Carceri ancora da "galera": il Consiglio d’Europa bacchetta l’Italia linkabile.it, 10 settembre 2017 Sovraffollamento, celle strette, violenze, processi lunghi, troppa custodia cautelare. Carceri ancora da "galera", con ampie carenze strutturali, di personale di Polizia penitenziaria, di educatori, di figure sociali di supporto, celle strette e purtroppo ancora violenze. Avanti di questo passo, tra tre anni le carceri torneranno al sovraffollamento per cui l’Italia fu condannata nel 2013 dalla Corte europea dei diritti umani. Processi troppo lunghi, troppa custodia cautelare, troppe celle disponibili solo in teoria, troppo basso il ricorso alle misure alternative che abbattono la recidiva. E in alcuni penitenziari siamo di nuovo sotto la soglia minima dei 3 metri quadri per detenuto: alcuni carceri hanno quasi il doppio dei detenuti rispetto ai posti. Tra l’8 aprile e il 21 aprile 2016 in varie carceri (Como, Genova marassi, Ivrea, Torino, Ascoli, Sassari) si recarono rappresentanti del Comitato per la prevenzione e la tortura, dipendente dal Consiglio d’Europa(che nulla c’entra con l’Unione Europea). Hanno pubblicato il loro rapporto su quelle visite, prendono nota "della riforma senza precedenti del sistema penitenziario attuata dalle autorità italiane" che ha portato a un calo di 11.000 persone nella popolazione carceraria ed un aumento di 2500 posti disponibili nel triennio 2013-2015. "Le persone sotto custodia della polizia non sempre beneficiano delle garanzie loro concesse dalla legge", scrive nel report il Cpt che reputa anche "insufficienti le condizioni delle camere di sicurezza di alcune stazioni della Polizia di Stato e dei Carabinieri" e ricorda di aver "effettuato un’osservazione immediata sulle persistenti misere condizioni di detenzione" riscontrate "ancora una volta durante la visita alla Questura di Firenze". E così il Consiglio d’Europa punta il dito contro il sovraffollamento delle carceri italiane che "non è stato risolto perché molti istituti di pena operano ancora al di sopra della loro capacità", malgrado le misure prese dopo la cosiddetta "sentenza Torreggiani" con la quale la Corte Europea dei diritti dell’uomo aveva nel 2013 condannato l’Italia per trattamenti inumani e degradanti. Anche perché, come ricorda l’associazione Antigone, "ad agosto il numero di detenuti ha superato nuovamente le 57.000 unità e attualmente il 16% della popolazione vive in meno di 4 mq, non lontano dal parametro minimo che è fissato a 3 mq. Proprio su questo parametro il Cpt critica l’Italia, rea di utilizzare lo stesso come elemento centrale delle proprie politiche, quando è nettamente al di sotto degli standard che lo stesso Comitato indica". Si denunciano, inoltre, numerosi casi di maltrattamenti. Il Comitato ha espresso preoccupazione "per le accuse di maltrattamenti fisici inflitti a persone private della libertà dalle forze dell’ordine o detenute in carcere". Nel testo si specifica che "le persone in custodia non sempre godono delle garanzie previste dalla legge". Le autorità italiane sono dunque state invitate a fare "una comunicazione formale alle forze dell’ordine, ricordando loro che i diritti delle persone in loro custodia devono essere rispettati e che il maltrattamento di tali persone sarà perseguito e sanzionato di conseguenza". Il rapporto cita come casi di maltrattamenti rilevati "pugni, calci e colpi con manganelli al momento del fermo (e dopo che la persona era stata messa sotto controllo) e, in alcune occasioni, durante la custodia". E si tratta di un fenomeno da arginare perché "se l’emergere di informazioni che indicano maltrattamenti non è seguita da risposta pronta ed efficace, coloro che sono propensi a maltrattare crederanno di poterlo fare senza essere puniti". Il rapporto metta in evidenza anche alcuni elementi positivi, tra cui il regime della sorveglianza dinamica (che si applica ormai in molte carceri nei reparti di media sicurezza) e la nomina del Garante Nazionale delle persone private della Libertà personale. Anche la riforma della sanità con il passaggio alle Asl è vista con favore dagli esperti del Comitato. Infine è stato apprezzato il miglioramento della condizione degli detenuti dopo il passaggio dagli Opg alle Rems. E noi volontari che operiamo nelle carceri, pur bocciando le prigioni attuali, riconosciamo che nelle condizioni precarie ci sono anche gli agenti della polizia penitenziaria che spesso sostituiscono le poche figure sociali presenti nell’Istituto, evitando tentativi di autolesionismo e nei casi più gravi scongiurando suicidi ed aggressioni. Il governo italiano ha già risposto al Consiglio d’Europa elencando le riforme degli ultimi due anni nell’ambito del sistema giudiziario e per migliorare la condizione dei detenuti. Ma quello che il Cpt chiede alle autorità italiane, al più alto livello politico, è "un messaggio chiaro ai funzionari di polizia" per contrastare la pretesa di impunibilità e ricordare loro che "tutte le forme di maltrattamento fisico sono inaccettabili e saranno perseguite e sanzionate di conseguenza". Malgrado le riforme, l’istituzione di un Garante nazionale dei detenuti e delle persone private di libertà e l’introduzione del reato di tortura nel nostro codice penale, lo Stato italiano è ancora ben lungi dall’essere completamente legale, di fronte al consesso europeo ed internazionale, nel campo dei diritti umani. Il Governo può subito dare segnali concreti. Ogni volta che vado in carcere, si parla all’attuazione della riforma dell’ordinamento penitenziario approvata il 23 giugno scorso. Per fare ciò servono i decreti attuativi e a redigerli ci stanno pensando le tre commissioni istituite dal guardasigilli Orlando. Il timore espresso dai detenuti e dagli operatori del settore e non solo, è che i tempi si prospettano troppo lunghi, con il serio rischio di vanificare tutto il lavoro visto che dal Ministero della Giustizia si parla di presentare le bozze dei decreti entro il 31 dicembre. Dopodiché, una volta approvati dal Consiglio dei ministri, le commissioni giustizia del Senato e della Camera dovrebbero dare un parere ai decreti per poi passare ad una eventuale approvazione definitiva da parte dell’esecutivo. L’iter, quindi, si prospetterebbe lungo e ciò avverrebbe in piena campagna elettorale e nella situazione in cui ci saranno altre priorità come la legge elettorale e quella di bilancio. Ecco perché le proteste e gli scioperi pacifici dei detenuti in tutte le carceri italiane. Italia a mano armata di Davide Lessi La Stampa, 10 settembre 2017 Diminuiscono i furti e le rapine ma cresce la percezione della paura. L’8% dichiara di avere acquistato una pistola o un fucile per difendersi. Ecco le loro voci: ci proteggiamo. Ma la coscienza, spesso, non si accontenta delle sentenze per alleggerirsi. "Quelli come me non devono essere accusati perché si sono difesi", spiega il 51enne di Civè di Correzzola (Padova). Ma aggiunge: "La giustizia non dobbiamo farcela da soli". Secondo i dati diffusi a metà agosto dal Viminale in Italia diminuiscono sia le rapine (da 19.163 a 16.991) che i furti, in calo del 10,3% (da 783.692 a 702.989). Ma i numeri non vanno a braccetto con la sensazione di insicurezza degli italiani. Di questo si occupa La percezione della paura (Il boom delle armi in Italia) in onda questa sera dalle 21.15 in prima tv su Sky Atlantic e su Sky Tg24. "A vedere certi programmi il Paese sembra diventato un Far West", racconta il regista Andrea Bettinetti. "E allora ho deciso di immergermi nel mondo di chi ha deciso o vorrebbe essere pronto a farsi giustizia". Il dramma dei protagonisti C’è l’edicolante Franco al quale, dopo cinque anni, è stato riconosciuta l’assoluzione per legittima difesa. E poi Carla De Conti, la tabaccaia dei record: "Ho subito tre rapine, una a mano armata, e cinque furti presentando 11 denunce", racconta la 51enne di San Fior (Treviso). E spiega: "Quando ho visto che nessuno mi difendeva ho deciso di prendere il porto d’armi". Una licenza che invece aveva Rodolfo Corazzo, il gioielliere della provincia di Milano, quando ha ucciso uno dei ladri che gli erano entrati in casa. "Non mi sento in colpa, ma nemmeno un eroe. Grazie a Dio ero armato perché altrimenti avrebbero ammazzato me, mia moglie e la nostra figlia di 10 anni", ribadisce. I corsi di difesa personale "Per capire il loro dramma basta ascoltare le loro storie", racconta il regista Bettinetti, 54 anni. Ma non gli bastava. "In Italia ci sono circa 1 milione 300 mila licenze di porto d’armi. Mi sono detto che non potevano essere tutti degli emuli di Rambo e Clint Eastwood, così ho deciso di indagare i loro motivi". Per farlo si è spinto all’Hit Show di Vicenza, una delle più grandi fiere internazionali per la caccia, il tiro sportivo e la protezione individuale. "Poi ho deciso di prendere la licenza e partecipare a un corso di tiro operativo basico con pistola: un’esperienza notevole considerando che sono contrario alle armi". Solo l’8% degli italiani, secondo Eurobarometro, dice di aver preso una pistola o un fucile per difesa personale. Ma il dato è sottostimato. Il 23% dei connazionali si dichiara appassionato di tiro al volo. I permessi sportivi, più facili da ottenere, rischiano così di diventare un escamotage. Anche perché in Italia, a fronte di poco meno di 1 milione e 300 mila licenze, ci sarebbero (secondo Eurispes) quasi 10 milioni di armi detenute legalmente da circa quattro milioni di famiglie. La sfida del G7 dell’avvocatura contro l’odio e lo stato etico di Piero Sansonetti Il Dubbio, 10 settembre 2017 Si può giudicare questo avvenimento come un importante avvenimento culturale. Sicuramente di grande rilievo, se non altro per il livello molto alto della partecipazione, non solo delle avvocature ma di rappresentanti prestigiosi delle istituzioni, italiane e internazionali. Oppure si può evitare di collocarlo, seppure ad alto livello, tra i consueti appuntamenti pubblici, e ragionare un momento sulle novità che questo avvenimento produce. Perché alcune di queste novità non sono indifferenti per gli assetti delle società moderne. Dal momento che questi assetti - e soprattutto il rapporto tra diritti, mercato, politica, governo - non sono affatto ben definiti ancora, e anzi sono oggetto di discussioni, conflitti, battaglie anche molto aspre. La prima novità è nell’avvenimento stesso. E cioè nel fatto che le avvocature dei sette paesi più potenti dell’Occidente decidano di riunirsi attorno a un tavolo e quindi di proporsi come soggetto pubblico. Noi conosciamo i tradizionali soggetti del dibattuto pubblico che hanno di solito un peso internazionale: gli Stati, innanzitutto, poi i partiti, i sindacati, alcuni grandi istituti culturali, alcune lobbies (e naturalmente la grande finanza), le università, alcuni gruppi editoriali (senza tener conto delle religioni). Non era mai successo che i rappresentanti di una professione si proponessero non in quanto difensori di quella professione - o di quella corporazione - ma come soggetti "generali" di una battaglia civile di dimensioni internazionali. E questo è possibile perché la professione dell’avvocato non è una professione qualunque: ha un ruolo specialissimo nel funzionamento della società e dello Stato liberale. Un ruolo che in alcune Costituzioni - per esempio la nostra - è codificato, cosa che non succede per nessun’altra professione. La seconda novità è collegata alla prima e sta, appunto, nella affermazione del proprio ruolo sociale. Che non sempre, negli ultimi decenni, gli avvocati hanno difeso con eccessivo coraggio. Il senso comune oggi è pervaso dall’idea che lo Stato di diritto sia assicurato dalla saldezza e dall’onestà della magistratura e da una politica che ne accetti la supremazia. Punto. Il ruolo dell’avvocato è visto nel migliore dei casi come un ruolo accessorio, secondario, ma molto spesso addirittura come un ruolo deleterio, di complicità con il crimine. Lo abbiamo osservato proprio in questi giorni qui in Italia, ad esempio con la difficoltà incontrate dagli avvocati che hanno assunto la difesa degli accusati per lo stupro di Rimini, e che dall’opinione pubblica, dai social network ma anche da gran parte della stampa, sono stati indicati come "mestatori", gente che cerca il guadagno difendendo l’immoralità e dunque diventando immorale. Non è un problema piccolo. Questo punto di vista, probabilmente maggioritario, è il risultato di un lungo processo di imbarbarimento culturale - del quale in una altra sede esamineremo le cause politiche - che da alcuni decenni sta accompagnando, specialmente in Italia - ma non solo - lo svilupparsi della modernità. perché la giustizia possa essere concepita come realizzazione del diritto, e dunque dei diritti di tutti, e non come mannaia che una parte "scelta" - onesta, giusta, incorruttibile - della società abbatte sulla parte marcia e colpevole, e la taglia fuori, e la elimina - compiendo la palingenesi - non basta un articolo di giornale, né il grido di qualche garantista, serve una battaglia estesa, capillare, idealmente e culturalmente robusta, e che abbia delle gambe forti. Possiamo dire, in tutta sincerità, che negli ultimi 25 anni, a parte qualche donchisciotte, qualcuno abbia dato respiro e carburante a questa battaglia? Ecco qui la seconda novità: una avvocatura che si presenta per rivendicare il proprio ruolo nella società e per proclamarsi "pilastro" di una giustizia basata sul Diritto e non sulla pulsione al linciaggio. E che si impegna a svolgere questo ruolo, e cioè a guidare la battaglia per imporre lo Stato di diritto come culmine dello stato liberale e della democrazia e come sostanza della modernità. Contrapposto agli altri due modelli alternativi (e spesso alleati tra loro): quello del non- Stato, perché basta il mercato, e quello dell’antico e totalitario Stato Etico. Ho usato intenzionalmente la parola "guidare". E non la parola "partecipare". La novità sta qui. L’avvocatura sceglie di non ritagliarsi più un ruolo di "sostegno", tuttalpiù di spettatrice attiva. Ma si candida a prendere la testa di un movimento che sin qui non ha mai avuto una leadership, e proprio per questo è risultato sempre perdente. La terza novità sta nel "tema principe" di questo evento. E cioè l’analisi del linguaggio dell’odio, delle cause del suo dilagare, della funzione che svolge nella società moderna, e delle possibilità che ci sono di combatterlo con le armi della libertà e del diritto. Che il problema dell’odio sia una delle questioni aperte da questa fase della modernizzazione, credo che sia un fatto indubbio. L’odio ha preso il posto che in epoche passate avevano tante forme diverse di conflitto. Ha sostituito la lotta politica, lo scontro sociale, l’appartenenza ideale, o anche valori diversissimi come il patriottismo, l’internazionalismo, l’egualitarismo, il nazionalismo, lo spirito di rivolta. Ha trasformato la nostra cultura. Ha condizionato l’intellettualità. Ha plasmato l’aggregarsi e il distribuirsi della paure. Ha influenzato le identità. E poi ha invaso il dibattito pubblico, il Web, l’arte, le nuove scale dei valori. L’odio è esattamente quel sentimento - quella pulsione - ma anche quel valore che accantona sia la lotta politica sia il Diritto e ne assume la funzione. L’odio giudica, giudica con la stessa forza e autorevolezza dell’odio e non ammette giurisprudenza. L’odio indica i valori e non prevede la politica. L’odio supera ogni meccanismo e ogni tendenza della democrazia. E il linguaggio dell’Odio, che ormai si sta strutturando ovunque - nei giornali, nelle scuole, nelle università, e naturalmente nella rete - è l’anticamera della Società dell’Odio. Come ci si oppone? In che modo la cultura, la democrazia e il diritto possono imporsi e fare barriera? In che modo possono offrire se stessi come prospettiva alternativa alla società dell’odio? Ecco, la terza novità di questo G7 dell’avvocatura è qui: nella decisione di mettere se stessa a disposizione di un impegno culturale e giuridico che viene considerato decisivo per la costruzione di una modernità che non sia la riproposizione tecnologica dell’antico, non sia un arretramento "efficiente" della civiltà. Ma sia una società che metta il diritto avanti a tutto. La modernità è diritto non è tecnologia. La tecnologia è strumento della modernità, non è modernità. E una sfida molto complicata. Ambiziosissima. Intanto è già un grande passo che sia stata lanciata. Adesso vediamo come si svolgerà, e vediamo se esistono - nella società, nella politica, nel giornalismo forze che hanno voglia di accoglierla questa sfida. Intercettazioni, il Csm contro la riforma di Liana Milella La Repubblica, 10 settembre 2017 No al riassunto delle conversazioni: "C’è il pericolo di ridurre la genuinità delle prove". Dubbi anche dai magistrati. L’ex pm Ardituro: "Non riportare i virgolettati non garantisce né gli imputati né la verità". Intercettazioni per riassunto nelle carte giudiziarie? Dal Csm arriva un secco niet. "Va ribadito con decisione che il rimedio alla divulgazione non può essere rappresentato dalla riduzione dell’area operativa del mezzo di ricerca della prova in esame, indispensabile per le investigazioni". Ancora: "Né tantomeno dall’opzione di riportare per riassunto, e non in forma integrale, le conversazioni nei provvedimenti giudiziari, col rischio di ridurre la genuinità della prova scaturita dalla conversazione intercettata". Il Csm, e il suo vice presidente Giovanni Legnini, non sono, né potevano essere, tra gli interlocutori che il Guardasigilli Andrea Orlando ha invitato in via Arenula. Ma in tempi non sospetti, il Consiglio ha prodotto una risoluzione sul tema caldo delle intercettazioni, quando molte procure in Italia Torino, Firenze, Roma, Napoli avevano deciso di dotarsi di un codice di autoregolamentazione. A ridosso, e nella linea dei singoli codici, il Csm ha espresso il suo parere in una delibera del 29 luglio 2016. Un testo articolato, votato all’unanimità da togati e laici di ogni estrazione, un evento al Csm soprattutto su un tema fortemente divisivo. Antonello Ardituro, esponente della sinistra di Area ed ex pm a Napoli, relatore assieme a Paola Balducci e Francesco Cananzi, valuta così il decreto legislativo del ministero che invece ipotizza di eliminare le virgolette dalle misure dei giudici: "Non riportare il contenuto delle intercettazioni è assolutamente negativo, non garantisce gli indagati, né consente di fare una valutazione diretta della prova. Il grande rischio è che nei singoli passaggi processuali, ci si allontani pericolosamente dal testo effettivo, a danno dell’imputato e della verità processuale". Orlando ha già detto che "questo è un punto che sicuramente può cambiare". Tant’è che l’ex ministro della Famiglia ed ex vice della Giustizia Enrico Costa ironizza: "Giudicavo interessante la bozza di delega come base di partenza, ma è bastato che qualcuno evocasse il bavaglio e in 24 ore si è registrato il dietrofront più fulmineo della storia". Un dietrofront sul riassunto che però potrebbe riaprire la strada al dialogo con la Federazione della stampa. Le violenze dei tifosi non sono una "bravata" di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 10 settembre 2017 Il termine prescelto suscita perplessità e lascia interdetti. Per i giudici della corte d’assise d’appello di Roma, se un tifoso lancia degli oggetti contro un pullman di supporter di una squadra avversaria perché "insofferente della loro presenza in quello che considera il proprio ‘territorio’ di ultrà" compie "una bravata". Anche se quegli oggetti sono due petardi. E anche se quel gesto provocatorio, in altri passaggi descritto come "scomposta azione dimostrativa", si rivelerà "tragico" perché ne deriverà un’aggressione da cui scaturirà un omicidio, quello del tifoso napoletano Ciro Esposito, ucciso dal romanista Daniele De Santis. Autore della suddetta "bravata". A leggerla tutta non traspare indulgenza nelle motivazioni della sentenza che ha ridotto la pena per il colpevole da 26 a 16 anni di carcere (e già la pubblica accusa, aveva proposto un abbassamento a 20), redatta dal giudice-scrittore Giancarlo De Cataldo. Tuttavia il termine prescelto per stigmatizzare il comportamento del tifoso "insofferente e provocatore" suscita perplessità. Lascia interdetti. Non solo perché alla fine quel tifoso s’è trasformato in un omicida, che peraltro aveva una pistola con matricola abrasa con cui non ha esitato a sparare contro "uno sparuto drappello di giovani a mani nude" che l’avevano circondato e aggredito per "regolare i conti" (ricostruzione degli stessi giudici); ma perché con la definizione smargiassata, spacconata, spavalderia, guasconata (sinonimi di bravata) si rischia di far passare per tollerabile qualcosa che invece è e dovrebbe restare inammissibile. Finendo per sminuire la gravità di quello che è accaduto. Se la violenza negli stadi è stato e continua ad essere (anche con episodi periferici che non sempre assurgono alle cronache nazionali) un fenomeno allarmante, contro cui giustamente si fanno campagne e si cercano rimedi, sarebbe meglio non ridurne le cause o le dinamiche a semplici fanfaronate (altro sinonimo). Anche solo con un malinteso uso delle parole. Piemonte: il Garante dei detenuti "carceri affollate, serve un piano" lospiffero.com, 10 settembre 2017 Record di sovraffollamento a Cuneo (132%). Codice rosso un po’ ovunque: da Vercelli a Ivrea, da Verbania ad Asti e Torino. La denuncia del garante regionale dei detenuti Mellano. L’Europa bacchetta l’Italia per le carceri sovraffollate e anche in Piemonte la situazione è critica. Anzi, per Bruno Mellano, Garante dei detenuti della Regione, "i numeri non dicono tutta la verità". In Piemonte, spiega l’esponente radicale nominato dall’assemblea di Palazzo Lascaris, nelle statistiche ufficiali a fine agosto c’erano 4.131 detenuti su una capienza regolamentare di 4.048 posti, ma questo dato è del tutto falsato da posti letto non attualmente disponibili. La casa di reclusione di Alba, per esempio, è stata formalmente riaperta a luglio (e il conteggio dei posti albesi è stato inserito nella capienza complessiva piemontese), ma la struttura utilizzabile e utilizzata è solo quella di una palazzina a sé stante di circa 35 posti e non il corpo centrale del carcere e i suoi 139 posti sulla carta. A Cuneo i due padiglione vecchi, ex-Giudiziario e Cerialdo, sono chiusi, rispettivamente dal 2010 e dall’ottobre 2016, così la capienza non è quella indicata di 427 posti ma solo di 192 reali dell’unico padiglione in uso, quello di recente costruzione, al punto che si registra il tasso di sovraffollamento record per il Piemonte del 132%. E così in molti dei 13 istituti penitenziari piemontesi la realtà, denuncia Mellano, è diversa dalla rappresentazione dei numeri delle statistiche ufficiali. In Piemonte si segnala un sovraffollamento un po’ ovunque: nella casa circondariale di Vercelli del 131,60%; in quella di Ivrea del 130,96%; a Verbania del 128,30%; ad Asti del 117,87%; ad Alessandria San Michele del 116,48%; a Torino del 116,23%. La Casa di reclusione di Alba - per esempio - è stata formalmente riaperta a luglio (e il conteggio dei posti albesi sono stati inseriti nella capienza complessiva piemontese) ma la struttura utilizzabile e utilizzata è solo quella di una palazzina a sé stante di circa 35 posti e non certo il corpo centrale del carcere e i suoi 139 posti sulla carta. "I garanti piemontesi - spiega Mellano - hanno formalmente e in più occasioni segnalato al ministero della Giustizia la questione logistica come centrale e alla base di ogni credibile progetto trattamentale e di recupero. Confido, ora, che il nuovo responsabile del provveditorato dell’amministrazione penitenziaria per il Piemonte, la Liguria e la Valle d’Aosta, Liberato Guerriero, appena insediato, possa prendere in mano le questioni aperte e soprattutto possa essere messo in grado di intervenire, a cominciare da Alba, Cuneo, Vercelli e Torino". Il Comitato per la prevenzione della tortura (Cpt) del Consiglio d’Europa ribadisce inoltre che l’Italia deve rispettare gli standard che il comitato ha fissato per lo spazio che ogni detenuto deve avere a propria disposizione in cella: 6 metri quadrati di spazio vitale, esclusi i sanitari, in cella singola, e 4 metri quadrati in una cella che occupi con altri. Il Cpt, pur prendendo nota degli sforzi fatti dall’Italia per risolvere la questione del sovraffollamento dopo la condanna della Corte di Strasburgo (per il caso Torreggiani), nel rapporto sull’Italia redatto in base alla missione condotta nell’aprile 2016, osserva che i conti non tornano. In effetti, al 31 agosto scorso, la popolazione detenuta italiana, sottolinea Mellano, era di 57.393 detenuti su una capienza regolamentare di 50.501. Oltre 7.000 detenuti in più. Una postilla ai dati ufficiali del Dipartimento nazionale dell’amministrazione penitenziaria (Dap) segnala che "il dato sulla capienza non tiene conto di eventuali situazioni transitorie che comportano scostamenti temporanei dal valore indicato". La questione non è di poco conto, conclude Mellano perché "molti istituti hanno celle, sezioni o addirittura interi padiglioni chiusi per lavori di restauro o in attesa di decisioni e/o finanziamenti per il ripristino delle strutture. Infine si riapre la partita della quantificazione dello spazio vitale minimo da garantire a ciascun detenuto: le prescrizioni europee sono ben lontane dai parametri utilizzati per la valutazione fatta dall’amministrazione penitenziaria. Su questo il ruolo dei Garanti continua a essere di sollecito alla magistratura di sorveglianza che è chiamata ad applicare l’articoli 35bis e 35ter dell’ordinamento penitenziario, introdotti appositamente dal legislatore italiano per evitare le accuse di detenzione inumana e degradante". Puglia: Partito Radicale, la Carovana per la Giustizia riparte da Foggia statoquotidiano.it, 10 settembre 2017 Dopo Calabria, Sicilia e Sardegna, dal 11 al 19 settembre il Partito Radicale e l’Unione delle Camere Penali Italiane organizzano una "Carovana per la Giustizia" che attraverserà tutta la Puglia. Faranno parte della Carovana oltre 10 militanti e dirigenti del Partito Radicale, tra cui i coordinatori della Presidenza Rita Bernardini e Sergio D’Elia. La Carovana farà la prima tappa a Foggia l’11 settembre: in mattinata ci sarà la proiezione del docu-film Spes contra Spem, con la regia di Ambrogio Crespi, all’Istituto Tecnico Economico Blaise Pascal e poi visita nel carcere foggiano; proseguirà poi in tutte le province pugliesi, con ingressi in tutti gli altri istituti di pena della regione: San Severo, Lucera, Trani, Turi, Bari, Brindisi, Taranto, Lecce. Gli obiettivi della Carovana sono: raccolta firme sulla proposta di legge delle Camere Penali per la separazione delle carriere dei magistrati, arrivata già a oltre 62000 sottoscrizioni; amnistia e indulto, premessa indispensabile per una Giustizia giusta; superamento di trattamenti crudeli e anacronistici come il regime del 41 bis e il sistema dell’ergastolo, a partire da quello ostativo; approvazione dei decreti delegati della riforma dell’Ordinamento Penitenziario; 3.000 iscritti al Partito Radicale entro il 31 dicembre 2017 per continuare le lotte di Marco Pannella. L’obiettivo dei 3.000 iscritti è stato fissato dalla mozione approvata il 3 settembre scorso dal 40° Congresso straordinario, convocato dagli iscritti dopo la scomparsa di Marco Pannella nel carcere di Rebibbia; questo obiettivo va raggiunto e dovrà essere riconfermato anche nel 2018,pena l’autoscioglimento del partito stesso. Gli eventi e le iniziative della Carovana consisteranno in dibattiti e conferenze pubbliche con le Camere Penali territoriali, tavoli di raccolta firme e visite nelle carceri con raccolta firme dei detenuti sulla proposta di legge. San Gimignano (Si): detenuto romeno uccide connazionale in cella Comunicato Sappe, 10 settembre 2017 Omicidio tra le sbarre nel carcere di San Gimignano: a seguito di un violento litigio tra due detenuti romeni, uno ha ammazzato l’altro con uno sgabello di legno. "Carceri sempre più ingovernabili", denuncia con forza il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo della Categoria, da tempo in prima linea a sollecitare provvedimenti urgenti per i penitenziari toscani e del Paese. "Ieri sera dopo le 19 c'è stato un violento litigio tra due detenuti rumeni (entrambi condannati per omicidio) della Sezione media sicurezza del carcere", spiega il Segretario Nazionale Sappe della Toscana Pasquale Salemme. "Uno di loro, già conosciuto per il suo stato psicologico, ha impugnato uno sgabello di legno ed ha ammazzato l'altro recluso colpendolo ripetutamente nel capo. Forse il pretesto del furioso pestaggio tra i detenuti è tra i più futili, ossia l’incapacità di convivere - seppur tra le sbarre - con persone diverse. O forse le ragioni sono da ricercare in screzi di vita penitenziaria o in sgarbi avvenuti fuori dal carcere. Fatto sta che l’uno ha ammazzato l’altro". Donato Capece, segretario generale del Sappe, è netto nella denuncia: "Il fatto che il detenuto omicida fosse seguito dal un gruppo di osservazione multidisciplinare per i casi psichiatrici e di autolesionismo la dice lunga. Questi sono soggetti che non possono stare in un carcere normale ed è stato sbagliato chiudere gli Opg: bisognava riformali, indubbiamente, ma non chiuderli. Ma il problema è anche un altro. l sistema delle carceri non regge più, è farraginoso. I vertici dell’Amministrazione Penitenziaria e del Ministero della Giustizia hanno smantellato le politiche di sicurezza delle carceri preferendo una vigilanza dinamica e il regime penitenziario aperto, con detenuti fuori dalle celle per almeno 8 ore al giorno con controlli sporadici e occasionali. E al Corpo di Polizia Penitenziaria servono almeno ottomila nuove unità per fronteggiare la costante emergenza carceri, che vede oggi in Italia il nuovo numero record di oltre 57mila 300 detenuti, con celle sovraffollate e tensione ‘a mille’ (come dimostra il grave fatto accaduto a San Gimignano) a tutto discapito del lavoro dei poliziotti penitenziari". Messina: ingerisce un topicida in carcere, salvato figlio di una detenuta Il Gazzettino, 10 settembre 2017 Il bambino, che ha circa un anno, è fuori pericolo. Ma la vicenda accaduta nel carcere Gazzi di Messina, sezione femminile, ripropone il problema delle detenute madri e dell’inadeguatezza dimolte strutture di reclusione italiane destinate ad accogliere donne con figli in tenera età. Il figlio di una detenuta ha portato alla bocca una bustina e ha ingerito parte del contenuto: è stata la madre ad accorgersene e a chiedere aiuto perché il piccolo aveva ingoiato del veleno per topi. Il bambino è stato trasportato in ambulanza al Policlinico di Messina e sottoposto a una serie di esami. Il peggio dovrebbe essere passato e lunedì il bambino dovrebbe essere dimesso. La mamma, una donna nigeriana che ha anche un’altra bambina di poco più grande, circa tre anni, la quale si trova anche lei dentro la struttura carceraria, è l’unica detenuta-madre reclusa nella sezione femminile del carcere. Molti gli aspetti da chiarire. Prima di tutto verificare che tipo di sostanza esattamente sia finita tra le mani del bimbo; perché si trovasse lì, fuori dalle celle, in un’area detentiva di una struttura di per sé piuttosto vecchia; se la sua presenza sia da ricollegarsi a una recente derattizzazione e, in questo caso, se siano stati seguiti tutti i protocolli di sicurezza, visto che le disinfestazioni di questo tipo vanno fatte dopo aver sgombrato le sezioni. Accertamenti affidati anche ad un’indagine interna, come di prassi in casi di questo genere. Ma i Radicali, che hanno denunciato il caso, stanno valutando anche di presentare un’interrogazione al ministro della Giustizia, Andrea Orlando, perché riferisca sulla vicenda. Treviso: nell’area colloqui migliorano luci e audio, il carcere ora è più umano di Elena Filini Il Gazzettino, 10 settembre 2017 Alla casa circondare di Santa Bona a Treviso, i detenuti e le loro famiglie potranno presto usufruire di un’area colloqui rigenerata. Il Soroptimist International Club di Treviso, in collaborazione con i club di San Donà - Portogruaro e Conegliano - Vittorio Veneto, ha sostenuto l’intervento di insonorizzazione e di adeguamento e sostituzione dell’impianto di illuminazione della maxi aula destinata agli incontri settimanali tra i condannati e i loro cari. Il service rientra nell’ambito del progetto nazionale "Diritti Umani - Diritti dei Minori" ma ribadisce l’attenzione del club trevigiano per la struttura penitenziaria di Santa Bona. Un percorso comune, iniziato oltre un anno fa con il dono di un giardino attrezzato con un’altalena, vagoni colorati, uno scivolo e dei gazebo. Un modo semplice e immediato per rendere più umane le condizioni della pena e ricordare che dietro singoli che hanno compiuto degli errori, ci sono famiglie che indirettamente scontano. "Nella casa circondariale di Treviso sono presenti circa 190 detenuti - spiega il direttore Francesco Massimo - e circa il 12% sono padri". L’inaugurazione ufficiale del nuovo service è prevista per il 19 settembre. "Siamo davvero orgogliose di poter contribuire all’ulteriore avvicinamento tra casa circondariale e mondo delle associazioni - conferma l’attuale presidente del Soroptimist trevigiano Gloria De Prà. Ci preme ribadire che il carcere è parte integrante della società". Cagliari: la storia a lieto fine, in carcere riapre la parruccheria castedduonline.it, 10 settembre 2017 Grazie alla disponibilità delle parrucchiere Francesca Piccioni e Francesca Cogoni, le detenute potranno fruire gratuitamente del taglio e della messa in piega. Riaprirà i battenti nuovamente lunedì mattina, a partire dalle 10, nella sezione femminile della Casa Circondariale di Cagliari-Uta la Parruccheria. Grazie alla disponibilità delle parrucchiere Francesca Piccioni e Francesca Cogoni, le detenute potranno fruire gratuitamente del taglio e della messa in piega. Lo rende noto Maria Grazia Caligaris, presidente di "Socialismo Diritti Riforme", l’associazione che ha promosso il progetto di valorizzazione della persona nella prospettiva di costruire percorsi professionalizzanti. Accompagneranno le professioniste del taglio alcune socie di Sdr che intratterranno le donne private della libertà per conoscere le attuali condizioni di convivenza nella struttura penitenziaria. L’iniziativa è inserita nell’ambito del progetto "Benessere dentro e fuori" condiviso dal Centro Medico Estetico "Dalle ceneri della Fenice " e dall’Area Educativa dell’Istituto con la collaborazione della Sicurezza. "Pian piano si sta facendo strada tra le parruccherie di Cagliari e hinterland - afferma Caligaris - la solidarietà verso le donne detenute e la consapevolezza della positività della condivisione dell’esperienza. Il solco tracciato da Francesca Piccioni e Monica Frau in occasione della inaugurazione lo scorso 20 luglio sta producendo positivi riscontri. La Parruccheria infatti per assumere una propria fisionomia ha necessità di più persone decise a dare un contributo solidale". "Nelle prossime settimane cercheremo di ampliare anche l’offerta del servizio con la colorazione dei capelli. Siamo convinte che la cura della persona, l’arricchimento culturale e il dialogo possano aiutare a migliorare i rapporti tra le detenute sostenendole in un momento particolarmente difficile della loro vita. L’iniziativa però non ha solo un tratto solidale vuole contribuire a creare le condizioni per promuovere occasioni professionalizzanti utili per uscire da circuiti devianti e per l’emancipazione sociale". Con la presidente di Sdr saranno presenti le socie Elisa Montanari, Rina Salis Toxiri, Katia Rivano, Lisa Sole, Flavia Corda. Firenze: Montelupo, l’abbraccio dei mille che riapre le porte dell’ex Opg di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 10 settembre 2017 Presentato il concorso di idee per il futuro di Villa Ambrosiana, luogo simbolo per secoli. Villa Ambrogiana torna alla cittadinanza, dopo un secolo e mezzo. Oltre mille persone, ieri pomeriggio, hanno creato un lunghissimo cerchio attorno all’ex ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo, un abbraccio ideale che ha simboleggiato la nuova vita della struttura, non più luogo di detenzione e sofferenza, ma spazio aperto alla città, da rivalorizzare per farne un polo d’attrazione. Un evento storico per Montelupo, un abbraccio lungo il quale le persone si sono passate simbolicamente la chiave con cui è stata aperta la porta della residenza medicea. E poi tutti dentro, 500 per volta, per visitare un luogo che per decenni è rimasto invalicabile. Famiglie con bambini, giovani e anziani, associazioni sportive, la banda e i droni in mezzo al cielo. Tantissimi volontari a coordinare l’evento. E poi le magliette per celebrare un momento storico. Adesso il futuro della Villa, passata di competenza dal Ministero della Giustizia al Demanio, è affidato a un bando di progetti. Entro fine settembre saranno selezionate dieci proposte per la riconversione della villa medicea. Ad annunciarlo, ieri mattina in Consiglio comunale, è stato il ministro dello sport Luca Lotti, originario proprio di Montelupo. I selezionati parteciperanno a una gara, con termine a dicembre, per la quale dovranno presentare le proprie offerte economiche e il vincitore sarà annunciato entro aprile del prossimo anno. "La valorizzazione della Villa dell’Ambrogiana - ha detto il ministro Lotti - è una grande sfida per ridare lustro a un bene che rappresenta fortemente questa comunità e una grande opportunità di crescita e sviluppo". Tra le priorità del bando, l’accessibilità al pubblico, la destinazione pubblica della parte nobile del complesso dell’Ambrogiana e la sostenibilità economica del progetto. "L’Ambrogiana - ha poi aggiunto Lotti - adesso torna ai montelupini, finalmente accessibile, sia la villa vera e propria, sia il parco che la circonda. È un figlio che viene restituito alla famiglia e deve essere curato da tutti assieme. È un’occasione che deve far discutere ma non dividere: mi appello a forze politiche e cittadini di essere uniti per il recupero della Villa". L’idea, per i prossimi mesi, è quella di abbattere il muro di cinta che era stato eretto nella riconversione della villa signorile a manicomio. Un muro che certamente stona con l’eleganza dell’edificio storico e che anche gli abitanti vorrebbero eliminare. La Regione Toscana, tramite l’assessore Stefano Ciuoffo, ha fatto sapere "che lavorerà per far aggiungere questa villa all’elenco delle ville medicee tutelate dall’Unesco come Patrimonio dell’Umanità". Mentre il direttore dell’Agenzia del Demanio, Roberto Raggi, ha detto che "il Demanio intende mantenere anche per il futuro la proprietà, almeno nella parte vincolata dalla Sovrintendenza". Ascoli Piceno: favole dal carcere per imparare a raccontare le emozioni di Teresa Valiani Redattore Sociale, 10 settembre 2017 Arriva dalla Casa circondariale di Ascoli Piceno e si intitola "Il bambino e la farfalla" l’ultima produzione di Radio Incredibile e Musicandia, già al lavoro per la seconda edizione di "Fiabe in libertà" nell’istituto di pena di Montacuto. Tredici minuti di parole sospese tra musica e colpi di scena per ricreare l’incanto di cui solo le favole sono capaci. E poi piccoli brani che riportano a terre lontane, oltrepassando muri e cancelli. "Il bambino e la farfalla - favola dal carcere" segue il progetto "Fiabe in libertà", che nel 2015 aveva portato alla realizzazione di un audiolibro dal carcere di Montacuto (Ancona), e propone un cd con un singolo racconto prodotto all’interno della casa circondariale di Ascoli Piceno. Al lavoro, firmato da Radio Incredibile (radioincredibile.com), l’associazione che da anni collabora con le carceri marchigiane, hanno partecipato 8 detenuti, 4 operatrici radiofoniche, un tecnico del suono e un operatore teatrale. Al centro della storia c’è Marco, con le sue avventure nel giardino dei nonni, l’incontro con la farfalla, l’ebrezza del volo, il sapore della libertà. Dialetti, accenti e voci diverse raccontano una favola che unisce regioni e nazioni, dal nord al sud dell’Italia, dalla Cina al Maghreb. La favola incuriosisce e strappa risate mentre la musica e i piccoli brani che spezzano il racconto, emozionano e trascinano lontano. "È stato un lavoro entusiasmante - racconta Pier Paolo Piccioni, responsabile dello studio di registrazione ‘Musicandia’ di Ascoli Piceno -. L’esperienza di Montacuto era stata molto forte e quella nel carcere di Marino ci ha confermato la validità di questi percorsi. I detenuti hanno collaborato in ogni fase della costruzione della favola, partecipando sia alla scrittura che alla lettura del testo. C’erano ragazzi di diverse nazionalità e ognuno ha portato qualcosa dal proprio paese d’origine, regalando al racconto dinamicità e originalità". "Al di là della pregevolezza del prodotto - spiega la direttrice del carcere di Ascoli, Lucia Di Feliciantonio -, incantevole e poetico nella storia, nella musica e nella morale, mi hanno colpito l’impegno e la fantasia dei detenuti nella realizzazione. Sono sicura che ognuno di loro pensava ai propri figli o fratelli minori. Grazie a Radio Incredibile e a Pier Paolo Piccioni per l’esperienza che, speriamo, possa ripetersi presto". "Il progetto è andato oltre le nostre aspettative - sottolinea Piccioni -. In carcere le emozioni sono amplificate e tutto quello che succede acquista un senso diverso da quello che avviene fuori. Un giorno, durante una pausa, i ragazzi si sono messi a cantare e ‘suonarè con la voce, imitando gli strumenti musicali. Sono stati talmente bravi che da quella improvvisazione è nata una vera canzone che poi abbiamo inserito nel cd insieme alla favola. Ora stiamo lavorando alla seconda edizione di "Fiabe in libertà", sempre nel carcere di Montacuto, e il progetto è pronto a riservare nuove sorprese, anche per il coinvolgimento dei ragazzi del liceo artistico Osvaldo Licini di Ascoli Piceno". Per "Radio Incredibile" hanno collaborato Valeria Tassotti, Maria Chiara Di Vita, Giorgia Pierantozzi e Margherita Raschellà. Operatore teatrale: Roberto Paoletti. Volterra: teatro-carcere, il progetto Hybris della Compagnia della Fortezza di Laura Nanni lacittafutura.it, 10 settembre 2017 Senso e arte nel Laboratorio di ricerca teatrale del carcere di Volterra. Cosa significa dare spazio alla creazione artistica in un luogo di reclusione. Il teatro in carcere, è una delle attività che da sempre ha suscitato in me, come in molti, vari interrogativi sia dal punto di vista etico che artistico, portandomi a riflettere sulla sua funzione formativa e ri-educativa, cosa che di fatto lo rende, dove si riesca ad attuare, uno strumento a cui istituzioni ed enti dedicano energie e risorse. Ma a Volterra questo discorso è stato capovolto, nel senso che il fine dell’impegno preso con il laboratorio di ricerca teatrale dall’associazione Carte Blanche, è quello artistico, il resto non è che conseguente. Qui c’è una lunga stabilità di fatto dell’attività teatrale tant’è vero che la Compagnia della Fortezza di Volterra rivendica da tempo il suo pieno riconoscimento come Teatro Stabile. Per questo, non rinuncio a ricordare Cesare Beccaria, la sua riflessione filosofica sul concetto di "pena" nella società. Quale funzione deve avere una pena, e come può uno Stato rispondere, al reo e alla società, nel modo che gli deve essere proprio, che non è quello di terrorizzare o di scandalizzare, né di compiere delitti ancor peggiori di quelli commessi dagli imputati, ma, oltre che tutelare la convivenza sociale, di indicare, quando possibile, una strada per recuperare se stessi, per riacquistare dignità, per ‘farsi perdonarè dalla società o, perlomeno, di rendere a questa qualcosa che le si è sottratto? Educare e prevenire. Per arrivare ai suoi ragionamenti sulla pena di morte e sulle torture, lucidissimi. Una riflessione che ancora attualmente viene fatta in Italia, proprio sulle condizioni e gli scopi della detenzione, sulla relazione tra rispetto della dignità umana da parte di chi amministra la giustizia, e la colpa. Ho conosciuto alcune persone che svolgono o hanno svolto attività teatrale in carcere, e anche in un’altra "istituzione totale" come il manicomio, dove anche io ho insegnato e fatto teatro per un anno. Ma questa è la prima rappresentazione a cui assisto in carcere. Credo che non sempre si possa riportare in parole ciò che si vive o il significato che ha l’esperienza che passa attraverso l’arte. I linguaggi artistici non verbali hanno una loro potenza proprio perché non possono essere confinati solo nelle parole con cui si raccontano le opere e l’esperienza. Qui racconto questa bellissima esperienza e qualcosa riguardo la storia della Compagnia, in più cercherò di registrare le mie impressioni nell’assistere alla rappresentazione. Direi che ho più partecipato che assistito, in quanto è stata di fatto un’immersione totale nella dimensione creata dal regista, dagli attori e dai suoi collaboratori. Ho avuto poi la possibilità di fare un’intervista telefonica al regista Armando Punzo, con cui non ero riuscita a parlare al momento della rappresentazione; del dialogo cercherò di riportare ciò che sono riuscita a raccogliere, rispetto alle mie domande che volevano scavare in più direzioni. La Compagnia della Fortezza di Volterra - Perché fare una premessa? Perché istituire un Laboratorio di Ricerca teatrale in un carcere non è la stessa cosa che farlo in una scuola; così come entrare in un carcere per assistere ad una rappresentazione teatrale, non è la stessa cosa che andare in un qualsiasi altro teatro, all’Argentina ad esempio, se stai a Roma. Certamente puoi fare la prenotazione online, ma poi la procedura, per cui, prima di accedere, devi dare i tuoi dati e poi lasciare il tuo documento, poi essere scannerizzato dalla Polizia penitenziaria, lasciando borse e accessori, già ti fa entrare in un’altra dimensione. Così come quando accedi agli spazi, passando attraverso cancellate e cortili ricchi di sistemi di sicurezza e di sbarre, sotto lo sguardo del personale di polizia penitenziaria. È davvero un contesto particolare che potrebbe divenire tanto suggestivo quanto inquietante. La Compagnia, gestita dall’associazione Carte Blanche, quest’anno è al suo ventinovesimo anno di attività, iniziata da Armando Punzo nel 1988, e ha una storia complessa, come è scritto nel suo sito: "Mettere ordine nella storia della Compagnia della Fortezza non è impresa da poco. Tanti i momenti e gli episodi che hanno costellato la straordinaria esperienza di questa compagnia e difficile sarebbe scartarne qualsiasi. La Compagnia della Fortezza è frutto di tutto e di tutti quelli che ne hanno "attraversato" o accompagnato le vicende. Così è stato, e così sarà". Nel tempo l’associazione Carte Blanche (fondata da Punzo nel 1987) sostenuta dal MIBACT, si è ben strutturata e ha raccolto uno staff articolato che cura relazioni e scambi, un’organizzazione in grado di gestire, oltre al laboratorio in carcere curato personalmente da Armando Punzo: rassegne, rapporti con le scuole e con la regione, con manifestazioni di livello internazionale, di attuare progetti europei e formazione professionale. Ha ottenuto premi e fatto nascere altre realtà associative con le quali interagisce, rimanendo un punto di riferimento per quanti, come studiosi o ricercatori, vogliano conoscere e capire la straordinaria vicenda umana e teatrale della realtà carceraria che si è realizzata nella casa di reclusione della Fortezza di Volterra. Progetto Hibrys: Le parole lievi. Lo spettacolo. "Voglio sognare un uomo e imporlo alla realtà". Questo lavoro si ispira all’opera di Jorge Luis Borges. Sulla scena circa settanta attori della Fortezza, inoltre alcune studentesse e alcuni studenti stagisti che il regista ha inserito nell’ultimo periodo del montaggio, per alcuni ruoli. Ogni aspetto della rappresentazione sembra far parte di un "quadro vivente" che cambia, più o meno velocemente, in relazione agli altri che ‘appaiono’, così da avere l’impressione di passare attraverso diversi mondi tanto inverosimili quanto straordinari, visioni che vengono da un luogo ‘altro’ e ci parlano, evocando le essenze di quei luoghi, mentre le azioni si susseguono, le parole ci portano lungo percorsi inesplorati. Tutto è in continuo movimento, come il divenire eracliteo che è l’unica certezza che il logos dà agli uomini. E l’acqua presente sulla scena in cui si immergono personaggi o galleggiano cose, rievoca il fiume e viene continuamente attraversato e percorso. I personaggi sono visioni forti e penetranti, del tutto uniche e quando non sono mirabolanti immagini silenti, raccontano di sé o di un desiderio, di una storia probabile. Il tempo si è fermato o meglio si è espanso, è quella durata bergsoniana, che in me non ha confini. La musica accoglie e accompagna, emoziona, guida o segue, si intreccia all’azione, infatti è nata insieme alla creazione teatrale, ad opera di Andrea Salvadori che, insieme agli altri musicisti ci accompagna dall’inizio alla fine. All’inizio, accedendo allo spazio della rappresentazione, il pubblico passa sotto una galleria formata da alte canne tenute in mano e battute tra di loro dagli attori schierati su due file, sembrano monaci buddisti o piuttosto samurai, non saprei definire…passando osservo gli sguardi degli attori nella loro particolarità e intensità. Sulla scena, Armando Punzo è presente, e la sua presenza sulla scena non è solo quella dell’attore o del regista, è un punto di riferimento, orologiaio che sa come guidare l’ingranaggio perché tutto scorra, ma, ancor più forte, si sente il suo sguardo che accompagna, che incoraggia colui che ne ha bisogno. Personaggi sognati come l’uomo con il pianeta in mano o quello della notte con la sua lanterna che camminano sull’acqua, guerrieri che attraversano lo spazio, ma anche un bambino che gioca e che guarda. L’eterno bambino sognatore o creatore? Il folle danza e pone assurde domande, raccogliendo i sorrisi del pubblico attorno a sé. L’ultimo quadro diviene un’emozione intima, commovente: un giovane dai capelli lunghi, dopo aver recitato il suo monologo al microfono tenuto in mano dal regista, che sembra sostenerlo con lo sguardo, danza con lui una milonga e l’abbraccio in cui si perde è sincero. Un’umanità che si apre nella sua eroica debolezza. È un teatro visionario estremamente potente, per la presenza forte e autenticamente sentita dei componenti della compagnia della Fortezza. Per la corrispondenza dei particolari scenici, dei movimenti, dei costumi e delle musiche con tutto l’insieme. Si sente tutto il sapore del frutto di un lavoro di ricerca profondo e aperto a cui ognuno ha preso parte integralmente. Ciò non toglie che ogni spettatore potrà sentire e recepire in modo del tutto personale le suggestioni e i pensieri che le narrazioni hanno portato sulla scena. Terminata la rappresentazione sotto il sole, cerco l’acqua al tavolo predisposto; sono programmati interventi di esperti, ma non potrò rimanere… così mi guardo intorno, incontro una guardia penitenziaria che mi dà conferma della sensazione che avevo circa la relazione tra il regista e i detenuti della Fortezza. Mi ha parlato di una presenza costante, anche durante le feste, di otto ore circa al giorno in cui le attività che si svolgono, in collegamento al laboratorio teatrale, sono diverse. Mi chiede: "Vede che atmosfera c’è qui? Siamo tranquilli… Secondo lei si potrebbe stare così se non ci fosse stato questo tipo di lavoro continuo, da tanti anni? Ci sono 160 detenuti qui, tutti a tempo lungo". Ha parole di gratitudine e di stima verso questo artista-ricercatore così speciale. Ho la fortuna di incontrare anche una collaboratrice di Punzo, Rossella Menna, che mi dà alcune utili informazioni per reperire materiali e contatti. E poi incontro uno studente e una studentessa che mi dicono qualcosa sul loro stage, o tirocinio, di studenti universitari che vengono introdotti nell’ultima fase in alcune scene. Dialogo telefonico con Armando Punzo - Alcune domande avevano trovato già risposta dagli scambi avuti dopo lo spettacolo. Il lavoro del laboratorio è a tempo pieno e questo consente una relazione profonda con i testi che vengono letti e discussi, e tra gli attori-detenuti e il regista-animatore del laboratorio. Non ho potuto fare a meno di chiedere come e perché ha iniziato qui, in carcere, con quale intento, anche perché Borges, su cui il progetto Hybris si basa, ci consegna il compito della "reinvenzione della realtà". A.P.: Il teatro è prima di tutto ciò che rende possibile… il senso del teatro è far esplodere la realtà in cui si innesta, in questo caso il carcere, portare dentro il carcere il teatro è una situazione ‘anomala’. È modificare la realtà, far in modo che non rimanga uguale a se stessa…Questo è stato il mio punto di partenza, il senso che ho voluto dare a questa ricerca… L.N. Borges reinventa la realtà, la sua opera letteraria sembra quasi essere la cifra del tuo lavoro, non solo di questo progetto… A.P.: Vedi, ci sono vari autori, sui quali lavoro e coi quali ho amato confrontarmi… i testi vengono letti, analizzati, destrutturati… Borges è uno dei compagni di strada, per la sua capacità di mettere in crisi il principio di realtà. L’opera di Borges è difficile, devi farne una lettura attenta, critica. E poi non esiste un’iconografia dei suoi personaggi. I suoi personaggi sono extra-quotidiani, trasformano l’identità, vanno oltre la dimensione conosciuta. E poi, qual’ è la realtà, esiste una Realtà? Questo è un tema filosofico eterno… L.N. (Mi viene in mente il tema del rapporto tra realtà e soggetto che Cartesio ha posto con il cogito ergo sum, anzi con il dubitare, che ci dà conferma solo del fatto di pensare). In effetti, questo è un teatro visionario, in cui lo spettatore "entra", in cui ogni personaggio ha una profondità e un suo mondo, e ci interroga. Come ti avvicini per iniziare, come coinvolgi ogni detenuto? So che qui a Volterra risiedono solo coloro che hanno pene lunghe. A.P.: Il teatro è il Progetto comune che abbiamo, questo ci tiene insieme. È un lavoro enorme, io sono qui otto ore al giorno. C’è un grande lavoro collettivo, ma c’è anche un grande lavoro personale da parte di ognuno: si leggono le opere, se ne fa una lettura completa e complessa che suscita idee e proposte sulle quali poi ragioniamo, perché siano indirizzate. C’è il gruppo degli attori-lettori, loro fanno un lavoro lungo, intenso. Poi c’è il gruppo che si dedica alla scenografia, che arriva dopo ed è guidato anche questo da un responsabile. L.N.: Le relazioni. Ho notato gli sguardi degli attori, tra voi…ma ho anche osservato io gli sguardi degli attori, a volte curiosi (o timorosi?). Come anch’io d’altronde mi chiedevo il motivo della loro detenzione. Ho osservato il tuo sguardo verso gli attori, quello con l’interprete del monologo e della milonga finale, uno sguardo che esprimeva la tua funzione d’incoraggiamento e maieutica al tempo stesso. A.P.: Sì, certo, ci sono anche delle relazioni, alcune sono più forti…io sto qui tutti i giorni per otto ore d’altronde, è naturale. Gli attori-detenuti sono abituati alla presenza del pubblico…E quella milonga finale è nata così dall’inizio, non si può mettere in parola…è qualcosa che va oltre… Danzare un’altra possibilità…per rispondere alla domanda che mi sono posto su che cosa ho fatto in tutti questi anni. L.N. So che partecipate a rassegne, quindi andate fuori, in viaggio: come vi organizzate? A.P.: Naturalmente non tutti possono uscire. Solo quelli che usufruiscono del permesso secondo l’articolo 21. Pensa che eravamo 72 in scena. Per le uscite, c’è da fare un adattamento, si riduce, a volte si inseriscono degli attori in sostituzione. L.N. La musica è stata splendida, unica, ci ha accompagnati, quasi una colonna sonora, ma ancora più… A.P.: La musica viene composta da Andrea Salvadori, insieme alla lavorazione dello spettacolo. Lui osserva, partecipa al laboratorio, segue e osserva le scene, compone. Eppure in questo caso - appunto Le parole lievi, una ricerca sulle parole - la musica doveva essere assente. Torino: cineforum in carcere con Recidiva Zero, riflessioni sulla rieducazione ilnazionale.it, 10 settembre 2017 Il Polo universitario della Casa circondariale "Lorusso e Cutugno" di Torino, in via Adelaide Aglietta 35, ospita lunedì 11 settembre alle 9.30 la proiezione del docu-film Recidiva Zero - Riflessioni intorno all’articolo 27 della Costituzione italiana. La pellicola, già presentata in anteprima nell’Aula consiliare di Palazzo Lascaris, propone una serie di riflessioni a partire dal terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione, che stabilisce che "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Vengono intervistati - tra gli altri - Gustavo Zagrebelsky, già presidente della Corte costituzionale, don Luigi Ciotti, storico fondatore di Libera e del Gruppo Abele, e volontari, operatori carcerari, detenuti ed ex detenuti. Al termine della proiezione, che dura circa 30 minuti, è previsto un dibattito. Una sorta di cineforum, quindi, per detenuti e addetti ai lavori, che non è aperto al pubblico. Il direttore della Casa circondariale ha però autorizzato l’ingresso agli operatori dell’informazione. Al fine di agevolare le operazioni d’ingresso, chi fosse interessato a partecipare è invitato a segnalare il proprio nominativo o quello dei giornalisti e degli operatori che intendono essere presenti all’indirizzo garante.detenuti@cr.piemonte.it entro venerdì 8 settembre. È inoltre consigliabile presentarsi all’ingresso dell’Istituto, in via Aglietta 35, per le ore 9. L’iniziativa, organizzata dal Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale e dal Comitato Resistenza e Costituzione dell’Assemblea legislativa piemontese in collaborazione con la Casa circondariale di Torino, intende promuovere e valorizzare il docufilm come strumento di discussione e di presa di coscienza della realtà detentiva italiana, attraverso la sua diffusione con il coinvolgimento e il supporto delle Associazioni del volontariato penitenziario e, in particolare, del loro Coordinamento regionale. Con il Garante delle persone detenute Bruno Mellano, il vicepresidente del Consiglio regionale Nino Boeti, delegato al Comitato Resistenza e Costituzione, e il direttore dell’Istituto "Lorusso e Cutugno" Domenico Minervini, intervengono gli autori della pellicola Carlo Turco e Bruno Vallepiano, il professore ordinario di Sociologia giuridica, della devianza e del mutamento sociale dell’Università di Torino Franco Prina, responsabile del Polo universitario del "Lorusso e Cutugno" e Giorgio Borge, responsabile del Coordinamento regionale assistenti volontari penitenziari "Tino Beiletti". Firenze: Rificolona nel carcere di Solliccianino; sorrisi, spettacolo e solidarietà di Roberto Davide Papini La Nazione, 10 settembre 2017 Successo per l’iniziativa della direzione del "Gozzini" con le battute di Paolo Hendel e le performance teatrali e musicali dei detenuti. "Guardare le persone al di là dei loro reati": Margherita Michelini, direttrice della Casa circondariale a custodia attenuata "Mario Gozzini" (il carcere che i fiorentini chiamano "Solliccianino", realtà molto diversa da quella difficile e problematica di Sollicciano) spiega così, in poche parole la filosofia che anima il suo lavoro appassionato "per rendere il carcere un luogo per il reinserimento sociale delle persone". Lo fa in una serata speciale, una festa della Rificolona (la tradizionale festa fiorentina con le lanterne colorate di carta) tutta particolare organizzata nel campetto sportivo di "Solliccianino" e aperta alla cittadinanza. Gli intervenuti hanno potuto incontrare i detenuti, apprezzare le performance teatrali della Compagnia "Carpe Diem" (che ha interpretato le poesie romantiche di Daniele Cipollone e il suo"Quel gentil vento", oltre a "L’incanto di una sera d’autunno"), quelle musicali dei gruppi "Sbarre Mic Check" e "Suonati dentro", i prodotti realizzati dagli stessi reclusi e un abbondante buffet offerto dalla Caritas. A caratterizzare la serata, però, è stato soprattutto un clima di festa e di speranza, all’insegna derl motto "La libertà si conquista e non si dona". Tra i protagonisti della serata (seguita in diretta da RadioRadicale) l’attore Paolo Hendel che ha fatto del suo saluto un mini-show divertendo il pubblico, ma anche invitandolo a riflettere. Hendel ha sottolineato come "il carcere non deve essere tortura". Poi Massimo Lensi (Associazione radicale fiorentina "AndreaTamburi"), Elisabetta Beccai (responsabile area educatori del "Gozzini"), Michele Minicucci (responsabile della segreteria dell’assessorato al welfare e sanità del Comune di Firenze), Franco Corleone (garante regionale dei diritti dei detenuti), Eriberto Rosso (Camera penale di Firenze), il cappellano del carcere don Vincenzo Russo, il consigliere comunale Tommaso Grassi (Firenze riparte a Sinistra) e Rita Bernardini (presidenza del Partito Radicale) che ha ricordato tra gli applausi l’impegno di Marco Pannella per migliorare le condizioni delle carceri. Tra i migranti bloccati in Libia: "Qui solo abusi, rimpatriateci" di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 10 settembre 2017 Nel campo di Sabratha dove si consuma la lunga attesa di migliaia di profughi che vorrebbero partire verso l’Italia, tra abusi, truffe e furti. Tre volte ci ha provato e tre volte ha fallito ad arrivare in Italia dalla Libia. La prima, nel settembre 2014, una milizia locale a Garabulli, uno dei porti a est di Tripoli, ha fermato il suo gommone e derubato lui assieme agli oltre 120 migranti a bordo. La seconda, nel novembre dello stesso anno, è finita in tragedia con il motore in panne e il naufragio a poche centinaia di metri dalla costa. "Almeno una dozzina sono affogati tra il buio e la confusione", ricorda. La terza non ha neppure messo i piedi in acqua. È avvenuto nel maggio 2016. Lui aveva già pagato i quasi 1.000 euro, quando gli scafisti si sono semplicemente dileguati. "Una beffa, un grande imbroglio, come del resto capita spesso in Libia", esclama allargando le braccia e con quel sorriso di bonaria, rassegnata impotenza che spesso accompagna i racconti di questi frammenti d’umanità offesa, violata. A sentirli qui tra i campi per migranti tra Tripoli e Sabratha viene spontaneo chiedersi come facciano a resistere ancora, come possano sopportare tante angherie e una sorte così amara. Le cattive notizie - Ma non ci sono limiti alle cattive notizie. La sua personale, che poi è quella di altre centinaia di migliaia intrappolati come lui sulle coste della Libia occidentale, l’ha ricevuta circa un mese fa, quando gli è stato detto a chiare lettere dagli scafisti e da una decina di nigeriani che abitavano presso la sua baracca che per il momento la strada per le coste italiane è chiusa, sbarrata. Insomma, non si passa. Così Moussa Lamin, 31 anni appena compiuti, sta ora rivalutando la sua situazione. "Che posso fare? Era da ben prima il mio arrivo in Libia nella primavera del 2014 che progettavo il futuro in Europa. Nel mio villaggio in Gambia avevo studiato l’inglese. Sono bravo con le lingue. Avrei voluto lavorare nel campo alberghiero. Ma adesso per la prima volta in modo serio sto organizzando il mio ritorno a casa", dice. Non è però facile come dirlo. "Qui in Libia lavoro come imbianchino, mi sono specializzato nel rifinire le abitazioni di lusso, opero sugli stucchi. Bene o male racimolo in media sui 20 euro al giorno. In Gambia non so cosa troverò. Ci torno da sconfitto". Il suo problema è soprattutto logistico. A chi chiedere? Come tornare? Il percorso via terra comporta il riattraversare il Sahara, passare per il Niger, il Burkina Faso, il Mali, il Senegal. Vorrebbe viaggiare in aereo, ma non possiede i documenti giusti. "Gli amici mi dicono di cercare su internet, pare ci sia un sito apposito e pagando 50 dinari gli europei ci aiuterebbero a trovare i soldi per il biglietto e facilitare le procedure. Ma non so. Mi sembra strano". Le cattive notizie - La sua confusione è quella di un migrante giovane, con un’istruzione più alta della media, con qualche risparmio in tasca, in grado di usare il computer e capace di leggere l’inglese. Tutto sommato un privilegiato tra i migranti in Libia. Figurarsi dunque quanto sia grave la situazione delle centinaia di migliaia che non sanno le lingue straniere, sono arrivati da poco e non hanno un soldo. Non è difficile individuarli. Li si incontra anche nei loro tradizionali punti di raccolta lungo le provinciali alla periferia della capitale. Stanno all’ombra dei ponti in attesa delle offerte di lavoro giornaliero: una decina di euro e una minestra in cambio di dieci ore come operai, contadini, elettricisti, facchini. "Sappiamo tutti ormai molto bene che per ora non si passa. Qualcuno prende tempo, sperando che il blocco dei viaggi verso l’Italia sia solo temporaneo. Ma io come tanti altri stiamo cercando i 910 dinari necessari per il biglietto aereo Tripoli-Niger", racconta il 26enne Suleiman Abu Ghadu. Un altro, il 37enne Ismahil Mussa, a sua volta nigeriano, si dice stanco delle "angherie razziste" subite in Libia. Vorrebbe partire subito, essere rimpatriato. Ma non sa come fare. Le autorità - È una richiesta di aiuto che rimbalza anche dalle autorità libiche, comprese milizie e non meglio identificate forze locali. "Cosa fanno le Ong, l’Onu, l’Europa? Promettono, promettono di facilitare i rimpatri, annunciano grandi somme. Ma qui non arriva nulla. Le Ong hanno operato in mare, però da noi non mettono piede", ci dice rabbioso tra i tanti Ibrahim al Majub, capo della milizia di Surman, alla periferia di Sabratha, che ha ai suoi ordini un campo abitato da quasi 700 migranti, di cui 210 donne e una ventina di bambini. Lo stesso ripetono i funzionari del ministero degli Interni a Tripoli incaricati di amministrare i 14 campi ufficiali: "Il fatto grave è che per motivi di sicurezza gli organismi di aiuto internazionale, compresi Unhcr e Imo (le due più grandi organizzazioni mondiali che si occupano di assistere le migrazioni, ndr), non tengono personale straniero in Libia. Il risultato è che non si coordinano sul campo, sprecano risorse, buttano via denaro, lavorano per conto terzi e alla fine i loro sforzi risultano vani". Libia e migranti: una critica costruttiva a Medici Senza Frontiere e alle Ong di Claudia Colombo rightsreporter.org, 10 settembre 2017 Le Ong hanno cambiato il loro modo di operare. Se prima andavano in Africa per aiutare gli africani, adesso aspettano che siano gli africani a venire da loro. È il capovolgimento della loro missione. Prima di affrontare nello specifico il problema dei migranti maltrattati in Libia e il lavoro che dovrebbe essere svolto dalle Ong in quel territorio, vanno fatte alcune indispensabili premesse. 1. Il rapporto di Medici Senza Frontiere non ci dice nulla di nuovo rispetto a quello che già si sapeva su come vengono (mal)trattati i migranti nei centri di detenzione libici. Al limite ci stupisce che rapporti analoghi non siano stati fatti anche prima, quando cioè i migranti venivano detenuti negli stessi centri e nelle stesse condizioni prima di essere spediti verso l’Europa. E poi perché non ci sono rapporti simili per quanto riguarda la Turchia dove la situazione dei profughi siriani (profughi non migranti) è forse peggiore di quella vista in Libia o nei campi della Somalia, del Congo o dell’Uganda? 2. Il lavoro delle Ong dovrebbe essere quello di agire nei territori interessati dai grandi flussi migratori al fine di creare le condizioni necessarie affinché quelle popolazioni non sentano il bisogno di migrare, non quello di aspettare i migranti nel Mediterraneo per traghettarli in Europa. Questa "nuova politica" assistenziale crea in chi vuole migrare la falsa sensazione di poterlo fare con semplicità e che, una volta raggiunta l’Europa, tutto sia semplice e facile. 3. Nel corso degli anni le Ong hanno perso quelle che erano le loro linee guida basilari che erano principalmente la cooperazione e lo sviluppo. Invece di operare con questi obiettivi direttamente nei territori bisognosi in modo di creare le condizioni necessarie a un miglioramento delle condizioni di vita esse si sono concentrate nell’assistenza di chi è in fuga aspettando che queste persone giungano a loro. Insomma, invece di andare in Africa come si faceva un tempo adesso le Ong aspettano che siano gli africani a spostarsi. È più facile e più redditizio ma è anche una rinuncia a promuovere quella cooperazione allo sviluppo che dovrebbe essere alla base del mandato di molte Ong. Solo che mentre in tanti parlavano dei morti nel Mediterraneo nessuno faceva un fiato sulle migliaia di morti nel deserto del Sahara, morti attribuibili in parte proprio a questo assurdo cambio di politica delle Ong. Le Ong non hanno solo ragioni, hanno anche torti Se le denunce delle Ong sui maltrattamenti dei migranti nei campi di detenzione in Libia hanno senza dubbio un fondamento, è altrettanto vero che il loro comportamento non favorisce una soluzione al problema. Prima di tutto evitiamo di prendere per oro colato ogni cosa che viene detta. Non basta la sigla di Organizzazione Non Governativa per essere la bocca della verità. Le Ong vedono la situazione solo sotto il loro punto di vista e la riportano a seconda di quelli che sono i loro interessi. Per esempio, una Ong come Medici Senza Frontiere specializzata in interventi di emergenza e non in progetti di sviluppo punta esclusivamente alla gestione del momento emergenziale e non pensa nel lungo periodo come invece dovrebbero fare coloro che mirano alla soluzione del problema. Insomma, per quanto onesta, la visione di Msf è quella di un ente che gestisce le emergenze ma non il problema alla base. E parlare di "emergenza immigrazione" è ormai superato. Il problema è molto più grosso e non può certo essere gestito nell’ottica emergenziale. La gestione dei campi in Libia - Quello su cui bisogna lavorare non è quindi la gestione dell’emergenza ma la gestione del problema epocale della migrazione africana nel medio-lungo periodo. Se il problema continuasse ad essere gestito come è stato fatto fino ad oggi il risultato sarebbe quello di inviare agli africani un messaggio completamente sbagliato che è quello che possono venire tutti in Europa quando invece questo è impossibile. Non solo, si manda anche il messaggio che una volta arrivati in Libia il più è fatto perché poi ci sono le Ong che provvedono al trasporto in Europa. Fino a qualche tempo fa era proprio questo che raccontavano i trafficanti ai migranti nei punti di partenza in Africa sub-sahariana. L’alternativa c’è ed è quella di arrivare alla gestione dei centri di detenzione in Libia da parte delle Organizzazioni internazionali (Unhcr) in collaborazione con quelle Ong che intendono tornare a operare direttamente nel luogo dove c’è bisogno del loro intervento. Certo, non è facile come aspettarli al largo delle coste libiche, è più complicato operare direttamente in territorio ostile, ma è questo che fanno le Ong serie. Bloccare i flussi in Libia e in Africa nel lungo periodo vuol dire salvare vite - Bloccare i flussi in Africa, o quantomeno governali, nel lungo periodo vuol dire salvare migliaia di vite, vuol dire evitare a questa povera gente di avventurasi nel terribile attraversamento del Sahara prima e del Mediterraneo poi. Una Ong seria non può non considerare questo fatto, non può non valutare i tanti vantaggi di una politica migratoria regolamentata. Puntare solo sulle critiche nella gestione dei centri di raccolta dei migranti (critiche più che giuste) senza valutare quali sarebbero le alternative è quindi quanto di più sbagliato possano fare alcune Organizzazioni Non Governative. Piuttosto si dovrebbero concentrare su come affrontare il problema alla fonte e non al traguardo. In conclusione, pur ammettendo che quanto denunciato da Msf corrisponda al vero, piuttosto che chiedere il ritorno al traghettamento dei migranti una Ong degna di questo nome cercherebbe di trovare soluzioni fattibili e soprattutto agirebbe da Ong, cioè cercherebbe di operare sul territorio al fine di risolvere il problema. È vero che nel caso di Msf, che come ho detto è indirizzata principalmente (se non unicamente) alla gestione emergenziale, vorrebbe dire rinunciare a qualsiasi operazione, ma potrebbero sempre operare nei centri di detenzione in Libia. Su questo bisognerebbe lavorare e non criticare e accusare chi cerca di gestire il fenomeno. L’odissea di un italiano in carcere da un mese per una lite in spiaggia di Franco Vanni La Repubblica, 10 settembre 2017 Durante una lite in spiaggia ha colpito al volto un uomo cardiopatico, che un’ora e mezza dopo è morto d’infarto. Per questo Ivan De Leonardis è detenuto in Egitto dallo scorso 11 agosto, con l’accusa di avere causato la morte di Tareq al-Henawi, dirigente di un resort in costruzione. Un caso su cui si è schierata parte dell’opinione pubblica egiziana che, sostenendo la figlia del morto, chiede "il massimo della severità per l’assassino". Ma la storia potrebbe essere diversa da come è stata ricostruita dalla polizia intervenuta a Marsa Alam - la località turistica del Mar Rosso dove tutto è successo - che inizialmente ai media egiziani riferiva di "diversi pugni al volto". De Leonardis sostiene di avere agito per legittima difesa, limitandosi a liberarsi dalla presa di al-Henawi, che per primo gli aveva messo le mani addosso. Per i legali dell’arrestato, in spiaggia non è stato dato nessun pugno. Una ricostruzione che sembra compatibile con i primi risultati dell’autopsia, che evidenzia peraltro come il morto avesse già avuto in precedenza diversi infarti e presentasse una necrosi a parte del cuore. I fatti che hanno portato in carcere De Leonardis, per come lui li ha riferiti all’autorità giudiziaria egiziana, sono distanti dal racconto di un omicidio. Ma è questa l’accusa da cui rischia di doversi difendere il 42enne, che a Milano lavora per una compagnia di assicurazioni. Racconta che il 10 agosto scorso si trovava in spiaggia, con le due figlie di 6 e 9 anni. Poco dopo le 16,30 decide di spostarsi con le bambine in una zona della spiaggia protetta dalle correnti. Con in mano maschere e pinne, camminando sulla sabbia, i tre raggiungono un pontile. Lì De Leonardis viene avvicinato da un uomo che gli chiede 3 euro per superare il molo. De Leonardis spiega di non avere con sé soldi. L’uomo chiama allora un proprio superiore. È al-Henawi, che arriva sul posto dopo avere camminato per 750 metri sotto il sole a 38 gradi. Spiega a De Leonardis che quella è area di cantiere e che l’accesso è vietato, anche a pagamento. I toni si fanno accesi. Secondo De Leonardis, l’egiziano lo spintona e lo afferra per la maglia all’altezza del petto. Lui si difende con un "movimento circolare del braccio, dal basso verso l’alto", per sottrarsi alla presa e così lo colpisce in volto. Sempre secondo De Leonardis, la lite a quel punto si placa. I due egiziani si allontanano, lui fa il bagno con le figlie e rientra al resort, dove la sera viene avvisato del fatto che l’uomo con cui ha avuto una lite è morto per infarto. La mattina successiva arriva in hotel la polizia, che lo ferma. E comincia per De Leonardis quello che definisce "l’incubo". L’indomani, la compagna dell’uomo vola a Marsa Alam, per riportare in Italia le figlie. A De Leonardis viene sequestrato il passaporto, ed è condotto a Qusair, centro a Nord di Marsa Alam, dove resta da detenuto per nove giorni. Viene poi quindi trasferito a Hurgada, dove il 19 agosto l’avvocato indicato dall’ambasciata italiana al Cairo chiede il rinvio dell’udienza di convalida del fermo, non essendo disponibile un interprete. Il 26 agosto l’arresto è convalidato. Intanto, De Leonardis vive in una cella del comando di polizia "numero Uno" di Hurgada. Assieme a lui, altri 40 uomini fra cui per un periodo due cittadini olandesi. Oggi il tribunale potrebbe decidere di trasferirlo in carcere oppure, come chiede la difesa, liberarlo in attesa dell’eventuale giudizio e collocarlo presso una struttura scelta d’accordo con il personale diplomatico italiano. Contro De Leonardis c’è la testimonianza del primo uomo con cui ha avuto un diverbio, che ha poi assistito alla scena. E che ha riferito di come l’italiano avrebbe sferrato almeno un pugno in faccia ad Al-Henawi. E c’è la pressione di molte migliaia di abitanti dei distretti sud orientali dell’Egitto, che non vedono di buon occhio gli atteggiamenti arroganti diffusi fra i frequentatori stranieri dei resort di Marsa Alam. Una rabbia che si sfoga su Internet nei commenti alle notizie sull’indagine. E su tutta la vicenda si stende l’ombra lunga della morte di Giulio Regeni, lo studente italiano dell’università di Cambridge rapito al Cairo il 25 gennaio 2016. Il corpo, straziato da segni di tortura, è stato rinvenuto il 3 febbraio vicino a una prigione dei servizi segreti egiziani. E oggi ancora non è chiaro il grado di coinvolgimento del governo egiziano nel sequestro e nell’omicidio. Sul caso dell’arresto di De Leonardis, il ministero degli Esteri italiano si limita a comunicare che "l’Ambasciata al Cairo, in stretto raccordo con la Farnesina, continua a seguire con la massima attenzione il caso del Signor Ivan de Leonardis, attualmente in stato di custodia cautelare ad Hurgada. In attesa che si definisca la sua posizione giudiziaria, la nostra rappresentanza, in contatto con le autorità locali e con i familiari, si adopera per prestare al connazionale ogni possibile assistenza". Finora, a De Leonardis sono stati garantiti contatti quotidiani e diretti con personale diplomatico italiano. Torture e altri orrori nell’Egitto di al-Sisi di Vanessa Tomassini notiziegeopolitiche.net, 10 settembre 2017 Chiediamo scusa ai lettori se questo articolo turberà la sensibilità di alcuni lettori, ma a volte la realtà è più cruda di ciò che potremmo aspettarci, anche in un Paese che sentiamo più vicino come l’Egitto. Il 5 luglio 2013 l’esercito egiziano rovesciava l’ultimo presidente democraticamente eletto, Mohamed Morsi. Da questo momento, come denuncia Human Right Watch nel report rilasciato il 5 settembre. la tortura è tornata ad essere uno degli strumenti più utilizzati dalle forze di polizia, sotto gli occhi del presidente Abdel Fattah al-Sisi, che sembra aver dato mano libera al Ministero dell’Interno pur di una stabilità politica, voluta a tutti i costi. Talmente voluta che la stessa amministrazione al-Sisi si sta macchiando degli stessi orrori, che avevano portato alla rivoluzione del 2011. La polizia controllata dal ministero dell’Interno e la sua Agenzia nazionale per la sicurezza hanno diffusamente utilizzato accuse arbitrarie, catture forzate e torture contro i dissidenti, spesso membri reali o presunti, simpatizzanti della Fratellanza Musulmana, principale partito polito di opposizione ad al-Sisi. Il Coordinamento indipendente egiziano per i Diritti e le Libertà (Ecrf), un gruppo che si batte per il rispetto dei diritti umani, ha individuato trenta persone uccise sotto tortura nelle stazioni di polizia e in altri siti di detenzione del ministero dell’Interno, tra il mese di agosto 2013 e il dicembre 2015. Gli avvocati del gruppo, che offre assistenza legale alle famiglie delle vittime, hanno ricevuto nel 2016 oltre 830 denunce di casi di tortura, registrando altre quattordici morti, avvenute in detenzione. Ecrf ha rivelato che le forze di polizia sono solite torturare i detenuti politici con percosse, scosse elettriche, comportamenti stressanti e stupri. Hrw ha intervistato diciannove ex detenuti e la famiglia di un altro arrestato, torturato tra il 2014 e il 2016, dimostrando come gli agenti e gli ufficiali dell’Agenzia nazionale per la sicurezza utilizzino lo strumento della tortura durante le loro indagini costringendo i sospettati dissidenti a confessare, o divulgare informazioni, o in qualche caso punirli senza un giusto processo, come prevedrebbe la stessa legislatura egiziana ed internazionale. Gli ex detenuti hanno raccontato di essere stati arrestati, senza alcuna prova, di essere stati rinchiusi forzatamente, torturati e picchiati fino alla deposizione di una confessione dinanzi ai pubblici ministeri. Gli stessi funzionari delle aule di giustizia presserebbero gli imputati affinché confermino le proprie dichiarazioni fatte sotto tortura, senza porre alcuna domanda sulle violazioni da loro subite. Una sorta di processi farsa, dove gli ufficiali della Sicurezza nazionale manipolano per fino le date degli arresti. In alcuni casi, si è detto che l’imputato è stato arrestato il giorno prima, mentre il soggetto sarebbe stato condotto in cella diverse settimane prima, senza la possibilità di contattare i propri familiari e senza un minimo di assistenza legale. Comportamenti incomprensibili espressamente vietati dalla costituzione egiziana, che prevede l’arresto solo in seguito ad un interrogatorio, che deve avvenire esclusivamente in presenza di un avvocato. La legge concede inoltre agli imputati la facoltà di non rispondere, oltre a sancire che il detenuto debba essere presentato ad un procuratore entro 24 ore dalla cattura. Sempre dopo che sia stato informato della ragione del suo arresto. Sempre secondo la Costituzione all’indagato è consentito di contattare un avvocato e un familiare. La legge del Cairo "vieta la tortura, l’intimidazione, la coercizione e il danno fisico o morale dei detenuti" e precisa che la tortura è un "crimine senza limiti di legge". Inoltre prevede che tutte le dichiarazioni fatte sotto crudeltà o minacce debbano essere ignorate, rispettando gli impegni assunti dall’Egitto con la comunità internazionale nel raggiungere gli standard di rispetto dei diritti umani. Gli intervistati da Hrw hanno affermato che le loro tristi esperienze sono iniziate con un blitz all’alba nella propria abitazione, o con degli appostamenti della polizia lungo il tragitto che compiono abitualmente verso il posto di lavoro, l’università o nei luoghi che frequentavano, senza che venga mostrato loro un mandato, ma soprattutto senza veder palesati i motivi dell’arresto. In alcuni casi, mentre i sospettati venivano condotti nelle stazioni di polizia o negli uffici della sicurezza nazionale, altri agenti arrestavano anche i loro familiari. Nei venti casi descritti, la maggior parte delle torture sono avvenute negli uffici della polizia, mentre sei uomini hanno dichiarato di essere stati sottoposti a torture per decenni presso la sede dell’Agenzia per la sicurezza nazionale, al ministero dell’Interno, al Cairo. Le torture hanno portato cinque degli intervistati a confessare tramite la lettura di righe preparate ad hoc dagli agenti, filmati in un video e diffusi sul social network. L’inchiesta dell’osservatorio per i diritti umani, giunge in un clima particolarmente autoritario: arresti ed espatri per diversi giornalisti "scomodi2, giovani protestanti torturati ad Alessandria d’Egitto, oltre all’arresto di un ex ministro delle Finanze e suo fratello, massacrati con le scosse elettriche fino alla confessione di appartenere alla Fratellanza Musulmana. Tra i tanti casi riportati dalla stampa quello che tocca in maniera particolare gli italiani, è quello di Giulio Regeni. Il corpo dello studente friulano, ucciso in circostanze ancora da chiarire, presentava "diversi segni di percosse, torture, bruciature di sigaretta, escoriazioni e un orecchio tagliato", come aveva dichiarato il procuratore capo di Giza, Ahmad Nagi. "I detenuti - si legge nel report - hanno raccontato che all’inizio delle sezioni di tortura vengono bendati, spogliati e ammanettati, vengono colpiti con una pistola elettrica spesso in regioni sensibili come le orecchie o la testa, mentre vengono schiaffeggiati e picchiati con barre di metallo". Se i detenuti non forniscono risposte soddisfacenti alle loro domande iniziali, "gli ufficiali aumentano la durata e l’intensità delle scosse elettriche e utilizzano una pistola a stordimento su altre parti del corpo, quasi sempre i genitali". Se le scosse non dovessero bastare, scrive Human Right Watch, "gli ufficiali passano a due tipi di posizioni di stress per infliggere gravi dolori ai sospettati", arrivando ad appendere i detenuti alle porte o al soffitto con le manette, con i polsi e le spalle girati per minuti, o ore. Ma le descrizioni nel report, non si fermano a questo, un ex detenuto ha raccontato di essere stato penetrato con un bastone dai poliziotti del Cairo. Un altro, invece ha affermato che "un ufficiale di sicurezza nazionale ha penetrato il suo braccio con un chiodo metallico avvolto in un filo elettrico per aumentare il dolore delle scosse elettriche". Un avvocato detenuto dagli ufficiali di sicurezza nazionale in una struttura del governatorato di Gharbiya ha detto che "gli agenti hanno avvolto un filo intorno al suo pene, alimentando l’elettricità". Il report denuncia la totale mancanza di rispetto del diritto internazionale, con la partecipazione di alcuni Procuratori, che non avrebbero preso in considerazione i racconti delle torture subite dai detenuti. La tortura è un crimine contro l’umanità? Per al-Sisi sembrerebbe proprio di no, per Hrw invece sì e fa appello alla Corte penale, raccomandando al presidente al-Sisi di instituire un procuratore speciale o un ispettore generale per investigare le denunce degli abusi da parte dei funzionari del Ministero dell’Interno. Secondo il diritto internazionale la tortura rappresenta un reato di giurisdizione universale, cioè perseguibile ovunque, quindi quale sarà la reazione dell’Onu di fronte a certe nefandezze? Issa Amro, l’attivista perseguitato da Israele e Palestina di Riccardo Noury Corriere della Sera, 10 settembre 2017 Issa Amro, attivista palestinese, coordinatore di "Giovani contro gli insediamenti" (un gruppo che documenta le violazioni dei diritti umani e organizza manifestazioni pacifiche contro l’operato di Israele nella città di Hebron), è stato arrestato dalla polizia palestinese il 4 settembre e rimarrà in carcere almeno fino a lunedì 11. Amro è accusato di aver danneggiato l’ordine pubblico per aver criticato, in un post su Facebook, l’arresto di Ayman al-Qawasmi, direttore di "Mimbar al-Hurriya", una radio locale di Hebron. Entrambi gli arresti si basano sulla controversa legge sui reati informatici entrata in vigore a luglio, che solo ad agosto ha portato in carcere sei giornalisti. La nuova legge impone rigidi controlli sui media online e vieta l’espressione del dissenso in Rete. Ai sensi della legge, chi critica il governo dell’Anp rischia l’arresto e una multa. Lo stesso vale per chi condivide o ritwitta post critici. Se la "critica" danneggia l’ordine pubblico, l’unità nazionale o la pace sociale, sono previsti persino 15 anni di lavori forzati. Amro deve anche rispondere di aver provocato disordini e di aver insultato le più alte autorità, ai sensi del codice penale giordano del 1960 che è tuttora applicato dall’Autorità nazionale palestinese. Amro, in sciopero della fame, è detenuto in una piccola cella. Nell’udienza di fronte al giudice del 7 settembre ha denunciato di essere stato picchiato, insultato e minacciato di morte. In attesa che le autorità palestinesi decidano se rinviarlo a giudizio o meno, Amro è sotto processo in una corte marziale israeliana, per aver organizzato manifestazioni pacifiche contro le prassi discriminatorie e gli insediamenti di Israele a Hebron. Venezuela. Viaggio nel carcere più pericoloso del mondo di Rossana Miranda Feluche formiche.net, 10 settembre 2017 Recensione del libro "I dannati. Reportage dal carcere venezuelano più pericoloso del mondo" della giornalista Christiana Ruggeri (Infinito Edizioni). Leggere I dannati. Reportage? dal carcere venezuelano più pericoloso del mondo di Christiana Ruggeri (edito da Infinito Editore, con il patrocinio di Antigone) è come vedere una stagione completa di Narcos su Netflix, ma fatta di parole e più poesia. A differenza delle fiction, la lettura regala più stimoli alla fantasia e offre la possibilità di riflettere interiormente su quella realtà che racconta. I dannati è un libro crudo che provoca una rabbia fortissima e un nodo in gola a ogni riga. Narrato in prima persona, il volume racconta la vita di Riccardo, un detenuto italiano condannato a 22 anni di carcere per spaccio di droga in Venezuela. Una triste storia vera. Napoli e l’inizio dell’incubo - La storia di Riccardo comincia a Napoli, dove è cresciuto con la madre, che lavorava al mercato e cucinava per le suore. Suo padre li aveva abbandonati quando la mamma, Rita, era ancora in gravidanza. Alla sua morte, Riccardo ha deciso di partire per il Sudamerica. "Sepolta lei, ho sepolto me stesso - si legge in I dannati -. Gli amici. La casa, che tanto era in affitto. Dovevo cambiare aria. Perché la brezza marina mi portava il suo ricordo e, invece d’infondermi energia, me la toglieva. Spingendomi nel dolore più nero. Nel vortice della mancanza, che risucchia e uccide silenziosa". Così Rico - com’è stato ribattezzato nel Paese sudamericano - parte e arriva in Venezuela, dove si rifà una vita nel "bianco mondo della neve", cioè la cocaina: "Non sono rimasto a Caracas per sbaglio […] Ho sopravvalutato la mia sete di soldi e sottovalutato la mia totale assenza di anima, della gente con cui mi ero messo in affari". Ruggeri racconta con sensibilità i passaggi più importanti di una vita spezzata: affari, amori, sogni, paure e ferite dell’anima. E in quel racconto riesce ad addentrarsi nella complessità della natura umana. Inviata soprattutto nei Paesi africani, Ruggeri si occupa di esteri al Tg2. La giornalista, impegnata sul tema dei diritti umani, è molto coraggiosa: non solo è entrata in uno degli inferni più temuti del Venezuela, dove nemmeno i venezuelani hanno il coraggio di addentrarsi, ma lo racconta senza sconti. La crisi penitenziaria in Venezuela - I dannati non è soltanto un libro che parla di un uomo caduto in disgrazia e, attraverso di lui, della vulnerabilità di tutti gli essere umani. Il libro di Ruggeri è anche una radiografia socio-politica del Venezuela. Rico è un detenuto della Penitenciaría General de Venezuela (Pgv), uno dei carceri più pericolosi del Venezuela, ubicato nella cittadina di San Juan de Los Morros, nel sud del Paese. In questo centro di reclusione, progettato per ospitare circa 700 detenuti, ne convivono 4.000. In alcuni degli anni trascorsi dietro quelle sbarre, ad accompagnare Rico c’erano quasi 6.000 carcerati. La realtà del Pgv non è un’eccezione comunque. Secondo l’Observatorio Venezolano de Prisiones, nella prima metà del 2017 il numero di prigionieri ospitati all’interno degli istituti di pena del Venezuela superava del 190 per cento la loro capacità massima. La vita quotidiana dietro le sbarre - Dalla mazzetta che è costretto a pagare per riuscire a fare pipì fino agli incubi che lo tengono sveglio la notte, che secondo lui è "il peggior momento di tutta la giornata": la vita in carcere sembra trascorrere in attesa della morte, "sembra il set di un film sui narcos - racconta Rico - e io una comparsa che non aveva letto il copione". "La mia parentesi sfortunata nel mondo dei tossici venezuelani mi aveva insegnato a non indugiare mai con gli sguardi - ricorda Rico -. Quello errato equivaleva a un colpo di pistola in fronte. Allora ho alzato la testa con cautela". Ed è così che è riuscito a sopravvivere in carcere. Ruggeri spiega attraverso la voce di Rico la crisi economica senza precedenti che sta vivendo il Venezuela. "Dalla morte di Hugo Chávez, nel 2013, il suo successore Nicolás Maduro non riesce ad arginare il tracollo del bolívar, la moneta venezuelana. Io ho vissuto tutto il peggio, fuori e dentro le sbarre: Chávez, Maduro e il declino del chavemadurismo. Un salario mensile vale circa dodici dollari. La gente fa la fame. Con la droga, guadagnavo 2.000 dollari al mese. Ero ricco, prima di finire al macero. E quella capezza d’oro al collo che nemmeno mi piaceva, mi rendeva tanto playboy. Che stronzo". Secondo il detenuto, proprio perché il popolo è in ginocchio, "in Venezuela esiste un mercato nero per tutto. Persino per il cambio. Di fatto, con una banconota da 100 bolivar, il taglio più grande in circolazione, ti paghi a malapena un caffè. È folle, ma può arrivare a 15 dollari. Se, al contrario, fai un pieno di benzina, sganci una mancia". Una fiore che spunta dall’asfalto - Non tutto però è oscurità e declino per I dannati. Ruggeri lascia spazio anche alla speranza, la compassione e la solidarietà. Rico capisce dal carcere l’importanza dei piccoli dettagli e degli oggetti che rendono la vita più facile, migliore. Uno dei personaggi che dà luce a queste pagine è suor Neyda, per Rico "un fiore di quelli che spuntano dall’asfalto, dove non c’è terra. E non si sa come facciano a vivere". La "goccia bianca", come è chiamata dai detenuti, visita il Pgv da 18 anni ed insegna i detenuti a leggere e scrivere. È lei che riceve queste pagine piene di dolore e paura scritte da Rico. "Ho sentito assassini di lungo corso pronunciare frasi inimmaginabili: "Lei ci dà lezioni di spiritualità, ci allarga il cuore" […] E così si muove tra i gironi danteschi del Pgv, dove ha visto crescere baby spacciatori che a sedici anni hanno già il peso della vita di un centenario […] Lei non molla. E guardarla agire m’infonde quel minimo di coraggio che mi permette di sopravvivere".