce il risentimento antipolitico dei cittadini. C’è infine da considerare che in Italia esistono già norme che reprimono l’apologia di fascismo e l’istigazione alla xenofobia. Un eccesso dileggi sulla stessa materia non aumenta la certezza del diritto, rischia invece di favorirne la cattiva applicazione. Quello sullo ius soli, sebbene presentato enfaticamente come una conquista di civiltà, è invece un provvedimento nato nel momento sbagliato, vale a dire nel pieno dell’emergenza degli sbarchi sulle coste italiane (al momento parzialmente rientrata anche se bisogna capire cosa farà realmente l’Europa per gestire e controllare i flussi migratori dall’Africa). Ma il suo vero difetto è di non essere stato accompagnato da alcuna seria discussione su cosa significhi essere italiani (sul piano storico-culturale) e su cosa sia l’appartenenza ad una comunità nazionale. La cittadinanza è solo un titolo formale che nasce dall’osservanza di alcune regole basilari? È un diritto che mette capo a quali doveri? Quale percorso formativo occorre espletare per conseguire un’effettiva integrazione? Domande politicamente dirimenti alle quali si è preferita una propaganda tutta incentrata sul sentimentalismo e su una facile retorica umanitaria. La proposta di abolizione dei vitalizi parlamentari è invece una evidente concessione allo spirito del tempo. La sua incostituzionalità riguarda il ricalcolo con il metodo contributivo delle pensioni già assegnate col metodo retributivo agli ex senatori e deputati: un meccanismo retroattivo che stride col buon senso prima che con la logica giuridica. Ma il punto politicamente controverso di questa proposta di legge è un altro. La polemica sui costi della politica e contro la casta è il cavallo di battaglia del M5S. Il Pd pensa evidentemente di catturare consensi muovendosi sullo stesso terreno. È lo stesso ragionamento che portò la sinistra a modificare in senso federalista il titolo V della Costituzione con l’idea di assecondare e al tempo stesso di neutralizzare la Lega bossiana. Un calcolo elettoralmente non pagante. La riforma costituzionale fu votata dal centrosinistra nel marzo 2001 con una maggioranza risicata e mentre la legislatura stava per chiudersi. A maggio il centrodestra stravinse le elezioni. Qualcuno ha calcolato il rischio che possa andare così anche questa volta? Ma la vera domanda è un’altra: qualcuno (a sinistra e non solo) si è chiesto cosa serva realmente agli italiani e cosa si possa fare di utile da qui alla fine della legislatura? Una legge elettorale condivisa che eviti il caos politico-istituzionale che tutti temono all’indomani del voto, nel caso si vada alle urne con l’attuale normativa, sarebbe certamente una risposta reale ai loro problemi concreti. Sempre che non sia già troppo tardi. Intercettazioni, al via le consultazioni al ministero. Le perplessità dei penalisti di Vittorio Nuti Il Sole 24 Ore, 12 settembre 2017 I tempi sono stretti, dettati dalla riforma Orlando del processo penale, la legge 103/2017: tre mesi di tempo, a partire dal 3 agosto scorso, data di entrata in vigore della nuova normativa, per rivedere le regole sulle intercettazioni. Per mettere mano alla riforma degli ascolti il Governo e il ministero della Giustizia hanno quindi tempo fino ai primi di novembre. Non molto, considerando la delicatezza "politica" del tema, la necessità dei parerei parlamentari, l’approssimarsi di fine della legislatura, l’ostilità dei grillini ("è una porcata", disse Grillo alla vigilia del voto di fiducia che a giugno portò all’approvazione definitiva dopo un passaggio parlamentare di oltre 1.000 giorni) e la sostanziale contrarietà di giudici e penalisti. Per questo, non è detto che le anticipazioni del testo della bozza del Dlgs - dispiacciano più di tanto a via Arenula. Da un lato dimostrano che l’ufficio Legislativo del ministero questa estate ha lavorato senza perdere tempo. Dall’altro, fa partire un confronto sui contenuti inevitabile e necessario, che sarebbe sconsigliabile promuovere troppo a ridosso di altri temi caldi (voto Sicilia e manovra). Per capire il clima, saranno decisivi i prossimi giorni: dopo le precisazioni di rito - "allo stato attuale, il ministero sta lavorando alla stesura del testo" del decreto attuativo che "terrà conto anche del confronto prezioso e del contributo significativo" avvocati, giudici, giornalisti e giuristi - il ministero ha annunciato per oggi e domani una serie di incontri programmati con i rappresentanti delle stesse categorie. Per illustrare il lavoro fatto, spiegare la "ratio" delle scelte, e scongiurare il tiro al bersaglio sulla riforma. E completare il giro di orizzonte. Ricevuti i rappresentanti dell’Unione camere penali - Stamattina sono stati ricevuti il presidente Beniamino Migliucci e il segretario Francesco Petrelli dell’Unione camere penali, per esprimere le valutazioni in merito alla bozza di decreto legislativo in materia di intercettazioni. L’Unione ha manifestato critiche in relazione alla ipotesi di modifica dell’art. 103 c.p.p., ribadendo che non devono essere consentiti né l’intercettazione né l’ascolto delle conversazioni tra difensori e assistiti. L’Unione ha rilevato inoltre come alcuni divieti, volti a garantire la riservatezza delle conversazioni, rilevanti o meno, non siano assistiti da adeguate sanzioni e, per tale ragione, debbano considerarsi privi di concreto effetto. Il Ministro ha ribadito che la bozza verrà ridiscussa in un ulteriore incontro anche con l’Unione delle Camere Penali Italiane. La polemica sui virgolettati - Ha suscitato polemiche, in particolare, il passaggio contenuto nella bozza di decreto legislativo circolata, relativo al divieto di trascrizione integrale delle intercettazioni (i cosiddetti virgolettati), da sostituire con un riassunto dei contenuti. Il ministro, a tal proposito, in un’intervista a Repubblica ha rassicurato che l’obbligo di non citare letteralmente e tra virgolette le intercettazioni "è un punto che sicuramente potrà cambiare". E, più in generale che la bozza del provvedimento circolata non sarà quella finale. Le perplessità dei penalisti - Migliucci ha anticipato al Sole 24 Ore una serie di rilevi critici al Dlgs, a partire dal metodo con cui è stato predisposto, "che non ci è piaciuto", perché "dopo una doppia fiducia a Camere e Senato" non istituire una commissione che senta tutti gli interessati, ma affidare il compito agli uffici ministeriale "fa pensare ad una delega a se stessi" che su un tema così delicato "non è proprio la scelta più opportuna". Lascia "perplessi" anche "l’idea di eliminare i virgolettati" nella fase cautelare a favore di una sintesi del contenuto delle conversazioni da parte di Pm, Gip o Riesame. "In questo modo viene meno la piena responsabilità del Pm nell’indicare in modo preciso" la frase o il passaggio incriminante. E poi "si aggrava fortemente il lavoro della difesa", che, spiega Migliucci, "rischia di complicarsi ulteriormente per quanto riguarda il riascolto delle intercettazioni, per non parlare del tempo necessario per questi approfondimenti". Riservatezza avvocato-assistito - Nel mirino dei penalisti anche la norma attuativa che stabilisce la non trascrivibilità "anche sommaria" delle intercettazioni tra assistito e difensore, destinate ad un archivio riservato posto sotto la responsabilità del Pubblico ministero. Tra i casi più recenti che hanno suscitato un vespaio di polemiche, la pubblicazione dei virgolettati di una telefonata intercettata tra il padre dell’ex premier Matteo Renzi, Tiziano, e il suo avvocato. Privacy a 360°, dunque. La stessa norma vale anche per "le comunicazioni o le conversazioni di persone coinvolte solo casualmente negli accertamenti e "i cui contenuti non hanno rilevanza ai fini delle indagini, nonché di quelle riguardanti dati personali definiti sensibili dalla legge". La trascrizione è ammessa solo quando il Pm "valuta la rilevanza" dei contenuti "per i fatti oggetto di prova. "Abbiamo ottenuto attenzione sul rapporto con i nostri assistiti, ma non ci soddisfa: lo spazio di sacralità di questi colloqui non è un privilegio per l’avvocato", e "uno Stato che pretende di origliare" le conversazioni della difesa "si avvicina a uno Stato autoritario". Insomma, la novità "lascia il tempo che trova", visto che il Codice di procedura penale dice già chiaramente che non è consentita l’intercettazione di comunicazioni difensori-assistiti. "Il tema", conclude il leader dei penalisti, "non è la stampa dei contenuti, ma chi rivela o fa trapelare i dettagli delle intercettazioni", e su questo fronte, "non c’è alcun progresso o tentativo di limitare le vere disfunzioni". Paletti rigidi per l’uso dei trojan - In linea con le previsioni della delega, la bozza di decreto disciplina le intercettazioni ottenute attraverso virus informatici (trojan horse, in italiano cavallo di Troia), stabilendo che l’attivazione del microfono avvenga solo su comando inviato da remoto (non in automatico) e che il trasferimento della registrazione sia fatto solo verso il server della procura. Il ricorso ai "captatori informatici" è ammesso solo per i reati più gravi (mafia, terrorismo, criminalità organizzata), ed escluso per i reati di corruzione. L’uso dei trojan, malware utilizzato per entrare nel computer o nello smartphone del soggetto sotto osservazione senza esser riconosciuto per accedere ai dati, è uno strumento fortemente invasivo della privacy, dovrà rispettare i paletti già previsti per le intercettazioni: obbligo di motivazione in caso di attivazione di questo strumento "per ragioni urgenti", senza attendere il provvedimento del giudice", inutilizzabilità delle prove raccolte con trojan per reati diversi da quelli autorizzati dalla richiesta "salvo che risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza". No alla captazione fraudolenta - Lo schema di Dlgs delega prevede anche l’introduzione nel nostro ordinamento di un nuovo reato punito fino a 4 anni di carcere: la registrazione abusiva di conversazioni private. Confermato in pieno sul punto la previsione della delega che chiede di punire la diffusione di conversazioni tra privati captate fraudolentemente al solo fine di recare danno alla reputazione e all’immagine altrui. La punibilità è esclusa quando le riprese o registrazioni sono utilizzate come prova in un processo o costituiscono esercizio del diritto di difesa e del diritto di cronaca. Sempre sul fronte difesa una novità è la previsione di una udienza stralcio (che i penalisti definiscono però "di acquisizione"), terminata la fese delle misure cautelari e di chiusura indagini, per permettere ai legali di prendere visione del materiale raccolto con le intercettazioni, con la possibilità di "esaminare gli atti, ascoltare le registrazioni" e farne copia. Sarà quella la cosiddetta "udienza discovery", ispirata al diritto anglosassone, in cui vengono scoperte le carte e la difesa potrà indicare i colloqui ritenuti rilevanti per l’inclusione nel fascicolo del processo. Nuove intercettazioni con difesa penalizzata di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 12 settembre 2017 Assicurare la massima parità tra le parti. Rendere più incisivi i divieti con sanzioni. Si è aperto ieri il confronto sulla riforma della disciplina delle intercettazioni. Sul tavolo la bozza di decreto messa a punto dall’ufficio legislativo del ministero della Giustizia, in esecuzione della delega contenuta nella legge sul processo penale in vigore da inizio agosto. Una semplice base di partenza, ha assicurato ieri mattina alle Camere penali il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Perché le norme sono destinate a cambiare, anche sulla scia delle indicazioni che arriveranno dal giro di incontri che oggi prosegue con l’Associazione nazionale magistrati. Le Camere penali hanno messo in evidenza alcuni dei punti critici dello schema, in particolare, per quanto riguarda le ipotesi di modifica dell’articolo 103 del Codice di procedura penale (quello sulle garanzie del difensore), hanno ricordato che non devono essere consentiti né l’intercettazione né l’ascolto delle conversazioni tra difensori e assistiti. In questo senso il decreto dovrà essere rafforzato. Ma il presidente Beniamino Migliucci trova poco convincenti anche altri parti. L’eccessiva area di discrezionalità lasciata alla polizia giudiziaria nella valutazione di ciò che deve essere trascritto nei brogliacci perché rilevante da quello che invece deve essere omesso. "Non se ne capiscono bene i criteri - avverte Migliucci. È vero che un pubblico ministero diligente dovrebbe ascoltare tutte le conversazioni per farsene un’opinione, ma a volte questo potrebbe essere complicato". Ed è su questo punto che Migliucci mette in evidenza come una infrazione al divieto di trascrizione di quanto è irrilevante non è assistito da un’adeguata misura sanzionatoria, con il rischio di svuotare un po’ tutto l’impianto. Come pure robuste sono le perplessità sull’accesso e la gestione dell’archivio nel quale confluirà tutto il materiale oggetto di intercettazione. Forte rischia di essere la differenza di trattamento tra accusa e difesa in termini di modalità e tempi di accesso. E critiche sono arrivate ieri anche dal Csm, con l’intervento di Aldo Morgigni, togato di Autonomia e Indipendenza, la corrente che fa capo a Piercamillo Davigo. Poco da salvare nella riforma per Morgigni. Solo le misure che rendono più agevoli le intercettazioni nei procedimenti per corruzione, basteranno indizi "sufficienti" e non "gravi". Per il resto poco funziona: l’udienza filtro per selezionare il materiale rilevante rischia di appesantire i tempi dimenticandosi dei tempi ragionevoli di durata, i captatori informatici vengono sterilizzati e le indagini rischiano di essere rallentate. Uno dei punti più critici della bozza è quello che "vieta alla polizia giudiziaria di trascrivere le conversazioni", di cui va riportato solo il contenuto. "Non è chiaro, però, come dovrebbero fare pm, difensori e giudice a capire in seguito quali intercettazioni siano effettivamente irrilevanti. La norma, peraltro, sposta dal giudice alla polizia giudiziaria la scelta sulla rilevanza della prova, con profili evidenti di incostituzionalità". Separazione carriere: la proposta di legge per un giudice terzo di Gabriella Lax studiocataldi.it, 12 settembre 2017 Una proposta di legge al Parlamento per un progetto di revisione costituzionale che garantisca la terzietà del giudice. Da qui nasce l’iniziativa di un comitato che lavori attivamente, con un manifesto e, soprattutto, di un Comitato promotore per la separazione delle carriere in magistratura. La Costituzione impone la terzietà del giudice, il legislatore ordinario deve garantirla ed attuarla con ogni mezzo. Proprio la terzietà del giudice, l’equidistanza dalle parti è uno dei principi cardine dell’ordinamento fissato dall’articolo 111 della Costituzione, uno dei principi che fa del nostro sistema un sistema accusatorio. Una giusta distanza che, tuttavia, non sempre viene rispettata. Ne parliamo con Giuseppe Belcastro, avvocato e coordinatore nazionale del comitato organizzatore per la raccolta delle firme che, ad oggi, sono state oltre 63mila. Avvocato, come nasce il comitato per la separazione delle carriere? "Si tratta di una iniziativa dell’Unione delle Camere Penali italiane che è la federazione di tutte le camere penali, le associazioni di tutti i penalisti presso i vari tribunali italiani, ben 133 camere sul territorio nazionale. L’Unione si occupa di tutte le tematiche in materia di giustizia: diritti e garanzie del processo. Non si tratta di un sindacato, né di un’associazione di categoria, non ha nulla a che spartire con gli interessi corporativi degli avvocati: il focus sono le garanzie per i cittadini nel processo e, più in generale, la giustizia. In questo quadro, quello della separazione delle carriere è stato sempre un problema acuto. Quando parliamo di separazione intendiamo che il pubblico ministero, organo dell’accusa e il giudice, organo deputato ad emettere la decisione nell’ambito del procedimento, appartengono oggi allo stesso ordine ossia la magistratura. E questo è un controsenso perché chi giudica e chi accusa dovrebbero appartenere a due organi distinti, così accade in tutte le democrazie evolute in cui vige un sistema accusatorio, come il modello a cui si ispira il nostro codice, nonostante le varie modifiche peggiorative fatte negli anni sin dall’adozione. In Italia, giudice e pm non sono figure distinte ma appartengono allo stesso ordine e, secondo noi penalisti, è un problema nel processo. Qual è l’obiettivo della proposta di legge costituzionale? "Da qui l’idea: predisporre una proposta d’iniziativa e abbiamo seguito i passaggi di rito, la pubblicazione nella gazzetta ufficiale, il deposito della indicazione presso il supremo collegio e l’avvio della raccolta di firme. L’iniziativa mira a realizzare la separazione che dev’esserci assolutamente tra ufficio di accusa e l’ufficio che giudica. Abbiamo fatto un articolato che abbiamo proposto alla cittadinanza, chi è d’accordo può sottoscriverlo in modo tale che la proposta venga portata alla presidenza della Camera o del Senato e venga discussa come una proposta di legge di iniziativa popolare. Così, in caso di approvazione, sarà una proposta di revisione costituzionale". Quali altri aspetti importanti sono contenuti nella proposta di legge? "Un altro aspetto che c’è nella legge (e che inerisce l’azione penale che non viene toccata o modificata) è stabilire che il pubblico ministero eserciti l’azione penale nei casi e nei modi indicati dalla legge. Questo che significa? Oggi, con l’obbligatorietà dell’azione penale il pm deve esercitare l’azione penale per ogni notizia che riceve, svolgere l’indagine e poi o chiedere il rinvio a giudizio, citare in giudizio o archiviazione, questo ha portato ad una sorta di paralisi per i tribunali. È impossibile che vengano esercitate le azioni penali per tutte le notizie di reato. Le notizie di reato sono troppe, non a caso si parla di depenalizzazione proprio perché il numero dei reati in Italia è elevatissimo. Si è pensato che piuttosto che lasciare la scelta sull’azione da esercitare all’ufficio di procura che sia la legge a stabilire quali sono i criteri di selezione e le modalità operative per l’azione penale". Qual è il bilancio della raccolta firme? "La raccolta è iniziata ?il 4 maggio. Ad oggi sono oltre 63mila le firme. L’iniziativa non appartiene a nessun partito politico, a differenza di alcune iniziative analoghe, ad esempio il referendum dei radicali sul tema vittorioso e poi coi risultati accantonati. Siamo un’associazione privata di penalisti, abbiamo promosso l’iniziativa con le nostre forze, senza avere il coordinamento di nessuno, tranne per la parte organizzativa il Partito Radicale. Per depositare la proposta di legge occorrevano 50mila firme, da depositare entro sei mesi, era già abbastanza difficile comprendere come raccoglierle, siamo avvocati e non abbiamo mai fatto iniziative di questo tipo ossia preparare i moduli, vidimarli, organizzare un banchetto per la raccolta firme. Operazioni di cui non avevamo idea e ci siamo consultati con il partito radicale, ferrato in materia che ha saputo darci le giuste indicazioni. Nell’arco delle prime 20 giornate avevamo raccolto circa 25 mila firme. Nonostante i timori, dopo 50 giorni, avevamo già le firme necessarie. Si è trattato di banchetti per la raccolta firme organizzati dalla Valle d’Aosta alla Sicilia, con grande partecipazione di tutti gli avvocati nel territorio, giovani e non giovani, perché è una battaglia sentita in tutto il territorio. Ciò che è importante sottolineare è che non si tratta di una battaglia contro nessuno. Ci sono state voci, soprattutto di alcuni settori della magistratura, secondo cui questa iniziativa potrebbe incrinare la cultura della giurisdizione del pubblico ministero. Non è così. Vogliamo solamente che il giudice sia davvero garantito nella sua autonomia e per far ciò è necessario che sia libero da ogni tipo di continuità, sia con la difesa sia col pubblico ministero, e deve essere terzo come stabilisce la Costituzione".? Ecco la legge Fiano contro la propaganda fascista e nazista di Paolo Delgado Il Dubbio, 12 settembre 2017 La proposta del deputato dem arriva a Montecitorio. Di fatto l’obiettivo principale della nuova norma è contenuto nelle righe finali: la crociata mira a colpire i nostalgici, ma anche il razzismo e il linguaggio d’odio in rete. Oggi arriverà nell’Aula di Montecitorio la legge Fiano sulla propaganda fascista. Sarà approvata in giornata, con l’opposizione di centrodestra e M5S, o al più tardi domani. Al Senato il percorso sarà poi più accidentato ma la legge che aggiunge al Codice penale l’art. 293bis dovrebbe farcela comunque. Il voto arriva in un momento che inevitabilmente esalta al massimo il contenuto della legge, che punisce con pene da 6 mesi a 2 anni di reclusione "chiunque propaganda le immagini o i contenuti propri del partito fascista o del partito nazionalsocialista tedesco, ovvero delle relative ideologie, anche solo attraverso la produzione, distribuzione, diffusione o vendita di beni raffiguranti persone, immagini o simboli a essi chiaramente riferiti, ovvero ne richiama pubblicamente la simbologia o la gestualità". Pene aumentate però di un terzo "se il fatto è commesso attraverso strumenti telematici o informatici". A farlo apposta non si sarebbe riusciti a buttare giù una legge che, in appena una decina di righette, prende di petto tutti i temi incandescenti di questa estate segnata da venti di intolleranza, xenofobia e razzismo senza precedenti in epoca recente. Parlare di offensiva di un fascismo risorto è merce comune non solo negli avamposti della sinistra radicale ma anche nelle testate moderate. Paventare l’influsso oltre misura pernicioso della rete e dei social è ormai più luogo comune universalmente condiviso che ipotesi azzardata. È vero che qui si parla di solo di nostalgie littorie dilagate in rete e non esplicitamente di razzismo o di Hate Speech, il linguaggio d’odio che a volte sembra diventato l’esperanto del web ma in questo caso una cosa rimanda all’altra: fascismo, razzismo e propaganda d’odio sono intesi spesso, a torto o a ragione, come sinonimi. La legge firmata da Emanuele Fiano interpreta una delle strategie possibili per affrontare il problema: quella della proibizione secca e tassativa. È una strada non priva però di ombre e pericoli, sia sul piano delle libertà fondamentali che su quello dell’efficacia. La disposizione transitoria della Costituzione sul divieto di ricostituire il partito fascista in questo caso è evidentemente inappropriata. Uno slogan, fosse pure il più abietto, e un saluto romano non ‘ ricostituiscono’ in tutta evidenza nessun Pnf. Casomai si tratterebbe qui di apologia di fascismo, ma anche in questo caso c’è già, da oltre sessant’anni, la legge Scelba, che potrebbe essere applicata a quasi tutte le voci enumerate da Fiano. Doppiare quella legge, insistendo sulla ‘ gestualità’ equivale di fatto a una richiesta di stringere le maglie mettendo fuori legge e punendo severamente anche gesti che, per quanto apologetici, nessuno o quasi si era sin qui sognato di sanzionare, come appunto il saluto romano. Neppure nel clima rovente del dopoguerra. Di fatto l’obiettivo principale della nuova legge è contenuto nelle righe finali: la crociata mira a colpire il fascismo, ma anche il razzismo e il linguaggio d’odio, in rete. Solo che il controllo della rete è assai complicato: in caso contrario avrebbero già provveduto le industrie messe in ginocchio dallo sharing, come quella dei cd e dei dvd. In linea di principio, poi, non è facile, ed è anzi quasi impossibile tracciare il confine tra punizione della propaganda fascista o dell’incitazione all’odio e negazione della libertà di pensiero ed espressione. Altrettanto discutibile è l’efficacia di una legge punitiva che, mentre da un lato risulterà molto difficilmente applicabile, dall’altro rischia di regalare un’aura di ribellione ‘ contro il sistemà proprio a quelle aree che vorrebbe debellare, offrendo loro una preziosa opportunità di propaganda. Ma la colpa non è di questa legge o di come Fiano la ha scritta: è il tema in sé, troppo delicato per poter essere affrontato sbrigativamente. Il prossimo 14 settembre avvocati, esperti del diritto e politici provenienti dai paesi del G7 si confronteranno a Roma precisamente su questi nodi che sono in realtà tra i più intricati. Si può sperare che da quelle assise inizi ad emergere un tracciato capace di coniugare una necessità di intervenire che è innegabile con una difesa delle libertà fondamentali che è altrettanto e forse persino più essenziale. Per l’accesso abusivo a sistema informatico contano le modalità e non il fine di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 12 settembre 2017 Tribunale di Lecce - Sezione II penale - Sentenza 3 maggio 2017 n. 399. Il reato di accesso e utilizzo abusivo di un sistema informatico si configura solo se emerge la violazione delle prescrizioni di sicurezza relative all’accesso, a prescindere dalle finalità che abbiano soggettivamente motivato l’ingresso nel sistema. L’utilizzo illegittimo dei dati contenuti nel sistema da parte del soggetto abilitato all’accesso, cioè, non configura il reato di cui all’articolo 615-ter c.p.. Ad affermarlo è il Tribunale di Lecce con la sentenza 399/2017. Il caso - Protagonisti della vicenda sono due dipendenti di una Banca di credito cooperativo, i quali ricoprivano il ruolo di risk controller all’interno dell’istituto di credito. I due erano accusati di essersi introdotti abusivamente nel sistema informatico della banca, protetto da misure di sicurezza, al fine di estrapolare dall’elenco dei clienti della banca i nominativi e gli indirizzi dei soci della banca medesima, dati poi comunicati ai candidati alle elezioni per il rinnovo delle cariche sociali, quest’ultimi agevolati in tal modo nello svolgimento della campagna elettorale. La decisione - A seguito della denuncia da parte del responsabile del trattamento dei dati personali della banca, la vicenda finiva dinanzi al Tribunale dove i due dipendenti erano chiamati a rispondere del delitto di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico, previsto dall’articolo 615-ter c.p.. Ebbene, il giudice, valutate le testimonianze e le prove raccolte, assolve i due impiegati perché ritiene non integrato tale reato. Il magistrato pugliese, infatti, ricorda, in primo luogo, che l’accesso abusivo, come precisato dalla giurisprudenza di legittimità, si configura quando "il soggetto agente pur essendo abilitato, acceda o si mantenga in un sistema informatico o telematico protetto violando le condizioni ed i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l’accesso, rimanendo invece irrilevanti, ai fini della sussistenza del reato, gli scopi e le finalità che abbiano soggettivamente motivato l’ingresso nel sistema". Ciò posto, è chiaro che l’accento va posto sulle modalità abusive o meno con le quali è avvenuto l’accesso e non anche sulle finalità per le quali tale presunto accesso abusivo sia avvenuto. E nel caso di specie, non si è verificata alcuna violazione delle misure di sicurezza predisposte per l’accesso alla banca dati dell’istituto di credito, in quanto i due imputati erano autorizzati ad accedervi per lo svolgimento delle loro mansioni, essendo dotati di regolare username e password. Non conta, ai fini della configurabilità del reato in questione, il fatto che dei dati acquisiti sia stato fatto un uso non previsto. La necessità concreta di difendersi è alla base della legittima difesa. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 12 settembre 2017 Omicidio - Tentativo - Esimente della legittima difesa - Proporzione tra offesa e difesa - Presupposti. La configurabilità della scriminante della legittima difesa richiede la rigorosa dimostrazione di requisiti costituiti da "un’aggressione ingiusta e da una reazione legittima"; mentre la prima deve concretarsi in un pericolo attuale di un’offesa che, se non neutralizzata tempestivamente, sfocia nella lesione del diritto, la seconda deve inerire alla necessità di difendersi, alla inevitabilità del pericolo ed alla proporzione tra difesa ed offesa. Dunque, l’esimente della legittima difesa non è applicabile allorquando il soggetto non agisca nella convinzione, sia pure erronea, di dover reagire a solo scopo difensivo, bensì in una diversa situazione di risentimento o ritorsione contro chi ritenga essere portatore di una qualsiasi offesa. Peraltro, una volta esclusi i presupposti della legittima difesa, non è neppure ipotizzabile in astratto un eccesso colposo nella stessa scriminante, che pretende il superamento dei limiti alla stessa collegati. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 16 marzo 2017, n. 12814. Cause di giustificazione - Legittima difesa - Condizioni - Pericolo attuale di aggressione - Fattispecie. La legittima difesa esige che il fatto sia commesso per la necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta (Nella specie, è stata esclusa la scriminante essendosi apprezzato che l’imputato, chiamato a rispondere del reato di lesioni personali volontarie gravi, per avere attinto la controparte al volto con pugni, non era nella condizione di doversi difendere da un’aggressione altrui, perché il fatto si era verificato nel corso di un diverbio - per ragioni di precedenza in una fila - in cui la vittima, molto più anziana, si era limitata a protestare verbalmente). • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 18 giugno 2013, n. 26595. Cause di giustificazione - Legittima difesa - In genere - Reale, putativa o connotata da eccesso colposo - Criteri di accertamento - Valutazione "ex ante" - Stati d’animo e timori personali - Sufficienza - Esclusione. L’accertamento relativo alla scriminante della legittima difesa reale o putativa e dell’eccesso colposo deve essere effettuato con un giudizio "ex ante" calato all’interno delle specifiche e peculiari circostanze concrete che connotano la fattispecie da esaminare, secondo una valutazione di carattere relativo e non assoluto ed astratto, rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito, cui spetta esaminare, oltre che le modalità del singolo episodio in se considerato, anche tutti gli elementi fattuali antecedenti all’azione che possano aver avuto concreta incidenza sull’insorgenza dell’erroneo convincimento di dover difendere sé o altri da un’ingiusta aggressione, senza tuttavia che possano considerarsi sufficienti gli stati d’animo e i timori personali. • Corte di Cassazione, sezione I, sentenza 21 marzo 2013, n. 13370. Guida in stato di ebbrezza - Investimento di pedone per legittima difesa - Configurabilità dell’esimente - Esclusione - Eccesso colposo - Configurabilità - Esclusione. Non sussistono i presupposti essenziali della legittima difesa, costituiti da un’aggressione ingiusta e da una reazione legittima del soggetto, quando sia evidente la sproporzione tra evento subito e condotta estrema posta in essere. Parimenti deve escludersi l’eccesso colposo che sottintende i presupposti della scriminante con il superamento dei limiti a quest’ultima collegati, quando si sia accertato l’inadeguatezza della reazione difensiva, sicché, per l’eccesso nell’uso dei mezzi a disposizione dell’aggredito in un preciso contesto spazio temporale, si debba escludere che quest’ultimo sia dovuto ad un mero errore di valutazione delle circostanze, ma sia stato invece consapevole e volontario, per cui non rientrante nello schema delineato dall’articolo 55 c.p.(Fattispecie in tema di investimento di pedone da parte di automobilista in stato di ebbrezza). • Corte di Cassazione, sezione I, sentenza 11 gennaio 2013, n. 1490. San Gimignano (Si): omicidio in cella, è polemica sui reclusi con problemi psichiatrici di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 settembre 2017 È degenerato in omicidio una lite per futili motivi nel penitenziario senese di San Gimignano. La tragedia è avvenuta domenica sera all’interno della cella. Protagonisti due compagni di cella, entrambi romeni e reclusi per omicidio. Uno di loro ha impugnato uno sgabello di legno e ha ammazzato l’altro recluso colpendolo ripetutamente al capo. Risulta che l’omicida aveva problemi psichiatrici e infatti era sotto osservazione. Ancora una volta, emerge il problema dei detenuti con patologie psichiatriche e della convivenza con i detenuti "normali". Il superamento degli Ospedali giudiziari psichiatrici (Opg) e la loro sostituzione con le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) è stato un grande traguardo. Però rimane il problema della salute mentale in carcere. Sparsi nelle patrie galere ci sono centinaia di detenuti con problemi psichiatrici. Solamente nella regione Calabria risultano ristrette 600 persone afflitte da tali patologie, in alcuni casi senza un trattamento adeguato alle loro condizioni. E a farne le spese - oltre ai detenuti stessi che spesso non vengono seguiti dai medici e operatori sanitari sono i poliziotti penitenziari che fanno servizio nei reparti detentivi. Nelle carceri permangono molti ristretti con patologie mentali per i quali non sarà prevista alcuna struttura alternativa. Non solo. La legge per la chiusura degli Opg contiene una norma che prevede che alcuni detenuti finiscano la pena detentiva negli istituti penitenziari. Grazie a uno studio recente condotto dall’agenzia regionale di Sanità della Toscana, si è scoperto un dato che desta preoccupazione: sui circa 16mila reclusi delle carceri di Toscana, Veneto, Lazio, Liguria, Umbria, ben oltre il 40% è risultato affetto da almeno una patologia psichiatrica. Questi detenuti costituiscono una miscela esplosiva in un contesto di detenzione che in alcune carceri risulta degradante. Esiste un forte disagio perché si realizza una tortura ambientale: in un contesto del genere il carcere continua ad essere la frontiera ultima della disperazione e dei drammi umani. Ancona: "in carcere situazione complicata", l’On. Lodolini interroga il ministro Orlando di Stefano Pagliarini anconatoday.it, 12 settembre 2017 "Ho visto una condizione complicata. Chiederò al Ministro cosa il Governo pensa di fare di fronte a evidenti difficoltà operative e i tempi per la nomina di un Provveditore". L’onorevole Emanuele Lodolini sta preparando un’interrogazione parlamentare rivolta al Ministro della Giustizia Andrea Orlando perché si affronti la questione delle carceri marchigiane e anconetane. Decisione presa dopo i casi di violenza sugli agenti di Polizia Penitenziaria e le proteste messe in atto dai detenuti che, dal canto loro, rifiutano la quinta branda nelle celle. Una questione di dignità umana prima ancora che di spazio. Una realtà troppo spesso nascosta quella carceraria e raccontata in esclusiva da Ancona Today che ha intervistato proprio Lodolini. "Sono tornato a Montacuto perché ci ero andato all’inizio della mia legislatura e mi ero ripromesso di farlo anche al termine per avere un riscontro nel tempo - ha detto Lodolini. Ho visto una condizione complicata, tutt’altro che facile. È evidente come ci sia stato un progressivo sovraffollamento nonostante gli interventi del Governo". Infatti nel carcere di Montacuto ci sono 299 i detenuti, con una percentuale variabile ma che si aggira sempre intorno al 5% di casi psichiatrici e il 30% di tossicodipendenti. Ma queste persone non dovrebbero stare nei Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza)? "Ce ne sono pochi, ne servirebbero di più". Insomma le carceri così non servono a nulla. "Sì, c’è un tema di inadeguatezza degli organici e degli spazi perché, in alcune celle, c’erano 5 brande, ben al di là dello spazio minimo consentito per ciascun detenuto. "Per questo mi sono preso l’impegno di scrivere un’interrogazione parlamentare per chiedere conto del sovraffollamento presente a Montacuto e della carenza di organico a Barcaglione, ma soprattutto chiederò al Ministro Orlando i tempi previsti per la nomina di un Provveditore delle Marche perché, a quanto già detto, si aggiunge anche la questione dell’accorpamento dei Dipartimenti di Amministrazione Penitenziaria Emilia-Romagna e Marche". Già perché all’apice di tutto c’è l’assenza di una politica penitenziaria regionale dopo l’accorpamento delle due regioni (Emilia Romagna e Marche) guidate da un unico Provveditore. Peccato che ad oggi il Provveditore delle Marche sia pro tempore perché è lo stesso che coordina il lavoro dell’area Triveneto e che la scorsa estate aveva guidato anche la Sicilia. Insomma impensabile che possa fisicamente seguire anche le Marche. Se poi si pensa che da mesi il carcere di Montacuto vede l’assenza (motivi strettamente personali) del direttore, è chiaro come le la casa circondariale dorica rischi la paralisi. Sarebbe forse meglio tornare indietro sugli accorpamenti? "No, indietro non si torna. Ma chiederò al Ministro cosa il Governo pensa di fare di fronte a evidenti difficoltà operative e i tempi per la nomina di questo Provveditore. A cascata si acuiscono tre questioni. In primis il sovraffollamento. L’ho visto nelle celle dove c’era la quinta branda. Non hai lo spazio per muoverti. Il sovraffollamento è la conseguenza di una serie di fattori tra cui il fatto che si tratta di una casa circondariale per cui non è come Barcaglione dove ci sono solo detenuti con sentenza definitiva, ma anche tanti detenuti in attesa di giudizio. Poi c’è una forte presenza di extracomunitari". Eppure è recente lo svuota-carceri. "Nonostante quello il Comitato per i Diritti Umani ha già registrato una tendenza al sovraffollamento delle carceri in Italia". C’è poi il tema delle depenalizzazioni e delle misure di pena alternative. "Mi limito a dire che bisogna andare avanti con la depenalizzazione di reati che hanno un minore impatto in termini di allarme sociale. Io sono tra coloro che hanno firmato la proposta di legge per la liberalizzazione della cannabis e delle droghe leggere". Mantova: cibo scarso e pochi canali televisivi, notti di rivolta in carcere di Giancarlo Oliani Gazzetta di Mantova, 12 settembre 2017 Alta tensione in via Poma: celle incendiate e allagate per due sere di fila. La protesta per igiene, alimentazione e tv. Raffica di denunce per i detenuti. Materassi incendiati, tavoli e sedie fracassati, porte blindate danneggiate, celle allagate: nel carcere di via Poma è scoppiata la rivolta. La polizia penitenziaria è riuscita a contenere i rivoltosi, ma l’allerta resta alta. Non è facile per cinque agenti tenere a bada un centinaio di detenuti arrabbiati. Per due notti di seguito, sabato e domenica, si sono susseguiti ininterrotti urla e danneggiamenti. Per domare gli incendi all’interno delle celle si è dovuto far uso degli estintori. I danni sono molto consistenti. In queste ore l’emergenza sembra essere rientrata ma potrebbe essere solo una tregua, dal momento che le cause della rivolta non sono ancora state rimosse. Cibo scadente, sporcizia, presenza di topi ma soprattutto l’impossibilità, da oltre un anno, di vedere i canali della tivù per il malfunzionamento dell’antenna. Dieci i canali previsti per legge ma i detenuti ne vedono soltanto due: Rai 3 e Rai 4. Di Rai 1 e Rai 2 si vedono solo le figure: manca l’audio. Tutti gli altri sono totalmente inesistenti. E questo è stato interpretato come una violazione alla libertà di informazione che aggiunta agli altri problemi (pulizia e cibo) ha esasperato i detenuti che per un anno hanno dovuto fare anche a meno dell’acqua calda per la rottura della caldaia principale. Ma veniamo ai fatti verificatisi sabato e domenica notte. Un’azione comune che è scattata ad un segnale convenuto dopo il rientro nelle celle alle 20.30, per la cena. Consumato il pasto, attorno alle 22.30, sui due piani del penitenziario è partita la rivolta, preceduta da urla avvertite anche dagli abitanti del quartiere. I detenuti hanno aperto tutti i rubinetti e l’acqua ha allagato sia le celle che i corridoi; incendiato i materassi, costringendo la polizia penitenziaria a far uso degli estintori; fracassato gli arredi e danneggiato i muri e persino le porte blindate. I danni sono ingenti. Solo grazie alla grande professionalità e sangue freddo degli agenti, che più volte hanno dovuto fronteggiare i rivoltosi, la situazione non è degenerata. Ma, come già accennato, il fuoco brucia sotto la cenere. Il timore è che la violenta protesta possa riesplodere se i detenuti non otterranno in tempi rapidi quello che hanno chiesto. E agli agenti della polizia penitenziaria, in quattro durante il turno notturno, non si può chiedere di avere la situazione sempre sotto controllo visto che hanno a che fare con una popolazione di 150 individui. Fermo (Ap): detenuti a scuola di pizza, un diploma per guardare avanti con più ottimismo cronachefermane.it, 12 settembre 2017 La pizza per ricominciare, per guardare al futuro con più ottimismo e con un mestiere in mano. Si è concluso con la consegna dei diplomi un nuovo corso per pizzaioli che si è tenuto all’interno della casa di reclusione di Fermo, una iniziativa che nasce dalla collaborazione tra la direzione del carcere e l’area trattamentale, l’Ambito Social XIX, la scuola per piazzaioli Pizza.it e il supporto degli agenti di Polizia penitenziaria. Ieri dunque l’ultima fase di un percorso che ha visto i detenuti impegnati in lezioni teoriche e pratiche, con il sussidio di un forno elettrico che la stessa scuola di pizza di Umberto Bachetti ha offerto. Spiega il titolare di Pizza.it: "Per noi è sempre un’occasione bella, offrire a questi ragazzi uno strumento per ripensare al loro futuro, per cominciare a camminare un passo alla volta, fuori da quelle mura". Il docente è stato Massimo Quondamatteo. La direttrice del carcere, Eleonora Consoli, ha sottolineato il valore di momenti formativi come questo: "Siamo impegnati ad offrire occasioni di formazione e di crescita personale, sono percorsi che rientrano nel progetto di recupero che mettiamo in piedi per ciascuno, in collaborazione con l’Ambito sociale e con persone competenti come Bachetti e il suo staff". Alla consegna dei diplomi anche il responsabile dell’area trattamentale Nicola Arbusti che ha ringraziato tutti coloro che si sono impegnati per la riuscita del corso, con gli agenti di Polizia penitenziaria che pure hanno assicurato la sicurezza e la serenità del percorso. Per i diplomati una possibilità grande, un certificato che parla di nuove possibilità. Torino: "Recidiva Zero, riflessioni intorno all’articolo 27 della Costituzione italiana" cr.piemonte.it, 12 settembre 2017 Le statistiche rivelano che fra il 60% e il 70% dei detenuti tornano nuovamente in carcere dopo l’espletamento della pena. La recidiva si abbassa però drasticamente, fra il 20% e il 10%, fra coloro che sono stati coinvolti in un progetto di rieducazione, attraverso attività formative o lavorative. Il docu-film "Recidiva Zero - Riflessioni intorno all’articolo 27 della Costituzione italiana", che è stato proiettato lunedì 11 settembre, nel teatro della Casa circondariale "Lorusso e Cutugno" di Torino, alla presenza di una ventina di detenuti del polo universitario e dell’istituto professionale Plana, ha come obiettivo proprio quello di sensibilizzare l’opinione pubblica su questo tema, dimostrando che un altro carcere è possibile e fornendo spunti di riflessione anche per i detenuti e gli addetti ai lavori. La pellicola propone una serie di interventi che ruotano intorno al terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione, che stabilisce "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Accanto alle interviste a esperti quali Gustavo Zagrebelsky, già presidente della Corte costituzionale e don Luigi Ciotti, storico fondatore di Libera e del Gruppo Abele, si dà voce ai volontari, agli operatori carcerari, ai detenuti ed ex detenuti che testimoniano l’importanza di rendere il carcere un luogo di effettivo recupero del condannato. L’iniziativa è stata organizzata dal garante regionale dei detenuti, Bruno Mellano, e dal Comitato Resistenza e Costituzione dell’Assemblea legislativa piemontese in collaborazione con la Casa circondariale di Torino. "Per tendere verso l’auspicato obiettivo della "recidiva zero" è necessario che in carcere avvenga quel percorso di accompagnamento funzionale al reinserimento del detenuto all’esterno", ha affermato Mellano durante il dibattito successivo alla proiezione del film. "Perché ciò sia possibile deve però nascere un dialogo attivo fra le amministrazioni penitenziarie e la società tutta, dalle istituzioni, al privato sociale, al territorio nel suo complesso". La possibilità di istruirsi e di acquisire specializzazioni attraverso un’esperienza di lavoro rappresentano due elementi essenziali per supportare il detenuto, favorendo una prospettiva nuova di vita futura", ha commentato Nino Boeti, vicepresidente del Consiglio regionale delegato al Comitato Resistenza e Costituzione. "In un Paese civile è necessaria la certezza della pena ma, al tempo stesso, le donne e gli uomini che si trovano in carcere devono essere restituiti, a fine pena, alla società migliori rispetto a quando sono entrati. Questa è la funzione rieducativa della pena a cui fa riferimento la nostra Costituzione. Le esperienze del teatro in carcere, le attività imprenditoriali che coinvolgono i detenuti e le esperienze sportive come quella della "La Drola Rugby" servono proprio a questo importante scopo". Il Comitato ha deciso di acquistare un centinaio di dvd del docufilm da diffondere fra le associazioni di volontariato penitenziario come strumento di discussione e di presa di coscienza della realtà detentiva italiana e della necessità di un cambiamento. "Il mandato del carcere non è solo quello di sorvegliare ma anche quello di dare opportunità e nella nostra Casa circondariale cerchiamo, nonostante le difficoltà, di attuarlo. Un’ottantina di detenuti del "Lorusso e Cutugno" lavorano in regime di semi-libertà, abbiamo un polo universitario, svolgiamo attività formative come il teatro e sperimentiamo come l’offerta di competenze aiuti a non delinquere più", ha affermato la vicedirettrice dell’istituto "Lorusso e Cutugno", Francesca Daquino. "Per proseguire su questa strada serve però l’aiuto di tutta la società, affinché il carcere non venga più percepito come il tappeto sotto il quale nascondere tutti i problemi". Al dibattito sono intervenuti anche Bruno Vallepiano e Carlo Turco, autori della pellicola, il professor Franco Prina, ordinario di Sociologia giuridica, della devianza e del mutamento sociale dell’Università di Torino e responsabile del Polo universitario del "Lorusso e Cutugno" e Giorgio Borge, responsabile del Coordinamento regionale assistenti volontari penitenziari "Tino Beiletti". Rovigo: il Consigliere comunale Ferrari "un errore portare il carcere minorile in città" di Francesco Campi Il Gazzettino, 12 settembre 2017 "Ogni carcere che nasce è una sconfitta. E questo lo è molto di più, visto che è destinato ai minori, che sarebbero i primi a dover essere indirizzati in percorsi di rieducazione e reinserimento". Livio Ferrari, consigliere comunale di Coscienza comune, già garante dei detenuti di Rovigo e presidente del Centro francescano d’ascolto, boccia la decisione del Dipartimento per la giustizia minorile di trasferire l’istituto per minori di Treviso nella sede del vecchio carcere di via Verdi. "Una scelta sbagliata sotto tutti i punti di vista, anche da quello strutturale. Un posto orribile, angusto, senza spazi per le attività. Certo, il carcere minorile di Treviso andava chiuso perché è una vergogna, ma scegliere di riaprirlo nell’ex casa circondariale di Rovigo è un grave errore". I 5 milioni che sono stati stanziati dal ministero delle Infrastrutture per trasformare la vecchia casa circondariale, secondo Ferrari, "sono buttati via: le risorse vanno investite per costruire strategie che consentano davvero di recuperare questi ragazzi, cresciuti in ambienti familiari e sociali degradati, che non hanno avuto le stesse opportunità degli altri. Bisognerebbe guardare bene a cosa dice la Costituzione e resta invece inapplicato. Anche l’attuale legge sul processo minorile, fra l’altro, tende a rendere minima e residuale la presenza in carcere di minorenni, riducendo l’aspetto repressivo, promuovendo percorsi di crescita dei giovani con l’affidamento ai servizi sociali, in comunità, case famiglie e in messa alla prova". Bologna: Ipm "Pratello", condannati tre poliziotti per il silenzio sulle botte fra i reclusi di Giuseppe Baldessarro La Repubblica, 12 settembre 2017 Tre condanne per omessa denuncia per altrettanti agenti a suo tempo in servizio al carcere minorile del Pratello. Ad essere puniti dal giudice Sandro Pecorella sono stati l’ex comandante della polizia Penitenziaria dell’istituto, Aurelio Morgillo, e due agenti, Alfonso Caracciolo e Antonino Soletta, responsabili di non aver denunciato alla procura una serie di violenze tra detenuti. In questo contesto ieri è stato condannato a cinque mesi l’ex dirigente della penitenziaria minorile, a quattro mesi Caracciolo e ad una multa di 350 euro l’agente Soletta (per tutti è stata riconosciuta la sospensione condizionale della pena). Il processo riguardava fatti risalenti al 2011 e, secondo l’accusa, i poliziotti erano da ritenersi colpevoli per non aver denunciato episodi di lesioni e percosse avvenuti tra i giovani detenuti. In particolare le violenze a cui si fa riferimento nel processo hanno come protagonista sempre la stessa persona, vittima di percosse in due occasioni, pestata in modo pesante in una terza, e punita con bruciature sulla pelle in almeno due occasioni. Sevizie e abusi che vennero "trattati" soltanto in sede di consiglio di disciplina, i cui atti vengono sistematicamente trasmessi al giudice di sorveglianza. Le richieste di rinvio a giudizio, che risalgono al 2013, si inserivano comunque in un contesto più ambio, denso di violenze ed omissioni. All’epoca dei fatti gli inquirenti dissero di essersi trovati di fronte ad una situazione che venne definita di "totale anarchia". Da qui le segnalazioni che fecero scattare le ispezioni ministeriali, a cui seguirono i trasferimenti d’ufficio di alcuni dirigenti. Per le stesse ragioni vennero poi messe sotto accusa 35 persone, compresi agenti ed educatori, in gran parte poi prosciolti. Una sorta di maxi inchiesta che coinvolse praticamente tutto il personale del Pratello, ricostruita in diversi filoni d’indagine che, oltre allo strascico processuale conclusosi ieri in primo grado, ebbe ripercussioni importanti soprattutto sul piano disciplinare. L’ex comandante Morgillo, difeso dall’avvocato Paola Benfenati, è stato ritenuto responsabile dell’unico fatto che gli veniva contestato. La legale dopo la sentenza ha detto: "Attendiamo di leggere le motivazioni e poi valuteremo. L’esito del dibattimento non era scontato". Catanzaro: padiglione sanitario nel carcere. Talarico (Fp-Cgil): realtà unica in Calabria strill.it, 12 settembre 2017 "Ci fa molto piacere che, presso la Casa Circondariale di Catanzaro, è di prossima apertura il Servizio di Assistenza Sanitaria Integrato (Sai), che per la sua connotazione, per la sua impostazione, numeri di posti letto e specificità di degenza, sembra essere l’unico in tutta la regione Calabria e forse per alcuni versi anche di livello nazionale, la cui inaugurazione è prevista per il prossimo 14 settembre". È quanto di chiara in una nota Bruno Talarico (segretario generale Fp Cgil Catanzaro/Crotone/Vibo Valentia che in merito aggiunge. "Tuttavia, come Sindacato non possiamo non stigmatizzare che, a volte, il Ministero della Giustizia fa le nozze con i fichi secchi poiché, per come abbiamo avuto modo di precisare durante l’ultimo incontro avuto con la Direzione, la settimana scorsa, peraltro tradivo rispetto all’avvio dell’iter procedurale di apertura, poiché il sistema delle corrette relazioni sindacali, tutt’ora vigente, prevede un’adeguata e puntuale informativa. Le maggiori perplessità, che abbiamo come sindacato, risiedono nel fatto che, a fronte del nuovo servizio, non è previsto l’implementazione di nuovo personale di Polizia Penitenziaria, ragion per cui per consentire l’apertura del padiglione si attingerà, al momento e volontariamente, al solo personale in servizio presso la Casa Circondariale di Catanzaro già sotto organico di suo. Come Fp Cgil siamo molto sensibili alla questione ed abbiamo già interessato la nostra struttura nazionale per una verifica della vicenda, riteniamo, altresì, urgente e necessario un confronto con il Provveditore Regionale, dal quale ci aspettiamo non un semplice taglio del nastro all’inaugurazione quasi come fosse un turista per caso, ma un intervento incisivo e deciso presso la Direzione Centrale del Ministero affinché tenga ben presente e nella dovuta considerazione cosa si sta realizzando presso la Casa Circondariale di Catanzaro". Saluzzo (Cn): "La classe", lo spettacolo dei detenuti con l’Associazione Voci Erranti Ristretti Orizzonti, 12 settembre 2017 È ormai un appuntamento atteso e consolidato quello di entrare, ogni anno, nella sala polivalente del carcere di Saluzzo per assistere al nuovo spettacolo teatrale preparato dai detenuti del Laboratorio Teatrale dell’Associazione Voci Erranti. Il Progetto, per volontà del Direttore Dott. Giorgio Leggieri e degli operatori dell’Area Educativa, comprende sia l’attività laboratoriale annuale per due gruppi di detenuti dell’Istituto sia l’apertura al pubblico esterno con le repliche per la cittadinanza e per i docenti e studenti delle Scuole che lo richiedono. È questa un’iniziativa che permane nonostante le tante e gravi difficoltà che il sistema carcerario attraversa e che rappresenta per i detenuti una opportunità di crescita culturale e per i cittadini un’occasione per conoscere da più vicino la realtà della reclusione. Il tema dello spettacolo di quest’anno è la scuola. Sono passati cinquant’anni dalla morte di Don Lorenzo Milani e dall’esperienza della sua scuola di Barbiana che tanto ha fatto discutere e riflettere, portatrice di un messaggio educativo che insegnava ai figli dei poveri l’importanza dello studio e della conoscenza come mezzo di riscatto sociale. Il gruppo dei detenuti ha ripensato al proprio passato scolastico, ai comportamenti e mancanze che li hanno allontanati dal percorso di studenti. Così come per Pinocchio anch’essi sono stati abbagliati dal Paese dei Balocchi, hanno marinato la scuola, hanno trasgredito le regole e preferito la strada come maestra per poi ritrovarsi adulti inadeguati in una società di cui non capiscono il linguaggio. Oggi, questi giovani-uomini, rinchiusi in un luogo senza spazio e senza tempo, sentono la mancanza di quel che non hanno vissuto e si sentono "eterni ripetenti", impreparati ad affrontare gli esami che la vita ci propone ad affrontare. L’insegnamento di Don Milani è sempre attuale, il suo motto "I Care" può, ancora oggi, essere lo stimolo per una scuola rinnovata, in ascolto e attenta alle esigenze delle nuove generazioni, un’alternativa alla superficialità e banalità del quotidiano. "La classe" va in scena, presso il carcere di Saluzzo, da giovedì 28 Settembre a domenica 1 Ottobre, alle ore 15 e alle ore 17. Le prenotazioni sono aperte fino a sabato 16 settembre, scrivendo a info@vocierranti.org o telefonando 0172.89893 - 340.6703534 Migrnati. "Mediterraneo tomba dei profughi" di Marco Bresolin La Stampa, 12 settembre 2017 Rapporto dell’Oim sui flussi: sbarchi dimezzati dal 2016, ma il numero di morti è rimasto lo stesso. Il capo di Frontex: più accordi con Paesi di provenienza. Giovedì a Bruxelles i ministri dell’Interno. Gli sbarchi diminuiscono, le tragedie continuano. Gli ultimi dati sui flussi migratori, visti nel loro complesso, sono drammatici. Perché se è vero che il numero di arrivi sulle coste europee del Mediterraneo si è dimezzato nei mesi di luglio e agosto rispetto al 2016 (da 52.220 si è scesi a 23.301), il numero di morti è rimasto praticamente identico (288 nel 2016 contro i 283 di quest’anno). Con un balzo ad agosto (151 morti nel 2017: nel 2016 furono 62), che contribuisce ad assegnare al Mare Nostrum il triste primato di rotta più pericolosa al mondo. Dall’inizio dell’anno, a livello globale, 3.741 persone sono morte nel tentativo di emigrare. Di queste, 2.542 sono state inghiottite dal Mediterraneo. Due su tre. Alle quali andrebbero aggiunti gli altri caduti sulla stessa rotta: 281 nei Paesi nordafricani, 147 nell’Africa Subsahariana e 156 nel Corno d’Africa. Queste le cifre accertate dall’Oim, L’Organizzazione internazionale per le migrazioni, ma in realtà potrebbero essere molti di più. Calano gli arrivi, ma non per questo va abbassata la guardia. Tra i governi proseguono le trattative per modificare il piano operativo della missione Triton: "Sarà pronto entro due mesi" annuncia il direttore di Frontex, Fabrice Leggeri, anche se è difficile aspettarsi grandi rivoluzioni nella parte che prevede gli sbarchi esclusivamente in Italia. E dopo il vertice a quattro di Parigi, giovedì toccherà ai ministri dell’Interno dei 28 sedersi attorno a un tavolo e trasformare in pratica le buone intenzioni. Entro venerdì i governi europei dovranno comunicare alla Commissione il loro contributo al piano di reinsediamenti, che (teoricamente) porterà in Europa quasi 40 mila rifugiati nel 2018 attraverso i corridoi umanitari. I soldi ci sono, gli Stati devono mettere a disposizione i posti (su base volontaria). Al Consiglio Affari Interni, secondo la bozza preparata dalla presidenza estone, verrà dato un nuovo impulso al piano di addestramento della Guardia Costiera libica e sarà ribadita l’esigenza di migliorare le condizioni delle comunità locali che si trovano sulle rotte dei migranti. C’è poi la necessità di rafforzare i controlli al confine meridionale libico e di spingere il piano di rimpatri volontari assistiti da Libia e Niger. Serve anche un maggiore impegno nel Trust Fund per l’Africa, che ieri è finito nel mirino dell’Ong "Global Health Advocates". In un rapporto sull’uso dei fondi, ne viene criticata la cattiva gestione. Troppo improntata all’emergenza anziché ai programmi di lungo termine. "Una strategia - dicono - destinata a fallire". L’Europa cerca anche un piano comune sui rimpatri forzati degli "irregolari". Ieri Leggeri ha spiegato che il numero di quelli effettuati da Frontex è raddoppiato nei primi mesi del 2017: "Abbiamo organizzato 220 voli, per un totale di quasi 10 mila persone. In tutto il 2016 i voli furono 232 per 10.700 migranti". I rimpatri, però, sono possibili solo se esistono accordi di riammissione con i Paesi di origine. Giovedì i ministri discuteranno anche della necessità di utilizzare la leva dei visti - in senso restrittivo - con gli Stati che non collaborano. Migranti. Il rinvio dello ius soli, un sacrificio per la stabilità di Massimo Franco Corriere della Sera, 12 settembre 2017 La prospettiva di un rinvio di alcune leggi-simbolo, a questo punto, è reale. E non solo sullo ius soli che darebbe la cittadinanza agli stranieri nati in Italia. Anche sui vitalizi dei parlamentari e sulla commissione di inchiesta sul sistema bancario, l’ipotesi che vengano discussi in tempi brevi sta sfumando. La volontà del Pd di arrivare al "sì" anche al Senato sembra intatta. Si insiste sul provvedimento ricordando che è una norma di civiltà. Eppure, cresce il sospetto che la vicinanza delle elezioni e gli umori antiimmigrati in circolazione frenino l’operazione. E non solo perché il Nuovo centrodestra non avalla l’approvazione. Le perplessità sono trasversali, e presenti anche all’interno dei dem. Il timore è che forzando la mano ci si ritrovi con un Senato in tensione, le opposizioni all’attacco e un Pd diviso. Gli avversari del partito di Matteo Renzi a sinistra parlano di "resa". Più semplicemente, è la presa d’atto di equilibri fragili, da non mettere ulteriormente a rischio. Il fatto che il vertice del Pd deleghi al premier Paolo Gentiloni il compito di decidere è un modo per smarcarsi da una questione controversa: cavalcata a luglio per "coprirsi" dalle critiche della sinistra, e adesso maneggiata con un certo timore. È un problema simile a quello posto dai vitalizi. A fine luglio, la Camera aveva approvato la legge firmata dal portavoce dem Matteo Richetti, sull’abolizione di quelli che erano stati presentati come privilegi inaccettabili. Con un occhio alle urne, si voleva dimostrare che il partito di maggioranza non aveva nulla da invidiare alla durezza del Movimento 5 Stelle. A un mese e mezzo di distanza, l’argomento si è inabissato a Palazzo Madama. Esiste una fronda consistente nello stesso Pd, che ha fatto sapere di essere contraria a una norma ritenuta a rischio di incostituzionalità perché tocca diritti acquisiti; demagogica, e funzionale solo alla propaganda grillina. Perplessità condivise anche ai vertici delle istituzioni. Il problema è che sono argomenti destinati a inserirsi nella campagna per le Regionali in Sicilia di novembre; ma anche nella discussione più o meno sotterranea in atto sulla strategia del Pd. Il movimento di Beppe Grillo cerca di mantenersi unito mentre accelera una tormentata metamorfosi come forza di governo, anche nell’isola. Smentisce contrasti tra lo stesso fondatore e David Casaleggio, che ha in mano le chiavi del consenso via rete con la sua piattaforma Rousseau. Ma mostra di essere un po’ appannato nella ricerca della nuova identità; e oggettivamente danneggiato dalla prova mediocre dei suoi amministratori a Roma, e dopo il nubifragio di due giorni fa, a Livorno. Eppure, rimane la sensazione che gli avversari continuino a regalare ai seguaci di Grillo un vantaggio insperato. Forse perché si ostinano a contrastarlo inseguendolo sui suoi stessi temi. Migranti. Ius soli, governo e Pd pronti ad affossare la legge di Carlo Lania Il Manifesto, 12 settembre 2017 "Oggi mancano le condizioni per approvare lo ius soli, ma c’è l’impegno mio personale e del governo ad approvare la legge in autunno", aveva promesso Paolo Gentiloni il 15 luglio scorso. L’autunno è ormai alle porte ma da palazzo Chigi ancora non arrivano segnali incoraggianti. E al di là delle promesse il premier non sembra intenzionato a porre la fiducia sul provvedimento, cosa che permetterebbe di licenziare definitivamente la riforma della cittadinanza. A frenare il premier ci sono le resistenze di Alternativa popolare del ministro degli Esteri Angelino Alfano, ma soprattutto il clima che nel paese circonda la legge, come testimonierebbero alcuni sondaggi secondo i quali lo ius soli farebbe perdere voti al Pd. Non a caso anche Matteo Renzi, seppure a modo suo, ieri ha preferito rallentare. "Lo ius soli è un elemento di garanzia, ma decideranno Gentiloni e il governo se mettere la fiducia", ha spiegato il segretario del Pd scaricando così ogni responsabilità sul premier. Qualcosa di più si capirà oggi pomeriggio al Senato - dove la legge è ferma ormai da quasi due anni. Alle 15,30 si terrà la riunione dei capigruppo per decidere i prossimi lavori dell’aula ma sebbene lo ius soli sia la prima legge a dover essere discussa dall’aula, l’impressione è che alla fine verrà deciso l’ennesimo rinvio. Del resto i motivi per giustificare uno slittamento non mancano. Legge di bilancio a parte, che ha la priorità su tutto, attendono il via libera da palazzo Madama anche il testamento biologico, la legittima difesa e l’abolizione dei vitalizi, solo per citare i provvedimenti più importanti. Senza contare che il 5 novembre si vota in Sicilia e il Pd - alleato sull’isola con Alfano - non vuole certo rischiare. Quella di un rinvio è quindi qualcosa di più di una semplice ipotesi al punto che Luigi Zanda, capogruppo del Pd al Senato, ha già parlato di una "finestra possibile a ottobre, dopo il Def e prima della legge di Stabilità" nella quale si potrebbe approvare la legge. Un’ipotesi di cui però le sinistre non vogliono neanche sentire parlare. "Ci opporremo che tutte le forze", ha annunciato la senatrice Maria Cecilia Guerra, capogruppo di Mdp-Articolo 1. "Siamo arrivati a un bivio: a questo punto della legislatura rimandare ancora equivarrebbe a una resa". Sulla stessa linea anche Sinistra italiana, che prima dell’estate non ha escluso la possibilità di una "fiducia tecnica" al governo pur di arrivare all’approvazione della legge. Il Pd si preparerebbe dunque ad abbandonare la sua legge. E questo anche se numerosi esponenti del governo si sono espressi più volte a favore del testo. Compreso il ministro degli Interni Marco Minniti, per il quale "un Paese che governa i flussi e crea integrazione deve avere il coraggio di dare nazionalità a chi è nato qui da genitori che soggiornano regolarmente e lavorano nel nostro Paese". In Italia sono oltre 800 mila i figli di immigrati in possesso di un permesso di soggiorno. Una loro rappresentanza, riunita sotto il cartello "L’Italia sono anch’io" manifesterà a partire dalle 14 di oggi sotto Montecitorio. "Ricordiamo che lo stesso presidente del consiglio Gentiloni aveva definito la riforma "una conquista di civiltà". Ci aspettiamo che sia dunque conseguente con le sue affermazioni, ricorrendo anche alla fiducia se necessario per velocizzare i tempi di approvazione", hanno spiegato ieri gli organizzatori del sit-in. Il Papa: "Problema migranti, la prudenza è giusta. Riceverli non basta, è necessario integrarli" di Gian Guido Vecchi Corriere della Sera, 12 settembre 2017 Da Bogotà a Cartagena, Francesco è in movimento da più dodici ore quando raggiunge i giornalisti in fondo all’aereo, poco dopo il decollo verso Roma, sul volto ancora i segni dell’incidente del mattino in papamobile. Il livido sotto l’occhio sinistro è diventato viola ma lui scherza e sorride, "mi sono sporto per salutare i bambini e non ho visto il vetro, pum!". Si dice "commosso" dal popolo colombiano, in particolare i genitori che sollevavano i loro bimbi perché il Papa li benedicesse: "Era come se dicessero: questo è il mio tesoro, la mia speranza, il mio futuro. Mi ha colpito la tenerezza, gli occhi di quei papà e di quelle mamme, è stato bellissimo: un popolo che è capace di fare bambini e li mostra come dicendo "questo è il mio tesoro", è un popolo che ha speranza e ha futuro". Il pontefice parla per quaranta minuti, prima che la turbolenza sul Mar dei Caraibi consigli di sedersi. L’immigrazione e l’elogio all’Italia e governo italiano che "sta facendo di tutto" per lavorare in campo umanitario anche su un problema, i centri in Libia, di cui non è responsabile. I cambiamenti climatici e la "stupidità" dell’uomo. La speranza che Trump "ripensi" il provvedimento contro i giovani "dreamers" stranieri che rischiano l’espulsione. La Corea del Nord e il Venezuela. Come sempre, risponde ad ogni domanda. Santità, di recente la Chiesa ha espresso comprensione verso la nuova politica del governo di ridurre le partenze dalla Libia e quindi gli sbarchi. Si è scritto di un suo incontro con il presidente Gentiloni, c’è stato? E cosa pensa di questa politica, considerato che i migranti bloccati in Libia vivono in condizioni disumane? "L’incontro con il primo ministro Gentiloni è stato personale e non su questo argomento. Il problema è venuto fuori alcune settimane dopo, l’incontro era prima. Io sento un dovere di gratitudine per l’Italia e la Grecia, perché hanno aperto il cuore ai migranti. Ma non basta aprire il cuore. Il problema dei migranti è prima di tutto avere il cuore aperto, sempre, è un comandamento di Dio, accogliere, perché anche tu sei stato schiavo in Egitto... Ma un governo deve gestire questo problema con la virtù propria del governante: la prudenza. Cosa significa? Primo: quanti posti ho? Secondo: non solo riceverli, ma integrarli. In Italia ho visto esempi di integrazione bellissima: quando sono andato all’università Roma Tre, ho riconosciuto una delle ragazze che mi ha salutato: meno di un anno prima era venuta con me in aereo da Lesbo, studiava biologia nella sua patria, ha imparato la lingua e ha continuato. Questo si chiama integrare. Di ritorno dalla Svezia ho parlato della politica di integrazione del Paese come un modello, ma anche la Svezia ha detto, con prudenza: il numero è questo, di più non posso, perché c’è il pericolo della non integrazione. Terzo, c’è un problema umanitario. L’umanità prende coscienza di questi lager, le condizioni in cui vivono nel deserto? Ho visto delle foto, gli sfruttatori... Ho impressione che il governo italiano stia facendo di tutto per lavori umanitari e per risolvere anche un problema che non può assumere. Cuore sempre aperto, prudenza, integrazione, vicinanza umanitaria. Nell’inconscio collettivo nostro c’è un principio: l’Africa va sfruttata. Oggi a Cartagena abbiamo visto un esempio di quello sfruttamento. E un capo di governo ha detto su questo una bella verità: quelli che fuggono dalla guerra è un altro problema, ma tanti fuggono dalla fame, facciamo un investimento là perché crescano. Ma nell’inconscio collettivo c’è che ogni volta che tanti Paesi sviluppati vanno in Africa, è per sfruttare. Dobbiamo capovolgere questo. L’Africa è amica e va aiutata a crescere". Passiamo vicino a Irma, ci sono altri tre uragani nell’area. Vi è responsabilità morale dei leader politici che negano che il cambiamento climatico sia anche opera dell’uomo? "Chi nega questo deve andare dagli scienziati e domandare. Loro parlano chiarissimo, sono precisi. Un’università diceva: abbiamo solo tre anni per tornare indietro. Io non so se sia vero, ma certo se non torniamo indietro, andiamo giù. Il cambiamento climatico si vede nei suoi effetti. Gli scienziati dicono chiaramente la strada da seguire. E tutti noi abbiamo una responsabilità morale, più piccola o più grande. Dobbiamo prendere questo tema sul serio, credo non sia una cosa su cui scherzare. I politici hanno la loro responsabilità, ma ognuno ha la propria. Se uno chiede agli scienziati, sono chiarissimi. Poi decida, e la storia giudicherà le sue decisioni". Vediamo gli effetti dei cambiamenti climatici anche in Italia... "Dopo tre mesi e mezzo di siccità, sì...". Perché tarda una presa di coscienza, soprattutto da parte dei governi che invece sembrano così solleciti su altri settori, come gli armamenti? Stiamo vedendo la crisi della Corea del Nord, ad esempio... "Mi viene in mente una frase dell’Antico Testamento, un salmo: l’uomo è uno stupido, un testardo che non vede. L’unico animale del creato che mette la gamba nella stessa buca è l’uomo, un cavallo o altri non lo fanno. La superbia, la sufficienza. E poi c’è il dio-tasca, no? Non è solo sul creato, tante decisioni e contraddizioni dipendono dai soldi. Oggi, a Cartagena, ho cominciato da una parte povera; l’altra parte, quella turistica, mostrava un lusso senza misure morali. Ma quelli che vanno là, o gli analisti sociopolitici, non si accorgono di questo? L’uomo è uno stupido, dice la Bibbia. Quando non si vuole vedere, non si vede. Non si prende coscienza. Ma è giusto? Quanto alla Corea del Nord, dico la verità, io non capisco. Davvero non capisco quel mondo, la geopolitica... Credo che lì ci sia una lotta di interessi che mi sfugge. Non posso spiegarlo". Ogni volta che vede i giovani, dice: non fatevi rubare la speranza. Negli Usa è stata abolita la legge sui "dreamers", 800 mila ragazzi. Non pensa che così perdano la speranza? "Ho sentito di questa legge ma non ho potuto leggere gli articoli, come si è presa la decisione: non la conosco bene. Ma staccare i giovani dalla famiglia non è una cosa che dia un buon frutto né per i giovani né per la famiglia. Credo che questa legge non venga dal Parlamento ma dall’esecutivo. Se è così, ho speranza che si ripensi un po’. Perché io ho sentito parlare il presidente degli Usa e si presenta come un uomo pro-life. Ecco, se è un bravo pro-life, capisce che la famiglia è la culla della vita e va difesa la sua unità. Per questo ho interesse a studiare bene quella legge. Quando i giovani si sentono sfruttati, alla fine si sentono senza speranza. E chi la ruba? La droga, le altre dipendenze... Il suicidio giovanile accade quando vengono staccate le radici. È molto importante il rapporto dei giovani con le radici. I giovani sradicati oggi chiedono aiuto, vogliono ritrovare le radici. Per questo insisto sul dialogo tra giovani e anziani. Oggi i giovani hanno bisogno di ritrovare le radici. Qualsiasi cosa vada contro questo, ruba loro la speranza". In Colombia ha parlato di riconciliazione, il motto del viaggio era "fare il primo passo", ma il Paese è diviso. Che si può fare concretamente? "Mi piacerebbe che almeno si facesse il secondo passo. In 54 anni di guerriglia si accumula molto odio, molte anime si ammalano. Non si è colpevoli di avere una malattia. La guerriglia e anche la corruzione hanno provocato questa malattia, l’odio. Ma ci sono passi nel negoziato che danno speranza. Come l’ultimo cessate il fuoco dell’Eln (Esercito di liberazione nazionale, ndr), lo ringrazio tanto. In Colombia ho percepito che la voglia di andare avanti va oltre i negoziati, lì c’è la forza del popolo. E io ho speranza, il popolo vuole respirare, dobbiamo aiutarlo". Nell’omelia, a Cartagena, ha detto che non è stato sufficiente che due parti dialogassero e c’è stato bisogno si inserissero altri attori. Pensa che questo modello si possa replicare in altri conflitti del mondo? "Non è la prima volta che accade, in tanti conflitti si sono integrate altre persone. È un modo di andare avanti sapienziale, la saggezza di chiedere aiuto. Si ricorre ai tecnici, i politici aiutano, a volte si chiede l’intervento delle Nazioni Unite per uscire da una crisi. Ma un processo di pace andrà avanti solo quando lo prende in mano il popolo. O c’è partecipazione, oppure si arriverà solo fino a un certo punto, a un compromesso". Bisognerebbe scomunicare i corrotti? "Tutti siamo peccatori e sappiamo che il Signore ci è vicino e non si stanca mai di perdonare. Il problema è che il peccatore chiede perdono mentre il corrotto si stanca di chiedere perdono o dimentica come si fa, non è capace. È molto difficile aiutare un corrotto, molto difficile, ma Dio può farlo". In Venezuela il presidente Maduro ha parole molto violente contro i vescovi e dice che sta con Papa Francesco. Non si potrebbe avere parole più forti e chiare? "Io credo che la Santa Sede abbia parlato forte e in modo chiaro. Quello che dice presidente Maduro lo spieghi lui, io non so cos’abbia nella sua mente. La Santa Sede ha fatto tanto, offrendo aiuto per uscire. Ma sembra che la cosa sia molto difficile e ciò che è più doloroso è il problema umanitario di tanta gente che scappa o soffre. Dobbiamo aiutare a risolverlo in ogni maniera. Io credo che le Nazioni Unite debbano farsi sentire anche lì, per aiutare". Birmania. La rappresaglia contro i Rohingya è "pulizia etnica da manuale" di Gina Musso Il Manifesto, 12 settembre 2017 L’alto commissario Onu per i diritti umani accusa l’esercito: contro i civili "operazione criminale con un uso chiaramente sproporzionato della forza". "Un caso da manuale di pulizia etnica", Non usa giri di parole Zeid Ràad al Hussein, massima autorità delle Nazioni unite in tema di diritti umani, sulla natura ultima delle "operazioni brutali" lanciate dall’esercito del Myanmar contro la popolazione Rohingya nelle ultime settimane. All’indomani dell’attacco del 25 agosto scorso in cui hanno perso la vita 12 appartenenti alle forze di sicurezza nel nord dello stato di Rakhine, le "normali" persecuzioni di cui è oggetto questa minoranza musulmana, storicamente discriminata nel paese a maggioranza buddista, si sono trasformate in caccia aperta. Uno scenario fatto di "villaggi dati alle fiamme, uccisioni extragiudiziali, civili in fuga presi a bersaglio dai soldati", come ha denunciato ieri l’alto commissario Onu, che ha avuto accesso a rapporti e immagini satellitari che proverebbero i crimini commessi "dall’esercito e dalle milizie locali" in modo inequivocabile. Una reazione "chiaramente sproporzionata", ha insistito al Hussein, all’attacco del 25 agosto. Sono già 300 mila i Rohingya che nelle ultime settimane hanno trovato rifugio nel vicino Bangladesh e che da lì provano a raccontare l’orrore dal quale sono fuggiti. Lunedì il ministro degli esteri di Dacca AH Mahmood Ali non ha esitato a definire "genocidio" quello in atto nella ex Birmania. Ai Rohingya - diventati famosi loro malgrado - anche il papa ha rivolto il suo pensiero già il 27 agosto, dopo i primi report sulla rappresaglia militare. In quell’occasione Bergoglio ha confermato che intende visitare proprio Myanmar e Bangladesh nel corso del suo viaggio pastorale in Asia, previsto per fine novembre. Ieri anche la Lega musulmana mondiale (Mwl) ha condannato duramente l’escalation di sangue, definendola "una vergogna per l’umanità". In un comunicato l’organizzazione sostiene che "lo spargimento di sangue in Myanmar non è meno criminale del terrorismo dello Stato islamico e di al Qaeda", sottolineando come sia in gioco "la credibilità della comunità internazionale se non si riuscirà a fermare tale terrorismo in tutte le sue forme". A chiedere l’intervento internazionale sono anche i 57 membri dell’Organizzazione della cooperazione islamica (Oic) riunitisi lo scorso fine settimana ad Astana, proprio mentre il governo birmano lasciava cadere nel vuoto l’annuncio di una tregua da parte dell’Esercito per la salvezza dei Rohingya dell’Arakan. Turchia. Erdogan processa i redattori di Cumhuryet. L’accusa: "Sono terroristi" di Dimitri Bettoni Il Manifesto, 12 settembre 2017 Si è riaperto ieri 11 settembre nel carcere di Silivri ad Istanbul il processo ai giornalisti e ai membri esecutivi del quotidiano Cumhuriyet. Le penne e i dirigenti del più antico giornale turco affrontano accuse di associazione terroristica e propaganda in favore del terrorismo per i quali rischiano fino a 43 anni di carcere. "Tutto ciò che chiedo è un giusto processo" ha detto Kadri Gursel, consulente del giornale, accusato di aver manipolato il board editoriale per sostenere l’organizzazione terroristica Feto, acronimo coniato ad hoc dal governo per indicare la comunità dell’ex alleato Fetullah Gulen. "È ironico e tragico che questo giornale venga accusato di essere allineato ad una tale organizzazione quando il governo le ha offerto per anni un porto sicuro" ha ribattuto la difesa. La procura per parte sua insiste nel chiedere la carcerazione di tutti i giornalisti ed i dirigenti sotto accusa, sostenendo che concedere loro la libertà equivarrebbe a consentire loro di inquinare le prove a loro carico. Prove che la difesa insiste nello smontare pezzo dopo pezzo, a partire dai presunti abusi amministrativi della fondazione di Cumhuriyet, oggetto peraltro di un procedimento amministrativo e non penale ancora non giunto a conclusione, sulla quale però la procura costruisce parte del proprio impianto accusatorio. Ma è soprattutto l’applicazione per smartphone Bylock a tenere banco. I procuratori insistono che i giornalisti avrebbero utilizzato tale applicazione per comunicare con i gulenisti. Tuttavia "delle 112 comunicazioni incriminate [nei confronti di Kadri Gursel], a 102 di queste non risulta io abbia mai risposto in alcun modo. Le altre 10 erano con altri giornalisti, il che fa parte della professione, peraltro avvenute quando Gursel non era impiegato a Cumhuriyet. Ogni accusa è semplicemente basata sul nulla" ha dichiarato nell’ennesima strenua difesa l’avvocato di Gursel. Gli avvocati sottolineano come la stessa Corte costituzionale si sia pronunciata ritenendo l’utilizzo di Bylock insufficiente come prova determinante per stabilire la colpevolezza d’un imputato. "La procura ha preparato le imputazioni ricorrendo a giornali concorrenti vicini al governo, considerano quegli articoli alla stregua di prove inconfutabili, quando di inconfutabile non c’è proprio nulla" continuano gli avvocati nell’arringa. I giudici indagano anche sulle nomine all’interno della direzione editoriale, sull’uso di social media, sui titoli, compito dei titolisti, mai scritti dai giornalisti che pure per essi si ritrovano sotto accusa. Appare sempre più lampante come sia il modo di fare giornalismo ad essere messo alla sbarra. Chiamati a testimoniare anche collaboratori e giornalisti privi di ogni capacità decisionale nella testata, eppure i giudici insistono per sapere anche opinioni personali e pensieri. "Ma le opinioni erodono la verità e non costituiscono fatti" ha dichiarato Miyase Ilknur, giornalista della testata. "Si ritiene che Feto abbia individuato in Cumhuriyet il suo megafono ideale, ma queste sono tutte supposizione della procura, non fatti sostenuti da prove". Fa specie agli osservatori che la corte non abbia ritenuto di rivolgere alcuna domanda ad Ahmet Sik, giornalista in prima linea nel processo e colui che forse più rischia tra tutti gli imputati. "La procura mi accusa di aver agito su commissione di Mirach Ural (ritenuto aderente a Feto, ndr), quando al tempo stesso la polizia mi metteva sotto custodia protettiva per timore che potessi essere oggetto di rappresaglia da parte dello stesso Ural" dice Sik citando una delle molte contraddizione nell’impianto d’accusa. "È il governo che agisce come associazione mafiosa, arrestando gli oppositori". Libano. "È un amico di Israele", regista libanese processato dopo la Mostra di Venezia di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 12 settembre 2017 Accuse di "collaborazionismo" con gli israeliani Corte militare per il regista libanese Doueiri giudicato "colpevole non colpevole" e rilasciato. Era in volo da Venezia a Beirut, Ziad Doueiri. È il regista di The Insult, per il quale alla Mostra di Venezia l’attore palestinese Kamel El Basha ha vinto come migliore attore. Non ha fatto in tempo a gioire, Doueiri, che si è ritrovato nei guai. È stato bloccato per una vicenda di quattro anni fa, relativa al film precedente. L’accusa: averlo girato in casa del nemico giurato, in Israele. La cassa di risonanza del Festival ha fatto riaprire il caso. La polizia lo attendeva alla dogana: "Passaporto". Ne ha due, libanese e francese (vive a Parigi). "Mi segua", gli ha detto l’agente. È stato arrestato e interrogato per tre ore dal tribunale militare (militare: non civile). Con una formula bizantina, come racconta il coproduttore francese Jean Bréhat, il regista è stato giudicato "colpevole non colpevole", una strana formula per l’ordinamento occidentale, "comunque è stato prosciolto". L’accusa era pesante, "collaborazionismo con Israele". Presto la vicenda si è conclusa: "I giudici hanno stabilito che non avevo alcuna intenzione criminale contro la causa palestinese - racconta il regista -, mia madre mi ha allattato con latte palestinese. Speravo che il riconoscimento a un attore palestinese, dice il regista più celebre in Libano (è stato anche assistente di Quentin Tarantino) - potesse rasserenare gli animi e temperare il clima politico che si è creato nei miei confronti". Alla conferenza stampa per The Insult si era cautelato: non è servito. Il giornalista israeliano Amir Kaminer, del quotidiano più influente del paese, Yedioth Ahronoth, gli pose una domanda. In maniera fulminea prese la parola la coproduttrice francese Julie Gayet, compagna dell’ex presidente Hollande. La legge in Libano proibisce che, in un’occasione pubblica, un libanese parli a un cittadino israeliano: si rischia fino a tre anni di carcere. "Il Libano è un paese complesso, pieno di contraddizioni e di passione. The Insult evoca il passato e il nostro presente - dice Doueiri, ho fatto un film sulla giustizia". Di quella vera, ha fatto le spese lui. Alla cena gala della Mostra, al direttore Alberto Barbera è sembrato "ottimista e felice sulla ricomposizione delle polemiche. Mi sembra una forma di persecuzione nei confronti di un regista che ha mostrato di non essere un traditore, ma di capire le ragioni complesse di una situazione esplosiva, le ragioni di tutti". "Perché un regista che contribuisce a superare le divisioni ataviche viene processato da un tribunale militare? Perché il Libano da una parte lo candida per l’Oscar e dall’altra lo arresta?", si chiede Andrea Occhipinti della Lucky Red che il 7 dicembre farà uscire il film. L’accusa si riferiva non a The Insult, ma al film precedente, The Attack, girato nel 2013 in Israele. La storia di un noto medico palestinese, apprezzato dall’establishment di Tel Aviv, che fa un’amara scoperta: la donna che si è fatta esplodere, facendo una strage, è sua moglie, palestinese. Un gruppo di integralisti musulmani libanesi non accetta l’idea che Doueiri abbia realizzato un film in Israele, e ha fatto pressioni sulle autorità giudiziarie. Il ministro della Cultura libanese, Ghattas Khury, ha espresso il suo sostegno al regista: "Bisogna rispettarlo e onorarlo". Tornato al Lido accanto all’attore che ha vinto la Coppa Volpi, Ziad si è imbarcato alla volta di Beirut per accompagnare l’uscita del film. La storia di The Insult non è così lontana dalla sua brutta avventura: una lite banale tra un cristiano e un palestinese finisce per infiammare l’intero Paese. "Sono stato ispirato da un incidente che mi è accaduto qualche anno fa". Sullo sfondo, la mancata riconciliazione nazionale dopo la guerra del 1990. "Non ci furono né vincitori né vinti", ricorda Ziad. Ha 54 anni, viene da una rinomata famiglia di avvocati, The Insult si svolge per due terzi in un’aula di tribunale. Corea del Nord. Le sanzioni (limitate) per Kim Jong-un di Franco Venturini Corriere della Sera, 12 settembre 2017 L’embargo totale sulle forniture di greggio alla Corea del Nord proposto dagli Usa non è passato. Potranno bastare le misure decise a fermare il dittatore? Quando i Paesi membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu hanno cominciato a discutere quali sanzioni dovessero punire la Corea del Nord per il potentissimo e illegittimo test nucleare del 3 settembre scorso, tutti sapevano che lo spartiacque tra svolta dura e severità di circostanza avrebbe avuto l’odore acre del petrolio. L’embargo totale sulle forniture di greggio a Pyongyang proposto dall’America e appoggiato dai suoi alleati (compresa l’Italia che quest’anno siede nel Consiglio) avrebbe tecnicamente impedito a Kim Jong-un di continuare a sviluppare, con ritmi sempre più accelerati, i suoi programmi nucleari e missilistici. Non era forse questo, il tema cruciale portato all’attenzione del Palazzo di Vetro? Non si trattava forse di fermare una corsa già partita verso la guerra tra Usa e Corea del Nord, una guerra che potrebbe avere prezzi altissimi e innescare un nuovo disordine nucleare prima asiatico e poi mondiale? E ancora, la comunità internazionale non era forse al cospetto di una occasione unica e suprema per una intesa tra Occidente, Cina e Russia, tutti interessati al mantenimento della pace? L’occasione c’è stata, ed è andata sprecata ancora una volta. Certo, le sanzioni decise dall’Onu sono le più severe sin qui varate contro Pyongyang, colpiscono interessi importanti del regime nord-coreano. Pur escludendo il blocco dei beni di Kim Jong-un, queste sanzioni autorizzano le perquisizioni navali ma senza uso della forza, fermano la fruttuosa esportazione dei tessili, bloccano l’import di gas liquefatto, stabiliscono complessi meccanismi per frenare in qualche modo anche quello petrolifero. Uno sforzo collettivo è stato fatto, è giusto riconoscerlo. Ma non sono, queste sanzioni, il colpo di maglio decisivo che soltanto un embargo petrolifero totale e condiviso poteva produrre. E non sono, non ancora, il frutto di una nuova comune consapevolezza nella comunità internazionale: come sempre gli americani hanno tentato di alzare la voce, come sempre cinesi e russi, pur ampliando le loro convergenze con l’Occidente, hanno ottenuto una riscrittura meno severa del testo della risoluzione. Protagonista assoluta del tradizionale braccio di ferro in Consiglio di sicurezza è stata questa volta la Cina. Pechino non voleva rompere con gli Usa, e dunque doveva concedere a Trump un pacchetto di accordi sufficientemente sostanzioso. Ma la vera priorità di Xi Jinping era di non colpire troppo duramente la Corea del Nord, e di affondare perciò la proposta di embargo petrolifero totale. Per una serie di motivi. Pechino pensa che una guerra sia ancora evitabile, e propone, in coordinamento con Mosca, la formula della "doppia sospensione": Pyongyang ferma i lanci di missili e gli esperimenti nucleari, Washington e Seul fermano le manovre militari in Corea del Sud e nei mari adiacenti. Il netto rifiuto opposto dagli Usa non sembra aver scoraggiato i cinesi, ma non è tutto. La Cina teme che il regime nord-coreano crolli all’improvviso innescando una grande ondata migratoria verso il proprio territorio. E in termini geopolitici, se non può ottenere una Corea riunificata, denuclearizzata e neutrale, preferisce fare i conti con Kim Jong-un piuttosto che assistere a una "liberazione" di Pyongyang di ispirazione americana. Per tutti questi motivi, ai quali si aggiungono secondarie considerazioni di contabilità commerciale, la Cina ha fatto a New York qualche passo verso gli Usa ma soltanto a condizione di poter mantenere i propri limiti invalicabili. Con l’appoggio della Russia, e confortata dalla previsione di Putin secondo cui le sanzioni sono superflue, perché i nord-coreani se necessario "mangeranno erba" pur di ottenere lo status di potenza nucleare riconosciuta. Così, l’Onu ha finito per fornire quel che fornisce di solito: un compromesso. Ma può bastare un compromesso in una questione di pace o guerra? Le limitate ambizioni delle misure poste in rampa di lancio non finiranno per incoraggiare proprio colui che si voleva punire? Sarà Kim Jong-un a dare le prime risposte a questo interrogativo cruciale per il mondo intero. E saremmo sorpresi se il tiranno di Pyongyang abbandonasse proprio ora la sua strategia della provocazione, se non ordinasse nuovi lanci di missili, se non esibisse nuove testate atomiche affermando di poterle lanciare sugli Stati Uniti, se non continuasse a programmare esperimenti nucleari sotterranei. Trump, nella trincea opposta, non esce trionfante dal confronto del Palazzo di Vetro. Ha ottenuto parecchio, ma il punto centrale e decisivo della sua proposta è stato silurato dai cinesi. Cosa farà ora il presidente degli Stati Uniti, oppure cosa farà al prossimo lancio nord-coreano? Dopo il test nucleare del 3 settembre il capo della Casa Bianca aveva avvertito che "quando è troppo è troppo", prima ancora aveva definito inutile una trattativa con Pyongyang. Lo spazio e il tempo per evitare un’azione militare si sono ristretti. Forse troppo. E la Cina? Sulla carta può sembrare lei la vincitrice della partita dell’Onu, ma Xi Jinping sbaglierebbe di grosso a non mettere urgentemente in cantiere una più coraggiosa politica nord-coreana. Che Trump la prenda o meno in contropiede sparando il primo colpo, Pechino ha poco tempo per arrendersi all’evidenza: i progetti di Kim Jong-un, nel loro attuale stadio di avanzamento, sono diventati una minaccia strategica imminente anche per la Cina. Il primo negoziato che si impone è ora quello tra Pechino e Washington, se Xi vuole, e avrà il tempo, di evitare la guerra. Ma se Pechino continuerà invece a viaggiare in ritardo come ha fatto all’Onu, e non capirà che il tempo dei compromessi al ribasso è tramontato, allora la voglia di pace, che è anche la nostra, diventerà una illusione. Centrafrica. Altri massacri di civili e le Nazioni Unite stanno a guardare di Riccardo Noury Corriere della Sera, 12 settembre 2017 Mentre il governo democraticamente eletto controlla poco più del territorio della capitale Bangui e la missione di peacekeeping delle Nazioni Unite (arrivata a 12.870 uomini, di cui 10.750 armati) continua a stazionare nel paese, i massacri in corso dal 2013 nella Repubblica Centrafricana vanno avanti, interessando di volta in volta varie regioni del paese. Ora tocca alla prefettura di Basse-Kotto, dove da mesi imperversa l’Unione per la pace in Africa centrale (Upc), che - nonostante la denominazione - è un ferocissimo gruppo armato a maggioranza musulmana fuoriuscito dalla coalizione Seleka, protagonista del colpo di stato del 2013. Nell’ennesimo sviluppo di un conflitto le cui dimensioni settarie e religiose si sono fatte via via sempre più evidenti, l’Upc ha preso di mira le comunità cristiane della prefettura di Basse-Kotto, giudicate colpevoli in massa della pulizia etnica del 2014 portata avanti dai gruppi armati cristiani denominati "anti-balaka" contro i musulmani dell’ovest del paese. Uno dei peggiori recenti massacri è avvenuto nella città di Alidao l’8 maggio, con oltre 130 civili uccisi. Ma non è stato un episodio isolato: negli ultimi mesi l’Upc ha saccheggiato villaggi costringendo gli abitanti alla fuga e i suoi militanti si sono resi responsabili di stupri e torture inenarrabili. Secondo l’Osservatorio per i diritti umani in Africa centrale, oltre 100 sopravvissute alla violenza sessuale hanno lasciato la prefettura di Basse-Kotto per cercare protezione e cure nella capitale. Il costo umano di questo conflitto apparentemente senza fine è terribile. Oltre un milione di persone sono state costrette a lasciare le loro terre e i loro villaggi: 438.700 sono rifugiate nella Repubblica Democratica del Congo, in Camerun e Ciad e un numero ancora maggiore - si stima 600.000, 100.000 dei quali solo da aprile - sopravvivono a stento all’interno della Repubblica Centrafricana, nella boscaglia, nelle chiese dei villaggi disabitati e persino sulle piccole isole del fiume Ubangi.