Suicidi in carcere: per prevenirli servirebbe un po’ di affetto in più Il Mattino di Padova, 11 settembre 2017 Questa estate nelle carceri sarà ricordata per i tanti suicidi, per la perdita della speranza in un cambiamento vero delle condizioni di vita, per una situazione così drammatica che Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti dei detenuti, ha dichiarato: "Come titolare della tutela dei diritti delle persone detenute (…) interverrò come parte offesa nelle indagini relative a tutti i casi di suicidio, a cominciare dall’anno in corso, per fornire il mio eventuale contributo di conoscenza e per seguire gli accertamenti che saranno condotti". A chi, come il Garante, è preoccupato per questa disperazione che si respira nelle carceri, viene risposto che è stato predisposto da tempo un "Piano nazionale per la prevenzione delle condotte suicidarie nel sistema penitenziario per adulti". È vero, ma è proprio quel Piano che individua come fattori protettivi "il supporto sociale, familiare, una relazione sentimentale stabile", e che invece vede nei trasferimenti un fortissimo elemento di rischio, perché i detenuti trasferiti "sono sottoposti per il solo fatto del trasferimento, indipendentemente dai motivi, ad uno stress che può essere anche non indifferente. Il detenuto trasferito si ritrova, infatti, in brevissimo tempo a vivere da un ambiente a lui noto ad uno sconosciuto dal punto di vista delle strutture, delle regole, delle persone con le quali interloquire, siano essi altri detenuti o il personale penitenziario". Allora, il Volontariato pone con forza delle domande elementari: perché non si predispongono misure semplici, a costo zero, per ampliare il più possibile in tutte le carceri le possibilità di contatti delle persone detenute con i propri cari? E perché non si riducono al minimo i trasferimenti punitivi, e si concedono invece i trasferimenti in carceri vicine alle famiglie? Per non dimenticare che cosa significa suicidarsi in galera, riportiamo due testimonianze di detenuti. Siamo uomini fragili alla ricerca di conforto Sono le 21.20 di martedì 25 luglio. Gli agenti corrono all’impazzata nel reparto d’isolamento "Iride". Metto lo specchio fuori per intravedere qualcosa, non vedo nulla se non un continuo entrare e uscire dalla prima cella. Sento i loro commenti e a questo punto il quadro mi è chiaro… l’Osservatorio sui suicidi e le morti in carcere conterà un altro morto nella lista dei detenuti suicidi. Stavolta a pochi metri dalla mia cella in questa tortura di sezione che non dovrebbe esistere più! Gli infermieri tentano invano di riportarlo in vita, ma non c’è nulla da fare. Anche lui ha preferito la morte alla continua privazione causata dalla carcerazione e a quella che sembra l’indifferenza delle Istituzioni. Quest’uomo era in carcere da qualche mese per dei reati molto gravi, si chiamava Samuele, 42 anni, originario del catanese, emigrato qui a Parma. Ha lasciato il nostro mondo nel modo più crudele e infame che possa esistere, stringersi una corda al collo. È difficile scrivere queste righe e immaginarsi la scena, non so cosa passi nella testa di una persona che sceglie di farla finita, una cosa è certa, qui si respira tanta sofferenza accompagnata talvolta anche dalla strafottenza di qualcuno che provoca con una specie di istigazione a farla finita con le proprie mani. Il suo compagno di cella mi ha raccontato che lui spesso parlava di farla finita e che aveva sempre il morale a terra per essersi rovinato la vita. Quando accadono queste cose lasciano sempre un amaro in bocca, scatenando la rabbia verso questo sistema secondo me malato, distorto, che offre spesso solo un senso di abbandono a se stessi. Non voglio immaginare quando avviseranno i suoi familiari e suo figlio. Sarà un boccone duro da digerire, un pensiero che poi non si riuscirà facilmente ad abbandonare. Voglio vedere chi si porterà questa persona sulla coscienza, un corpo in custodia a un carcere con l’intento di rieducarlo e invece rimandato indietro morto come un pacco postale dopo pochi mesi. In realtà la persona che vedo più scossa da parte loro è l’agente di turno che l’ha tolto per prima dal penzolio della corda appesa alla finestra. Qualcuno afferma che quando una persona prende una tale decisione è difficile evitare che accada, ma anche su questo rimango perplesso. Evitare un suicidio si può cominciando ad abbassare l’asticella della punizione che non è mai servita a nulla, e a promuovere invece la prevenzione vigilando e ascoltando di più, specie in questa sezione di isolamento abbandonata. Magari se questa persona avesse almeno avuto "il conforto" di un televisore quel pensiero di morte non sarebbe prevalso. Non si scherza con la vita delle persone, che si devono assistere e rispettare da vive e non da morte. E invece non capiscono che siamo anche uomini fragili, e ritrovarci più vicino ai nostri cari con qualche telefonata in più già ci aiuterebbe. Mi viene in mente una vecchia pubblicità dove un uomo prima di essere fucilato diceva: una telefonata può salvare la vita. Speriamo che, per non contare più tanti suicidi, l’amministrazione penitenziaria superi questa mentalità prevalentemente punitiva, fatta anche di trasferimenti e di isolamento, che coinvolge pure i nostri familiari, che non c’entrano nulla con i nostri reati. Spero che il nostro Signore altissimo perdoni Samuele per il suo passato e per essersi suicidato. La nostra fede cristiana questo non lo permette. Il dono della vita è un tesoro prezioso, ma per lo meno che il Signore tenga conto che lui all’inferno già c’è passato. Raffaele Delle Chiaie, Parma Morire non dev’essere la nostra sola speranza Ho perso il conto, ho letto di un altro suicidio in carcere. nel giro di una settimana si sono tolti la vita quattro detenuti a distanza di poche ore l’uno dell’altro. Credo che i prigionieri che dall’inizio dell’anno hanno preferito la morte al carcere siano 40, 567 i tentativi di suicidio e 4.310 gli atti di autolesionismo. E d’estate i suicidi in carcere aumentano. I funzionari dell’Amministrazione penitenziaria hanno diramato delle circolari per affrontare il problema, con disposizioni che però rischiano come succede spesso di rimanere solo sulla carta. Eppure basterebbe poco per evitare alcune morti, un trasferimento in un carcere vicino a casa, una telefonata o un colloquio in più con i propri cari, una vivibilità migliore, un semplice ventilatore in cella o anche qualche ora d’aria nei cortili dei passeggi in più. E soprattutto un po’ di speranza e amore sociale. Diciamoci però la verità, per alcune forze politiche e anche per buona parte della società il carcere che funziona è quello che fa male, ma così si fa un favore alle mafie perché in questa maniera le prigioni diventano fabbriche di criminalità, devianza e morte. Una volta, nel carcere di Volterra, un detenuto con cui passeggiavo spesso nel cortile mi aveva confidato: "La morte è la nostra unica speranza". Dopo qualche mese seppi che si era tolto la vita. Ricordo anche il tentato suicidio di un compagno ergastolano quando ero nel carcere di Spoleto. Verso le cinque del mattino mi aveva svegliato un rumore che veniva dalla cella accanto alla mia. Pensavo fosse Ivano che stesse facendo le ore piccole. Avevo ripreso a dormire, ma ero stato subito risvegliato dalla voce di una guardia: "Allarme rosso, allarme rosso". Avevo aperto lo spioncino e avevo chiamato: Ivano, ci sei? Lui mi aveva risposto subito: "Ci sono, ci sono, non sono io, ci ha provato Nicola, si è impiccato". Si affacciarono allo spioncino tutti gli altri compagni a gridare: "Presto, un dottore! Sbrigatevi, non respira! È bianco come un morto! Appuntato, appuntato!". Dopo un po’ arrivò il dottore di corsa. Presero Nicola con la barella e lo portarono via. Lo vidi passare, aveva gli occhi chiusi, un segno al collo, il viso da morto. Non sapevo cosa augurargli, se di salvarsi o di morire. Se si fosse salvato ci sarebbe rimasto male e ci avrebbe riprovato di nuovo. Nicola è un ergastolano, malato e invalido. Al suo posto mi arrabbierei se non riuscissi neppure a morire. Forse sarebbe meglio per lui morire senza più soffrire. Poi ricordai che pochi giorni prima era con me nella sala colloquio e l’avevo visto insieme a sua moglie e ai suoi figli. Allora sperai che si fosse salvato per l’amore della sua famiglia. E dopo qualche ora ci comunicarono che era salvo. Ricordo pure che a una domanda sui suicidi in carcere fattami da una studentessa durante un incontro "Scuola-Carcere" ho risposto che i detenuti che in carcere si tolgono la vita scelgono di morire perché si sentono ancora vivi, mentre molti rimangono in vita perché hanno smesso di vivere. Alcuni detenuti si tolgono la vita perché l’Assassino dei Sogni (come io chiamo il carcere) non risponde mai ai loro appelli disperati. Altri invece lo fanno per ritornare a essere uomini liberi. Altri ancora s’impiccano alle sbarre della loro finestra perché, fuori da quelle sbarre, non hanno niente e nessuno ad attenderli. Carmelo Musumeci Omicidio in cella, le carceri scoppiano di Antonio Mattone Il Mattino, 11 settembre 2017 L’omicidio di un detenuto avvenuto sabato sera nel carcere di San Gimignano è solo l’ultimo episodio di cronaca, indice del malessere che si respira nelle carceri italiane. Una violenta lite scoppiata tra due detenuti rumeni reclusi nel reparto di alta sicurezza ha avuto un tragico epilogo. Un ergastolano è stato colpito mortalmente alla testa con uno sgabello di legno dal un suo compagno di cella. In Italia, il sistema penitenziario torna ad essere in sofferenza, ma anche sotto osservazione dell’Europa. La recente pubblicazione del rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt) sulla visita alle carceri italiane dell’aprile 2016, lancia dei campanelli d’allarme. Innanzitutto sul sovraffollamento. Il numero dei detenuti, sceso notevolmente dopo le misure prese dal governo in seguito alla condanna della Corte di Strasburgo, è in risalita. Se già nei giorni del sopralluogo dei membri del Cpt si era raggiunto il numero di 53.700 presenze, oggi i carcerati rinchiusi nei nostri penitenziari sono ben 57.393, mentre ne potrebbero essere ospitati solo 50.501. Questo vuol dire che ci sono quasi 7.000 detenuti in eccesso. Un altro dato che emerge è la presenza nelle carceri di quasi 20.000 stranieri, dislocati soprattutto al Nord e nel Lazio. Qui incide la scarsa disponibilità di luoghi dove scontare la condanna in misure alternative, oltre agli scarsi mezzi per permettersi un’adeguata difesa. La mancanza del personale di polizia penitenziaria è una delle criticità denunciate dai sindacati. Ma non sono solo il numero degli agenti ad essere sottodimensionato: c’è bisogno di educatori, di psicologi, di operatori sanitari ma anche di dirigenti. Colpisce il fatto che il carcere di San Gimignano non abbia un direttore dedicato, e che questa funzione sia ricoperta da quello di Grosseto che durante la settimana è costretto a fare la spola tra i due istituti. Nel 2006 erano oltre 550 i direttori delle carceri italiane, mentre oggi se ne contano circa 280, mentre i dirigenti generali sono passati in questi anni da 25 a 14 unità. Emerge quindi la necessità di riaprire bandi di concorso per assumere nuovo personale direttivo, visto anche l’avvicinarsi dell’età pensionabile per alcuni di questi quadri. Il Comitato ha inoltre denunciato l’assenza di attività, con meno del 20 per cento dei detenuti impegnati in attività lavorative, e l’utilizzo eccessivo del regime dell’isolamento, soprattutto per persone con tendenze suicide e autolesionistiche. Altro dato che desta preoccupazione è proprio quello dei suicidi. Quest’anno sono già 41 i detenuti che si sono tolti la vita contro i 45 dello scorso anno. Una serie di risse, violenze e aggressioni che sono avvenute negli ultimi tempi, sono la spia delle difficoltà che si vivono all’interno delle carceri. Questi episodi rappresentano la cartina di tornasole dell’aggressività figlia del disagio sociale che si respira nel nostro Paese. Se negli anni passati le reazioni dei detenuti erano contenute, oggi assistiamo ad una sfrontatezza che non fa distinzioni di ruoli. Di fronte a questi fenomeni si registra anche una mancanza di preparazione per affrontare nuove problematiche e una nuova tipologia dei detenuti. La formazione è prevalentemente interna, a costo zero, senza quella contaminazione positiva con altri ambienti che potrebbe dare nuovi stimoli e conoscenze ad un personale oggi demotivato che svolge un lavoro altamente usurante. Mentre si attende entro il 31 dicembre l’emanazione dei decreti legislativi sull’ordinamento penitenziario previsti dalla delega sulla riforma penale, sono solo i radicali a richiamare l’attenzione sulla situazione delle carceri. C’è un grande bisogno che la discussione sulla condizione della detenzione riprenda per non lasciare cadere il grande lavoro avviato negli Stati Generali dell’Esecuzione Penale. Intercettazioni. Bongiorno: "mostro giuridico, così diamo alla polizia il potere di insabbiare" di Liana Milella La Repubblica, 11 settembre 2017 La presidente della commissione Giustizia della Camera ai tempi delle riforma Alfano-Berlusconi in materia: "Rischioso affidargli la scelta sugli ascolti irrilevanti". Un "mostro giuridico", creato da chi, il Pd, ai tempi di Berlusconi denunciava il bavaglio. Un "black out" giudiziario, che mette tutto nelle mani della polizia, "e quindi del potere esecutivo". È il parere dell’avvocato penalista Giulia Bongiorno, presidente della commissione Giustizia della Camera ai tempi delle riforma Alfano-Berlusconi sulle intercettazioni. Leggendo il testo del decreto cosa l’ha colpita in negativo? "È una riforma da brivido: viene attribuito un potere nuovo e mai conferito prima a nessuno. La polizia giudiziaria potrà decidere quali conversazioni cestinare e quali documentare. Il rischio è che vengano insabbiate conversazioni scomode per il potente di turno o che se ne "perdano" di utili per la difesa. Una scelta politica che dovrebbe far scendere i cittadini in piazza". Allude all’ipotesi di non trascrivere più le conversazioni non rilevanti ai fini della prova o quelle private? Non si rischia di eliminare dal processo un pezzo della sua storia? "Chi ascolta per primo le conversazioni avrà il potere di definirle irrilevanti e accantonarle senza nemmeno indicare il nome degli interlocutori. Mi sembra singolare tutto questo mistero, e anomalo che il pm debba chiedere a occhi chiusi, con decreto motivato, la trascrizione. Andrà a intuito? E gli imputati come faranno?" Magari chi ha la fortuna di avere lei come legale è in salvo, chi finisce con un avvocato d’ufficio sarà penalizzato... "Gli imputati che non possono pagare studi legali ben attrezzati saranno di certo discriminati rispetto a chi dispone di risorse per mandare avvocati ad ascoltare ore e ore di conversazioni al fine di scovare quelle utili ma "cestinate"". Politicamente che effetto le fa? È un segnale che l’ipotesi arrivi da via Arenula, con un ministro Pd alla guida in un governo del Pd? "Nei verbali della commissione Giustizia della scorsa legislatura è documentato che il Pd contestava la scelta del centrodestra di occuparsi della materia. Finalmente Orlando ha capito che serviva un intervento, ma sta correggendo nel peggiore dei modi". La polemica quanto le ricorda i tempi di Berlusconi e della sua battaglia per evitare un bavaglio che, in quel caso, avrebbe compromesso anche le indagini? "Certo, si è discusso molto, ma alla fine avevamo trovato un punto d’incontro accettabile; e comunque nessuno si era sognato di creare un sistema come questo, in cui alcune conversazioni potrebbero volatilizzarsi. Il vero blackout è questo testo, non il nostro". La Fnsi rifiuta la proposta e grida all’attacco alla libertà di stampa... Hanno ragione? "Non pubblicare il privato e l’irrilevante è corretto, ma il nuovo testo - anziché intervenire su questo punto - permette a chi ascolta di "amputare" il procedimento di conversazioni secondo una discrezionalità che può sconfinare nell’arbitrio". Archivio riservato: diventerà la cassaforte del potere e di possibili ricatti? "Il problema è a monte: l’enorme potere conferito alla polizia giudiziaria nella scelta di ciò che è rilevante esprime uno sbilanciamento dei poteri in favore dell’esecutivo". Consip e decreto sulle intercettazioni: vede un legame? "Da avvocato non mi piacciono i sospetti e le dietrologie, ma se così fosse sarebbe l’ennesima prova che il Pd fa esattamente quello che prima contestava. Quando era all’opposizione, ogni iniziativa del governo veniva bollata come "legge ad personam" e il tema giustizia era considerato tabù. Quelli che sollevavano questioni morali e promuovevano manifestazioni anti bavaglio sono gli stessi che oggi hanno creato questo mostro giuridico". Il flop delle confische alla mafia. "Solo un bene ogni ventitré è riutilizzato correttamente" di Carola Frediani La Stampa, 11 settembre 2017 Il Viminale vuole darne una parte ai profughi ma manca un censimento. Eupolis e Fondazione con il Sud: "Enti locali incapaci di fare i controlli". Delle 17mila aziende sequestrate dal 1995 a fine 2016, 10mila risultano attive "sulla carta". Ma a dare veri segni di operatività sono solo 2758. Nessuno si preoccupa di rilevare a quali clan appartenessero i beni confiscati. Eppure servirebbe a fini investigativi. Dopo gli sgomberi di Roma, ha riscosso molti plausi la proposta del Viminale di affidare ai Comuni gli edifici sottratti alla criminalità organizzata per fronteggiare l’emergenza abitativa. Ma la realtà della gestione delle confische e degli affidamenti renderà questa strada più impervia del previsto. Dei 23 mila immobili confiscati, quelli riutilizzati bene sono una minoranza. Come vedremo mancano numeri certi, ma "Fondazione con il Sud" stima che siano un migliaio. E le aziende non sono messe meglio. Il problema principale è che spesso servono soldi da investire per la ristrutturazioni, enti locali che diano i beni a chi sia in grado di usarli al meglio e un monitoraggio sui risultati, ex post, che appare inesistente. E questo vale anche per aree ricche e industriose, come, per esempio, la Lombardia. Come recuperare un bene - Qui a fine 2015 quasi la metà dei beni immobili confiscati era già stato destinato agli enti territoriali. E tuttavia di questi il 24% restava ancora inutilizzato, nota uno studio di Eupolis Lombardia, istituto di ricerca della Regione. Recuperare e rendere produttivo un bene confiscato non è impresa banale, specie nel caso di aziende. Lo sa bene Giovanni Arzuffi, responsabile della cooperativa Arcadia, capofila del progetto che nel 2015 ha trasformato i locali di una pizzeria sequestrata in una osteria sociale, di nome La Tela. Siamo lungo la strada Saronnese, poco sopra Milano. Fino al 2010 questa era la pizzeria Re Nove, ritenuta sotto il controllo di Giuseppe Antonio Medici, coinvolto in una maxi-inchiesta sulla ‘ndrangheta. Chiusa da sera a mattina, dopo due anni l’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati alle mafie assegna il locale al Comune di Rescaldina. Che con un bando lo affida in ad alcune associazioni. Arzuffi, seduto a un tavolo dell’osteria, duecento metri quadrati per 130 coperti, ricorda. "L’obiettivo era tornare a essere ristorante ma anche un centro di promozione culturale". Il punto principale però era di far funzionare il progetto economicamente. Fondamentali sono stati stato un finanziamento da 175 mila euro della Regione per ristrutturare e altri 40 mila euro messi dalla stessa cooperativa. Arzuffi per prima cosa cerca un cuoco. "Ne volevamo uno bravo, che condividesse lo spirito del progetto". Viene assunta una decina di dipendenti, tra cui alcuni lavoratori socialmente svantaggiati. Il primo anno l’incasso è di 500 mila euro, ma il deficit di 65 mila. "Quest’anno invece siamo in pari. E la clientela è cresciuta. Oggi questo è il primo posto al Nord che, dopo la confisca, torna a essere quello che era". Tuttavia La Tela è più l’eccezione che la norma, nel mondo dei beni confiscati alla criminalità organizzata. Che è spesso gravato da ritardi, inefficienze, vischiosità, con conseguente impoverimento, sottoutilizzo, fallimento o liquidazione di quanto sequestrato. Le cause sono molteplici, ma spesso sono "il frutto di una cattiva gestione e della totale assenza della pubblica amministrazione", commenta il magistrato Livia de Gennaro. Così come di "una mancata vigilanza sull’operato degli amministratori". Anche al Nord, dove è "ancora marginale la valorizzazione imprenditoriale degli immobili confiscati", e dove prevale "un modello di tipo assistenziale", scrive Eupolis. "Molti immobili sono destinati a enti locali, ma poi non c’è alcun tipo di monitoraggio sull’uso che ne viene fatto", commenta Antonio Dal Bianco, coordinatore della ricerca. "Molti diventano sedi di associazioni, ma senza avere ricadute più estese sul territorio e senza diventare un simbolo di rilancio sociale". Eppure la Lombardia è tra le Regioni con più beni sequestrati; e assiste a una crescente infiltrazione mafiosa. Ma anche qui, come nel resto d’Italia, ci si scontra con la cronica assenza di dati: di informazioni certe, uniformi, complete. Il mistero dei 21 milioni - C’è chi ci prova a mettere ordine. Come ha fatto Infocamere, la società di informatica delle Camere di Commercio italiane, che in un recente convegno organizzato da Ernest & Young proprio sui beni sequestrati ha tirato fuori, dopo una ricerca certosina, alcuni numeri aggiornati almeno sulle imprese. Delle 17 mila aziende sequestrate dal 1995 a fine 2016, 10 mila risultano attive "sulla carta", ma a dare veri segni di operatività sono solo 2758. Giuste o troppo poche? E comunque che aspetto hanno? Difficile dirlo. "C’è un punto debole nella raccolta dei dati - spiega Paolo Ghezzi, direttore generale di Infocamere. Gli ufficiali giudiziari non inviano le informazioni sui sequestri in maniera strutturata, non li inseriscono in un applicativo come nella normativa sui fallimenti. Oggi la trasmissione viene fatta via fax, o mail, con campi scritti a penna, con errori o mancanze, e a volte non si trova nemmeno l’impresa. A volte c’è la volontà di non far trovare l’impresa". Il problema era già emerso in una audizione alla Camera del 2016, dove lo stesso Ghezzi rilevava come su 1226 aziende confiscate, sul Registro imprese ne mancassero all’appello 352. Non si trovavano. E del resto, nel luglio 2016, una relazione della Corte dei Conti sottolineava un problema analogo nel flusso informativo tra gli uffici giudiziari e l’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati (Anbsc): solo il 5-10% dei dati relativi ai beni censiti risultava trasmesso per via telematica. Sul resto mancava "un censimento completo dei beni" e non c’era "interoperabilità tra le diverse banche dati". Un fatto "inspiegabile", scriveva la nostra magistratura contabile, anche alla luce dei "notevoli finanziamenti erogati per la realizzazione di sistemi e applicativi informatici". Il riferimento è ai 21 milioni di euro di fondi strutturali per favorire lo scambio di dati anche su sequestri e confische, che sono andati al sistema informatico Re.Gio dell’Agenzia nazionale e al Sistema Informativo Telematico delle misure di prevenzione Sit del ministero di Giustizia. E non va meglio con le informazioni sui beni mobili confiscati (vetture, barche, gioielli): pressoché inesistenti, rilevava uno studio 2016 di Fondazione con il Sud. "È insostenibile non disporre di un apparato dati preciso e completo, non avere un database pubblico con tutte le informazioni", si scalda Ernesto Savona, professore di criminologia alla Cattolica e direttore del centro di ricerca Transcrime. "Negli ultimi anni ad esempio gli investimenti delle mafie nelle imprese sono stati legati alla loro espansione nel Centro-Nord. E non è più solo controllo del territorio: diventano imprese redditizie. Che si mimetizzano di più. Ma nessuno si preoccupa di rilevare a quali organizzazioni appartengono i beni confiscati. Eppure mappare gli investimenti delle organizzazioni criminali servirebbe a fini investigativi". L’Agenzia Nazionale - Sapere quali sono i beni sequestrati, in che stato sono, avere un quadro chiaro e in tempo reale è una priorità sottolineata anche da Nando Dalla Chiesa, una delle figure più note nello studio e il contrasto delle organizzazioni criminali. "Ma tutti i ricercatori hanno avuto problemi coi dati", commenta. Al centro del complesso sistema della confisca e destinazione dei beni della criminalità organizzata sta l’Agenzia nazionale (Anbsc), nata nel 2010. L’iter inizia infatti con il sequestro, "la fase più lunga e intensa, che impegna amministratori e consulenti nei primi e cruciali anni", commenta Stefania Radoccia, avvocato di Ernest & Young. "Prosegue con la confisca di primo grado, con quella definitiva e, infine, con la destinazione. Fase, quest’ultima, di esclusiva competenza dell’Agenzia nazionale". Che negli ultimi due anni ha dato una accelerata sulla quantità di beni infine destinati. Da 627 nel 2014 si è passati a 1700 nel 2015. "Se non avessimo gli arretrati saremmo al passo con le confische", commenta il prefetto Ennio Mario Sodano, recente direttore dell’Agenzia. "Stiamo affinando gli strumenti e la collaborazione con le prefetture. Ma il nodo critico è riuscire a dialogare con l’amministrazione della giustizia, perché sono loro a mandarci i dati e non esiste un sistema unico". C’è poi un altro problema, che ha a che fare col personale dell’Agenzia. Meno di cento unità. E quasi tutto distaccato da altre amministrazioni. "Mentre avremmo bisogno di personale qualificato", prosegue Sodano. Anche perché, ricorda Dalla Chiesa, "le competenze antimafia sono specifiche, e non si trovano facilmente nella nostra burocrazia". Codice antimafia arenato - A luglio, al Senato, è passata la riforma del Codice antimafia, che tra le altre cose prevede regole più stringenti per limitare i conflitti d’interesse degli amministratori giudiziari. E in teoria un rafforzamento del ruolo dell’Agenzia. Che però sembra essere già stato ridimensionato. "Si era ipotizzato di portarla a duecento persone con competenze specifiche, poi nella stesura definitiva il numero è diminuito, ed è rimasto il reclutamento tramite mobilità dalla pubblica amministrazione", commenta il senatore Pd Giorgio Pagliari, relatore del provvedimento. Che rischia ancora di essere affossato alla Camera, a causa delle polemiche suscitate dall’aver esteso i sequestri preventivi del patrimonio anche a reati come la corruzione. "Si può ancora approvare prima della fine della legislatura", prosegue Pagliari, "ma certo i tempi sono stretti". E comunque c’è chi pensa che servirebbe una riforma ben più radicale. Che preveda "una gestione professionale dell’intero patrimonio immobiliare attraverso una specifica entità pubblica capace di garantire rendimenti e utilizzi migliori", commenta ancora Livia de Gennaro. O addirittura, come aveva proposto in un documento Fondazione per il Sud, un ente che sostituisca l’Agenzia con competenze manageriali e industriali. Anche la vendita di beni confiscati ai privati non è più un tabù. "Il timore che ritornino in mano ai mafiosi è stato spesso un alibi, mentre sarebbe meglio fare come in altri Paesi: si vende e la somma va al Fondo unico di giustizia per fare altro", commenta Savona. "Meglio che lasciare impoverire i beni. O tenere imprese decotte in vita per pagare gli amministratori". Per altro, anche sul Fondo, gli addetti ai lavori lamentano la difficoltà a ottenere dati certi. E così, come nel gioco dell’oca, si torna alla casella di partenza. Papa Francesco: "il narcotraffico semina morte, sostenuto da uomini senza scrupoli" di Andrea Tornielli La Stampa, 11 settembre 2017 Da Cartagena, nell’ultima messa del viaggio, il Papa condanna "questa piaga che ha messo fine a così tante vite". Torna a parlare del procedimento di Pace in Colombia: "Per la riconciliazione non bastano gli accordi tra gruppi politici. Nulla potrà sostituire l’incontro riparatore; nessun processo collettivo ci dispensa della sfida di incontrarci, di spiegarci, di perdonare". La riconciliazione e la pace sono un processo a cui tutti devono partecipare, non bastano gli accordi istituzionali tra gruppi politici, né le clausole normative: "Nulla potrà sostituire l’incontro riparatore; nessun processo collettivo ci dispensa della sfida di incontrarci, di spiegarci, di perdonare". Papa Francesco prima di lasciare la Colombia per far ritorno a Roma celebra messa nell’area portuale del Contecar a Cartagena, città simbolo dei diritti umani perché qui nacque la preoccupazione per alleviare la situazione degli oppressi dell’epoca, essenzialmente quella degli schiavi, per i quali santi come Pietro Claver hanno reclamato il rispetto e la libertà. E nella predica lancia un nuovo appello contro il narcotraffico, condannandolo fermamente, perchè "ha messo fine a tante vite, ed è stato sostenuto da "uomini senza scrupoli". Nell’omelia il Papa ricorda il testo evangelico del pastore buono che lascia le 99 pecore per cercare quella perduta, e ricorda: "Non c’è nessuno talmente perduto che non meriti la nostra sollecitudine, la nostra vicinanza e il nostro perdono. Da questa prospettiva, si capisce dunque che una mancanza, un peccato commesso da uno, ci interpella tutti ma coinvolge, prima di tutto, la vittima del peccato del fratello; costui è chiamato a prendere l’iniziativa perché chi gli fatto del male non si perda". Bisogna "prendere l’iniziativa; chi prende l’iniziativa è sempre il più coraggioso", aggiunge senza leggere il testo scritto. Parole molto significative in una realtà come quella colombiana. "In questi giorni - ha detto Francesco - ho sentito tante testimonianze di persone che sono andate incontro a coloro che avevano fatto loro del male. Ferite terribili che ho potuto contemplare nei loro stessi corpi; perdite irreparabili che ancora fanno piangere, e tuttavia queste persone sono andate, hanno fatto il primo passo su una strada diversa da quelle già percorse. Perché la Colombia da decenni sta cercando la pace e, come insegna Gesù, non è stato sufficiente che due parti si avvicinassero, dialogassero; c’è stato bisogno che si inserissero molti altri attori in questo dialogo riparatore dei peccati". Questo l’insegnamento che Bergoglio trae: "Abbiamo imparato che queste vie di pacificazione, di primato della ragione sulla vendetta, di delicata armonia tra la politica e il diritto, non possono ovviare ai percorsi della gente. Non è sufficiente il disegno di quadri normativi e accordi istituzionali tra gruppi politici o economici di buona volontà". Infatti, "Gesù trova la soluzione al male compiuto nell’incontro personale tra le parti. Inoltre, è sempre prezioso inserire nei nostri processi di pace l’esperienza di settori che, in molte occasioni, sono stati resi invisibili, affinché siano proprio le comunità a colorare i processi di memoria collettiva. L’autore principale, il soggetto storico di questo processo, è la gente e la sua cultura, non una classe, una frazione, un gruppo, un élite. Non abbiamo bisogno di un progetto di pochi indirizzato a pochi, o di una minoranza illuminata o testimoniale che si appropri di un sentimento collettivo". Una sottolineatura importante, quella del Papa, dato che la Colombia è governata da un’élite composta da non più di 300 famiglie, imparentate tra di loro. Bisogna dunque incontrarsi per riparare, dice il Papa e "nulla potrà sostituire questo incontro riparatore; nessun processo collettivo ci dispensa della sfida di incontrarci, di spiegarci, di perdonare. Le ferite profonde della storia esigono necessariamente istanze dove si faccia giustizia, dove sia possibile alle vittime conoscere la verità, il danno sia debitamente riparato e si agisca con chiarezza per evitare che si ripetano tali crimini". Riconciliazione non significa dunque passare sotto silenzio ciò che è avvenuto, né nascondere verità e responsabilità. "Ma tutto ciò - aggiunge - ci lascia ancora sulla soglia delle esigenze cristiane. A noi è richiesto di generare "a partire dal basso" un cambiamento culturale: alla cultura della morte, della violenza, rispondiamo con la cultura della vita, dell’incontro". Come diceva lo scrittore colombiano Gabriel García Marquez, nato proprio a Cartagena, che il Papa cita nuovamente come aveva già fatto nei giorni scorsi: "Questo disastro culturale non si rimedia né col piombo né coi soldi, ma con una educazione alla pace, costruita con amore sulle macerie di un paese infiammato dove ci alziamo presto per continuare ad ammazzarci a vicenda". "Quante volte - osserva Francesco - si "normalizzano" processi di violenza, esclusione sociale, senza che la nostra voce si alzi né le nostre mani accusino profeticamente!... Non possiamo negare che ci sono persone che persistono in peccati che feriscono la convivenza e la comunità". Il Papa li cita: il dramma lacerante della droga, la devastazione delle risorse naturali e l’inquinamento; la tragedia dello sfruttamento del lavoro; i traffici illeciti di denaro e la speculazione finanziaria, la prostituzione "che ogni giorno miete vittime innocenti, soprattutto tra i più giovani rubando loro il futuro", l’abominio del traffico di esseri umani, i reati e agli abusi contro i minori, la schiavitù, la "tragedia spesso inascoltata dei migranti sui quali si specula indegnamente nell’illegalità" e persino, aggiunge Bergoglio, "una "asettica legalità" pacifista che non tiene conto della carne del fratello, la carne di Cristo". Ma prima, parlando a braccio, si è soffermato sul narcotraffico: "Condanno fermamente questa piaga che ha messo fine a così tante vite e che è mantenuta e sostenuta da uomini senza scrupoli. Faccio un appello affinchè finisca il narcotraffico, che solo semina morte dappertutto spezzando tante famiglie". Non è possibile vivere in pace senza saldi principi di giustizia, conclude Francesco, che prega con i colombiani perché si realizzi il motto del viaggio: "Facciamo il primo passo!". E che "questo primo passo sia in una direzione comune. "Fare il primo passo" è, soprattutto, andare incontro agli altri con Cristo, il Signore". Se la Colombia "vuole una pace stabile e duratura, deve fare urgentemente un passo in questa direzione, che è quella del bene comune, dell’equità, della giustizia, del rispetto della natura umana e delle sue esigenze". L’Ue spaventata dai cyber-attacchi si protegge con un fondo e una rete di Carola Frediani La Stampa, 11 settembre 2017 Misure di sicurezza severe e obbligatorie scatteranno giù alla metà del 2018. 300 per cento la crescita di attacchi ransomware nel 2016 rispetto al 2015. Più che una comunicazione, sembra un incitamento. L’Unione europea si è accorta che sulla cyber-sicurezza deve mettersi a correre e sta delineando un piano complessivo per rafforzare le sue difese sul fronte informatico oltre che le sue capacità di risposta e intervento. Lo fa con una comunicazione della Commissione, che potrebbe essere approvata già martedì e di cui La Stampa ha visto una bozza. Di fatto, è un piano ambizioso con l’obiettivo di far ingranare la marcia all’Europa, anche sul piano cyber, prima che sia troppo tardi. Lo scenario di partenza del documento è infatti poco rassicurante: l’impatto economico del cyber-crimine è aumentato di cinque volte tra il 2013 e il 2017, secondo la stessa Commissione. Per di più, il 2016 è stato un anno di svolta, di monetizzazione spinta della criminalità informatica, per citare l’Enisa, l’agenzia europea che si occupa di cyber-sicurezza. L’anno della proliferazione dei "ransomware", i virus del riscatto. Ma anche l’anno di attacchi informatici contro candidati o partiti nel mezzo di campagne elettorali, come avvenuto negli Stati Uniti e in Francia. Le cyber minacce - scrive la Commissione - arrivano da criminali motivati dal profitto ma anche da attori nazionali, con moventi politici. Gli stessi Stati fanno ricorso a strumenti informatici per ottenere i loro obiettivi geopolitici e interferire nei processi democratici. Non solo: preoccupa la proliferazione di software malevoli che possano passare da attori statali a criminali (qui il riferimento è agli episodi di Wannacry e NotPetya, virus potenziati con attacchi rubati all’intelligence Usa). Senza dimenticare la bomba a orologeria dell’internet delle cose, una miriade di oggetti collegati in Rete e particolarmente insicuri. Insomma, le "attività cyber-malevole", come le chiama la Commissione, sono ormai una minaccia per l’economia ma anche per il funzionamento della democrazia. E dunque che fare? Le misure delineate dal documento sono tanto concrete quanto impegnative. A partire dalla realizzazione di un quadro europeo di certificazione dei prodotti e dei servizi tecnologici, in cui la sicurezza sia progettata fin dall’inizio, rafforzando in questo modo sia il mercato interno che la fiducia dei consumatori. Un ruolo centrale al riguardo dovrà essere assunto da una rafforzata Enisa; l’agenzia europea dovrà anche seguire, entro maggio 2018, l’implementazione della direttiva Nis sulla sicurezza delle reti e dell’informazione, la prima legge Ue sulla cyber-sicurezza che finalmente introdurrà una serie di obblighi minimi da parte di settori economici importanti, inclusa la necessità di riferire gli incidenti di sicurezza alle autorità nazionali. Il documento considera anche il lancio di un fondo di emergenza per la sicurezza cui potranno ricorrere gli Stati membri in caso di crisi, a patto che abbiano fatto i compiti, adottando le misure previste dalla direttiva Nis. E poi ancora la creazione di un centro europeo di ricerca e competenza sulla cyber-sicurezza per gestire progetti internazionali sulle prossime sfide tecnologiche - intelligenza artificiale, blockchain, crittografia - con una prima iniezione di 50 milioni di euro. Proprio sulla cifratura l’indicazione è di trasformare l’eccellenza accademica europea in prodotti e servizi, dal momento che una crittografia forte resta alla base di sistemi sicuri, della protezione dei dati e dei diritti fondamentali, scrive la Commissione. Notevole anche il riconoscimento del ruolo dei ricercatori di sicurezza nel rivelare vulnerabilità del software, e la necessità di incentivarli. Sul terreno delle indagini criminali, a inizio 2018 la Commissione farà delle proposte per facilitare l’accesso alle prove elettroniche oltre confine, armonizzando le procedure per le forze dell’ordine e magistrati. Sui minorenni competenze intrecciate tra giudice specializzato e ordinario di Valentina Maglione e Giorgio Vaccaro Il Sole 24 Ore, 11 settembre 2017 La riforma della ripartizione delle competenze giurisdizionali sulla tutela dei minori, divise tra tribunale dei minorenni e tribunale ordinario, è operativa dal 1° gennaio 2013. Ma, in più di quattro anni e mezzo, non sono ancora stati sciolti tutti i nodi interpretativi scaturiti dalla nuova formulazione dell’articolo 38 delle disposizioni attuative del Codice civile, riscritto dalla riforma della filiazione (legge 219/2012). Cosa dice la legge - La nuova disciplina ha, nei fatti, vuotato di competenze "civilistiche" il tribunale per i minorenni, attribuendo al tribunale ordinario la competenza sulle questioni relative all’affidamento e al mantenimento dei figli, nati all’interno o fuori dal matrimonio. Nel dettaglio, l’articolo 38, comma 1, delle disposizioni di attuazione del Codice civile ha individuato in capo al tribunale per i minorenni la competenza a occuparsi dei procedimenti regolati dai seguenti articoli del Codice civile: • articolo 84, competenza all’assenso al matrimonio per i minori; • articolo 90, nomina del curatore speciale per il matrimonio del minore; • articolo 330, decadenza dalla responsabilità genitoriale; • articolo 332, reintegra nell’esercizio della responsabilità genitoriale per esclusione del pregiudizio del figlio; • articolo 333, limitazioni nell’esercizio della responsabilità genitoriale per comportamento pregiudizievole verso il figlio; • articolo 334, inadeguata amministrazione del patrimonio del minore, indicazioni specifiche o rimozione del genitore con nomina di un curatore; • articolo 335, cessazione dei presupposti per la rimozione del genitore/riammissione del genitore all’amministrazione dei beni del minore; • articolo 371 ultimo comma, autorizzazione all’esercizio dell’impresa in capo al minore; • articolo 251, autorizzazione al riconoscimento di un figlio di genitori legati da vincoli di parentela; • articolo 317-bis, disposizioni sul diritto degli ascendenti a mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni. È attribuita invece al tribunale ordinario la competenza a decidere sulle domande di affidamento e oneri di mantenimento dei figli, nati da genitori sposati o no. È poi prevista un’eccezione alla competenza del tribunale dei minorenni: è il giudice ordinario a doversi pronunciare sulle domande in base all’articolo 333 del Codice civile o tese a limitare il pieno esercizio della responsabilità genitoriale, se è in corso di fronte allo stesso giudice una vertenza per separazione o divorzio o per cessazione della convivenza. La giurisprudenza - Le disposizioni introdotte dalla legge 219/2012 hanno destato fermento interpretativo e dibattito in dottrina, non ancora sopiti. Tanto che, anche di recente, i giudici sono intervenuti a chiarire i confini delle competenze del tribunale per i minorenni e del tribunale ordinario. Sia la Cassazione (ordinanza 432 del 14 gennaio 2016 e sentenza 6430 del 13 marzo 2017), sia i giudici di merito (Tribunale di Milano, provvedimento del 30 dicembre 2016) hanno precisato che non sempre l’esistenza di una causa di separazione o di divorzio "attrae" di fronte al tribunale ordinario le domande di decadenza o di limitazione della responsabilità genitoriale. Perché ciò avvenga occorre infatti che il giudizio di separazione o di divorzio sia stato avviato prima dell’azione relativa alla responsabilità genitoriale. Altrimenti, la competenza a decidere sui procedimenti sulla responsabilità genitoriale resta al tribunale per i minorenni. Il giudice specializzato è anche competente a decidere sulla domanda di decadenza presentata insieme alla richiesta di misure regolative della responsabilità genitoriale se la prima è pregiudiziale rispetto alla seconda. La Cassazione (sentenza 17190 del 12 luglio 2017) ha anche precisato che i giudizi sulla responsabilità genitoriale vengono attratti di fronte al tribunale ordinario anche se, al momento della presentazione della domanda, il procedimento di separazione si è già concluso e quello di divorzio non è stato ancora introdotto. E la competenza si concentra in capo al tribunale ordinario anche quando tra i genitori è in corso un procedimento per la determinazione del l’assegno per un figlio nato fuori dal matrimonio (Tribunale di Roma, decreto del 15 luglio 2016). I reati di estorsione e turbata libertà degli incanti possono concorrere di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 11 settembre 2017 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 8 giugno 2017 n. 28388. I reati i di estorsione e turbata libertà degli incanti, previsti, rispettivamente, dagli articoli 629 e 353 del Cp, possono concorrere formalmente, in quanto le due norme infatti hanno diversa obiettività giuridica, tutelando la prima il patrimonio, attraverso la repressione di atti diretti a coartare la libertà di autodeterminazione del soggetto negli atti di disposizione patrimoniale e la seconda la libera formazione delle offerte nei pubblici incanti e nelle licitazioni private. Questo il principio della seconda sezione penale della Cassazione con la sentenza8 giugno 2017 n. 28388. Il concorso dei reati di estorsione e turbata libertà degli incanti - In termini è il consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui i reati di estorsione e di turbata libertà degli incanti possono concorrere formalmente nel caso in cui la condotta materiale e l’elemento soggettivo abbiano in concreto realizzato entrambi i fatti rispettivamente puniti dagli articoli 629e 353 del Cp, dal momento che l’estorsione si caratterizza per una coartazione dell’altrui volontà con lo specifico fine del conseguimento di un ingiusto profitto con altrui danno patrimoniale, mentre il reato di turbata libertà degli incanti si connota invece per il dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di impedire o turbare la gara o allontanarne gli offerenti, e per essere reato di pericolo che si consuma nel momento e nel luogo in cui si è impedita o turbata la gara, senza che occorra né la produzione di un danno né il conseguimento di un profitto. Pertanto, la condotta che realizzi un’estorsione non può in nessun caso considerarsi "assorbita" nel reato di turbata libertà degli incanti, né quest’ultimo può ritenersi consumato nel primo, perché diversi sono i "perimetri" di offensività che le due previsioni (diverse sia per quanto attiene all’elemento soggettivo, sia per quanto riguarda l’evento) mirano a delineare (cfr. Sezione II, 25 novembre 2011, Vitello; nonché, Sezione II, 25 settembre 2003, Ciserani). La Corte, con l’occasione, prende espressamente le distanze dalla isolata pronuncia la quale, invece, sul presupposto che il reato di turbata libertà degli incanti ha natura pluri-offensiva, tutelando la norma di cui all’articolo 353 del Cp non solo la libertà di partecipare alle gare nei pubblici incanti, ma anche la libertà di chi vi partecipa a influenzarne l’esito, secondo la libera concorrenza e il gioco della maggiorazione delle offerte, aveva sostenuto che tale delitto non potesse concorrere, in base al principio di specialità di cui all’articolo 15 del Cp, con quello di estorsione, con la conseguenza che quest’ultimo deve ritenersi assorbito nel primo (cfr. Sezione VI, 3 marzo 2004, PM in proc. Del Regno). Sì ai controlli sulle e-mail solo se il lavoratore è informato di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 11 settembre 2017 Il contenuto delle e-mail del lavoratore è off limits per il datore di lavoro. O quasi. La Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo, con la decisione del 5 settembre 2017 resa nel procedimento n. 61496/08, ribalta la decisione della stessa Corte del 2016 e ravvisa la violazione della privacy del lavoratore se la legge dello stato non rispetta alcuni parametri così sintetizzabili: no a controlli a tappeto, sì a verifiche mirate e per motivi giustificati e solo dopo aver informato i dipendenti delle possibili verifiche. La prima decisione riformata. Anche per la prima sentenza (Corte Europea dei diritti dell’uomo, sentenza del 12 gennaio 2016, resa nella causa 61496/08) la casella e-mail del lavoratore era controllabile dal datore di lavoro, ma solo a certe condizioni. La Corte aveva respinto il ricorso di un ingegnere romeno, che si era lamentato della violazione della sua riservatezza a causa della lettura da parte del datore di lavoro delle sue comunicazioni personali effettuate con la e-mail aziendale per fini personali, in orario di lavoro. L’ingegnere era stato licenziato per inadempimento degli obblighi lavorativi. Nel caso specifico l’impresa aveva informato i dipendenti delle condizioni d’uso della posta elettronica aziendale, che non ne consentivano l’utilizzo per fini personali. Inoltre il monitoraggio delle e-mail era stato limitato nel tempo e nell’oggetto, e anche strettamente proporzionato allo scopo di provare l’inadempimento contrattuale del lavoratore. L’accesso alle e-mail del lavoratore da parte datoriale era stato fondato sul presupposto della natura professionale del contenuto delle comunicazioni e l’identità degli interlocutori del lavoratore non era stata rivelata in sede giurisdizionale. Inoltre l’azienda non aveva utilizzato il contenuto delle comunicazioni, limitandosi a constatare il carattere personale delle e-mail inviate nell’orario di lavoro, con conseguente riduzione della produttività del dipendente). I controlli sono risultati previsti dalla regolamentazione aziendale interna, di cui erano consapevoli i lavoratori, strettamente proporzionati e non eccedenti lo scopo di verifica dell’adempimento contrattuale. Sono stati mirati e non massivi e ragionevoli, poiché innescati da altre notizie relative a inadempimento contrattuale. A queste condizioni, ha detto in un primo momento la Cedu, si realizza un equo bilanciamento (fair balance) tra il rispetto della vita privata del lavoratore e gli interessi aziendali. La seconda decisione. La Gran Camera, nella sentenza del 2017, ha concluso che il tribunale nazionale, nel valutare la decisione del datore di lavoro di licenziare il dipendente, dopo il monitoraggio delle sue comunicazioni elettroniche, ha sbagliato a bilanciare gli interessi in gioco, in particolare il diritto del lavoratore al rispetto della propria vita privata e della propria corrispondenza, da un lato, e dall’altro lato il diritto del datore di lavoro di adottare misure tese al buon andamento dell’impresa. Il tribunale non ha appurato se il dipendente avesse avuto preventiva informazione da parte del datore di lavoro in ordine alla possibilità di monitoraggio della propria corrispondenza. Non c’è stata alcuna informazione sulla natura e sull’oggetto del monitoraggio e, in particolare, sulla possibilità che il datore di lavoro avrebbe potuto avere accesso al contenuto dei messaggi di posta elettronica. Per valutare la legittimità del controllo occorre rispettare il principio di finalità, il principio di proporzionalità (per assicurare una minore invasione nella vita privata e nella corrispondenza del dipendente) e di trasparenza (il lavoratore deve sapere preventivamente se le comunicazioni possano controllate a sua insaputa del lavoratore). Conseguentemente è stato violato il diritto del lavoratore al rispetto della propria vita privata e della propria corrispondenza. La sentenza della Grande Camera cambia rispetto alla precedente per la quantità e il dettaglio delle informazioni dovute al lavoratore. Non basta avvisare della destinazione della e-mail alle sole esigenze di servizio, ma bisogna entrare nel dettaglio delle modalità di controllo. La pronuncia della Grande Camera, a questo punto, significa che i datori di lavoro non possono controllare le comunicazione dei dipendenti quando sorge il sospetto che usino internet al lavoro per scopi private? La pronuncia della Gran Camera non implica questo e non significa che i datori di lavoro non possano, in alcune circostanze, monitorare le comunicazioni dei lavoratori o che i datori non possano licenziare i dipendenti per uso di internet al lavoro per scopi privati. Tuttavia la Corte ritiene anche che gli stati devono garantire che quando un datore di lavoro utilizza strumenti di controllo delle comunicazioni dei dipendenti, queste misure devono essere accompagnate da garanzie adeguate contro ogni abuso. Le circostanze da verificare sono molteplici. In primo luogo va vagliato se il datore di lavoro abbia fornito preventive informazioni sulla possibilità di controllo della corrispondenza e delle comunicazioni. Le modalità di controllo devono essere note a riguardo dell’ampiezza del monitoraggio e del livello di ingerenza nella privacy del lavoratore. A questo scopo, una distinzione va fatta tra monitoraggio del flusso delle comunicazioni e monitoraggio del loro contenuto. Bisogna considerare, infatti, se tutte le comunicazioni o solo parti di esse siano controllare, così come se il monitoraggio sia limitato a un periodo ristretto e il numero di persone che possano consultare i dati. È onere del datore di lavoro indicare legittime ragioni per giustificare il monitoraggio delle comunicazioni e del loro contenuto. Il controllo del contento è una condotta più invasiva e quindi richiedere una più pesante giustificazione. Il datore di lavoro deve confrontare le varie opzione e scegliere un sistema di monitoraggio meno invasivo, diverso dall’accesso diretto alle comunicazioni del lavoratore. Le precauzioni dovrebbero essere assunte in concreto alla luce delle circostanze caso per caso. Inoltre le conseguenze del monitoraggio sul lavoratore e l’uso fatto dal datore di lavoro deve corrispondere alle finalità dichiarate. Infine va valutato se sono state adottate garanzie adeguare e in particolare la precauzione che inibisce al datore di lavoro di conoscere il contenuto delle comunicazioni. Puglia: i Radicali e l’emergenza carceri "754 detenuti in sciopero della fame" La Repubblica, 11 settembre 2017 L’iniziativa nonviolenta, che consiste nel digiuno, nello sciopero della spesa e nel rifiuto del carrello, è stata organizzata per richiedere al più presto l’attuazione della riforma dell’ordinamento penitenziario. "Sono 754 al momento i detenuti pugliesi che hanno aderito al Grande Satyagraha del Partito radicale: iniziativa nonviolenta che consiste nel digiuno, nello sciopero della spesa e nel rifiuto del carrello, con l’obiettivo di richiedere al più presto l’attuazione della riforma dell’ordinamento penitenziario. Nello specifico: 484 a Foggia, 94 a Bari, 176 a Lecce. In tutta Italia gli aderenti sono 8.000". Lo afferma in una nota Rita Bernardini, componente della presidenza del Partito radicale, in concomitanza con l’arrivo in Puglia della Carovana della Giustizia che dopo Calabria, Sicilia e Sardegna, dall’11 al 19 settembre arriva in Puglia sui iniziativa del Partito radicale e dell’Unione delle camere penali italiane. Fanno parte della Carovana una decina di militanti e dirigenti del Partito radicale, tra cui la stessa Bernardini e Sergio D’Elia, segretario di Nessuno tocchi Caino, il quale ha spiegato che l’iniziativa tocca Foggia e poi in tutte le province pugliesi, con ingressi in tutti gli altri istituti di pena della regione: San Severo, Lucera, Trani, Turi, Bari, Brindisi, Taranto, Lecce". Ecco gli obiettivi della Carovana: "Raccolta firme sulla proposta di legge delle Camere penali per la separazione delle carriere dei magistrati; amnistia e indulto, premessa indispensabile per una Giustizia giusta; superamento di trattamenti crudeli e anacronistici come il regime del 41 bis e il sistema dell’ergastolo, a partire da quello ostativo; approvazione dei decreti delegati della riforma dell’ordinamento penitenziario; 3.000 iscritti al Partito radicale entro il 31 dicembre 2017 per continuare le lotte di Marco Pannella". Abruzzo: dossier carceri della Uil-Pa "Regione sempre più maglia nera" giulianovanews.it, 11 settembre 2017 Quello che sta accadendo ai danni degli operatori penitenziari nelle carceri italiane non ha eguali nella loro storia. A questo triste primato non si sottrae nemmeno quella che fino a qualche tempo fa era ritenuta quasi una zona franca da questo punto di vista: l’Abruzzo. Non si contano più le aggressioni, le risse e quant’altro relega i numeri penitenziari a veri e propri bollettini di guerra. Tutte le province sono state indistintamente interessare da eventi critici e tuttora continuano ad esserlo. È notizia di pochi giorni fa l’aggressione subita da un assistente capo in quel di Lanciano ad opera di un detenuto energumeno. Al poliziotto oltre alle botte ricevute è stato sottratto anche il ferro per la battitura delle inferriate autentica arma bianca se utilizzato in maniera impropria. Restando in provincia di Chieti, proprio nel carcere del capoluogo, nel mese di luglio, un detenuto di origine africana ha aggredito con inaudita violenza due baschi blu i quali, per le ferite riportate, sono dovuti ricorrere alle cure del locale pronto soccorso ed ancora non rientrano in servizio. Un’altra aggressione è avvenuta, invece, l’8 agosto e sempre nel reparto dove era ubicato il recluso di origine senegalese. Qui il detenuto ha aggredito vari colleghi. Di questi 3 sono ricorsi alle cure del locale pronto soccorso. La loro prognosi al momento è di 30gg. anche se temiamo ne saranno molti di più. Pescara e Teramo sembrano essere divenuti un rifugio peccatoris. In entrambe la case circondariali, infatti, stanno aumentando in maniera preoccupante il numero di soggetti psicotici ed extra comunitari. Con essi non è detto che non aumenti ancor di più la probabilità di violenti attacchi nei confronti degli operatori penitenziari. Tra l’altro è storia recente lo spappolamento della mandibola subita da un sovrintendente nel carcere pescarese proprio per mano di un soggetto con problemi psichiatrici. A Teramo è sempre più drammatica la problematica legata alla carenza di personale femminile di polizia penitenziaria. Qui il divario amministrativo prodotto dal Provveditorato regionale è pressoché evidente visto che le donne della penitenziaria abbondano negli istituti di Pescara e Sulmona. Anche il personale maschile difetta in numero. Per questo motivo quotidianamente viene richiamato in servizio dal riposo o congedo. Inoltre a Teramo sono stati assegnati (in particolar modo dal Lazio) molti detenuti/e con problematiche psichiche difficili da gestire nonché molti extracomunitari. Addirittura a Teramo sono giunte diverse detenute con problematiche psichiche e con il divieto d’incontro tra loro. Tenendo conto che il perimetro della sezione femminile non è esteso risulta inevitabilmente complicata la loro gestione. Se nelle province di Chieti, Pescara e Teramo le cose non vanno bene, in quella aquilana non vanno certo meglio. L’aggressione subita dal medico nel super carcere di Sulmona circa un mese fa ha visto il trasferimento del detenuto in altro carcere e la comminazione allo stesso della c.d. sorveglianza particolare ex art. 14 bis L. 354/75. Questo è segno che l’amministrazione penitenziaria ha in questo caso operato più che bene. Purtroppo la stessa cosa non si può dire l’abbia prodotta nel campo dell’amministrazione della pianta organica di polizia penitenziaria. Per questo motivo e per la sordità dimostrata in occasione dei reclami all’uopo predisposti, tutte le Organizzazioni sindacali di categoria hanno sospeso le relazioni sindacali con la Direzione del carcere. La prima conseguenza ci sarà domani in occasione della convocazione ricevuta per contrattare la riorganizzazione del lavoro del penitenziario peligno ed al cui tavolo tutte le OO.SS non siederanno. Ad Avezzano, invece, sta accadendo quello che tutti temevano. Sempre di più sono gli arrestati condotti nella struttura fucinense. Ciò contrasta in maniera forte e determinante con la caratteristica del circuito ad esso assegnato. come è risaputo, infatti, il circuito di pertinenza al carcere avezzanese è quello della custodia attenuata. Per tale motivo venne attivata la sorveglianza dinamica e giustificata la riduzione, mai condivisa, dell’organico di polizia penitenziaria. Il fatto che ivi vengano assegnati arrestati sottoposti a isolamento giudiziario o, nella peggiore delle ipotesi, a sorveglianza a vista distrugge ancor più quel sottile equilibrio che, seppur in condizioni precarie, è riuscito a garantire un minimo di diritti soggettivi al personale. Il carcere dell’aquila continua a recriminare la mancanza di sottufficiali da utilizzare nelle postazioni di video conferenza. Considerare critica la situazione delle carceri abruzzesi non è quindi un eufemismo. Questo stato di cose lo grideremo ad alta voce nella manifestazione nazionale che si terrà dinanzi il ministero della giustizia il 19 settembre prossimo in occasione del bicentenario della nascita del Corpo di Polizia penitenziaria. D’altronde cosa c’è da festeggiare? Mauro Nardella, Vice Segretario Regionale Uil-Pa Polizia penitenziaria San Gimignano (Si): omicidio in carcere, detenuto uccide compagno di cella Corriere Fiorentino, 11 settembre 2017 I due erano soli: un ventiduenne rumeno condannato per omicidio, ha ucciso un suo connazionale cinquantaseienne con uno sgabello di legno. L’allarme del garante per i detenuti: quel penitenziario è senza direttore, situazione con molti problemi. Omicidio tra le sbarre nel carcere di San Gimignano: a seguito di un violento litigio tra due detenuti romeni, uno ha ammazzato l’altro con uno sgabello di legno. Lo rende noto il sindacato di polizia penitenziaria Sappe sottolineando che "le carceri sono sempre più ingovernabili". Il detenuto ucciso dal suo compagno di cella. Romeno, era nato nel 1961 ed era un ergastolano in carcere per omicidio. Originario della Romania anche il compagno che lo ha ucciso. I due erano in cella da soli. Il romeno che ha aggredito e ucciso il suo compagno di cella, più giovane della vittima, è invece detenuto per tentato omicidio e ha un fine pena nel 2030. L’omicida si trova in cella di isolamento in attesa di essere ascoltato dalla Procura di Siena. Secondo quanto si apprende si tratterebbe di un 22enne detenuto per omicidio. Il fatto è avvenuto intorno alle 19,30 di sabato. Ancora non è chiaro il motivo dell’alterco e tra i due che condividevano la cella non risulterebbero litigi pregressi. Il garante: struttura con molti problemi e senza direttore - "Nel carcere di San Gimignano, che è classificato ad alta sicurezza, non c’è un direttore: è la direttrice di Grosseto che copre anche questa funzione recandosi presso la struttura un paio di volte a settimana. È una situazione che ho denunciato più volte e non è isolata. A Sollicciano è lo stesso, c’è un direttore a mezzo servizio, per così dire, che da Parma viene a Firenze". È quanto denuncia il Garante dei detenuti della Toscana, Franco Corleone. "Nel carcere di Livorno - sottolinea il garante - poco tempo fa era successo un fatto simile, anche se non c’erano stati morti, e un detenuto aveva spaccato la testa a un compagno con lo sgabello. Da tempo denuncio il fatto che gli sgabelli, che pesano 10 chili, in carcere sono pericolosi. Sono inutilmente afflittivi, perché non consentono un appoggio per la schiena, e proprio perché afflittivi vengono utilizzati, ma per di più mettono a rischio la sicurezza. Quanto al carcere di San Gimignano, è una struttura con molti problemi. Non c’è acqua potabile e deve essere costantemente approvvigionato con acqua minerale. Quando piove, spesso saltano i collegamenti telefonici. Tra l’altro per parecchio tempo - aggiunge Corleone - il sistema penitenziario della Toscana è stato senza un provveditore regionale ad hoc, perché Giuseppe Martone aveva l’incarico anche per la Campania. Ora pochi giorni fa il ministero, dopo che ho praticamente minacciato uno sciopero della fame, ha nominato un provveditore, Antonio Fullone, che però prenderà servizio il primo ottobre". Ancona: il numero dei detenuti sale a 299, carcere di Montacuto al limite anconatoday.it, 11 settembre 2017 Proteste dei detenuti, agenti finiti in ospedale e l’assenza di politica penitenziaria che dura da mesi. Ma dopo l’aggressione avvenuta sabato mattina, arriva la reazione dei sindacati. In particolare quella del Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria) che rivela come proprio martedì scorso fossero stati in visita al carcere di Montacuto il Garante dei Detenuti Andrea Nobili e il deputato del Partito Democratico, l’Onorevole Emanuele Lodolini ai quali proprio il segretario del Sappe Nicando Silvestri chiedere di rendere pubbliche le impressioni riscontrate nelle visita istituzionale e poi lancia lo stato di agitazione attraverso una nota stampa: "Il Sappe dice basta. Questa vile e ingiustificata aggressione ha fatto traboccare il vaso. Ci rivolgeremo a tutti gli organi proposti chiedendo di valutare se sussistono gli estremi di reato e danno erariale a seguito della politica penitenziaria intrapresa dall’amministrazione penitenziaria a Montacuto. Come Sappe informeremo l’amministrazione dell’indizione dello stato di agitazione con richiesta immediata di risoluzione del sovraffollamento perché ad oggi a Montacuto ci sono 299 detenuti contro i 250 di capienza regolamentare, con lo smantellamento della 5° branda nella cella. Chiediamo l’invio urgente di almeno 10 agenti e il pagamento del lavoro straordinario e del servizio di missione". Sulla questione interviene anche l’Uil-Pa di Polizia Penitenziaria che, sempre in riferimento ai 3 agenti feriti nel carcere, fa sapere che "quello si sabato mattina è stato un episodio che aggrava ancora di più la già drastica situazione dell’istituto anconetano di Montacuto, per cui abbiamo chiesto una convocazione urgente al Provveditore Regionale Emilia Romagna e Marche". Bari: "riformiamo il sistema penitenziario", sciopero della fame per 94 detenuti baritoday.it, 11 settembre 2017 L’iniziativa, promossa dal Partito Radicale, ha già visto 754 adesioni in Puglia. Dall’11 al 19 settembre la Carovana della giustizia farà tappa nelle province pugliesi. Digiuno, sciopero della spesa e rifiuto del carrello: i detenuti del carcere di Bari si preparano ad accogliere la proposta del Partito Radicale di una protesta non violenta per richiedere una riforma del sistema penitenziario italiano. Come il leader dello schieramento politico ha fatto per anni, anche 94 persone rinchiuse nella casa circondariale barese si priveranno del cibo per sostenere la raccolta firme sulla proposta di legge delle Camere Penali per la separazione delle carriere dei magistrati, sull’amnistia e indulto, per il superamento del regime del 41 bis e del sistema dell’ergastolo e per l’approvazione dei decreti delegati della riforma dell’Ordinamento Penitenziario. La protesta non violenta sarà ripetuta poi dai detenuti del carcere di Foggia (484) e di Lecce (176). A partire da domani, inoltre, il Partito Radicale porterà in Puglia la Quarta Carovana della Giustizia, che già ha fatto tappa in Calabria, Sicilia e Sardegna. "La Carovana farà la prima tappa - spiega Sergio D’Elia, segretario dell’associazione Nessuno Tocchi Caino - a Foggia l’11 settembre: in mattinata ci sarà la proiezione del docu-film Spes contra Spem, con la regia di Ambrogio Crespi, all’Istituto Tecnico Economico Blaise Pascal e poi visita nel carcere foggiano; proseguirà poi in tutte le province pugliesi, con ingressi in tutti gli altri istituti di pena della regione: San Severo, Lucera, Trani, Turi, Bari, Brindisi, Taranto, Lecce". Firenze: Camera Penale "i problemi delle carceri non si risolvono chiudendo le celle" Ristretti Orizzonti, 11 settembre 2017 E' di ieri la notizia dell'aggressione ai danni di un agente della polizia penitenziaria nel carcere di Firenze - Sollicciano. Il Sindacato degli agenti, per bocca del suo segretario nazionale, denuncia: "il sistema delle carceri non regge più ... i 'professori' che conoscono il carcere solamente sui libri devono capire che le celle devono stare chiuse". All'agente aggredito, ai suoi colleghi ed al sindacato va la solidarietà della Camera Penale di Firenze, che ben conosce la realtà autentica e viva delle carceri italiane, e di Sollicciano in particolare, e le condizioni critiche in cui operano gli agenti della Polizia Penitenziaria. Non possiamo non concordare con il segretario del Sappe circa il conclamato fallimento dell'attuale sistema carcerario, e siamo certi che l'invettiva contro i "professori" ed il richiamo alla necessità che le celle rimangano chiuse derivino dallo sconforto nel constatare come perduri il disinteresse delle Istituzioni verso le condizioni del carcere, e verso coloro che in esso vivono (detenuti e agenti); l'assenza di interventi efficaci di profonda riforma del carcere è alla radice anche degli incidenti del tipo di quello che è accaduto. Tuttavia, proprio perché sappiamo di non poter essere annoverati tra i professori ignari della realtà dei penitenziari, ci permettiamo di osservare come la soluzione proposta dal segretario del Sappe non sia né opportuna né adeguata: abbiamo pubblicamente sostenuto, e torniamo a sostenere la necessità dell'apertura delle celle all'interno dei reparti, al fine di contrastare lo stress subito dalle persone detenute in una struttura sovraffollata e fatiscente come il carcere di Sollicciano. Peraltro, chi - come noi - il carcere lo conosce, sa che la 'apertura delle celle' si risolve esclusivamente nella possibilità per i detenuti di avere a disposizione, oltre all'angusto ed ammuffito (in senso proprio) spazio della cella, appena un metro di spazio in più nel corridoio antistante. E, d'altra parte, non sarà sfuggito come nell'episodio fiorentino in soccorso dell'agente aggredito siano intervenuti, oltre a suoi colleghi, anzitutto gli altri detenuti, che nessun soccorso avrebbero potuto prestare se fossero stati chiusi in cella. Tornare all'idea di un carcere quale mero luogo di "chiusura", in pressoché totale assenza della possibilità di lavorare o di svolgere altre attività di formazione e di recupero, costituirebbe un pericoloso passo indietro, capace di annientare in un battito d'ali i risultati di una faticosa evoluzione culturale, e non risolverebbe comunque i problemi autentici dell'istituzione penitenziaria. Per il Direttivo della Camera Penale Il referente dell'Osservatorio carcere, Avv. Luca Maggiora Messina: Ferri in visita al carcere "struttura in linea con standard e parametri europei" mm-com.it, 11 settembre 2017 Nella giornata di ieri il Sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri si è recato in visita presso la Casa Circondariale di Messina. A margine della visita Ferri (Sottosegretario al Ministero della Giustizia) ha dichiarato: "ho trovato una struttura in linea con tutti gli standard e i parametri richiesti dall’Europa, dalla nostra legislazione, nel rispetto dei diritti dei detenuti, tanti spazi, aree per la socialità, attività. La struttura è migliorata anche grazie al lavoro egregio di tutto il personale che si sta compiendo all’interno, al quale va il mio sincero ringraziamento e la mia gratitudine. In particolare, ritengo sia da sottolineare l’importante lavoro svolto dalla squadra Mof nell’area verde all’interno della struttura, realizzata in economia e grazie alla collaborazione attiva anche di alcuni detenuti, e nei piani primo e secondo della sezione cellulare che permetteranno al termine dei lavori, anch’essi realizzati in economia, di avere ben settanta posti in più rispetto alla capienza precedente. Si tratta di interventi fondamentali per migliorare le condizioni delle strutture, creare ambienti più adeguati ai percorsi di rieducazione e permettere anche agli operatori di lavorare in un luogo più congruo. La situazione di sovraffollamento deve trovare risposta anche attraverso un migliore utilizzo delle risorse e degli spazi a disposizione, anche attraverso un maggiore coinvolgimento attivo dei detenuti, come sta avvenendo positivamente all’interno di questa struttura. Confidiamo che l’area dedicata all’attività operatoria chirurgica possa essere utilizzata quanto prima perché le strumentazioni sono a norma e revisionate e le stanze pronte ad essere utilizzate. In questo senso, abbiamo chiesto all’Asp di riprendere l’utilizzo a breve e sono certo che possa trattarsi di una importante occasione anche per garantire un servizio sanitario all’interno della struttura". Migranti. Ius Soli, appello di intellettuali e artisti per la legge La Repubblica, 11 settembre 2017 Intellettuali e artisti scrivono al Colle e alle Camere: "Patria è dove trovi pace e rifugio". Zanda (Pd): "Il Senato può approvarla tra il Def e la legge di Stabilità, ma serve una maggioranza". Mancano garanzie sui voti centristi. "Potrebbe esserci una finestra parlamentare ad ottobre per approvare lo ius soli dopo il Def e prima della legge di Stabilità". Luigi Zanda, il capogruppo del Pd al Senato, apre uno spiraglio, alla vigilia della riunione dei capigruppo di domani che deciderà il calendario dei lavori d’aula. Una via di mezzo tra il rinvio a data da destinarsi (magari mai) come vorrebbe la destra, e soprattutto la Lega, e l’accelerazione chiesta da Mdp e Sinistra italiana. E intanto si moltiplicano gli appelli. L’ultimo in ordine di tempo è quello indirizzato ai cittadini italiani e al capo dello Stato, Sergio Mattarella, ai presidenti di Senato e Camera, Pietro Grasso e Laura Boldrini. È un invito a non escludere gli 800 mila bambini figli di immigrati regolari e nati in Italia: "Oggi la patria è dove trovi pace e rifugio, è quella che rende possibile una convivenza civile. Le guerre, le occupazioni, le intolleranze, gli abusi, le violenze stanno rendendo la nostra terra inabitabile a intere popolazioni costrette alla fuga. La patria è dove ti puoi fermare. È in questa luce che la cittadinanza cambia aspetto e dal diritto di sangue si apre al diritto del suolo… il nuovo principio dice che un bambino che nasce e cresce in Italia, che parla italiano e studia italiano, è italiano. È il vivere insieme e parlare una stessa lingua che ci rende concittadini". A promuovere l’appello Ginevra Bompiani, Gianfranco Bettin, Carlo Ginzburg, Goffredo Fofi, Luigi Manconi, Furio Colombo ma sono quasi un centinaio le adesioni di artisti come Moni Ovadia, Franca Valeri e intellettuali da Walter Siti a Emanuele Trevi, Valerio Magrelli. Tutti gli aggiornamenti si trovano sul sito appelloiussoli.wordpress.com La legge sullo ius soli è stata già approvata dalla Camera due anni fa ma la discussione nell’aula del Senato si è bloccata a giugno scorso dopo una rissa in cui rimase contusa la ministra dem Valeria Fedeli. I leghisti hanno presentato e intendono mantenere 40.408 emendamenti. Zanda avverte che prima di tutto va sbrogliato il nodo politico: "Deve esserci una maggioranza, altrimenti metteremmo a rischio il Bilancio dello Stato". Si tratta insomma di avere garanzie da Alfano e dal suo partito Ap sul voto di fiducia inevitabile visto l’ostruzionismo della Lega. Basterebbe che la maggioranza dei senatori alfaniani votasse a favore - ragiona Zanda - e ci sarebbero così i numeri per approvare definitivamente lo ius soli. I 5Stelle hanno annunciato l’astensione. Migranti. La scommessa di "Ero straniero", 20mila firme in cinquanta giorni di Zita Dazzi La Repubblica, 11 settembre 2017 Rush finale per la campagna "Ero straniero", raccolta di firme a sostegno della legge di iniziativa popolare per superare la Bossi-Fini e consentire ai migranti un canale d’ingresso legale in Italia. Sono 30mila le firme raccolte - un terzo a Milano - altre 20mila servono entro fine ottobre. Per questo i promotori lanciano la mobilitazione con una serie di eventi presentati mercoledì da don Virginio Colmegna, Giorgio Gori e Emma Bonino alla Casa della carità. Hanno firmato uomini di spettacolo e intellettuali, sessanta sindaci e migliaia di cittadini. Hanno messo i banchetti lungo i percorsi delle manifestazioni, nelle sedi sindacali, in quelle delle anagrafi. E adesso, come in una corsa, dove conta anche lo sprint finale, comincia l’ultimo sforzo per raggiungere l’obiettivo delle 50mila firme per poter presentare al Parlamento il testo di una legge che consenta ai migranti di entrare in Italia con un percorso legale, evitando di cadere nel reato di clandestinità, di finire in un centro di espulsione, di essere respinti semplicemente perché non è stata una guerra, ma la fame a spingere al viaggio. Le firme già raccolte sono 30mila, un terzo delle quali proprio a Milano, dove la campagna fu lanciata poco prima della grande marcia antirazzista del 20 maggio scorso. C’è un mese e mezzo di tempo per raccoglierne altre 20mila, senza le quali la legge non potrà essere nemmeno presentata. Con un’iniziativa alla Casa della carità - uno degli enti promotori - riparte dunque in quarta la campagna "Ero straniero", lanciata la primavera scorsa da gente come Emma Bonino, Giorgio Gori e don Virginio Colmegna. Saranno loro i protagonisti di una mattinata di confronto in via Brambilla 10 a Crescenzago, mercoledì, dove si parlerà ancora di superare la legge Bossi - Fini che incredibilmente ancora è l’unica vigente su quel tema in continua evoluzione che è l’immigrazione. Secondo quella vecchia legge risalente ai tempi dei governi Berlusconi, in Italia non ci dev’essere un canale di ingresso legale. Erano stati aboliti anche i "flussi", cioè le quote di lavoratori stranieri ammessi annualmente nel Paese. Ora c’è una proposta alternativa, studiata dai tecnici e dai legali delle tante sigle che hanno scritto la nuova proposta di legge (oltre alla fondazione diretta da Colmegna, anche Radicali, Acli, Arci, A buon diritto, Cnca, Astalli, Asgi e Cild), una normativa che consentirebbe il rispetto dei diritti e un’integrazione vera di chi migra, a partire dal riconoscimento della cittadinanza per chi nasce in Italia. Per raccogliere le firme, Casa della carità resterà aperta tutta l’ultima settimana del mese, con un grande spettacolo la sera del 30 per attirare ancora più gente. Sabato prossimo, dalle 13, chi vuole firmare potrà andare anche all’Isola Pepe Verde, in via Guglielmo Pepe 10 (Mm Garibaldi). Qui si terrà un evento con vari testimonial. Da Pap Khouma, scrittore italiano nato in Senegal, le cui storie partono dall’Africa e arrivano all’Europa, travalicando i confini fisici e linguistici, a Zanko El Arabe Blanco, rapper milanese con genitori siriani, che con le sue rime in italiano e in arabo racconta cosa vuol dire sentirsi un cittadino del mondo. "È un appuntamento importante perché i protagonisti saranno cittadini di origine straniera membri attivi della nostra comunità. Milanesi, che portano ricchezza e vivacità culturale, che ci contaminano, che rendono la nostra società meticcia e piena di nuove energie", spiega don Colmegna. Sulla pagina Facebook Ero straniero tutti gli indirizzi dove si può firmare. Le tasse eluse dai colossi del web valgono un terzo della manovra di Roberto Petrini La Repubblica, 11 settembre 2017 Il malloppo che sottraggono al fisco italiano è ingente: la Commissione Bilancio della Camera lo valuta in 30-32 miliardi di base imponibile, che in termini di gettito significa per lo Stato 5-6 miliardi in meno ogni anno. Insomma, circa un terzo della manovra finanziaria per il 2018, che si aggirerà sui 12-15 miliardi. Se il mondo delle web company uscisse dal Far West fiscale, si potrebbe dunque fare a meno di un bel pezzo della legge di Bilancio del prossimo anno. Ma come fanno i giganti del web, da Amazon a Facebook, ad eludere le tasse? La ricetta si compone di tre elementi: un certo disprezzo delle regole come se questi soggetti potessero collocarsi al di sopra degli Stati e del fisco; la mancanza di una legislazione italiana compiuta; l’assenza di un trattato internazionale (dovuta soprattutto alle resistenze Usa) cui l’azione del nostro ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, unita ad altri partner europei, sta cercando di far fronte. In mezzo a questo caos le web company fanno agilmente lo slalom tra due paletti: il pagamento della tassa sui profitti (in Italia l’Ires) e di quella sulle transazioni (nello specifico l’Iva). L’elusione della tassa sui profitti è risolta abbastanza agevolmente da tutte le società, al di là della specializzazione merceologica o di business. La chiave è la cosiddetta “stabile organizzazione”: i codici internazionali del fisco prevedono che una multinazionale debba pagare le tasse sui profitti in un paese dove fa affari ed opera se ha in quel paese una “stabile organizzazione”, cioè un certo numero di dipendenti, una organizzazione commerciale, degli uffici o linee di produzione. Altrimenti può continuarle a pagare nella propria sede legale e fiscale che, solitamente, è collocata in Irlanda, Olanda o in Lussemburgo dove le aliquote sono meno della metà che da noi. Così fanno società come Facebook, Twitter, Airbnb, Uber, Amazon, mentre Google, recentemente, dopo un patteggiamento con il fisco, si è autonomamente adeguata alla legge italiana. L’Agenzia delle entrate dovrebbe dimostrare che l’attività italiana di queste aziende è “stabile” ed “organizzata”, nonostante la mancanza di personale e uffici, ma la battaglia legale è spesso perdente perché in Italia queste società hanno un spesso solo un server, un portale e una segretaria. Per questo il codice europeo chiesto da Italia, Germania, Francia e Spagna e taglierebbe la questione alla radice: anche senza sede fisica, se c’è il business, le tasse dovranno essere pagate dove si opera. Il surf più pericoloso avviene invece sull’Iva: mentre per le tasse sui profitti c’è una legislazione incerta, sull’Iva i margini sono minori. Tant’è che proprio le tasse sulle vendite di pubblicità e la mancata fatturazione hanno consentito alla Procura di Milano di avviare le indagini che hanno investito a vari livelli Google, Amazon e Facebook. Le web company infatti sono allergiche alle tasse sugli scambi: vendono prodotti diversi, Facebook la pubblicità, Amazon libri e beni di consumo, Airbnb servizi di affitto. Ma quando arriva un libro a casa basta verificare: la fattura e l’Iva italiane non ci sono, il loro posto è preso da un analogo documento lussemburghese. Naturalmente le società sostengono di stare nel lecito, ma spesso i beni acquistati partono dalle stesse aziende italiane produttrici, o dai magazzini sparsi nella Penisola, e viaggiano senza fattura. Il Parlamento, anche grazie alla battaglia del presidente della Commissione Bilancio della Camera Francesco Boccia, ha cercato di far pagare le tasse alle web company. Avvenne nel 2013 con un esperimento di web tax sul quale il governo Renzi fece subito retromarcia. Così in attesa di una legislazione internazionale sulla “stabile organizzazione” si cerca di far emergere la presenza in Italia del business con ogni mezzo: ad esempio da quest’anno Airbnb e booking.com sono state costrette ad esercitare il ruolo di sostituti d’imposta per conto dello Stato e riscuotere così le tasse dai proprietari degli appartamenti utilizzati per affitti brevi. Un modo per monitorare anche i profitti e il fatturato delle società di servizi immobiliari e turistici. E poi tassarli. Egitto. Rilasciato su cauzione il turista italiano arrestato ad agosto La Repubblica, 11 settembre 2017 Ivan Pascal De Leonardis era detenuto dopo una lite con un responsabile dell’albergo in cui soggiornava a Marsa Alam, poi deceduto perché cardiopatico. Dovrà rimanere nel Paese nordafricano fino al giudizio. È stato rilasciato dietro pagamento di una cauzione di 100 mila lire egiziane (poco meno di 5 mila euro) Ivan Pascal De Leonardis, il turista italiano arrestato ad agosto a Marsa Alam, sul Mar Rosso, dopo una lite con un responsabile dell’albergo in cui soggiornava, un egiziano cardiopatico poi deceduto. Lo riporta il sito di Al-Masry Al Youm. Il console onorario italiano a Hurghada, Alberto Pratini e il legale presso l’ambasciata - secondo quanto appreso - hanno incontrato il turista italiano dopo la decisione del tribunale. Il provvedimento impone a De Leonardis di non lasciare l’Egitto in attesa del giudizio. Secondo le prime ricostruzioni, fornite dal sito egiziano Youm, il turista italiano - che era in vacanza con le due figlie di 6 e 9 anni - avrebbe avuto un diverbio con l’egiziano perché voleva accedere ad una spiaggia in cui c’era un divieto di accesso per ragioni di sicurezza. Un operaio lo aveva bloccato e aveva chiamato "l’ingegnere" responsabile del cantiere, Tarek el Henawi, che avrebbe cercato di convincerlo dell’impossibilità di accedere alla spiaggia a causa dei movimenti nel cantiere. "Il turista aveva insistito e aveva dato un pugno all’ingegnere uccidendolo sul colpo", aveva scritto fra l’altro Youm 7. Il sito aveva poi chiarito che l’egiziano - che aveva subito in passato un’operazione a cuore aperto - era morto alcune ore dopo, comunque prima di raggiungere l’ospedale. La tesi difensiva sostiene invece che De Leonardis si è difeso da un aggressione dell’egiziano, che per primo gli aveva messo le mani addosso, per proteggere le due bambine. Nel reagire avrebbe accidentalmente colpito l’ingegnere che è poi deceduto nelle ore successive. Egitto. Nuovo giallo, scompare nel nulla l’avvocato egiziano dei Regeni di Giuliano Foschini La Repubblica, 11 settembre 2017 La Commissione legale che assiste la famiglia di Giulio. "Metwaly fermato al Cairo, non ne sappiamo più nulla". Prima hanno messo off line il loro sito Internet. E ora arrestato e "fatto sparire" uno dei loro legali che si stava recando a Ginevra per una conferenza alle Nazioni Unite, dove avrebbe parlato anche del sequestro, la tortura e la morte di Giulio Regeni. Continua la guerra dell’Egitto di Al Sisi all’Ecrf (l’Egyptian commission for right and freedom), ossia i consulenti legali della famiglia Regeni al Cairo. L’offensiva è ripartita nei giorni scorsi quando l’Ecrf ha pubblicato on line il nuovo rapporto sulle sparizioni forzate censendone 378 negli ultimi 12 mesi. Report che in Egitto non si può più scaricare dalla pagina Internet dell’associazione, perché la pagina è stata chiusa dal governo. Ieri è successo però altro, denunciano dall’Ecrf. L’avvocato Ibrahim Metwaly, 53 anni - una delle persone che fisicamente avevano scritto quel rapporto in cui vengono messe nero su bianco alcune pratiche del regime egiziano, purtroppo ben note in Italia - è stato fermato all’aeroporto del Cairo mentre saliva su un volo per Ginevra dove era stato invitato per relazionare al consiglio dei diritti umani sulla situazione in Egitto. "Metwaly avrebbe dovuto parlare, tra le altre cose, di suo figlio Omar, sparito nel 2013 e anche di quanto accaduto in Egitto a Giulio Regeni", fanno sapere dall’Ecrf. "Ibrahim - dicono ancora - sembra essere sparito nel nulla. Dopo il suo arresto, per accuse che chiaramente non ci sono assolutamente note, non abbiamo saputo più nulla. E per questo siamo molto preoccupati per quanto può accadere". Che Sisi e il suo governo abbiano nuovamente alzato l’attenzione contro chi si occupa di tutela di diritti umani era, d’altronde, chiaro da giorni. Dopo la pubblicazione da parte di Human Rights Watch di un altro rapporto-denuncia sull’uso sistematico della forze e della tortura da parte dei servizi di sicurezza egiziani, era partito l’ordine di oscurare anche il loro sito per rendere clandestina la ricerca. Si tratta in questo caso di 63 pagine nelle quali vengono raccolte testimonianze di detenuti e familiari di scomparsi che raccontano come "la polizia e i funzionari della Sicurezza nazionale usano regolarmente la tortura nei loro interrogatori per costringere presunti dissidenti a confessare o divulgare informazioni". "Quel rapporto è pieno di calunnie", hanno risposto funzionari del governo. Che hanno riservato ad altri lo stesso trattamento di Ecrf e Human Rights: da maggio il governo egiziano ha bloccato 420 siti web e agenzie di informazione, come il giornale on line Mada Masr o i media indipendenti, da Al Jazeera all’Huffington Post Arabic. Sarà dunque questo il clima che troverà la prossima settimana il nostro ambasciatore, Gianpiero Cantini, che dopo più di un anno riaprirà la sede diplomatica italiana al Cairo. Ed è in questo clima che si dovrebbe tenere, probabilmente entro il mese di settembre, il vertice dei magistrati italiani con la procura generale del Cairo che ha promesso, per l’ennesima volta, "tutto lo sforzo per trovare gli assassini e i torturatori di Giulio". Sforzo che, fino a questo momento, si è rivelato poco più che una presa in giro. Argentina. La repressione dei Mapuche, con annesso desaparecido di Adolfo Pérez Esquivel* Il Manifesto, 11 settembre 2017 I popoli originari subiscono una violenza sociale e strutturale da parte del governo Macri, nell’impunità più totale. La Conquista del deserto sembra continuare ai giorni nostri in Patagonia, con altre sembianze, ma identici obiettivi. Gli eredi del generale Roca continuano a marginalizzare, uccidere, perseguitare i popoli indigeni; a derubarli dei loro territori. Nell’impunità più totale, il governo argentino viola la Costituzione nazionale, la Convenzione 169 dell’Organizzazione internazionale sui diritti dei popoli indigeni, la Dichiarazione delle Nazioni unite sui diritti dei popoli indigeni. I popoli originari subiscono una violenza sociale e strutturale da parte del governo attuale, come di quelli che lo hanno preceduto; quando essi protestano e resistono all’espulsione dalle proprie terre, si risponde non con la ricerca di soluzioni e il rispetto, ma relegandoli nell’indigenza, reprimendoli, accusandoli di compiere atti di violenza e di essere legati a gruppi terroristici, rimproverando loro l’alleanza con i kurdi e gruppi guerriglieri. La campagna contro i Mapuche gode della complicità dei grandi mezzi di comunicazione, alleati del governo, di alcuni giudici e di funzionari nazionali e provinciali che favoriscono i grandi latifondisti, come Benetton, Lewis e Turner. Quando i Mapuche reclamano i propri diritti, la risposta dello Stato è la repressione, non il dialogo. Facundo Jones Huala, un capo (lonco) mapuche, l’anno scorso è stato processato nella città di Esquel dal giudice federale Guido Otranto che ne ha ordinato la liberazione; ma, cosa inquietante, il tribunale era insediato nella caserma della Gendarmería Nacional. Al ritorno dalla sua visita in Cile, dopo l’incontro con la presidente Michelle Bachelet, il presidente argentino Macri ha ordinato di incarcerare nuovamente Facundo Huala, su richiesta di Santiago del Cile che ne chiede l’estradizione. E così il lonco sarà giudicato ancora una volta per le stesse accuse per le quali era stato assolto, e si sta trattando la sua estradizione. È una violazione del diritto, perché nessuno può essere giudicato due volte per lo stesso reato. Il giovane artigiano argentino Santiago Maldonado, attivista a sostegno dei Mapuche e della liberazione di Facundo Huala, stava partecipando il 1 agosto a una protesta, violentemente repressa dalla Gendarmería Nacional. Alcuni testimoni hanno riferito che Maldonando è stato prelevato dalla polizia e caricato su una camionetta. A partire da questo momento nessuno sa più dove egli si trovi, e le autorità negano che le forze di polizia abbiano a che vedere con la sua sparizione. La popolazione, le organizzazioni sociali e quelle dei diritti umani sono mobilitate. Vivo lo hanno preso e vivo lo rivogliamo, gridano in tanti, radunati sulla Plaza de Mayo, insieme ai fratelli e ai familiari di Santiago. I grandi media, alleati del governo, cercano di incolpare i Mapuche e intanto mantengono un silenzio totale riguardo al latifondista Benetton che continua a comprare terre che appartengono alle comunità indigene. Mentre sulla vicenda di Santiago si susseguono le manifestazioni pubbliche, in Argentina e all’estero, la Commissione provinciale per la memoria si è presentata come parte civile nella causa relativa alla sua scomparsa. Anche il Comitato delle Nazioni unite sulle sparizioni forzate esige spiegazioni sulla vicenda del giovane. A oltre un mese dalla scomparsa di Santiago, la situazione è angosciante e la soluzione sembra lontana. Il governo continua a negare ogni addebito e cerca di giustificare l’ingiustificabile, usando la violenza contro i manifestanti a Plaza de Mayo, nascondendo i misfatti della Gendarmería, tancendo sulla sparizione del giovane artigiano. Ci troviamo di fronte a un grave passo indietro nella politica dei diritti umani da parte del governo. Ma continua con forza la resistenza sociale, con la richiesta che Santiago ricompaia vivo, e che mai più la sparizione forzata di persone sia coperta dall’impunità. *Nobel per la pace 1980 Iraq. In carcere oltre 1.300 donne e bambini legati a combattenti dell’Isis Ansa, 11 settembre 2017 Oltre 1.300 tra donne e bambini, tutti legati a combattenti dell’Isis, sono detenuti dalle autorità irachene in un campo per sfollati nel nord del Paese: lo hanno reso noto funzionari iracheni. Nel complesso, 1.333 persone provenienti da 14 Paesi si sono arrese alle forze curde alla fine di agosto, dopo che i soldati iracheni hanno ripreso il controllo della città di Tal Afar, vicino a Mosul. Secondo i funzionari, le donne e i bambini non saranno accusati di alcun reato e verranno rimpatriati nei loro paesi di origine. Gran parte di loro provengono dall’Asia centrale, dalla Russia e dalla Siria.