“Esercizi di libertà”, al Premio Castelli dialogo con persone vittime di reati Il Mattino di Padova, 9 ottobre 2017 “Libertà perduta, libertà sperata: come riconquistarla?”, è questo il titolo della decima edizione di un importante concorso di scrittura per detenuti, il Premio Carlo Castelli, che la Società di San Vincenzo De Paoli organizza ogni anno. La formula è particolare: si basa sulla solidarietà nella condivisione dei premi che vengono suddivisi tra il vincitore e una buona causa nel sociale. La premiazione è avvenuta il 6 ottobre al Due Palazzi, con una iniziativa dal titolo “Esercizi di libertà”, che ha visto dialogare vittime di reati come Agnese Moro e Lucia Annibali, persone detenute, persone esperte di pene e di carcere. Quelli che seguono sono gli interventi di un ergastolano e di Agnese Moro, figlia dello statista ucciso nel 1978. Con il padre detenuto non è facile crescere Mi viene difficile parlare di libertà, perché sono condannato all’ergastolo ostativo e sono in carcere da 25 anni. Dopo un lungo periodo di carcerazione afflittiva, di contenimento, quattro anni fa sono riuscito ad iniziare un percorso di reinserimento. Faccio parte della redazione di Ristretti Orizzonti, si tratta di un progetto sperimentale, perché io che sono stato per anni nel regime duro del 41 bis e sono ancora in una sezione di Alta Sicurezza, partecipo però ad alcune attività insieme ai detenuti comuni. Ogni anno incontriamo quasi seimila studenti delle scuole superiori del Veneto e raccontiamo la nostra esperienza. Questo confronto con la società esterna ci ha aiutato molto, ci ha fatto crescere con propositi costruttivi e ci ha allontanato da quella subcultura che per molti anni ha dominato le nostre vite. Attorno al tavolo della redazione abbiamo anche avuto un confronto con le istituzioni che ha dato molto a noi e alle nostre famiglie, perché abbiamo coinvolto i nostri familiari e in particolare i nostri figli. Questo coinvolgimento attivo li ha portati ad intervenire ai nostri convegni e noi abbiamo visto un cambiamento anche in loro, perché non è facile crescere nella normalità quando tuo padre è detenuto, le colpe dei padri spesso ricadono sui figli. Soprattutto quando hai un padre condannato all’ergastolo ostativo come me, è facile che la rabbia verso le istituzioni si impossessi di loro e noi questo non lo vogliamo. Secondo me la strada giusta per abbandonare questa subcultura è il confronto, con la società civile e con le istituzioni. Abbandonare quella subcultura che ci ha nutriti per noi è riconquistare un po’ di libertà, anche se per me la libertà è sempre un pensiero lontano, sono in carcere da 25 anni, ma io ci spero tanto, ci spero tanto in un futuro in cui sarò libero di abbracciare le mie figlie. Tommaso Romeo, ergastolano Prigionieri del dolore della rabbia e dell’odio Ringrazio per questo invito in questo luogo dove davvero si impara sempre qualche cosa. Il tema è bellissimo, credo che la libertà e la capacità di essere liberi sia in fondo la sfida cui è sottoposta ogni vita umana, perché essere liberi non è essere cialtroni o fare quello che ti pare, essere liberi è avere un respiro grande che possa prendere te stesso e gli altri riallacciando tutti. Qui siamo in carcere, che cosa significa la privazione della libertà? Tra i suoi effetti c’è l’isolamento, l’impoverimento materiale, fisico, mentale, affettivo, culturale. Impoverimenti ai quali si oppongono, per fortuna, tante persone come Ristretti Orizzonti, il Volontariato, tanti valenti operatori che cercano di fare del carcere un posto diverso. In un certo senso, però, questo stesso processo di impoverimento, anche se non evidente, può avvenire anche per un’altra perdita di libertà, dovuta al fatto che vieni coinvolto in qualche cosa che non hai scelto, e questo qualche cosa che non hai scelto ti cambia la vita. Personalmente io ho un po’ di esperienza di che cosa succede quando a catturarti, ad imprigionarti sono emozioni, sentimenti che nascono dall’aver subito una violenza. A me direttamente non è stata fatta una violenza, ma è stata fatta alla persona a me estremamente cara, e lascia dei segni, e anche lì c’è in qualche modo un impoverimento e una perdita di libertà. L’anno prossimo saranno 40 anni dalla morte di mio padre, un tempo lunghissimo. A volte io stessa non riesco nemmeno a rappresentare davvero 40 anni, ho passato 25 anni con mio padre e 40 senza. Nella storia di mio padre ci sono diversi tipi di violenza, intanto l’assassinio di 5 persone che erano le persone che lo scortavano, il suo rapimento con tutto quello che significa per una persona che viene portata via dalla sua vita, che è fatta di cose grandi, fatta di cose piccole, è fatta di milioni di cose, e questa stessa sensazione è quella delle famiglie che stanno lì, non sanno niente di questa persona, che cosa gli succederà. È l’abbandono che ha vissuto mio padre, perché comunque la sua storia è stata caratterizzata dall’abbandono, anche dal disprezzo di tanti, dall’isolamento così totale da non poter neanche avere le più piccole notizie dalla famiglia, e poi l’uccisione, e l’uccisione significa non soltanto la perdita di una vita, nel senso che la vita si è fermata a un giorno preciso per volontà di qualcuno, ma significa anche, nel caso di mio padre, che tutto ciò che lui ha vissuto è stato messo tra parentesi. Perché lui è diventato un caso giudiziario, alla fine questa è esattamente la sensazione che può avere la famiglia della vittima: non c’è più niente di privato, perché quella morte ti ha portato via qualsiasi ambito privato. Certe volte quando vedo certe discussioni su mio padre mi sembra di vederlo sul tavolo dell’obitorio, un pezzo di carne lasciato lì, e noi abbiamo lottato per tanti anni perché ritornasse ad essere, ad essere stato, una persona viva. Quindi ci sono parecchie forme di violenza che subisci. Ma tu vuoi giustizia? Questa parola è così bella, giustizia, ed è anche una di quelle parole più complicate, una delle cose più immateriali, più difficili da raggiungere, certamente c’è il diritto penale, che è importante perché fischiare i falli, dire che quel comportamento è un comportamento che la nostra società non ammette, è importante. I responsabili della morte di mio padre sono stati tutti condannati, hanno avuto pene severe, le hanno scontate, ma per me anche se fossero stati 200mila anni di prigione era lo stesso. Purtroppo, il fatto che un altro sia chiuso dentro a un posto, a te che hai sofferto per quello che ti hanno fatto, se hai un po’ di spirito vendicativo ti fa piacere, io purtroppo non ce l’ho, per me è indifferente, io voglio qualcos’altro perché io voglio stare bene, ho diritto di stare bene. E quindi tu alla fine, anche se il diritto penale ha fatto il suo dovere, rimani prigioniero, non libero, perché sei prigioniero del dolore, della rabbia, dell’odio, del rancore, dell’assenza, dei sensi di colpa. Perché purtroppo c’è anche un senso di colpa che non è l’attribuirsi delle responsabilità, però, nel caso mio, mio padre è stato sequestrato per 55 giorni, io per tanti anni ho avuto il dolore di non essere riuscita a salvarlo. E quindi, tutto questo groviglio, che nessuna condanna all’ergastolo potrà mai sanare, fa sì che tu rimanga in una situazione paralizzata, apparentemente continui ad andare avanti, a farti una famiglia, a fare un sacco di cose, però una parte importante di te sta lì prigioniera di questi sentimenti e di una cosa terribile, che è la dittatura del passato, quella per cui il fatto che a mio padre o alla sua scorta sono successe queste cose, per me ritorna ogni giorno, e questo groviglio si prende almeno metà di te stesso, metà della tua vita interiore, e tu rimani in qualche maniera nudo, perché a chi la racconti questa cosa? con chi ne parli? e ti senti solo, pensi che nessuno ti possa capire e in un certo senso sei anche cieco, perché non ti accorgi di quello che attorno a te ci potrebbe essere. Se sei fortunato, e io sono fortunata, qualche cosa nella tua vita ti fa capire qual è la tua situazione, perché tu non te ne accorgi che stai così. Ci deve essere uno schiaffone, per me è stata la mia famiglia. Io ho una famiglia che amo molto, ho tre figli che adoro, e ad un certo punto ho capito che tutto questo gran groviglio le stava togliendo qualche cosa, io avevo poco spazio per loro, e non è bello perché questo ferisce gli altri. Allora questo schiaffone è quello che mi ha fatto dire una cosa importante per me che è basta!. (…) Tu non puoi di colpo amare le persone che ti hanno fatto del male, però puoi dire basta, e questo basta ha delle conseguenze positive. Agnese Moro Tra i vincitori del Premio nazionale “Castelli”, Angelo con fine pena “31-12-9999” di Alberta Pierobon Il Mattino di Padova, 9 ottobre 2017 “Grazie per l’impegno con noi “ultimi” che può diventare libertà dentro un incontro” ha scritto come dedica il quarantenne vincitore del premio letterario nazionale Castelli, riservato ai detenuti, su una copia del libro che raccoglie i testi selezionati, compreso il suo “Liberodentro”. Al concorso hanno partecipato in 198 con 230 scritti, da tutt’Italia E lui, Alberto, al microfono, voce emozionata e parole decise racconta la sua pena (“queste mie mani sono sporche di sangue e ci devo fare i conti ogni giorno”), il suo percorso (“sono convinto che se assecondi un cambiamento, può diventare evoluzione”), il suo obiettivo (“non è importante quando esci dal carcere ma come esci”). E ringrazia: da anni e anni è in carcere a Como, venerdì è uscito per la prima volta, accompagnato dalla scorta, per venire a Padova alla premiazione. La grande sala palestra della casa di reclusione Due Palazzi (ospita 600 detenuti) è gremita di pubblico. Pubblico esterno e persone recluse visto che a loro è dedicata la cerimonia conclusiva della decima edizione del premio nazionale Castelli (“Esercizi di libertà”) organizzato dalla società San Vincenzo De Paoli. Al tavolo dei relatori, tra gli altri, il direttore del carcere Ottaviano Casarano; Antonio Gianfico, presidente nazionale della San Vincenzo; Luigi Accattoli, giornalista e scrittore, presidente della giuria del premio. E Ornella Favero, di “Ristretti Orizzonti”, che da anni tiene alta la bandiera “dell’esperienza padovana”, ovvero di un carcere che scavalchi il modello-ghetto, buio e dimenticato, capace solo di incancrenire chi ci finisce dentro. Che un giorno uscirà. “Il dolore è fecondo” scrive Alberto nel suo racconto “ti costringe al faccia a faccia con te stesso”, un lavoro interiore che gli ha insegnato che la libertà non è l’immobilismo del carcere ma neppure la folle corsa del fuori. Un bel racconto. Diretto, sincero. I tre testi vincitori sono stati letti da esterni e detenuti che fanno parte del gruppo Teatro Carcere gestito da Maria Cinzia Zanellato: il tutto intervallato dai brani cantati dal Coro Due Palazzi, diretto da Giulia Prete, e fondato dall’associazione padovana Coristi per Caso grazie alla scuola interna al carcere. Due attività sostenute da Incontrarci, associazione capofila della rete di soggetti, pubblici e privati, del progetto “Papillon-Operatori di Relianza”, vincitore del bando sociale 2016 della Fondazione Cariparo. Si chiama Daniele Carli, ha vinto il secondo premio con “Libero sono libero”: condannato per bancarotta è entrato in carcere dopo 12 anni di “libertà apparente”. I tre gradi di giudizio, 144 mesi di attesa, e poi la cella. Conclude il suo brano: “Forse c’è un messaggio segreto in tutto questo: mi è capitato perché capissi qualcosa. Sono arrivato perfino a pensare di averlo voluto io. A pensarci bene, da tempo, fuori, una parte di me pensava di scoprire un altro modo di guardare le cose, di fare un’altra vita. Ora tutto mi sembra quadrare. Finalmente sono libero”. La condizione umana e le sue grandi risorse, a saperle e volerle cercare, nella peggiore delle condizioni. Il terzo premiato è Valerio Sereni, la sua storia (“Come un’onda dall’anima”) pare arrivare dritta da Dostoevskij. Potente e straordinaria. Uccise un uomo ma nessuno mai fece il suo nome, nessuno lo cercò. Dopo 17 anni, otto anni fa, si è costituito spontaneamente: “Avevo ucciso ma nessuno l’aveva mai saputo. Nessuno? È possibile nascondersi da se stessi?”. “Non volevano credermi, pensavano che fossi un mitomane”, racconta. E conclude: “Il carcere come il deserto è un luogo di educazione del cuore per imparare a guardare, ad ascoltare, a ringraziare, ad amare. Per imparare a vivere da uomini autenticamente liberi”. Angelo Meneghetti è uno dei due padovani, del Due Palazzi, tra i dieci segnalati: condannato all’ergastolo ostativo, quello che papa Francesco ha definito “pena di morte viva”. Fine pena 31-12-9999 c’è scritto nel suo certificato di detenzione. Ha letto al microfono il suo testo intitolato “Le mie notti tormentate”. La giornata speciale al Due Palazzi è continuata nel pomeriggio con un convegno al quale hanno partecipato Maria Agnese Moro, Lucia Annibali, don Guido Bertagna con interventi e testimonianze di detenuti e dei loro familiari. I Radicali: “un terzo dei detenuti in carcere per droga, sovraffollamento inaccettabile” today.it, 9 ottobre 2017 Mobilitazione nazionale dei Radicali Italiani per la giustizia nelle carceri: “Violata la legalità costituzionale”. Secondo i dati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria il tasso medio di sovraffollamento è del 114% con picchi fino al 200%. Da lunedì 9 a domenica 15 ottobre Radicali Italiani organizza una settimana di grande mobilitazione nazionale sul fronte della giustizia e delle carceri. Sono oltre cento i militanti coinvolti nelle visite, a cui parteciperanno il segretario Riccardo Magi, il tesoriere Michele Capano, la presidente Antonella Soldo. Accanto ai radicali anche numerosi parlamentari, tra cui Gennaro Migliore, Luis Alberto Orellana, Luciano Uras, Mara Mucci, Massimo Cassano, e rappresentanti delle istituzioni locali, come il sindaco di Pavia Massimo Depaoli e di Cagliari Massimo Zedda. Secondo i dati del Dap, un terzo della popolazione reclusa sconta una pena per reati legati alla droga e la stragrande maggioranza ha problemi di dipendenza. Una realtà dai costi sociali, sanitari ed economici altissimi e dalle gravi conseguenze sotto il profilo del sovraffollamento carcerario e per il funzionamento della giustizia. “Una grande riforma antiproibizionista, come quella che proponiamo, eviterebbe anche tantissimi dei procedimenti che oggi ingolfano la macchina della giustizia e colpiscono anche giovani e giovanissimi”, spiega Alessia Minieri, della giunta di segreteria di Radicali Italiani e coordinatrice della mobilitazione. Molto alta anche la percentuale di detenuti stranieri, che si attesta al 34% con picchi di oltre il 70% in diversi istituti. Le pessime condizioni di vita nelle carceri italiane, dove - secondo i dati dell`Osservatorio di Antigone - il tasso medio di sovraffollamento è del 114% e in strutture come quelle di Lodi, Larino, Chieti, Como, Brescia Caton Mombello tocca o sfiora il 200%, sono costantemente oggetto di denunce di organismi internazionali, come quella contenuta nel recente rapporto del Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d`Europa che nel corso delle visite ispettive ha accertato gravi violazioni dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo sul divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti. “Una grave violazione della legalità costituzionale, come da sempre denunciato da Marco Pannella e dai radicali, che mina le fondamenta stesse dello Stato di diritto nel nostro Paese”, concludono i Radicali. Le novità sanitarie in carcere: prioritario prevenire le epidemie di Martina Bossi Libero, 9 ottobre 2017 Rivoluzione nell’approccio alla salute dei detenuti: data la diffusione di malattie asintomatiche verranno applicati i Livelli Essenziali di Assistenza anche alle case di detenzione. Dati epidemiologici allarmanti sulla salute nelle carceri sono emersi durante la XVIII edizione del congresso nazionale della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria (Simspe) Agorà Penitenziaria, svoltosi a Roma e organizzato insieme alla Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali (Simit). La manifestazione ha riunito le diverse figure sanitarie che operano all’interno degli istituti penitenziari - specialisti, infettivologi, psichiatri, dermatologi, cardiologi, infermieri - per una riflessione approfondita sulla sanità in carcere rivolgendosi ai colleghi operatori, agli amministratori di Istituti e a chi ha il compito di stabilire le regole ed allocare le risorse. Il problema della salute nelle case di detenzione nasce dal rapido ricambio della popolazione carceraria che rende difficili i controlli sanitari e la continuità assistenziale. Nei 190 istituti penitenziari italiani sono transitati nel 2016 oltre centomila detenuti. Nonostante l’età molto più giovanile rispetto alla media all’esterno, solo un detenuto su 3 non presenta alcuna patologia. Ciò che più preoccupa è che la metà dei malati ignora di esserlo, o comunque non dichiara la patologia agli operatori sanitari dei penitenziari. Sottolinea Sergio Babudieri, professore associato del corso di Malattie Infettive presso l’Università di Sassari e direttore scientifico di Simspe: “si tratta di un quantitativo ingente di individui, soggetti peraltro a un continuo turn-over e talvolta restii a controlli e terapie. Un lavoro enorme, di competenza della salute pubblica ma senza un’organizzazione adeguata. Pur avendo i farmaci a disposizione, si rischia di non riuscire a curare questi pazienti. La presa in carico di ogni persona che entra in carcere deve dunque avvenire non nel momento in cui questi dichiara di star male, ma dal primo istante in cui viene monitorato, al suo ingresso nella struttura. Questa nuova concezione dei Livelli Essenziali d’Assistenza (Lea) significa che lo Stato riconosce che anche nelle carceri è necessaria un certo tipo di assistenza. Fino al 2016 non c’era alcuna regola: questo segnale può essere un grande progresso”. I Lea definiscono gli obiettivi minimi da raggiungere e le regole basilari cui si deve conformare il lavoro degli operatori sanitari nelle strutture e sul territorio e prossimamente verranno applicate anche alla comunità carceraria, costituita per il 34 per cento da stranieri. Poiché in libertà il loro stato di salute è difficilmente valutabile, la società non dovrebbe perdere l’occasione della detenzione per accertare la presenza o assenza di patologie. Per oltre la metà degli stranieri, che hanno età media inferiore agli italiani detenuti, è endemica la diffusione della tubercolosi. Inoltre i malati psichiatrici sono nettamente sottostimati, in particolare per quanto riguarda la schizofrenia, accertata in appena lo 0,6 per cento della popolazione carceraria, dato rappresentativo dei soli casi che presentano sintomi conclamati. Si stima che tra i detenuti asintomatici siano molto numerosi coloro che in realtà necessitano di cure. Preoccupano in particolare le malattie infettive. Secondo le stime gli Hiv positivi sono circa 5 mila e 6.500 sarebbero i portatori attivi del virus dell’epatite B. L’epatite C, invece, colpisce tra il 25 e il 35 per cento della popolazione carceraria italiana, ovvero tra i 25 mila e i 35 mila detenuti. I maggiori benefici che si possono trarre dai LEA applicati agli istituti penitenziari sarebbero destinati ai malati di epatite C. Dall’1 giugno l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFa) ha reso prescrivibili nuovi farmaci eradicanti il virus dell’epatite C. 30 mila persone che transitano annualmente nelle carceri italiane potrebbero quindi venire trattate in modo risolutivo ed evitare di contagiare altri soggetti una volta in libertà. Luciano Lucanìa, presidente Simspe 2016-18 auspica “maggiore attenzione ai problemi legati all’intrinseca vulnerabilità sociale che certamente ampia parte dei detenuti presenta, occorrono buone prassi di informazione sulle maggiori patologie infettive. Fondamentale la cura e la garanzia di un diritto costituzionale. Auspicabile lo sviluppo dei reparti ospedalieri per detenuti con una diffusione almeno regionale, così da poter garantire assistenza ospedaliera in maniera più adeguata”. Se la detenzione è intesa come misura di recupero di chi ha infranto la legge finalizzata al ritorno del detenuto in società, la salute dei carcerati diventa argomento di pubblico interesse. Hiv, questo sconosciuto. I 2/3 dei detenuti credono possa essere trasmesso dalle zanzare di Marzia Paolucci Italia Oggi, 9 ottobre 2017 Sieropositività in carcere: oltre il 60% dei minori pensa sia giusto fare il test per l’Hiv non prima dei due anni da un rapporto sessuale a rischio, due detenuti su tre sono ancora convinti che il virus sia trasmesso dalle zanzare e la maggior parte di detenuti, minori, operatori di polizia penitenziaria, sanitari, educatori e volontari che lavorano negli istituti di pena, pensa a un possibile contagio in presenza di sputi e saliva in generale, urina e sudore. Tra le ben sei categorie di persone presenti nelle nostre carceri dove a memoria si ricordano spesso solo detenuti e minori reclusi, resistono ancora paure immotivate, spesso dettate da ignoranza e superficialità. È il risultato della ricerca su mille persone in dieci istituti di pena condotta dalla Simpse - Società italiana di medicina e sanità penitenziaria, NPS -Network Persone Sieropositive Italia e Università Cà Foscari di Venezia, patrocinata dai Ministeri della Giustizia e della Salute con il contributo non condizionato di ViiV Healthcare. Una fotografia presentata il 29 settembre scorso a Venezia, dai connotati preoccupanti per il livello di informazione e conseguente sicurezza sanitaria delle carceri. Prova ne è che percentuali tra il 14% dei minori e il 17% dei sanitari individuano palestre e servizi igienici tra i luoghi più a rischio, sottovalutando invece il pericolo evidente di infettarsi condividendo la macchinetta taglia-barba o lo spazzolino o quello di risse sfociate spesso in ferimenti. Caso, questo, in cui le percentuali di consapevolezza del rischio variabili dal 6% dei volontari al 12% dei minori, sono piuttosto basse. Pochi sanno quanto duri il periodo di incubazione, il tempo tra il contagio e il manifestarsi della malattia: meno del 30% delle categorie intervistate e solo il 9% dei minori, ha risposto correttamente. Sbalorditivo il dato di conoscenza dell’intervallo finestra, tempo occorrente perché la malattia sia diagnosticabile con un test. Se infatti, dopo accertate situazione di pericolo come punture con aghi infetti e rapporti sessuali a rischio, occorre aspettare dalle 6 alle 8 settimane prima di fare il test per l’Hiv. In questo caso il 62% dei minori e ben più grave, il 44% della polizia penitenziaria e il 33% degli educatori, considera valido un intervallo di “non prima dei due anni”. E di sorpresa in sorpresa, si scopre che alla domanda “Se scoprissi di essere positivo al test, assumeresti la terapia?”, solo il 68% dei detenuti lo farebbe. Un detenuto su tre ne farebbe a meno. Il progetto ha messo in luce un aspetto importante della promozione della salute: l’idea di un’educazione partecipata, da pari a pari, considerata positivamente da tutte le categorie intervistate: oltre il 44% dei detenuti ha considerato “una buona idea”, quella di divenire educatore a sua volta. E in questo caso l’uso dei test a risposta rapida, una formazione specifica al personale carcerario così come le testimonianze dei peer educator, persone sieropositive che lavorano per Nps dando testimonianze e sciogliendo dubbi, ha dato al progetto uno specifico aspetto innovativo. “Due strumenti, i primi, che hanno saputo integrarsi al lavoro di noi peer educator che attraverso la propria testimonianza cercano di sollecitare nei detenuti un atteggiamento più proattivo nei confronti della propria salute e allo stesso tempo incidere sullo stigma e le discriminazioni presenti in ambito carcerario”, ha dichiarato in sede di presentazione del progetto Mario Cascio, peer educator dell’associazione Network persone sieropositive Italia nata nel 2004 per offrire un servizio di prevenzione, sensibilizzazione e informazione sulla malattia. Per Serena Dell’Isola, coordinatrice scientifica del progetto, “molti soggetti hanno detenzioni di breve durata e la possibilità di fornire e somministrare i test, il trattamento farmaceutico e un collegamento ai servizi di assistenza consente di migliorare la salute dell’intera società, riducendo il rischio di trasmissione e i costi legati alle comorbilità collegate a tali infezioni”. Soddisfazione anche per Margherita Errico, presidente NPS Italia: “Abbiamo raggiunto l’obiettivo di formare quelle aree del nostro paese di difficile accesso, ovvero detenuti e personale che lavora nelle strutture penitenziarie ottenendo validi dati socio-scientifici che finora in assoluto non avevamo rispetto all’Hiv e allo stigma che vi ruota intorno, arrivando ad un dialogo quasi individuale con tutti gli attori coinvolti. La sfida futura? Continuare e ampliare il nostro raggio di azione”. Il ministro della Giustizia: “più agenti nelle carceri, in arrivo 2mila nuove unità” La Nuova Sardegna, 9 ottobre 2017 Andrea Orlando a Isili annuncia tre milioni per il lavoro nelle colonie penali. “Il lavoro è lo strumento principale per il reinserimento dei detenuti. Farli lavorare è un vantaggio per loro e per la società. È l’unico modo per evitare che tornino a delinquere, una volta scontata la pena”. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando, ieri, da Isili, dove ha visitato la colonia penale agricola, ha presentato il progetto “Liberamente” che punta a valorizzare proprio le colonie penali. “Le colone agricole penali sono un patrimonio prezioso non solo per il sistema carcerario italiano ma per l’intera società, un patrimonio che è anche occasione per dare concretezza a uno dei pilastri della riforma dell’esecuzione penale, il lavoro”. Come ha ricordato il ministro “il lavoro è il primo ponte di inclusione che fa parte di un’idea del carcere in grado di superare un muro di indifferenza che lo separa dalla società. Per questo abbiamo deciso di investire, con interventi di riqualificazione edilizia, sulle tre colonie presenti sul territorio sardo, per un importo di circa 3 milioni di euro, già approvati dal ministero delle Infrastrutture”. Il progetto “Liberamente”. Un progetto ambizioso quello presentato dal ministro della Giustizia che riguarda le colonie di Is Arenas, Mamone e Isili. “Il progetto coinvolge cinque Regioni, inclusa la Sardegna. L’obiettivo è incentivare la dimensione lavorativa come alternativa concreta al reato. Gli studi in materia dimostrano, infatti, che tra le persone private della libertà che hanno opportunità lavorative, l’incidenza della recidiva è assai inferiore rispetto a quelle che non vi accedono. Allo stesso tempo i dati relativi al lavoro carcerario indicano come meno del 30% della popolazione detenuto svolga questo tipo di attività”. Per Andrea Orlando, inoltre, “oggi più inclusione significa più sicurezza: la detenzione in cella, senza la possibilità di accedere ad alcuna attività, rende più insicura tutta la società, perché alimenta un circolo vizioso”. Ecco perché, ha concluso Orlando, “le esperienze delle colonie penali agricole devono essere valorizzate, soprattutto in Sardegna”. Non solo. “La Regione, nell’ultima finanziaria, ha stanziato un apposito fondo di 1 milione di euro per favorire l’inclusione sociale e lavorativa dei detenuti”, ha ricordato l’assessore regionale al Lavoro Virginia Mura. La carenza di organici. Il ministro Orlando è poi intervenuto sul tema del sovraffollamento delle carceri e sulla carenza di agenti, come hanno più volte denunciato i sindacati. “Stiamo provvedendo nei prossimi mesi all’immissione di 2000 unità, complessivamente, per far fronte alla carenza di organici nelle carceri. Il tema che va affrontato, però, è il rapporto tra quante persone lavorano nei reparti e quante negli uffici. È in discussione il decreto sulla mobilità, perché si è creato uno squilibrio nel corso degli anni. Questo, naturalmente, non ci esime dal cercare ulteriori soluzioni”, ha concluso il ministro. Sul fronte degli organici nelle carceri risulta in Sardegna una carenza di 534 unità: gli agenti della Penitenziaria sono mille e 300 invece dei previsti 1.834, con problematiche che si riservano anche sul loro lavoro. Ma c’è di più. Sempre più spesso gli agenti devono affrontare mille difficoltà. L’ultimo episodio risale a qualche giorno fa nel carcere di Uta: alcuni detenuti hanno distrutto le celle di isolamento nelle quali erano ristretti. Nelle carceri sarde, comunque, non c’è sovraffollamento. Il problema è soprattutto l’impossibilità per i detenuti di lavorare. La maggior parte di loro trascorre in cella 20 ore su 24, con conseguenze negative soprattutto in presenza di disturbi psichici e tossicodipendenze. Furti e rapine in calo ma crescono usura e frodi informatiche di Michela Finizio Il Sole 24 Ore, 9 ottobre 2017 Quasi 7mila reati vengono commessi ogni giorno in Italia. Circa 284 ogni ora. Un dato in calo del 7,4% su base annua, che consolida le flessioni già registrate nei due anni precedenti. A dirlo sono i dati del dipartimento per la Pubblica sicurezza del ministero dell’Interno, riferiti ai delitti denunciati nel 2016. Il generale arretramento riguarda quasi tutte le tipologie di illeciti - scippi, borseggi, effrazioni - ad eccezione delle truffe e delle frodi informatiche (che crescono del 4,5%) e dei casi di usura (+9% le denunce a livello nazionale). Le classifiche provinciali - Il trend della criminalità influenza la percezione della sicurezza sul territorio, anche se guardando la distribuzione delle denunce per provincia le differenze locali sono molto accentuate. Da un lato, nella classifica sull’attività delittuosa del 2016, spicca Milano, dove si registra la maggior incidenza di reati ogni 100mila abitanti (7.375 illeciti all’anno, che corrispondono a circa 650 al giorno), seguita subito dopo da Rimini (7.203). Dall’altro lato ci sono Oristano, Pordenone, Rieti, Enna e Sondrio, tutti sotto le 2.300 denunce all’anno ogni 100mila residenti. La media nazionale, invece, si piazza a quota 4.105. Quanto ai volumi di denunce, in termini assoluti Milano prende il primo posto, che nel 2015 apparteneva a Roma (ora in seconda posizione con 627 reati al giorno, in calo dell’11,4% su base annua). Terza e quarta si piazzano Torino e Napoli, entrambe con circa 370 denunce al giorno. Dalle quattro province arriva quasi il 30% dei 2,5 milioni di denunce presentate l’anno scorso, a fronte di una popolazione poco sopra il 21% di quella nazionale. Interessanti, inoltre, le variazioni rispetto al 2015. Solo sei province sulle 106 considerate evidenziano un incremento: contenuto entro l’1,2% a Bolzano, Crotone, La Spezia, Grosseto e Avellino; pari a +5,5% a Prato, dove si contano 5.965 denunce ogni 100mila abitanti. Il calo più marcato, invece, si registra a Ravenna, dove i reati rilevati sono scesi del 18% nell’ultimo anno, seguita da Verbano-Cusio-Ossola, Arezzo e Cremona. La geografia delle denunce - In testa alla classifica per densità di reati troviamo prevalentemente province di maggiori dimensioni, per lo più del Centro-Nord, oppure alcuni grandi poli turistici, attrattivi per i fenomeni criminosi. All’altra estremità della graduatoria, in posizione di maggiore tranquillità, ci sono province demograficamente di piccola dimensione. Questa geografia non sorprende: i dati descrivono la concentrazione della criminalità nelle città italiane, ma riflettono anche il livello dei controlli e della fiducia nelle istituzioni (o comunque nel loro funzionamento) da parte della popolazione locale. Le statistiche, infatti, tengono conto solo della criminalità “emersa”, in seguito a denuncia, e per alcune tipologie di reato la comunicazione alle forze dell’ordine non è affatto scontata. I trend per tipologia - Se, nel dettaglio, la “macro categoria” dei furti registra un calo del 7,5% (meno di 1,4 milioni, pur continuando a pesare per oltre la metà sul totale delle denunce), la sottocategoria “furti in abitazione” - la più numerosa, con 214mila casi - segna la flessione più accentuata (-9%). Secondo l’Ania, l’associazione che rappresenta le compagnie assicurative, in realtà negli ultimi anni il fenomeno aveva riportato una forte crescita e solo di recente si è ridimensionato. “La diffusione dei sistemi di allarme e di videosorveglianza - notano dall’associazione - può svolgere un ruolo importante a favore della diminuzione del fenomeno”. Anche se, va ricordato, l’Ania stima che poco più del 15% delle abitazioni italiane sia coperto da un’assicurazione furto. E solo in caso di copertura assicurativa serve la copia della tempestiva denuncia all’autorità giudiziaria per avviare il corretto accertamento dei danni occorsi. Ogni giorno, inoltre, vengono rubate circa 303 auto in Italia e qui la denuncia scatta quasi nella totalità dei casi (anche solo per “bloccare” la Rc auto). Pure in questo caso, il trend è in calo negli ultimi anni: certamente lo sviluppo tecnologico - osserva sempre l’Ania - ha contribuito alla diminuzione tramite dispositivi satellitari di nuova generazione. Secondo una rilevazione dell’associazione, in corso di aggiornamento, il 60% delle scatole nere (5 milioni installate in Italia, primato mondiale) fornisce un servizio di antifurto e geolocalizzazione per facilitare il ritrovamento dell’auto. I fenomeni in crescita - Per quanto riguarda le tipologie di reato in controtendenza, invece, l’incremento delle truffe e frodi informatiche (con circa 151mila denunce nel 2016), va sicuramente letto in linea con la progressiva diffusione di internet. “Purtroppo - afferma Dino Bortolotto, presidente di Assoprovider - la crescita degli utenti online non va di pari passo con la cultura digitale: sempre più persone con poca dimestichezza si connettono alla Rete, dove proliferano siti web scritti senza rispettare l’evoluzione dei protocolli di sicurezza, quindi più vulnerabili”. Tra le frodi online più diffuse c’è ancora il phishing tramite posta elettronica, ma le tecniche si fanno sempre più sofisticate. “Non conta - aggiunge Bortolotto - il sistema dei controlli, perché chi vuole delinquere troverà sempre il modo di aggirare l’ostacolo, ma il trend delle truffe digitali dimostra che non si tratta più di semplici “goliardate”: è l’entità del danno subìto, economico o di immagine, che spinge gli utenti a denunciare”. Anche l’usura quest’anno registra un incremento consistente (dopo quelli fatti segnare negli anni scorsi da estorsioni e riciclaggio di denaro e proventi illeciti, che nel 2015 rispettivamente segnavano un +20% e un +13%), ma in termini di volumi le relative denunce restano un fenomeno limitato (circa 408 casi nel 2016), anche per le difficoltà della vittima a compiere il passo della denuncia. I sospettati trattati come i “padrini”, così la legge incrina la democrazia di Alessandro Barbano Il Mattino, 9 ottobre 2017 L’istanza di giustizia non può trasformarsi in giustizialismo. Alcuni punti del nuovo codice antimafia, che mi paiono decisivi per la nostra democrazia, e che rischiano di restare nell’ombra, anche a causa dell’indifferenza con cui la stampa nazionale ha raccontato i passaggi di questa contestatissima legge. Purtroppo non è esatto dire, come tu fai in premessa, che essa estende il sequestro e le confisca di beni anche ai condannati per corruzione. A questo, infatti, ci pensa già il codice penale ordinario, con le sue norme e le sue garanzie, ammettendo l’espropriazione a favore dello Stato dei beni che servirono o furono destinati a commettere il reato, e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto. Il codice antimafia invece estende il sequestro e la confisca dei beni ai semplici sospettati, cioè a coloro che in base alla Costituzione sono innocenti fino a prova contraria. A coloro che non hanno subito, non dico una sentenza di condanna definitiva, pronunciata da un giudice terzo, ma neanche un verdetto di primo grado, e neanche il rinvio a giudizio. Da ultimo, come la Cassazione ha sentenziato in un recente caso, anche a coloro che nel processo penale siano stati assolti. Questi beni il codice li sottrae, non in base a un accertamento di colpevolezza, come impone il giudicato, e neanche in base a quello che i giuristi chiamano fumus di colpevolezza, cioè una sua verosimiglianza, come si stabilisce, purtroppo spesso, in forma cautelare. La confisca dei beni, che, come sai, è definitiva, si fonda su un giudizio di pericolosità sociale, che ha poco a che fare con il presunto reato, e molto a che fare con il sospettato, cioè con colui che finisce nel mirino di un’indagine. Da diversi anni è chiaro il pericolo che la macchina dell’Antimafia deragli dai binari in cui dovrebbe essere rigidamente incanalata. Troppi segni lo fanno pensare. E tra questi una manomorta giudiziaria che gestisce, talvolta fuori controllo, immensi patrimoni sottratti ai privati, e un numero altissimo di casi in cui la confisca e i sequestri risultano a posteriori smentiti dalle risultanze dell’indagine, pur producendo effetti irreversibili. La presidente della commissione parlamentare, Rosy Bindi, aveva promesso di farsi promotrice di una riforma che ponesse un argine a questo sviluppo abnorme. Invece ha fatto il contrario. L’Antimafia raddoppia, nella sua dimensione burocratica e nell’estensione dei suoi poteri, che si proiettano nella società. La maggioranza parlamentare, che pure ha presente il pericolo di questa indiscriminata superfetazione di leggi eccezionali, subisce il corso degli eventi, intontita e schiacciata all’angolo del ring dall’assedio del populismo giustizialista, tentata di venire a patti con i potenti tutori della politica per sottrarsi al rischio di finire alla gogna. Un ministro incantatore prima la rassicura di cancellare quelle norme che tutti i grandi giuristi giudicano pericolose, pur di approvare l’intero impianto del codice antimafia. Poi, a giochi fatti, si tira indietro, rinnega gli impegni assunti, scoprendo l’indissolubilità di un patto corporativo più forte della lealtà parlamentare, e dimostrando che proprio quelle norme contestate erano l’obiettivo di questa campagna politica. Al confronto della quale, caro Isaia, la prima pagina del Mattino, che a te pare una campagna giornalistica, è poco più che un isolato grido d’allarme, lanciato nel deserto di un’informazione che approva per sentito dire, o ignora per non doversi applicare a capire. Mi chiedi ancora se quella che a te sembra un’esagerazione non tradisca un’antipatia verso tutti coloro che in questi anni sono stati protagonisti dell’antimafia sul piano giudiziario, sociale e culturale. Mi sento di rassicurarti. Il Mattino ha pagato un tributo dolorosissimo alla lotta alla mafia. Con alcuni di questi protagonisti ogni anno celebriamo la memoria di Giancarlo Siani, condividendo valori comuni di legalità ed etica, e sentimenti di reciproca stima e affetto. Considero l’impegno del fratello di Giancarlo, Paolo, e del volontariato che lo circonda, un esempio di coraggio civile, straordinariamente utile. E tuttavia, mi chiedo: che c’entra questo con la censura di una legge liberticida? Oppure dovremmo chiudere un occhio, o tutti e due, in ragione del fatto che il codice antimafia è promosso da quelle stesse associazioni? Sono certo che un pensiero di questo tipo non ti appartenga. Né che tu non sappia che il ruolo di un giornale è anche quello di svegliare le coscienze, quando un certo conformismo culturale declina in forma giustizialista una giusta istanza di giustizia. E finisce perciò per coincidere pericolosamente con un interesse particolare, anche in perfetta buona fede. Caro Isaia, io colgo il pericolo di questo slittamento della democrazia da una visione d’insieme a una più piccola, che finisce per coincidere con un punto di osservazione angusto. Lo colgo anche nel tuo premettere di non voler entrare nel merito delle misure del codice, ma di volerle legittimare unicamente con il risultato prodotto dalla legislazione speciale antimafia. Nel mio modo di procedere, il fine non giustifica mai i mezzi prescindendo dalla natura dei mezzi impiegati. Tanto più se dalla mafia questi mezzi eccezionali s’impongono a tutto il diritto penale. Non si tratta di sottovalutare il rapporto tra mafia e corruzione, né quell’area opaca di contiguità e connivenze che attraversa la politica, l’impresa e le professioni. E che a Napoli, come ha rilevato il nuovo procuratore capo Giovanni Melillo nel suo primo discorso pubblico, rende più incerto il confine dove finisce l’economia legale e dove comincia quella illegale. Ma il fatto stesso che la storia dell’Italia mafiosa è intrecciata con la storia economica, sociale e politica del Paese non è, come ha scritto bene Massimo Adinolfi ieri su queste colonne, una giustificazione per caricare l’ordinamento penale di aspettative improprie, per arrivare là dove questo non può arrivare, stravolgendo il sistema di garanzie che dovrebbe costituirne l’anima. Non solo perché la misura civile che regola la nostra libertà c’induce ad accettare che un cattivo rimanga tra i buoni, per non correre il rischio di spingere un buono tra i cattivi. Ma perché tutte le volte che il diritto penale si arroga l’esclusiva di un racconto della società, quest’ultima ne esce sporcata. E anche di questo bisognerebbe tenere conto per valutare comparativamente i progressivi risultati di 40 anni di lotta alla mafia. In un dibattito sereno, sgombro da pregiudizi, che m’impegno a organizzare al Mattino, con il tuo prezioso contributo. Perché il Mattino resta, caro Isaia, la piazza delle idee del Mezzogiorno sul Paese. Perciò mi chiedo se ti ha sorpreso e turbato anche l’accusa di proteggere oscuri interessi, rivolta al Mattino dalla presidente della commissione Antimafia, e quella di essere il custode di una qualche fedeltà politica, mossa nientedimeno che dal guardasigilli. Me lo chiedo perché la tua voce, che da anni, sul Mattino, racconta la mafia con competenza e coraggio, e racconta il Sud senza sconti per le politiche dei governi, è la risposta migliore al fango. Perciò ti ringrazio di questa lettera. E di quelle che vorrai ancora scrivere, con tutta la libertà che merita la tua intelligenza. Nuovo codice antimafia, creditori più tutelati di Giovanbattista Tona Il Sole 24 Ore, 9 ottobre 2017 Più certezze per i creditori delle imprese sequestrate alla mafia. È questo uno degli obiettivi della riforma del Codice antimafia che apre nuovi scenari di tutela per chi intrattiene rapporti commerciali in buona fede con persone fisiche e giuridiche colpite da misure di prevenzione patrimoniale. Al di là delle controverse disposizioni che estendono la disciplina alle condotte di corruzione, il cuore della riforma del Codice antimafia (atto Camera 1039 e altri, approvata da Montecitorio a fine settembre) si concentra sulle norme che possono assicurare la continuità delle attività delle aziende sequestrate in grado di competere sul mercato nella legalità. Viene introdotta una procedura più trasparente per stabilire dopo il sequestro quali siano le aziende che possono proseguire la loro attività e quali debbano essere subito poste in liquidazione. Con la conseguente definizione dei rapporti con dipendenti, fornitori e creditori. Le relazioni diventano due - Tutto ruota attorno alla nuova formulazione dell’articolo 41 del Codice antimafia (decreto legislativo 159/2011) che, in caso di sequestro di aziende, impone all’amministratore giudiziario di depositare, oltre alla relazione particolareggiata sui beni, da mettere a disposizione delle parti entro 30 giorni dalla sua immissione in possesso, anche un’ulteriore relazione (da redigere entro tre mesi dalla nomina, prorogabili a sei) che contenga una dettagliata analisi sulla possibilità di prosecuzione o di ripresa dell’attività. La proposta di prosecuzione - Se l’amministratore formula una proposta di prosecuzione, deve allegare un programma contenente la descrizione analitica delle modalità e dei tempi di adempimento e una relazione di un professionista, abilitato secondo i requisiti previsti dall’articolo 67, comma 3, lettera d), della legge fallimentare (regio decreto 267/1942), che attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del programma medesimo. Alla proposta inoltre l’amministratore deve allegare l’elenco nominativo dei creditori e di coloro che vantano diritti reali o personali, di godimento o di garanzia sui beni e deve specificare quali crediti originano da rapporti pendenti al momento del sequestro, quali sono collegati a rapporti essenziali per la prosecuzione dell’attività e quali riguardano rapporti esauriti, non provati o non funzionali all’attività di impresa. L’amministratore deve elencare nominativamente anche le persone che risultano prestare o avere prestato attività lavorativa in favore dell’impresa, distinguendo la natura dei rapporti di lavoro esistenti e segnalando quelli necessari alla prosecuzione. La proposta deve essere esaminata dal tribunale in camera di consiglio con la partecipazione del pubblico ministero, dei difensori delle parti, dell’agenzia nazionale per i beni confiscati e dell’amministratore giudiziario, che vengono sentiti se compaiono. La gestione dei crediti - Se la proposta viene approvata, il tribunale impartisce le direttive necessarie e, in base al nuovo articolo 54-bis, introdotto nel Codice antimafia, può autorizzare l’amministratore giudiziario a rinegoziare le esposizioni debitorie dell’impresa e a provvedere ai conseguenti pagamenti. Inoltre, per i crediti che nell’elenco allegato al programma risultano correlati a rapporti commerciali essenziali per la prosecuzione dell’attività, l’amministratore può essere autorizzato al pagamento anche parziale o rateale delle obbligazioni per prestazioni di beni o servizi, sorte prima del sequestro. Si tratta di una innovazione assai rilevante. La disciplina previgente “congelava” indifferentemente tutti i crediti sorti prima del sequestro e ne impediva il pagamento fino allo svolgimento del procedimento di verifica della buona fede. Ora l’amministratore ha il compito di individuare - in caso di prosecuzione dell’attività - i creditori “strategici” e valutare come abbattere la complessiva esposizione debitoria nei loro confronti impiegando gli utili derivanti dall’esercizio dell’impresa. L’articolo 56 del Codice antimafia disciplina (come già prima della riforma) i rapporti ancora in corso di esecuzione e consente all’amministratore, previa autorizzazione del giudice delegato, di subentrare nel contratto in luogo dell’indagato. La nuova disciplina estende la possibilità a tutti i rapporti commerciali, quindi anche a quelli per i quali non vi sia un contratto di durata e in corso di esecuzione. Per i crediti relativi a rapporti risolti dall’amministratore giudiziario o dallo stesso creditore, si deve seguire il procedimento di verifica della buona fede che ha inizio davanti al giudice delegato dopo il deposito del decreto di confisca di primo grado. Caso Cucchi, slitta processo ai carabinieri. Sarà assegnato a un’altra sezione Corriere della Sera, 9 ottobre 2017 La prima udienza del dibattimento bis doveva tenersi giovedì, ma è stata rinviata. La presidente della corte Evelina Canale si era già occupata della vicenda e va sostituita. Imputati cinque militari, di cui tre accusati di in omicidio preterintenzionale. Parte già in salita, tra le prevedibili polemiche, il processo bis per la morte di Stefano Cucchi, il geometra di 32 anni deceduto il 22 ottobre del 2009 all’ospedale Sandro Pertini di Roma, sei giorni dopo essere stato arrestato per possesso di droga. Fissata la prima udienza per giovedì prossimo davanti alla terza Corte d’assise di Roma all’indomani del provvedimento del 10 luglio scorso con il quale il Gup Cinzia Parasporo dispose il rinvio a giudizio di cinque carabinieri (tre dei quali imputati di concorso in omicidio preterintenzionale), il dibattimento non avrà però inizio. Il rischio prescrizione - Evelina Canale, presidente della Corte, comunicherà alle parti di doversi astenere e di dover trasmettere gli atti al presidente del Tribunale Francesco Monastero per una nuova assegnazione ad altra sezione, per essersi già occupata della vicenda giudiziaria quando, in occasione del primo processo, sul banco degli imputati finirono tre agenti della polizia penitenziaria, accusati di aver picchiato Cucchi nelle celle di sicurezza del palazzo di giustizia, e 9 persone tra medici e infermieri in servizio presso la struttura protetta dell’ospedale sospettati di non averlo curato in maniera adeguata. La dichiarazione di astensione e il conseguente rinvio dell’udienza determineranno l’ennesimo allungamento dei tempi e il rischio concreto che altri reati (come la calunnia e il falso in atto pubblico) contestati ai quei militari che arrestarono Cucchi possano cadere in prescrizione prima che il giudizio diventi definitivo. Le proteste della famiglia - Ilaria Cucchi, sorella della vittima, ha già gridato allo scandalo nei giorni scorsi con un post su Facebook: “Era proprio necessario far passare inutilmente questi mesi senza fare nulla per sostituire quel giudice incompatibile? Io e la mia famiglia ci sentiamo presi in giro. La giustizia non può funzionare in questo modo. È noto che i carabinieri imputati, Mandolini in testa, contino sulla prescrizione”. Secondo quanto accertato dalla Procura, di omicidio preterintenzionale devono rispondere i carabinieri Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco. A loro è attribuito il pestaggio di Cucchi “con schiaffi, calci e pugni”, che provocò, con “una rovinosa caduta con impatto al suolo della regione sacrale”, lesioni in parte guaribili in almeno 180 giorni e in parte esiti permanenti, che poi, “unitamente alla condotta omissiva dei sanitari del Pertini che avevano in cura il ragazzo” hanno portato alla morte. I tre militari sono accusati anche di concorso nel reato di abuso d’autorità aggravato dai futili motivi, in relazione alla resistenza posta in essere da Cucchi al momento del foto-segnalamento presso i locali della compagnia di Roma Casilina il 16 ottobre del 2009. Le accuse - I tre militari, in servizio presso il Comando Stazione di Roma-Appia, avrebbero sottoposto il ragazzo, temporaneamente affidato alla loro custodia in quanto in stato di arresto, “a misure di rigore non consentite dalla legge”. Il falso e la calunnia, invece, sono contestati allo stesso Tedesco e al maresciallo Roberto Mandolini (che comandava la stazione Appia dove nella notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 venne fatto l’arresto) e, solo per il secondo reato, al carabiniere Vincenzo Nicolardi. Il reato di falso è legato al verbale di arresto in cui si “attestava falsamente” che Cucchi era stato identificato attraverso le impronte digitali e il foto-segnalamento: circostanza che per i magistrati non è vera ma che ha rappresentato la ragione del pestaggio di Cucchi, ritenuto “non collaborativo” a quel tipo di operazione. Mandolini e Tedesco, poi, non avrebbero verbalizzato la resistenza opposta dal geometra nella stazione dei carabinieri dove venne portato per il foto-segnalamento, e avrebbero “attestato falsamente” che Cucchi non aveva voluto nominare un difensore di fiducia. La calunnia, invece, è legata alla varie testimonianze rese al processo svoltosi davanti alla terza Corte d’assise dove erano imputati tre agenti della polizia penitenziaria (Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici, parte civile nel processo che si dovrà aprire, assieme alla famiglia Cucchi), sempre assolti nei vari gradi di giudizio: Tedesco, Mandolini e Nicolardi, “affermando il falso in merito a quanto accaduto nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009” accusavano implicitamente i tre poliziotti, pur “sapendoli innocenti”, delle botte inflitte al detenuto. La difesa - Gli imputati, dal canto loro, si sono sempre dichiarati estranei alla ricostruzione dei fatti operata dagli inquirenti. I loro difensori hanno indicato nella lista dei testimoni da citare in aula quasi 200 nomi e sono pronti a tornare alla carica chiedendo una nuova perizia medico-legale dopo quella, disposta dal gip in sede di incidente probatorio, che escluse un nesso tra il violento pestaggio e il decesso di Cucchi. Il geometra sarebbe morto improvvisamente di epilessia, ritenuta dagli esperti del giudice la causa “dotata di maggiore forza e attendibilità” rispetto alle altre. Una conclusione che però il pm Francesco Musarò ha preferito ignorare non ritenendola attendibile dal punto di vista scientifico e alla luce degli elementi probatori acquisiti (intercettazioni ambientali e nuove testimonianze). Omissione di soccorso: utilizzabili le dichiarazioni spontanee di un testimone di Domenico Carola Il Sole 24 Ore, 9 ottobre 2017 Corte di Cassazione Penale sezione IV, sentenza n. 43840 del 22 settembre 2017. In caso di omissione di soccorso le dichiarazioni spontanee rese da un testimone e verbalizzate dalla polizia stradale sono utilizzabili. Così si è espressa la Cassazione penale, con la sentenza n. 43840 del 22 settembre 2017. Il fatto - Il ricorrente veniva giudicato colpevole e condannato per i reati, ritenuti in continuazione e di cui all’articolo 189 comma primo, sesto e settimo del codice della strada, perché, alla guida del suo autoveicolo aveva determinato un incidente stradale dal quale derivavano lesioni e non ottemperava all’obbligo di fermarsi e prestare soccorso alle persone ferite. Contro la sentenza di condanna dei giudici territoriali propone ricorso per Cassazione deducendo l’inosservanza di norme processuali in relazione all’articolo 512 codice di procedura penale assumendo essere inutilizzabili le acquisite dichiarazioni rese da un testimone. La decisione della Corte - Gli Ermellini dichiarano inammissibile il ricorso e lo rigettano evidenziando come le dichiarazioni rese dal testimone erano state assunte e verbalizzate presso il Comando della Polizia Locale dell’agente intervenuto sul luogo del sinistro a cui il testimone aveva già sommariamente esposto i fatti. L’agente deve infatti essere qualificato come organo di Polizia Giudiziaria e le dichiarazioni spontanee da lui raccolte in atto formale sottoscritto da dichiarante e verbalizzante ben possono essere acquisite al fascicolo del dibattimento ai sensi dell’articolo 512 del codice di procedura penale, per la sopravvenuta impossibilità di ripetizione delle stesse. Corretto è anche l’assunto che l’imprevedibilità dell’impossibilità di ripetizione dell’atto va valutata con criterio “ex ante”, avuto riguardo non a mere evenienze ipotetiche, ma sulla base di conoscenze concrete, che nel caso de quo non sussistevano in considerazione che il teste si presentava immediatamente e spontaneamente, e dava indicazioni in merito al proprio luogo di residenza, alla titolarità di regolare permesso di soggiorno e a ogni informazione utile circa la propria reperibilità, indicazioni che non potevano che apparire veridiche, oltre che allo stato, anche in una prospettiva di stabilità sui territorio, dando in tal modo prova concreta della propria volontà di essere presente e disponibile. Napoli: ispezioni dei Radicali a Poggioreale, Secondigliano e Santa Maria Capua Vetere di Giuliana Covella Il Mattino, 9 ottobre 2017 Saranno il 13, il 14 e il 15 ottobre le tre tappe per la Campania del tour di visite ispettive che parte domani dalla Sicilia ed è organizzato dai Radicali Italiani in 35 istituti di pena del Paese. Nella nostra regione toccherà prima a Secondigliano (venerdì), poi a Poggioreale (sabato) e infine a Santa Maria Capua Vetere (domenica). Faranno parte delle delegazioni che accederanno nei penitenziari, tra gli altri, Raffaele Minieri, della direzione nazionale di Radicali Italiani, assieme a numerosi altri militanti del movimento guidato da Riccardo Magi. Ma anche esponenti di altre associazioni come Pietro Ioia, degli Ex detenuti organizzati napoletani e Antonello Sannino, presidente di Arcigay Napoli. Le visite avranno lo scopo di verificare le condizioni dei carcerati, in particolare a Poggioreale, dove nelle ultime settimane si torna a parlare di sovraffollamento con la presenza di oltre 2.100 detenuti rispetto a una capienza di 1.600 e celle poco più di una decina di metri quadri che arrivano ad ospitare fino a 9 persone. Inoltre la carica di direttore è vacante dopo l’addio di Antonio Fullone, che ora ricopre quella di provveditore delle carceri di Toscana e Umbria. Una gestione che ha portato - va detto - notevoli miglioramenti sebbene permangano molte criticità. Nella visita dovrebbe tra l’altro rientrare una tappa al padiglione Avellino, che ospita i carcerati che soffrono di problemi psichici. Altro problema che sarà affrontato è quella dell’elevata percentuale nei penitenziari italiani di detenuti stranieri, che si attesta al 34% con picchi di oltre il 70% in diversi istituti. Le pessime condizioni di vita nelle carceri italiane, dove - secondo i dati dell’Osservatorio di Antigone - il tasso medio di sovraffollamento è del 114% e in strutture come quelle di Lodi, Larino, Chieti, Como, Brescia Caton Mombello tocca o sfiora il 200%, sono costantemente oggetto di denunce di organismi internazionali, come quella contenuta nel recente rapporto del Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa che nel corso delle visite ispettive ha accertato gravi violazioni dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo sul divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti. Messa alla prova: apre a Roma il primo sportello d’Italia di Teresa Valiani Redattore Sociale, 9 ottobre 2017 Inaugurato in Tribunale il nuovo ufficio Map/Lpu che consentirà ad assistenti sociali, avvocati e funzionari di lavorare insieme, ridurre i tempi e facilitare le procedure per la messa alla prova e i lavori di pubblica utilità. Mentre imputati e indagati potranno trovare risposte e facilitazioni. Uno sportello dedicato alla messa alla prova e ai lavori di pubblica utilità per le persone imputate o indagate: un luogo in cui assistenti sociali, avvocati e funzionari del tribunale possano incontrarsi per facilitare le procedure e in cui gli imputati e gli indagati possano trovare risposte e facilitazioni. Parte dal Tribunale di Roma il progetto che il Dipartimento per la giustizia minorile e di Comunità ha in programma di diffondere ora sul resto del territorio italiano. Lo sportello Map (messa alla prova)/Lpu (Lavori di pubblica utilità) è ospitato al piano terra del Tribunale, nell’ex ufficio informazioni, ed è stato inaugurato mercoledì dal Presidente, Francesco Monastero, che ha spiegato le finalità del progetto volto a semplificare l’iter burocratico e facilitare l’accesso a queste misure. Si tratta del “primo sportello in Italia che informa, fornisce il lavoro di pubblica utilità, invia direttamente all’Uiepe (l’Ufficio interdistretturale per l’esecuzione penale esterna) le domande Map (messa alla prova) per la redazione del programma di trattamento e assicura le attestazioni di presentazione”. “Ho creduto in questo progetto fin dall’inizio - spiega il presidente del Tribunale di Roma, Francesco Monastero, presentando quella che definisce una sua creatura -. Tutti i miei giudici mi dicevano che questo istituto, che ha potenzialità espansive di grande livello perché dispone l’estinzione del reato, se la messa alla prova va in porto, e quindi è qualcosa di più, che viene prima e in sostituzione del processo, nonostante questa grande capacità deflattiva non è utilizzato a pieno per una serie di difficoltà di natura burocratica. Da qui, l’idea di aprire in tribunale uno sportello che abbia un collegamento diretto con l’Uepe, che fornisca non solo le informazioni ma che dia la possibilità al procuratore speciale o direttamente all’imputato di chiedere l’appuntamento con l’assistente sociale, che sarà fornito dal nostro software”. “Dunque un semplice software - racconta il Presidente - ma che elimina una serie di passaggi, riducendo i tempi: dall’aula udienze del primo piano, il difensore o l’imputato scende e raggiunge lo sportello dove il personale dell’Uepe gli darà tutte le informazioni, dirà se la documentazione presentata è completa e ci sarà la possibilità di dare anche un’attestazione della presa in carico della richiesta che, facendo un altro piano di scale, si potrà consegnare direttamente al giudice che sospende il processo. Contemporaneamente si avrà l’appuntamento per l’incontro con l’assistente sociale. Un ‘uovo di Colombo’ - commenta Francesco Monastero - che tende, nelle nostre intenzioni, a trovare una soluzione alle problematiche di natura amministrativa e burocratica che impedivano l’accesso all’istituto nonostante abbia una potenzialità deflattiva di altissimo livello. Abbiamo fatto il primo passo, ed è importante, anche perché ho trovato la collaborazione di tutti. Adesso bisogna iniziare a lavorare e soltanto i primi due mesi di vigilanza quotidiana ci consentiranno di dire se funziona o meno”. L’istituzione dello sportello è inserita nel protocollo d’intesa per la messa alla prova sottoscritto dal presidente del Tribunale, dal direttore Uiepe per il Lazio, l’Abruzzo e il Molise, dal presidente del Consiglio dell’ordine degli avvocati e dal presidente della Camera penale. L’ufficio Map/Lpu sarà aperto dal lunedì al venerdì, dalle 10 alle 13, e consentirà agli imputati/indagati, ai difensori, alle associazioni o agli enti interessati di “trarre tutte le informazioni utili, anche quelle per la predisposizione delle domande di ammissione alla messa alla prova, nonché acquisire tutti i moduli necessari all’avvio della relativa procedura”. Su un totale di 45.354 persone (secondo i dati del Dipartimento per la Giustizia minorile e di Comunità - Direzione generale dell’esecuzione penale esterna, aggiornati al 30 settembre 2017), 9.606 sono quelle che a livello nazionale usufruiscono della messa alla prova e 6.996 quelle impegnate in un lavoro di pubblica utilità. “Si tratta di un progetto molto importante - commenta Lucia Castellano, Direttore generale del Dipartimento di giustizia minorile e di Comunità - che segue l’orientamento del Dipartimento. Questo modo di procedere abbatte in maniera significativa il pesante carico di lavoro che grava sugli assistenti sociali, il cui rapporto fascicolo/operatore è altissimo, perché si lavora insieme agli altri, la procedura si costruisce insieme e c’è la possibilità di vedere un più alto numero di utenti durante la giornata. In primo piano, poi, si registra il superamento del “one to one” che a noi interessa molto e, non ultimo, gli Uffici per l’esecuzione penale esterna (Uepe) iniziano ad assumere un ruolo di coordinamento nei confronti del lavoro degli altri soggetti interessati. Il progetto è partito dal presidente del Tribunale di Roma, Francesco Monastero, che ringrazio, mentre a livello nazionale siamo già all’opera per diffondere questa buona pratica sul resto del territorio, affinché, nel tempo, uffici di questo genere siano presenti in tutte le sedi”. Alba (Cn): il carcere riaprirà completamente nel 2018 ilcorriere.net, 9 ottobre 2017 Mercoledì 4 ottobre il Sindaco di Alba Maurizio Marello con il Vice Ministro e Senatore cuneese Andrea Olivero ha incontrato in Senato a Roma il Sottosegretario di Stato al Ministero della Giustizia Federica Chiavaroli. L’incontro per un confronto sulla Casa di Reclusione “Giuseppe Montalto” di Alba chiusa ai primi di gennaio 2016 dopo tre casi di legionella e riaperta solo parzialmente a fine maggio 2017. Per l’apertura totale della struttura il ministero di Grazia e Giustizia deve realizzare alcune opere strutturali importanti sugli impianti e l’adeguamento dei servizi dei reparti degli ambienti. “Ho manifestato al sottosegretario che si occupa specificatamente delle strutture di reclusione - spiega il Sindaco Maurizio Marello - la situazione del nostro carcere ed i disagi che sta vivendo ormai da troppi mesi la nostra Polizia penitenziaria. Considerato il clima di incertezza che da troppo tempo stiamo vivendo sull’argomento, ho chiesto risposte precise circa la completa riapertura della Casa di Reclusione, anche tenuto conto delle tante attività di rieducazione dei detenuti che da anni si portano avanti e che hanno fatto della struttura albese una delle migliori in Piemonte”. Durante la conversazione, il sottosegretario ha rassicurato il Sindaco sulla disponibilità delle risorse finanziarie necessarie per eseguire i lavori di ristrutturazione dell’impianto di riscaldamento ed anche circa le tempistiche. “La senatrice Chiavaroli - aggiunge il Sindaco Marello - mi ha detto che entro fine anno verrà ultimato il progetto esecutivo. Poi si procederà con la gara d’appalto per l’esecuzione dei lavori. Entro la fine del 2018 la casa di reclusione riaprirà completamente”. Bologna: carenza di fondi, in carcere mancano anche i prodotti per la pulizia bolognatoday.it, 9 ottobre 2017 “Ci spiace dover tornare sulla problematica di cui all’oggetto, dopo che per anni, a seguito delle nostre numerose segnalazioni, non si era più manifestata come in precedenza, ma sono pervenute di recente richieste d’intervento dalle nostre segreterie provinciali, in particolare quella di Bologna, riguardanti il problema dell’assenza/scarsità della fornitura prevista per il mantenimento delle misure minime di igiene e salubrità dei luoghi di lavoro e detenzione”. Lo scrive in una lettera indirizzata al Provveditore Regionale Reggente dell’Amministrazione Penitenziaria Emilia-Romagna e Marche il segretario regionale del Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria - Sinappe - Gianluca Giliberti. La Direzione dell’istituito avrebbe fatto richiesta d’assegnazione di ulteriori fondi al Provveditorato regionale. Diverse le segnalazioni pervenute dagli agenti che spesso sono costretti a portare anche la carta igienica da casa, mentre i detenuti addetti alle pulizie hanno messo a disposizione i loro prodotti: “Ci risulta, difatti, che cominci a scarseggiare l’intera fornitura prevista per i reparti detentivi a causa della mancanza di fondi sul relativo capitolo di spesa - continua Giliberti - tanto da assistere ai primi attriti con i detenuti che lamentano l’impossibilità di curare l’igiene personale e delle camere di pernottamento”. “E adesso la palla passa a me”, di Antonio Mattone agensir.it, 9 ottobre 2017 Mattone (Comunità S. Egidio), “solo l’assunzione di responsabilità da parte di chi ha commesso errori può creare percorsi virtuosi per uscire da criminalità”. “E adesso la palla passa a me”, è la frase che mi ha scritto un giovane detenuto in una lettera che mi ha inviato alcuni anni fa: “Quando uscirò dal carcere la palla passa a me, come mi ha detto tante volte tu”. Sono parole che indicano che solo l’assunzione di responsabilità da parte di chi ha commesso degli errori può creare percorsi virtuosi per uscire dalla criminalità e dalla devianza giovanile”. Lo dice al Sir Antonio Mattone, direttore dell’Ufficio di pastorale sociale e del lavoro della diocesi di Napoli, fin da giovane impegnato nella Comunità di Sant’Egidio, parlando del suo libro “E adesso la palla passa a me”, che ha la prefazione del ministro della Giustizia, Andrea Orlando. “In questo libro ho raccontato 10 anni di esperienza vissuti come volontario all’interno del carcere di Poggioreale, oggi intitolato alla memoria di Giuseppe Salvia e di altri penitenziari italiani, attraverso gli editoriali pubblicati su Il Mattino - racconta Mattone. Gli articoli, suddivisi per tematiche, parlano dei problemi e delle vicende di cui tanto di è parlato in questi anni. Sovraffollamento, sicurezza della società, violenza, salute, Opg, diritti negati, volontariato. Con un’ampia parte dedicata alla violenza minorile venuta alla ribalta con prepotenza negli ultimi anni”. La visita di Papa Francesco, il concerto di Gianni Morandi e i tratti salienti della storia del penitenziario napoletano completano la raccolta. “Vengono descritti i cambiamenti positivi che si sono potuti registrare in questi anni - sottolinea l’autore del libro, ma anche le numerose criticità che restano. L’esperienza diretta all’interno dei padiglioni e dei corridoi delle galere rende questo racconto originale e pieno di episodi e particolari che descrivono in modo incisivo la vita all’interno delle carceri”. Umanizzare gli istituti di pena farà bene a chi è detenuto come a chi non lo è “Umanizzare il carcere farà bene a chi è detenuto come a chi non lo è”. Lo spiega al Sir Antonio Mattone, direttore dell’Ufficio di pastorale sociale e del lavoro della diocesi di Napoli, fin da giovane impegnato nella Comunità di Sant’Egidio, parlando del suo libro “E adesso la palla passa a me”, che ha la prefazione del ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Nel libro Mattone racconta 10 anni di esperienza vissuti come volontario all’interno del carcere di Poggioreale: “Una esperienza che ho messo a disposizione anche con la partecipazione come volontario ‘esperto’ agli Stati generali dell’esecuzione penale voluti dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, dove ho potuto parlare di tante criticità che riscontrato e che sono raccontate nel volume”, ci dice l’autore del libro. “Un viaggio dove alla fine un dato sembra inconfutabile: umanizzare il carcere farà bene a chi è detenuto come a chi non lo è”, sottolinea. “Il primo male di cui soffre il nostro sistema penitenziario è il colpevole disinteresse del resto della società, che pensa di poter distogliere lo sguardo da tutto quello che accade oltre le mura di un carcere, come se non fossero ancora cittadini, persone, i detenuti che vi vivono. Antonio Mattone è invece tra coloro che, nel corso di una decennale esperienza tra i corridoi e i padiglioni di Poggioreale, non ha mai smesso, varcando le porte dell’istituto, di interrogarsi su quello che si può fare concretamente per rendere più umane, più dignitose, o semplicemente più decenti le interminabili giornate che i detenuti vi trascorrono. “È una domanda che non ho smesso di farmi anche io”, scrive nella prefazione del libro Andrea Orlando, per il quale Mattone, nel volume, “ricco di passione civile e di umana solidarietà, riparte dalle carceri, riparte da un impegno di cui offre una testimonianza intensa e autentica. Possiamo e dobbiamo voltarne le pagini, certo non possiamo voltarci da un’altra parte”. Allarme fanatismo, nessuno è immune di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 9 ottobre 2017 Secondo Amos Oz cresce la tentazione di nuove intolleranze, senza finestre e senza porte, senza aria e senza luce, nel “dogmatismo categorico”, nella fine del valore della libera discussione. Il fanatismo non nasce con lo jihadismo stragista: lo precede, lo alimenta, si esalta con gli stessi veleni da secoli, anzi da millenni. Questa è la formula che Amos Oz, nel suo libro ora pubblicato da Feltrinelli con il titolo Cari fanatici, propone per riconoscere l’autentico fanatico: “Non discute. Se secondo lui qualcosa è male, se ritiene che qualcosa sia male agli occhi di Dio, è suo dovere mettere a ferro e fuoco la sede di tale nefandezza, anche se ciò comporta uccidere i suoi abitanti o chiunque passi per caso nei paraggi”. Il fanatico descritto così da Oz (guardiamoci attorno, chissà quanti ce ne sono vicino a noi, e chissà se il vento gelido del fanatismo qualche volta è arrivato a sfiorarci) è il contrario del nichilista: il nichilista non crede a niente, il fanatico invece crede troppo alla sua Idea, e ci crede così tanto da voler sterminare tutte le altre, cominciando a fare strage, materialmente, di chi le propone. Il fanatico ritiene che non ci sia mai prezzo troppo alto da pagare, troppo sangue da versare, per raggiungere il suo paradiso, in terra o in cielo. Per creare il suo mondo perfetto, deve annientare tutto ciò che è imperfetto o ostacola la strada che porta alla perfezione. È fanatico chi crede a quella formula che George Orwell considerava cruciale perché gli utopisti comunisti si auto-assolvessero da tutti gli orrori di cui si stavano macchiando con Stalin: non c’è grande frittata che non contempli la rottura di un numero elevatissimo di incolpevoli uova. Secondo Amos Oz non è fanatico chi si batte con passione e dedizione per un ideale, né chi è convinto di essere “dalla parte del giusto” ma è chi “si asserraglia dentro di sé, e non contempla né finestre né porte”, chi da dentro una fortezza senza luce e senza aria prova solo “sprezzo e repulsione” per i diversi, per chi la pensa diversamente, per chi è tiepido e dunque non condivide il suo grado di fanatismo. E allora guardiamoci dentro: cerchiamo di non pensare che i fanatici siano solo gli “altri”, che noi siamo immuni da queste malattie. Anzi, sostiene Oz, oramai con il passare del tempo, smaltita per esempio la vergogna per l’apocalittico fanatismo hitleriano, cresce la tentazione di nuove intolleranze, senza finestre e senza porte, senza aria e senza luce, nel “dogmatismo categorico”, nella fine del valore della libera discussione. Migranti. Minniti: “Il mio obiettivo è chiudere i grandi centri di accoglienza” La Repubblica, 9 ottobre 2017 Il ministro dell’Interno: “Separare tema emergenza da immigrazione. Meno 35 per cento di accessi da Niger in Libia. Guardia costiera libica ha salvato oltre 16.000 persone”. “Su sharia nessuna mediazione è possibile”. “Parità uomo-donna altro valore intangibile”. “I temi dell’emergenza e dell’ immigrazione devono essere separati, metterli insieme è l’errore più catastrofico che si può fare. Sul tema c’è bisogno di una visione complessiva e su questo si gioca la partita tra populismo e riformismo”. Lo ha detto il Ministro dell’Interno, Marco Minniti, intervenendo alla nona edizione della Scuola per la Democrazia di Aosta, promossa dal Consiglio regionale della Valle d’Aosta e dall’associazione Italia-Decide di Luciano Violante. “L’obiettivo che mi sono dato - ha spiegato il titolare del Viminale - è arrivare all’accoglienza diffusa e chiudere i grandi centri di accoglienza. I grandi centri di accoglienza, per quanto ci si possa sforzare di gestirli nel migliore dei modi, non possono essere la via maestra per l’integrazione”. “Personalmente considero dei cattivi maestri coloro che dicono che, a un certo punto, se arrivo io faccio cessare i flussi migratori” ha sottolineato Minniti. “I flussi - ha aggiunto - non sono risolvibili con un approccio di carattere tecnico che porta a dire abbiamo chiuso: se qualcuno avesse dubbi su questa mia affermazione basta sollevare gli occhi dal nostro Paese e guardare quello che succede nel mondo. Il punto non è aprire o chiudere. Ma governare”. “La cooperazione strategica tra il Governo e i sindaci - ha poi dichiarato - è un elemento cruciale per i temi della sicurezza e dell’immigrazione. Una democrazia moderna non può non fondarsi sul rapporto strategico tra governo centrale e gli enti locali”. “Nello Stato Islamico c’erano 25-30.000 foreign fighters provenienti da 100 Paesi, la più grande legione straniera mai vista. Molti sono morti ma molti torneranno nei Paesi di provenienza, in Europa e Africa. L’Africa settentrionale non può diventare una piattaforma per i terroristi dell’Isis”. “Nei prossimi 15 anni - ha osservato il ministro - Europa e Africa avranno un futuro allo specchio. E l’Europa è legata all’Africa su questo punto cruciale: ha investito sulla rotta balcanica una massa importante di risorse ed è legittimo chiedere un simile approccio per quanto riguarda l’Africa”. “Il cuore della questione migratoria - ha osservato ancora - è affrontare il tema dei Paesi di provenienza”. “Le partenze dalla Libia verso l’Italia sono diminuite ma soprattutto sono diminuiti del 35% gli accessi in Libia dal Niger. È un dato molto importante per evitare che la Libia diventi un collo di bottiglia”, ha dichiarato Minniti. “La Guardia costiera libica - ha commentato - a cui abbiamo fornito motovedette e formazione, ha salvato in questo periodo oltre 16.000 persone”. A proposito di flussi migratori provenienti dalla Libia, Minniti ha detto che “incomincia a vedersi una fievole luce alla fine del tunnel”. “Non è possibile sottoporre il nostro Paese a una giurisdizione improntata al radicalismo religioso, chi pensa alla sharia deve capire che ‘in Italia no’, su questo non ci possono essere mediazioni, sono valori non discutibili”. Lo ha affermato Minniti. L’altro valore “intangibile” indicato dal ministro, parlando del processo di integrazione, è quello della “parità della donna rispetto all’uomo: siamo un Paese che ha fatto su questo giganteschi passi in avanti”. Renzo Piano: “Ius soli, il no è crudele, quei bimbi sono italiani. Lo dicono i loro amici” di Francesco Merlo La Repubblica, 9 ottobre 2017 L’archistar e senatore a vita aderisce allo sciopero della fame. “Invito i miei colleghi di ogni partito a parlarne con figli e nipoti, a superare i calcoli elettorali”. “L’Italia - comincia Renzo Piano come sanno tutti, è il Paese dove si amano i bambini. Più ancora che per la chitarra e per il sole, gli stranieri ci identificano perché siamo i cocchi di mamma, il paese dove i bimbi vengono accolti e festeggiati dovunque. Nei ristoranti, per strada, nelle case, nelle scuole, i bambini sono la nostra allegria e la nostra consolazione. E infatti li coccoliamo e li proteggiamo, e questo ci risarcisce anche perché addolcisce e compensa i tanti difetti che abbiamo. I bambini sono insomma una benedizione del cielo perché sono lo “ius” che in latino vuol dire anche il succo, lo ius soli dunque, il succo della terra, l’essenza della nostra terra, il fertilizzante del futuro”. E invece? “La parola “invece” non è (ancora) da pronunziare. Io ci credo davvero che i senatori, i miei colleghi, non butteranno via questa occasione di civiltà e troveranno il modo di approvare questa legge, per quanto imperfetta essa sia. Li invito tutti, di destra, di sinistra e di centro, di sotto e di sopra, a parlarne la sera, a casa, con i figli e con i nipoti. Basterà ascoltarli per capire che sarebbe un delitto contro di loro, contro i loro compagni di scuola, contro i loro simili e contro la tanto sbandierata italianità. Continuare a negare a dei bimbi, che sono italiani come i nostri figli, i diritti - lo ius appunto di ogni altro italiano, è tradire la nostra italianità, una crudeltà indegna dell’Italia”. Renzo Piano, nella sua casa di Parigi, parla di getto, nel senso che “si getta” a capofitto dentro un argomento che lo tormenta sin da quando “insieme con Franco Lorenzoni sto progettando una scuola elementare da donare ad un piccolo comune del Lazio, in zona sismica”. Il luogo esatto lo dirà tra qualche giorno Paolo Gentiloni. “Sarà una scuola di legno, a due piani, attorno ad un cortile con un grande albero. Al piano terra si aprirà alla città: genitori, pensionati, la musica, l’arte... Al piano di sopra, sotto il tetto, dove c’è più aria e più luce, ci abbiamo messo i ragazzi - le otto classi dell’obbligo - che mentre studieranno vedranno l’albero e di fronte i bimbi delle altre classi. Useremo quattrocento metri cubi di legno che restituiremo alla natura piantando nel bosco più vicino 400 piccoli alberi: 5 euro ad albero”. E forse somiglierà alla scuola che nel 1988 Piano progettò per Pompei ma non fu mai realizzata: “Solo per quello - scrisse Umberto Eco che se ne era innamorato - avrebbe meritato di essere nominato già allora senatore a vita”. E ora Piano racconta che li ha visti, nelle scuole che ha visitato, alcuni degli 800mila piccoli italiani senza Italia, “con i loro occhioni spalancati, che studiano la Costituzione che non li accoglie, parlano la lingua italiana che li chiama “diversi”, pensano e giocano “in italiano” ma non hanno il diritto di dire “sono italiano”. Gli sembra insomma un’ingiustizia che non capisce: “Anche perché, come è stato detto sino alla nausea, non ha nulla a che fare con il controllo dei flussi migratori, con la sicurezza, con l’orientamento politico, con i libri che abbiamo letto, con il partito per il quale abbiamo votato, con la corsa inarrestabile dell’umanità dai paesi dell’infelicità a quelli dell’abbondanza, con il Mediterraneo come campo di concentramento, e meno che mai con la criminalità e con gli stupri. Tutto questo materiale, che alimenta la paura, svanisce subito dinanzi alla fisicità e alla verità di quei bimbi. Ecco perché invito i miei colleghi ad andarli a cercare nelle nostre scuole come ho fatto io. E mi rivolgo anche alle mogli dei miei colleghi, mamme italiane che, quando vogliono, sanno come convincerli: riescono persino a “ingravidare” i loro mariti”. Ovviamente Piano sa che la Boschi sostiene che “in Parlamento non ci sono i numeri”, che Alfano ha dichiarato che “la legge è giusta ma il momento è sbagliato “, e che dunque si rischia la crisi di governo. Ma gli pare molto importante che sia partita un’iniziativa trasversale, “un’alchimia di numeri, dove ci sarà pure il politichese, ma ne vale certamente la pena”. Perciò digiuna anche lui: “Sì, ma non mi pare un eroismo da esibire; è solo un piccolo segnale, un modo per dire a me stesso che ci sono anche io”. E sostiene di parlare da costruttore: “Quando cominci, prendi con le mani un pietra di 32 chili e sai che, se non la metti giù, ti cadrà sui piedi. Dunque la posi, la guardi e scopri che è imperfetta, e che forse non è messa nel modo migliore. Ma sai pure che hai cominciato, e allora ci posi accanto altre pietre. Io penso che costruire città e costruire civiltà sia la stessa cosa e non solo perché l’origine della parola è la stessa, ma perché, pietra su pietra, adatti le imperfezioni, e con una grande pazienza, nei limiti della legge di gravità. E non sto facendo l’elogio del compromesso, dell’inciucio e del pasticcio: le migliori leggi che abbiamo fatte erano imperfette e però hanno cambiato la nostra storia: il divorzio, la legge sui manicomi, l’aborto, il sistema sanitario nazionale, le unioni civili”. Dunque gli piacerebbe parlare con tutti i senatori uno per uno: “Siamo tutti cristiani, anche quelli laici come me. Siamo cresciuti, noi italiani, con un idea di Cristo che non è la Croce ma il Bambinello: la Madonna nella grotta, la natalità. Come può un cristiano buttare via questa occasione storica in nome di un calcolo elettorale, di una paura, di un voltastomaco, di un cattivo umore?”. E poi ci sono i grillini: “Sento dire che si asterranno e mi dispiace per loro. Io non voglio sembrare ecumenico e non amo i tromboni, ma sono stato fatto senatore a vita e ho accettato. Non sono un eletto che ha il dovere di andare in aula per votare le leggi, ma frequento il Senato da architetto e provo, come sto facendo adesso, ad accendere qualche luce sui temi civili, appunto. Quelli che riguardano la costruzione della civiltà e della città. Ho ottant’anni e dunque anche per età so che è sempre molto saggio dubitare della saggezza dei saggi. E voglio dire che non sono qui a proporre accordi di scuola e mediazioni nella dottrina tra forze politiche con il pelo arruffato dalle nevrosi del paese e inseguite da plebeismi sempre più aggressivi. Dico però che mi fa paura tutto questo discutere di sangue e di terra, come nei libri che raccontano le guerre contro la Ragione. Molto più dolcemente si parla di bimbi e di ragazzi, di civiltà dei diritti, di una legge che non prevede che si diventi italiani, qualunque sia la nazionalità dei genitori, per il solo fatto di nascere in territorio italiano. I bambini sono segnali che mandiamo al mondo che non conosceremo, ad un futuro che non vedremo, ma che vorremmo aver contribuito a migliorare. Ecco, qui non si maneggia la politica, la casta, il sistema, siamo nel campo della libertà e della coscienza. Sarebbe davvero un peccato se nell’universo grillino non splendesse la sesta stella, quella dello ius soli”. Turchia. Incriminata la direttrice di Amnesty International di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 9 ottobre 2017 Rischiano fino a 15 anni di carcere la direttrice di Amnesty International in Turchia Idil Eser e gli altri dieci attivisti dei diritti umani arrestati lo scorso luglio sull’isola di Buyukada, al largo di Istanbul, mentre partecipavano a un corso di formazione sulla sicurezza informatica. Tra loro c’è anche l’attivista tedesco Peter Frank Steudtner, di cui Berlino quest’estate aveva chiesto invano il rilascio, e il cittadino svedese Ali Ghravi. Gli 11 attivisti per i diritti umani sono accusati di appartenere e aver sostenuto gruppi terroristici. “Si tratta di un grottesco abuso di potere che evidenzia la situazione precaria degli attivisti per i diritti umani nel paese - aveva commentato il segretario generale di Amnesty, Salil Shetty -. Idil Eser e gli altri arrestati devono essere liberati immediatamente e senza condizioni”. In carcere c’è anche il presidente di Amnesty International Turchia Taner Kiliç, arrestato lo scorso giugno. Secondo il pm Can Tuncay era stato proprio Kiliç ad organizzare l’incontro sulla sicureza informatica sull’isola di Büyükada ma poi non aveva potuto parteciparvi perché era stato arrestato per aver usato ByLock, l’app usata che secondo la magistratura turca è stata usata per inviare messaggi criptati solo e soltanto dai gulenisti che avevano organizzato il golpe del 15 luglio 2016. Usare l’app, per la giustizia turca, equivale ad appartenere al complotto. Per questo sono finite in carcere decine di migliaia di persone. L’accusa sostiene che gli attivisti dei diritti umani hanno tentato di strumentalizzare la “marcia per la giustizia” da Ankara ad Istanbul lanciata lo scorso giugno dal leader dell’opposizione Kemal Kiliçdaroglu per portare il caos in altre province. “È chiaro - si legge nel rinvio a giudizio - che i sospetti volevano far sfocire la marcia in atti di violenza simili a quelli di Gezi Park per creare il caos”. Il pm ha chiesto una condanna tra i 7 e i 15 anni per Kiliç con l’accusa di “essere membro di un’organizzazione terroristica”. Mentre per gli altri l’accusa è di “aver aiutato un’organizzazione terroristica”.