Intervista a Eugenio Albamonte (Anm): “toghe, bene Legnini serve più autocontrollo” di Valentina Errante Il Messaggero, 8 ottobre 2017 Parla di “self-restraint” Eugenio Albamonte, ossia una forma di autocontrollo che i magistrati dovrebbero sempre osservare. Per questo, il presidente dell’Associazione nazionale magistrati non ha difficoltà nel condividere la posizione del vice presidente del Csm Giovanni Legnini, che ieri ha tuonato contro le toghe pronte a passare dalle aule giudiziarie al talk show, con un implicito riferimento alle esternazioni dell’ex pm di Mani pulite, oggi giudice di Cassazione, Piercamillo Davigo. Legnini è stato abbastanza chiaro, cosa ne pensa? “Legnini pone un problema e dice che bisogna trovare una soluzione, credo che la sua sia una posizione condivisibile ma la risposta è già nel codice deontologico dell’Anm, che tutti siamo tenuti a rispettare. Si parla esplicitamente di self restraint”. Ossia? “Il codice deontologico dice che i magistrati possono esprimersi senza limiti di luoghi né di argomenti, ma richiama però a una forma di autocontrollo nelle modalità con le quali comunica. È come se il codice deontologico raccomandasse a ciascuno di noi: “ricordatevi che voi portate la toga sulle spalle anche quando non siete in aula e quindi la gente si aspetta da voi che parliate sempre come parla un magistrato senza intaccare la vostra credibilità istituzionale”. È già nata una nuova polemica. “Sì, ma se le parole di Legnini sono assolutamente condivisibili, trovo inaccettabili alcune prese di posizione. Per chiarire, faccio riferimento ad altri commentatori, soprattutto del mondo politico che parlano di possibili sanzioni disciplinari o comunque di limiti sulle ambizioni professionali o di carriera sulla base delle esternazioni”. Non sta facendo riferimento a magistrati che parlano in Tv delle indagini in corso. “Assolutamente no. Quella sarebbe un’altra storia. Stiamo invece trattando un tema sensibile, quello della libera manifestazione del pensiero, e dell’idea che il piano delle sanzioni disciplinari possa essere allargato per quanti manifestino un’opinione. O ancora del fatto che a un magistrato possa essere vietato accedere a un incarico solo perché si sia espresso in qualche modo”. Eppure ha appena parlato di continenza. “È un po’ il vecchio principio non sono d’accordo con le tue idee ma sono pronto a combattere perché tu le possa esprimere”. Ma un magistrato se esprime in modo chiaro le sue idee non può anche essere ricusato? “Può essere ricusato se ha espresso opinioni in merito alla vicenda sulla quale è chiamato a pronunciarsi. Ma poi per i giudici c’è sempre una cartina di tornasole della terzietà, sono le motivazioni del provvedimento e tutti potranno stabilire in base a quello che scrive se è stato terzo e imparziale. D’altra parte, al di là dei toni e delle posizione culturali e di varia natura che siano espresse in modo più o meno visibile o roboante, ciascuno di noi ha una propria idea sulle cose, come tutti. Anche perché nelle aule di giustizia spesso entrano temi sensibili, che riguardano tutti”. C’è però una questione di opportunità. “Penso che questo riguardi il buon senso di ciascuno di noi e, di conseguenza, i comportamenti di tutti, anche se prima ancora quello dei magistrati”. Eppure Legnini dice che siamo l’unico paese d’Europa dove le toghe passano dalle aule ai talk show. “Ma siamo l’unico Paese che da venti anni ha al centro del dibattito i rapporti tra politica e magistratura, dove i politici parlano più di giustizia che di altri argomenti”. Però c’è anche chi annuncia di volere fare politica e continua a occupare un ufficio giudiziario. “Questo è un’altra questione. La disponibilità a un partito dovrebbe essere data nell’imminenza della candidatura, in modo da essere posti fuori ruolo, comportamenti diversi sono ovviamente inopportuni”. Separazione delle carriere, per garantire la terzietà del giudice di Anna Chiusano* Il Tempo, 8 ottobre 2017 Già raccolte oltre 72mila firme in tutta Italia. Secondo l’articolo 111 della Costituzione il giudice deve essere non solo imparziale, ovvero estraneo a qualunque interesse dedotto in giudizio, ma anche terzo. Terzietà significa assoluta indipendenza del magistrato chiamato a giudicare una persona, oltre che dalla difesa, anche, come parrebbe ovvio, dall’accusa. Tale indipendenza non può essere affidata solo alla sensibilità o all’etica professionale del singolo giudice ma deve essere necessariamente “ordinamentale”. È evidente infatti che un giudice che appartiene al medesimo “ordine” giudiziario di cui fa parte anche il magistrato requirente non potrà essere ed apparire indipendente dal suo collega dell’accusa. Ma non basta. Il codice di procedura penale entrato in vigore nel 1988 ha modificato profondamente il processo penale e i suoi attori principali. Mentre il codice del 1930 prevedeva un P.M. che, una volta ricevuta la notitia criminis dalla Polizia Giudiziaria che aveva svolto le indagini, nel breve volgere di alcuni giorni affidava l’istruzione del processo al giudice istruttore - era infatti un giudice che, ad esclusione dei casi più semplici, provvedeva a raccogliere le prove - con il Codice Vassalli è sempre il P.M. che, disponendo della polizia giudiziaria, indirizza le indagini ed elabora le strategie accusatorie, e che diviene il signore dell’azione penale. Un tale accentramento del potere investigativo in capo ad un magistrato che condivide la vita professionale con il Collega che dovrà occuparsi di giudicare l’accusato, provoca un oggettivo squilibrio tra le parti dinanzi al giudice. Ecco, dunque, che la separazione delle carriere dei magistrati altro non è se non la concreta e doverosa attuazione di quanto già da tempo stabilito dalla nostra Carta costituzionale. Ma dato che, per incomprensibili timori, la politica non si è mai seriamente occupata di dare seguito a quella che appare come una inevitabile conseguenza di quella previsione costituzionale, l’Unione delle Camere penali ha deciso di rompere gli indugi e presentare una proposta di legge di iniziativa popolare di modifica costituzionale per introdurre la separazione delle carriere. Si tratta di un testo che rispetta anche le prerogative di indipendenza della magistratura requirente dall’Esecutivo, poiché ad essa si assicura un organo governo autonomo. Con essa si affronta, infatti, assieme alla separazione delle carriere dei magistrati anche la conseguente riforma del CSM e quella afferente la obbligatorietà dell’azione penale. È iniziato, quindi, un percorso scandito dalla organizzazione di convegni ed incontri dedicati a questa tematica, al cui esito la Giunta Ucpi ha ritenuto opportuno riprendere testi normativi che erano già stati predisposti in passato da illustri giuristi, elaborandoli e sviluppandoli secondo un disegno inteso a coniugare la terzietà del giudice, con l’indipendenza del P.M. dall’Esecutivo, al contempo garantendo e difendendo l’obbligatorietà dell’azione penale e adeguandola alla realtà ed alle esigenze del nuovo processo penale. Ciò è stato possibile con l’apporto determinante di insigni giuristi, quali i Past President Ucpi Oreste Dominioni e Gaetano Pecorella, del maestro Marcello Gallo, e di altri illustri colleghi che hanno portato alla elaborazione del testo di legge. Dopo cinque mesi, la campagna sulla separazione delle carriere ha raggiunto l’incredibile risultato di 72.000 sottoscrizioni con il conseguente superamento della soglia minima prevista dalla legge di 50.000 firme: possiamo dire, senza timore di essere smentiti, che il consenso attorno a questa battaglia è forte e diffuso. Migliaia di avvocati in tutta Italia, nei tribunali e nelle piazze, hanno continuato senza sosta a raccogliere firme attorno ad una proposta che, malgrado l’apparente tecnicismo, appare senza più sentita nell’opinione pubblica di quanto la politica e le istituzioni avessero creduto. Questo dimostra che la battaglia sul giusto processo e sul giudice terzo non appartiene solo all’Avvocatura ma a tutti i cittadini che ritengono di dover essere in ogni caso giudicati da un giudice imparziale e terzo rispetto al pm e al difensore. *Vicepresidente Comitato promotore Separazione Carriere Quante differenze tra i giudici in Europa di Sabino Cassese Il Sole 24 Ore, 8 ottobre 2017 Parliamo tanto dei giudici di casa nostra. Ma come sono preparati e scelti, come operano e si organizzano, quale ruolo svolgono nelle loro società i giudici dei Paesi con i quali amiamo metterci a paragone? In Paesi come Regno Unito, Francia e Germania, i giudici svolgono un ruolo non meno influente di quelli italiani, ma in modo meno visibile e meno aggressivo. Sono presenti nello spazio pubblico, ma parlano attraverso le sentenze, non con interviste, tanto che fino a qualche tempo fa ai giudici britannici era addirittura proibito parlare in televisione. Questo produce un risultato notevole: il potere giudiziario è più rispettato dall’opinione pubblica, la cui stima nei giudici è quattro volte superiore a quella degli italiani nei loro giudici. Questo peso nell’opinione pubblica è dovuto anche al distacco dei magistrati stranieri dalla politica di casa loro, nel senso che essi decidono questioni che riguardano la politica, ma non “stanno dentro” la politica o ambiscono ad entrarvi, nel senso che non usano presentarsi alle elezioni, prendendo così un ruolo pubblico dinanzi all’elettorato. All’interno, poi, i magistrati degli altri Paesi europei sono meno divisi in correnti e sottocorrenti, meno litigiosi, meno eccitati dalla notorietà dei magistrati italiani e dal loro desiderio di notorietà, più coesi. Questo ha un altro risvolto positivo, che consiste in maggiore attenzione per il funzionamento interno della giustizia, per la rapidità dei giudizi, più interesse a rendere giustizia nei processi, molto meno ad assumere decisioni in sede preventiva, cautelare, fuori e prima dei processi. Il confronto con l’Italia, a quest’ultimo proposito, è impressionante, se si pensa che nei giorni scorsi, sul quotidiano che conduceva una battaglia per l’estensione dei poteri delle procure in sede preventiva, vi era, in contemporanea, la notizia della assoluzione di Ottaviano Del Turco e di Silvio Scaglia, tenuti per decenni sotto accusa. Tra i molti libri pubblicati all’estero sulla giustizia, i due qui segnalati forniscono ritratti di gruppo molto significativi. Quello inglese contiene 15 scritti, consistenti in lezioni di magistrati e di osservatori, tenute al “Judicial College”, un organismo costituito nel 2011 (sulla base di un precedente ufficio operante dal 1979), chiamato a fungere da scuola per la magistratura. Il quadro che si trae da questi interventi, riguardanti un sistema giudiziario paragonabile per proporzioni a quello italiano (3200 giudici e 6000 “magistrates”) è quello di un sistema giudiziario molto attento alla rapidità delle procedure e all’introduzione delle moderne tecnologie, teso ad agevolare l’accesso alla giustizia, preoccupato essenzialmente della protezione dei diritti umani. L’immagine complessiva è anche quella di un sistema giudiziario pronto a recepire le riforme provenienti dal Parlamento britannico (in particolare, quelle promosse dal governo Blair) e a promuovere esso stesso riforme al proprio interno (come quella del 2007, che ha portato alla trasformazione degli “administrative tribunals”). L’altro libro è la seconda edizione, accuratamente aggiornata, dell’opera di uno dei più alti magistrati francesi, chiamato far parte (1998 - 2007) e poi a presiedere (2007 - 2011) la Corte europea dei diritti dell’uomo, quella di Strasburgo. Costa, in questo libro, non parla però soltanto della sua esperienza di giudice di un tribunale sovranazionale, racconta anche la sua esperienza di giudice amministrativo nazionale, del francese “Conseil d’État”. E illustra organizzazione e funzionamento della Corte di Strasburgo non solo analizzandone norme e regolamenti, ma anche raccontando la sua personale esperienza. Ne viene una interessante analisi sociologica di giudici operanti a livello europeo (nei 47 Paesi che fanno parte del Consiglio d’Europa), di cui sono tratteggiate le caratteristiche di età, sesso, origini professionali. A livello europeo, poi, si pongono problemi nuovi, come quello del “dovere d’ingratitudine” dei giudici nei confronti degli Stati che li hanno designati alla corte di Strasburgo, una Corte che giudica gli Stati stessi. Impressionante il carico di lavoro della Corte, il numero delle decisioni prese (19 mila dall’inizio del funzionamento, senza calcolare le decine di migliaia di dichiarazioni di inammissibilità). Accanto al problema della indipendenza dal proprio Stato, le corti internazionali hanno anche altre peculiarità, tutte ben illustrate da Costa, tra cui quella di dover ricorrere frequentemente alla “diplomazia giudiziaria” (la Corte è un tribunale, ma anche una organizzazione internazionale) e quella di dover tenere conto continuamente della dimensione interculturale (a partire dalla varietà delle lingue). Sardegna: il ministro Orlando “3 milioni per riqualificare colonie penali agricole” sardiniapost.it, 8 ottobre 2017 Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, in occasione della suoi intervento a Isili alla presentazione del progetto “Liberamente” per la valorizzazione delle colonie penali. “Le colone agricole penali sono un patrimonio prezioso non solo per il sistema carcerario italiano ma per l’intera società, un patrimonio che è anche occasione per dare concretezza a uno dei pilastri della riforma dell’esecuzione penale, il lavoro”. Lo ha dichiarato il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, intervenuto oggi a Isili (Cagliari) alla presentazione del progetto “Liberamente” per la valorizzazione delle colonie penali. “Il lavoro - ha spiegato - è il primo ponte di inclusione che fa parte di un’idea del carcere in grado di superare un muro di indifferenza che lo separa dalla società”. Da qui, la necessità di una maggiore apertura al territorio delle colonie penali. Ed ecco perché “abbiamo deciso di investire, con l’attivazione di interventi di riqualificazione edilizia sulle tre Colonie presenti sul territorio sardo, per un importo di circa 3 milioni di euro, approvati dal ministero delle Infrastrutture”. “Grazie all’utilizzo di fondi europei abbiamo attivato il Pon Inclusione, con un progetto di intervento per il lavoro e l’inclusione attiva delle persone in esecuzione penale. Il progetto coinvolge cinque Regioni, inclusa la Sardegna, e intende intervenire sull’attuale modello del lavoro penitenziario”. Ha evidenziato ancora Orlando. Il ministro ha insistito soprattutto sull’esigenza di “incentivare la dimensione lavorativa come alternativa concreta al reato”. Gli studi in materia dimostrano, infatti, che “tra le persone private della libertà che hanno opportunità lavorative, l’incidenza della recidiva è assai inferiore rispetto a quelle che non vi accedono. Allo stesso tempo i dati relativi al lavoro carcerario indicano come meno del 30% della popolazione detenuto svolga questo tipo di attività. Non siamo ancora soddisfatti, ma questo dato vede una continua crescita negli ultimi cinque anni”. Inoltre, “oggi, più inclusione significa più sicurezza, e le Istituzioni, devono essere consapevoli che oggi la detenzione in cella, senza alcuno sbocco, senza la possibilità di accedere ad attività, rende più insicura tutta la società, perché alimenta un circolo vizioso”. Ecco perché, ha concluso Orlando, “le esperienze delle Colonie penali agricole devono essere valorizzate”. E sul fronte della caranza di organico il ministro ha evidenziato che “stiamo provvedendo nei prossimi mesi all’immissione di 2000 unità, complessivamente, per far fronte alla carenza di organici nelle carceri. Il tema che va affrontato però è il rapporto tra quante persone lavorano nei reparti e quante negli uffici. È in discussione il decreto sulla mobilità - ha aggiunto - perché si è creato uno squilibrio nel corso degli anni. Questo naturalmente non ci esime dal cercare ulteriori soluzioni”, ha concluso il ministro. Sicilia: da domani mobilitazione di Radicali Italiani con visite nelle carceri radicali.it, 8 ottobre 2017 Da lunedì 9 a domenica 15 ottobre Radicali Italiani organizza una grande mobilitazione nazionale sul fronte della giustizia e delle carceri con visite in 35 istituti di pena in tutta Italia. Grazie alla collaborazione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, che ha autorizzato l’accesso nelle strutture, dirigenti e i militanti del movimento visiteranno gli istituti penitenziari di: Sciacca; Agrigento; Caltanissetta; Trapani; Favignana; Palermo Pagliarelli; Palermo Ucciardone; Catania Piazza Lanza; Messina; Enna, Ragusa; Napoli Secondigliano; Napoli Poggioreale; Santa Maria Capua Vetere; Salerno Fuorni; Ascoli Piceno; Ancona Montacuto; Ancona Barcaglione; Roma Rebibbia; Roma Regina Coeli; Rieti; Bologna Dozza; Parma; Pavia; Voghera; Milano San Vittore; Monza; Cagliari; Brindisi; Lecce; Taranto; Bari; Sanremo; Imperia. Sono oltre cento i militanti di Radicali Italiani coinvolti nelle visite, a cui parteciperanno il segretario Riccardo Magi, il tesoriere Michele Capano, la presidente Antonella Soldo. Accanto ai radicali anche numerosi parlamentari, tra cui Gennaro Migliore, Luis Alberto Orellana, Luciano Uras, Mara Mucci, Massimo Cassano, e rappresentanti delle istituzioni locali, come il sindaco di Pavia Massimo Depaoli e di Cagliari Massimo Zedda. “Con questa mobilitazione rilanciamo la nostra battaglia radicale sul fronte della giustizia e delle carceri, che non è una battaglia a sé, ma racchiude e riflette le principali questioni aperte nel Paese su cui come Radicali Italiani siamo impegnati con le nostre iniziative, dall’antiproibizionismo sulle droghe, all’immigrazione, alla povertà”, dichiarano Magi, Capano e Soldo. Secondo i dati del Dap, un terzo della popolazione reclusa sconta una pena per reati legati alla droga e la stragrande maggioranza ha problemi di dipendenza. Una realtà dai costi sociali, sanitari ed economici altissimi e dalle gravi conseguenze sotto il profilo del sovraffollamento carcerario e per il funzionamento della giustizia. “Una grande riforma antiproibizionista, come quella che proponiamo, eviterebbe anche tantissimi dei procedimenti che oggi ingolfano la macchina della giustizia e colpiscono anche giovani e giovanissimi”, spiega Alessia Minieri, della giunta di segreteria di Radicali Italiani e coordinatrice della mobilitazione. Molto alta anche la percentuale di detenuti stranieri, che si attesta al 34% con picchi di oltre il 70% in diversi istituti. Le pessime condizioni di vita nelle carceri italiane, dove - secondo i dati dell’Osservatorio di Antigone - il tasso medio di sovraffollamento è del 114% e in strutture come quelle di Lodi, Larino, Chieti, Como, Brescia Canton Mombello tocca o sfiora il 200%, sono costantemente oggetto di denunce di organismi internazionali, come quella contenuta nel recente rapporto del Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa che nel corso delle visite ispettive ha accertato gravi violazioni dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo sul divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti. “Una grave violazione della legalità costituzionale, come da sempre denunciato da Marco Pannella e dai radicali, che mina le fondamenta stesse dello Stato di diritto nel nostro Paese”, concludono i Radicali. Terni: un corso in carcere per detenuti assistenti alla persona di Adriano Lorenzoni terninrete.it, 8 ottobre 2017 Sono i cosiddetti “caregivers”: una opportunità anche una volta tornati in libertà. Si è concluso martedì scorso il “corso di base formativo per detenuti assistenti alla persona”, un percorso formativo sperimentale ed innovativo, dedicato alle persone in regime di detenzione, che si è rilevato di grande interesse e di utilità vista l’alta adesione dei partecipanti. Già dal 2015 il Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria), aveva analizzato il tema della condizione di disabilità motoria nell’ambiente penitenziario e affrontava le questioni relative a: accessibilità delle strutture e accomodamenti ragionevoli; presa in carico delle persone con disabilità e programma di trattamento rieducativo individualizzato; assistenza sanitaria; formazione di altri detenuti al lavoro di caregiver sul modello di quello familiare; raccolta dei dati e monitoraggio. La Casa Circondariale di Terni in collaborazione con la Usl Umbria 2 ha organizzato il corso per detenuti assistenti alla persona, curato dalla Dott.ssa Morena Bellanca (Psicologa Dirigente) e il centro di Formazione della Usl Umbria 2 diretto dalla Dr.ssa Gallina, con la piena approvazione del Responsabile Medico della Struttura Dr. Antonio Marozzo insieme al Dott. David De Santis (Coordinatore Infermieristico) e insieme a loro si sono uniti alla docenza la Dr.ssa Sonia Biscontini (responsabile del Sert) e il Dr. Angelo Trequattrini (responsabile del Spdc), con l’ obiettivo di garantire il sostegno dei detenuti con disagi fisici e psichici. I disabili in carcere con patologie e limitazioni, sono assistiti, come tutte le altre persone ristrette, dalla Struttura Interna del Servizio Sanitario Nazionale. Il corso appena concluso si propone di creare le condizioni idonee affinché queste persone, possano vivere una vita decorosa in istituto. Il progetto formativo, infatti, ha come scopo quello di colmare tale lacuna formando i detenuti “caregivers”, e si configura come una primissima risposta sul tema della salute dei detenuti nel solco tracciato dalla Conferenza unificata del 22 gennaio 2015, che dà l’avvio ad un cambio della cultura sanitaria che passa dalla mera risposta terapeutica alla presa in carico della persona. Attraverso lo scambio di nozioni teoriche e pratiche, in materia di primo soccorso al paziente acuto, primo soccorso al soggetto in arresto cardiaco, igiene della persona, dei luoghi e degli alimenti, modalità di relazione, assistenza nella mobilizzazione del soggetto con minorazione fisica, assistenza alla persona con problematiche psichiche e dipendenze. Si è inteso trasmettere ai partecipanti conoscenze di base per il supporto “assistenziale” alla persona, da impiegare all’interno del carcere e, in prospettiva futura nella vita quotidiana. L’auspicio non è solo quello di migliorare l’assistenza alla persona, ma anche quello di implementare il clima di solidarietà tra i detenuti mettendo in gioco la professionalità ma anche, e soprattutto, il contatto umano, contribuendo al clima di aiuto reciproco, ad una integrazione solidale tra loro ed anche ad una sorta di “controllo sociale” specialmente nei casi di soggetti con fattori di rischio autolesivi. Tale progetto potrà valorizzare il potenziale dei detenuti in quanto persone, e trasformare il tempo della detenzione in qualcosa di significativo ed utile per sé e per l’altro, in modo che non sia tempo “sospeso”, ma tempo vissuto attraverso esperienze che possano consentire il recupero di abilità sociali oltre che dare una risposta concreta alle esigenze organizzative dell’Istituto. Dunque non solo formazione e assistenza ma anche uno strumento in più per incentivare la solidarietà dietro le sbarre. Se questa metodologia di lavoro avrà il successo atteso si potrà pensare a progettare una seconda edizione di livello avanzato, con moduli di aggiornamento e moduli di approfondimento. Inoltre sulla scia di altri Istituti Penitenziari si potrà attivare una convenzione concordata in ogni dettaglio con la Usl e la Regione, per il rilascio di attestati formativi riconosciuti a livello europeo, i quali consentiranno ai caregivers, acquisite le competenze necessarie, di diventare operatori socio assistenziali e, una volta liberi, poter essere assunti come addetti all’igiene, alla pulizia e all’accompagnamento dei pazienti. Entusiasmo e lode per l’abilità messa in gioco nella realizzazione di questa iniziativa formativa (seconda in Italia) è stata espressa dalla Dott.ssa Chiara Pellegrini Direttore della Casa Circondariale di Terni e dal Dr. Imolo Fiaschini Direttore Generale della Usl Umbria2. Isili (Su): detenuti al lavoro con il progetto “Liberamente” sardegnaoggi.it, 8 ottobre 2017 Possibilità di riscatto sociale per i detenuti nelle varie colonie penali dell’Isola. Con il progetto promosso dal ministero della Giustizia possibile seguire due corsi formativi per provare ad avere una “nuova vita”. Valorizzare il patrimonio paesaggistico e identitario dei territori in cui insistono le colonie penali, e mettere insieme le risorse ambientali e culturali per promuoverle, in un’ottica inclusiva, in chiave turistica e imprenditoriale. Con queste finalità sono stati finanziati i corsi di formazione del progetto “Liberamente”, nell’ambito del programma Green & Blue economy, presentati a Isili alla presenza dell’assessore regionale del Lavoro, Virginia Mura, e del,inistro della Giustizia, Andrea Orlando. Mura: “un progetto dal forte impatto sociale” - “L’iniziativa ha il grande merito di coniugare il recupero della memoria storica dei luoghi attraverso il racconto dei detenuti, con finalità educative e di promozione dell’inclusione socio-lavorativa, insieme alla valorizzazione di territori di elevato pregio”, ha affermato l’assessore Mura. “Gli allievi avranno l’occasione di calarsi in una dimensione esperienziale dal profondo valore umano, ed entrare in contatto con la realtà delle colonie agricole penali, che finalmente si aprono all’esterno per raccontare le storie di chi le abita e la voglia di riscatto e di riabilitazione. È un progetto dal forte impatto sociale, che mette al centro le persone, le comunità e contesti territoriali spesso lasciati ai margini, per valorizzarne le potenzialità produttive e promuovere la creazione di iniziative d’impresa, capaci di includere e di dare un’opportunità di lavoro a chi ha espletato una pena, lanciando un messaggio di speranza di cambiamento”, ha proseguito Mura. “L’idea è frutto dalla proficua collaborazione tra la Regione e il ministero della Giustizia, peraltro già avviata da tempo, con la stipula di protocolli d’intesa, anche per l’esigenza di sopperire ad alcune carenze dell’amministrazione giudiziaria in Sardegna”, ha ricordato la titolare del Lavoro. Il ruolo delle Colonie penali agricole - “Nel progetto rientrano le azioni svolte in collaborazione con il Centro di Giustizia minorile e l’adozione dei tirocini atipici, strumento utile alla riabilitazione dei detenuti, che offre l’opportunità concreta di recupero e di reintegro nella società attraverso il lavoro”, ha precisato l’assessora Mura. “La Regione, inoltre, ha stanziato nell’ultima finanziaria un apposito fondo di 1 milione di euro a favore dell’inclusione sociale e lavorativa degli detenuti, che ha permesso di attivare importanti progetti anche nell’ambito della mediazione penale e civile”. Il ministro Orlando, dal suo canto, ha affermato che “le colonie agricole penali sono un patrimonio prezioso per l’amministrazione penitenziaria e per i territori in cui insistono. Iniziative come questa sono l’occasione per dare concretezza a uno dei pilastri dell’esecuzione penale, che è il lavoro. Nel percorso di riforma che si sta compiendo - ha sottolineato l’esponente del Governo - sarà reso più stringente il rapporto tra l’esecuzione della pena e le opportunità di lavoro per i detenuti. Occorre superare il muro di diffidenza e creare ponti di inclusione, e il primo ponte è certamente il lavoro”. Il Progetto “Liberamente” - Il ministro Orlando ha anche citato gli interventi del ministero della Giustizia sul fronte della riqualificazione delle strutture carcerarie e delle stesse colonie penali. Il progetto “Liberamente”, proposto dal raggruppamento temporaneo d’impresa composto da Ifold, Confcooperative, Poliste e Byfarm, è stato finanziato nell’ambito del Fondo sociale europeo, per un importo di 670mila euro. Sono due i percorsi finanziati: Tecnico del web marketing territoriale, della durata di 600 ore, che si svolgerà in due edizioni, una a Cagliari e una a Sassari; un percorso di formazione per la creazione d’impresa, della durata di 140 ore, con sede a Nuoro, con l’effettuazione di una esperienza di mobilità transnazionale per ciascun partecipante. I percorsi sono rivolti ai giovani entro i 35 anni di età, fino al 45% donne. Venezia: associazione “La Gabbianella”; bambini in carcere, vite da proteggere di Daniela Ghio Il Gazzettino, 8 ottobre 2017 Storie tristi quelle raccontate al convegno organizzato dall’associazione “La Gabbianella” e dal Comune. Il caso di un piccolo con problemi di sordità la cui madre ha perso due apparecchi, l’ultimo durante la fuga. Non è facile essere figlio di un carcerato, ed è ancora più difficile avere una vita come quella di tutti gli altri bambini se si ha meno di sei anni e si è ristretti insieme alla mamma. I bambini infatti crescono con le madri negli istituti a custodia attenuata, come quello che esiste alla Giudecca dove attualmente ci sono otto mamme con otto bimbi. In totale in Italia i figli dei detenuti sono 56.800 circa, i figli di coloro che sono affidati agli uffici di esecuzione penale esterna sono invece 51.000 circa. Vi sono poi casi difficili, dove le mamme, per lo più di origine rom, hanno una cultura diversa dalla nostra e una diversa genitorialità. È il caso di un bimbo con problemi di grave sordità, ospitato nell’Icam (la casa per mamme detenute) della Giudecca che con fatica i medici dell’Ulss 3, insieme agli operatori della struttura e all’associazione “La Gabbianella e altri animali” erano riusciti a portare da uno specialista e a dotarlo di apparecchio acustico. La madre rom, che non è mai stata figlia e quindi non ha un modello di riferimento, prima gli ha perso l’apparecchio nel water. Una volta avuto un altro apparecchio, quando è stata trasferita in una casa famiglia al compimento dei 6 anni del figlio, è scappata con il piccolo senza portarsi via l’apparecchio acustico. Della difficile situazione dei bambini in carcere si è parlato a Palazzo Cavagnis nel convegno “Bambini come gli altri”, organizzato dall’associazione “La Gabbianella” assieme all’assessorato Coesione sociale e sviluppo economico del Comune di Venezia, all’interno della rassegna “Dritti sui diritti” per riportare l’attenzione di alcune istituzioni (della Garante Regionale, delle Direttrici delle due carceri di Venezia, maschile e femminile e dell’Ufficio esecuzione penale esterna) sulla necessità di applicare il “Protocollo d’intesa” della Regione Veneto. Perché la madre non possa nuocere a nessuno e il bambino sia a un tempo protetto e non privato né del rapporto con la mamma né della sua libertà di bambino. A Venezia, ha spiegato la direttrice dell’Icam Antonella Reale, la struttura è nuova e bella, ma soffre per la mancanza di personale. I bambini che la abitano vi escono solo grazie all’impegno dell’associazione “La Gabbianella” che riesce in questo scopo grazie al volontariato e agli stagisti delle vicine università, ma che, da sette anni, non ha alcun aiuto regolare e sostanziale da parte del Comune, come invece avveniva un tempo, tramite la Municipalità. Ci sono poi situazioni in cui i bambini dovrebbero essere particolarmente protetti e per essi ci dovrebbero esserci forme di “affidamento diurno”. “Di giorno il bambino va a scuola e viene accompagnato a fare le cure del caso - ha spiegato la dott. Paola Sartori del Comune di Venezia -, di pomeriggio-sera torna dalla madre. Verrebbe così coniugato il diritto a mantenere il legame con la mamma ed insieme il diritto a crescere in un ambiente attento ai suoi bisogni. Attraverso l’affidamento diurno, in molti casi sarebbe più facile dare il permesso di soggiorno al bambino e così anche le cure mediche a lui necessarie. Un domani, all’uscita della madre dal carcere, la stessa potrebbe più facilmente chiedere un permesso di soggiorno provvisorio e, lavorando onestamente, finire per averlo definitivo”. “Ancora purtroppo da risolvere - ha affermato Carla Forcolin, fondatrice della Gabbianella - i problemi relativi ai figli dei detenuti maschi, per i quali con la direttrice Immacolata Mannarella stiamo lavorando ad un progetto, finanziato dalla Regione, che ha lo scopo di rendere l’ex chiostro di S. Maria Maggiore un’aria aperta agli incontri tra detenuti e famiglie”. Massa Carrara: “ti stacco la testa!”, le minacce dei carabinieri agli immigrati Corriere della Sera, 8 ottobre 2017 I militari sotto indagine sono 37: “Si sentivano legittimati dalla divisa” a insultare, picchiare e minacciare gli stranieri. Alcuni erano torturati con scariche elettriche. Emergono anche false ore di servizio ed il caso di un militare che maltrattava la moglie nell’atto di chiusura indagini dell’inchiesta della procura di Massa nei confronti di 37 carabinieri. Per uno dei militari accusati di abusi compiuti nelle caserme di Aulla e Licciana Nardi (Massa Carrara) in Lunigiana, c’è anche la contestazione del maltrattamento della moglie. E dalle carte emergono anche turni di lavoro e ore di servizio mai svolte. Intercettando i militari nelle auto di servizio, o al telefono, la Procura ha scoperto i maltrattamenti di uno di loro nei confronti della moglie: “Ingiurie, percosse, lesioni” si legge nelle carte, ma anche “epiteti”, “sputi in faccia” e “schiaffi in pubblico, colpendola più volte al volto e sulla schiena”. Una volta la donna fu scaraventata fuori dall’auto, in pubblico; un’altra fu “abbandonata” a Livorno, per strada, al freddo, senza telefono per evitare che potesse chiedere aiuto. Verbali falsi - Quanto a verbali falsificati, o mai redatti, turni saltati e finte ore di servizio i militari indagati si sarebbero “coperti” dichiarando il falso ai superiori. Ad esempio una lunga cena per la vigilia di Natale, il 24 dicembre del 2016, durante la quale due militari risultano invece in servizio: nei verbali scrivevano di aver eseguito il turno dalla mezzanotte alle sei di mattina, ma spesso rientravano in caserma alle 3 di notte, con la complicità dei piantoni. Secondo la Procura facevano “apparire integralmente svolto il loro servizio, pattugliamenti e controlli dei domiciliari” mentre in realtà “rimanevano in caserma” o “rientravano ore prima”. Agli immigrati: “Ti stacco la testa!”. Ciò che ritenevano giusto per gli extracomunitari con i quali avevano a che fare lo rivelerebbero le intercettazioni che emergono dall’atto di conclusione indagini: “Basterebbe prenderli e invece di portarli in caserma farli sparire, come fanno i cinesi, un solo colpo alla nuca, nella fossa, calce, tappi tutto ed è l’unico modo per levarli di mezzo”, dice uno dei militari intercettati. Intercettazioni ambientali e nelle auto di servizio che avrebbero fotografato un modus operandi di alcuni dei militari indagati a vario titolo per lesioni, abuso d’ufficio, falso e anche per un episodio di abuso sessuale. “Capiscono solo le legnate”, dicevano tra di loro e non mancavano di minacciare gli stranieri fermati per i controlli: “Ti stacco la testa se ti rivedo”, “Ti butto nel fiume”, fino ad obbligare un cittadino marocchino, parcheggiatore abusivo in un supermarket, a lasciare Aulla per Sarzana, perché spesso picchiato a calci e pugni. Scariche elettriche e botte - Le accuse più gravi si riferiscono a lesioni e contusioni multiple per aver sbattuto la testa di un extracomunitario contro il citofono della caserma, a colpi di manganello sulle mani appoggiate alle portiere delle auto durante i controlli fino a scariche elettriche prodotte da due storditori per costringere uno spacciatore a rivelare dove tenesse la droga e a sevizie sessuali ad un giovane marocchino. Ma non mancavano i dispetti: le gomme della bici tagliate ad un ambulante per impedirgli di tornare a casa, o le ruote di un’auto bucate perché il veicolo era senza assicurazione. Atti compiuti come se fossero legittimati dalla divisa, secondo la Procura, con l’unica finalità “di discriminazione e odio razziale”. Abusi che qualcuno tentò anche di denunciare, come un marocchino 50enne che andò nella caserma di Aulla perché lo avevano minacciato nel corso di una perquisizione secondo lui senza motivo: chiese di parlare con il comandante, ma fu allontanato in malo modo. Milano: la pianista Giulia Mazzoni al Carcere di San Vittore per una lezione speciale fixonmagazine.com, 8 ottobre 2017 La pianista Giulia Mazzoni ha tenuto una lezione speciale presso la sezione femminile del carcere di San Vittore, regalando forti emozioni alle ragazze detenute che fanno parte del coro gospel “Oltre le mura”. La spontaneità, il talento e soprattutto la grande anima di Giulia Mazzoni hanno letteralmente conquistato il coro gospel del reparto femminile del Carcere di San Vittore: la giovane pianista ha infatti tenuto un incontro speciale con le ragazze che fanno parte del progetto promosso da Auser Regionale Lombardia. “Quando sono entrata nel carcere di San Vittore ho subito incontrato persone sorridenti e disponibili, l’accoglienza del personale è una vera luce in un luogo grigio con le sbarre celesti - racconta Giulia Mazzoni - Non mi sentivo a disagio, tanto che senza pensarci ho fatto il gesto di aprire io stessa l’enorme portone che separava la portineria dall’ingresso ai reparti veri e propri del carcere… In quel momento ho incontrato la libertà negata, ho colto cosa si provi a non poter aprire una porta a meno che qualcun altro ti autorizzi a entrare o a uscire. In compagnia di Sara, che dirige il coro, ho atteso l’arrivo delle ragazze nella saletta che ogni mercoledì pomeriggio diventa il laboratorio di musica. Quando le coriste sono entrate ci siamo subito trovate in sintonia e durante l’incontro abbiamo scherzato, riso e pianto insieme. Ci siamo emozionate reciprocamente. È stata una esperienza umana importante, di confronto e conoscenza, attraverso l’elemento di indagine più intimo che esista, la musica”. Giulia ha voluto il più possibile entrare in empatia con le ragazze, prima di appoggiare le mani sul pianoforte ha cantato con loro un paio di brani di riscaldamento e ha imparato con loro il brano gospel “Give God the glory”. “Quando la musica ci ha unite ho sentito io per prima di essere libera - afferma Giulia Mazzoni - e ho sentito da parte delle ragazze che tutta la pesantezza e la tristezza sparivano di colpo, lasciando spazio ad un nuovo senso di pace e dando inizio ad una intensa riflessione personale”. Alla fase di conoscenza è seguita quella del dialogo emotivo, iniziando con l’esecuzione dal vivo di “Winter’s dream”, un suggestivo brano composto da Giulia Mazzoni che ha ispirato le ragazze a trovare in loro sensazioni, ricordi, spiegazioni. “Il tempo si è annullato in quel momento - ricorda Giulia - Le sbarre erano lì a ricordarci che attraverso l’impegno, il lavoro e la riflessione personale avremmo di nuovo potuto toccare il cielo”. Potentissimo anche l’effetto di “Room 2401”, che non a caso dà il titolo all’album di Giulia e che era in consonanza con la situazione: la stanza chiusa come mezzo per ritrovare un’identità autentica. Un’iniezione di speranza è stato il flusso musicale di “Piccola luce”, altro brano che conferma la capacità evocativa della compositrice. Non c’è modo di descrivere la gioia e la profonda commozione che hanno pervaso il piccolo concerto che ciascuna percepiva come organizzato ed eseguito per sé, come un dono inaspettato. “Non c’erano barriere tra noi, solo la voglia di ascoltarsi e raccontarsi - commenta Giulia Mazzoni - Ci siamo salutate abbracciandoci e con la promessa che avrei suonato per loro in un vero concerto. Promessa che spero di onorare quanto prima. Ringrazio Auser Regionale Lombardia e i docenti del coro, Sara Bordoni e Matteo Magistrali, per il magnifico lavoro che stanno facendo e per avermi permesso di avere questo incontro preliminare con le ragazze, in collaborazione con Parole e Dintorni. Nessun fine personale da parte mia, se non la profonda esigenza di incontrarle ed ascoltarle. Eravamo insieme in uno spazio e tempo diversi dalla vita reale. Ripensavamo alla vita, a noi stesse, raccontandoci ed emozionandoci nella stessa stanza. Ero di nuovo, ed eravamo tutte, nella Room 2401”. Il concerto di Giulia Mazzoni al carcere di San Vittore si terrà all’inizio del 2018 e sarà un evento “corale” che attirerà sicuramente molta attenzione, come è avvenuto lo scorso 21 giugno con il concerto di Ylenia Lucisano e Renato Caruso. Giulia Mazzoni, nata a Prato il 15 marzo 1989, ha studiato presso il Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano. Nel 2013 fa il suo esordio discografico con l’album “Giocando con i bottoni”, contenente 14 composizioni inedite per pianoforte solo che si muovono tra tradizione classica e musica pop, riceve il Premio Ciampi per la “Migliore cover di Piero Ciampi” e si esibisce sul palco del Concerto di Natale. Nel 2014 presenta alcuni brani tratti dal suo album all’inaugurazione di Eataly Smeraldo Milano, calca il prestigioso palco del Ravello Festival e si esibisce a Faenza in occasione del Mei, il Meeting delle Etichette Indipendenti. Nel 2015 Giulia viene scelta come unica donna della compilation “Eataly Live Project” (Sony Music) con il brano “Where and when?”, suona come pianista resident per Audi a Milano, collabora, suonando per la prima volta le sue composizioni all’organo, con l’attore Marco Baliani ed accompagna al pianoforte l’attrice Chiara Buratti nello spettacolo “L’ultimo giorno di sole”. Tanti i concerti tenuti dall’artista tra il 2013 e il 2015, tra cui quelli al Blue Note di Milano e all’Auditorium Parco della Musica di Roma. “Giocando con i bottoni” è stato pubblicato e distribuito anche in Cina, paese dove l’artista ha riscosso un grande successo di pubblico e di critica con un tour di 5 date sold out nelle città di Tianjin, Xi’an, Chongqing, Shanghai e Wuhan. Nel 2016, tra i vari concerti che ha tenuto, è stata protagonista della rassegna Piano City a Milano e del festival Naturalmente Pianoforte a Pratovecchio Stia (Arezzo). A dicembre 2016 Giulia Mazzoni è stata ospite della finale dello “Zecchino d’Oro” in onda su Rai 1, di “Edicola Fiore - Bollino Rosso” in diretta su Sky Uno e della “Maratona Rai Telethon 2016” su Rai 2. “I numeri dispari sono di troppo”, di Salvatore D’Ascenzo recensione di Marianna Giacchetto sololibri.net, 8 ottobre 2017 “I numeri dispari sono di troppo” di Salvatore D’Ascenzo si configura come la narrazione di una realtà latente qual è quella degli istituti di reclusione oggi, in Italia, spesso senza un vero e proprio controllo da parte del Garante; basti pensare che, in Abruzzo, terra cui appartiene lo scrittore di questo libro, il Garante neppure c’è. Salvatore D’Ascenzo ha redatto le pagine de “I numeri dispari sono di troppo” collaborando con otto detenuti del carcere di Castrogno, a Teramo, esperienza nella quale ha raccolto le loro storie, che si trovano alla fine del libro, per renderli protagonisti di una esperienza di liberazione più o meno fantastica: un progetto di fuga da un carcere che è, in vero, la proiezione delle paure più intime dei detenuti, come il giudizio, la solitudine, l’abbandono. A voler essere più precisi, occorre sottolineare che l’originalità de “I numeri dispari sono di troppo” sta proprio nella sua forma anfibia: alla prima parte, un romanzo che ha per protagonisti i detenuti coinvolti in questo romanzo, catapultati in un contesto narrativo che ben riesce a delineare tutto il loro dolore e il faticoso cammino di redenzione che queste persone ogni giorno intraprendono, segue una raccolta delle dirette testimonianze degli ospiti della casa circondariale di Castrogno che, in una stimolante esperienza formativa, sono riusciti ad affidare alla scrittura forte di Salvatore D’Ascenzo il loro desiderio di poter ancora essere considerati uomini, al di là di ogni errore e di ogni pregiudizio. “I numeri dispari sono di troppo” non ha, però, alcun intento apologetico: descrive la vita dei detenuti senza considerarli una collettività da punire, la cui identità è stata sintetizzata e racchiusa in un numero di matricola, ma come uomini comuni, con le proprie attese, le proprie paure, gli errori di cui, piuttosto che ricercare le cause, si considerano le conseguenze, in una riflessione gravida di consapevolezza. Un volume che può considerarsi almeno in parte, anche un vero e proprio thriller alla Stephen King, fatto anche di immagini forti e turbamenti fisici, che però lascia con un sorriso malinconico sulla bocca. Un bel libro scritto da un autore che sicuramente farà strada. Un buon motivo per riflettere su ciò che lasciamo fuori dalle barriere della società. Frutto di un progetto realizzato con alcuni detenuti del carcere teramano di Castrogno, che hanno preso parte all’iniziativa con grande entusiasmo, “I numeri dispari sono di troppo” è un progetto coordinato e realizzato dallo scrittore Salvatore D’Ascenzo, in collaborazione con la casa editrice Evoè e l’area educativa della casa circondariale che è riuscita a mettere in atto un’operazione davvero unica per questa struttura di detenzione, un’esperienza che è motivo di vanto non solo per la città di Teramo ma anche per l’editoria abruzzese. Salvatore D’Ascenzo, noto già per il reportage “Mattoncini rossi” sul terremoto del Nepal del 2015, un libro fortunato, che è stato tradotto e distribuito perfino in Canada, torna ad indagare una tematica di carattere sociale. L’autore, che tornerà presto in libreria con altri due volumi con case editrici di livello nazionale, mostra ancora una volta lo stile e la scrittura appassionata e coraggiosa di chi è capace di raccontare realtà poco conosciute ai più, andando oltre ogni preconcetto e ogni facile pregiudizio. La violenza “spettacolare” e il suo terreno di coltura di Mauro Magatti Corriere della Sera, 8 ottobre 2017 Ampia accessibilità dei mezzi, moltiplicazione dei fini, desidero di riconoscimento, isolamento sociale sono gli elementi di un fenomeno da capire meglio. L’attentato terroristico realizzato da un fanatico con un furgone o un semplice coltello; la strage causata da uno squilibrato che ha libero accesso a carabine e mitragliatrici, lo stupro o la violenza contro le donne perpetrate da giovani sbandati in parchi pubblici o fuori da una discoteca. Viviamo un’epoca in cui la violenza sembra non darci tregua. Una vettura della metropolitana, una piazza cittadina, una stazione ferroviaria. Luoghi affollati dove ci capita di passare ogni giorno. La violenza colpisce a caso e sembra potere assalire ovunque, come un virus capace di superare qualsiasi protezione. Per questo fa paura: perché non sappiamo più dove possiamo sentirci al sicuro. Non possediamo statistiche che ci possano far parlare di un aumento delle patologie che spingono gli essere umani a compiere atti efferati. Anzi, sappiamo che negli ultimi anni la forbice tra i dati effettivi (numero dei crimini tendenzialmente in diminuzione) e percezione di insicurezza (in aumento) si è allargata. Non siamo dunque di fronte a un’epidemia di violenza. Eppure non possiamo far finta che il problema non ci sia. Più che il numero complessivo in aumento sono i delitti che, effettuati in modo spettacolare, incidono fortemente sulla percezione diffusa. Proprio per questo è sbagliato ridurre tali accadimenti a fatti occasionali riconducibili a un malessere individuale. Si tratta di un fenomeno sociale su cui è opportuno riflettere. Provo allora a mettere in fila quatto aspetti che possono aiutare a capire meglio di che cosa si tratta. Il primo elemento è la moltiplicazione dei mezzi disponibili. Nel caso americano si è giustamente detto che il problema sono le armi facilmente reperibili sul mercato; ma è vero che tanti strumenti della nostra vita ordinaria (coltelli, furgoni, etc) possono essere trasformati, con una inversione di significato, in strumenti di morte. In una società tecnologica non è difficile avere a disposizione mezzi potenti capaci di causare vere e proprie stragi. Tutti abbiamo ancora nella mente il caso del pilota che portato con sé nella tomba i 144 passeggeri dell’aereo di linea che guidava. Ma la stessa cosa si potrebbe dire per i giovanissimi hacker esperti di computer, capaci di mettere a repentaglio i sistemi di sicurezza nazionali. Nelle condizioni in cui viviamo non è difficile procurarsi - nelle più disparate situazioni della vita quotidiana - mezzi potenti che, pensati per fini diversi, possono essere rivolti contro altri. La moltiplicazione dei mezzi si combina con la polverizzazione dei significati. Con la società della comunicazione siamo entrati nell’era della libera circolazione di qualunque messaggio. A fatica ci stiamo rendendo conto che la rete è un grande ricettacolo di messaggi contraddittori e talora fuori controllo. La maggior parte delle persone è perfettamente in grado di rifuggire dai contenuti più pericolosi. Ma ci sono gruppi marginali che nutrono la loro patologia proprio attraverso l’esposizione a immagini, filmati, propagande più o meno deliranti. Sempre a proposito di comunicazione, la possibilità di finire sulle prime pagine dei giornali costituisce concretamente la possibilità di accedere a una gloria postuma. L’immaginario della notorietà offre un buon argomento per decidere di compiere atti a forte risonanza pubblica: porre fine a un’esistenza mediocre con un atto capace di attirare l’attenzione di tutto il mondo costituisce una enorme ricompensa per tanti. E da questo punto di vista, l’attentato dell’11 settembre rappresenta una sorta di modello diabolico, capace di ispirare disegni di morte. L’ultimo aspetto che vorrei richiamare è l’indebolimento delle reti sociali e la diffusione di una cultura individualistica. Le ricerche ci dicono che l’isolamento è un fattore molto importante nel creare le condizioni adatte all’azione violenta. Che si tratti di un piccola cellula terroristica o di un singolo individuo prigioniero della propria depressione, la sostanza non cambia: nella morsa di un pensiero che si avvita su se stesso, perso l’ancoraggio col mondo circostante, si può arrivare a fare qualsiasi cosa, dimenticando ogni senso di umanità. E d’altra parte, in una condizione di isolamento, anche i segnali che potrebbero attivare gli anticorpi sociali utili per prevenire l’atto criminoso cadono nel vuoto. Effetto rafforzato da quella disattenzione a cui ci abitua una cultura in cui ciascuno è caldamente invitato “a farsi gli affari suoi”, senza badare a ciò che lo circonda. Per questo insieme di ragioni, la questione della violenza virale e spettacolare è un problema che fa affiorare il lato oscuro della nostra società. Che non sarà facile superare. Ampia accessibilità dei mezzi, moltiplicazione dei fini, desiderio di riconoscimento, isolamento sociale ne costituiscono il terreno di coltura. Forse è proprio a partire da qui, dalla riflessione su queste dimensioni, che possiamo anche capire che cosa si può fare per combattere tale fenomeno. Figli che uccidono i padri, succedeva già nell’antica Roma di Teresa Ciabatti La Lettura del Corriere, 8 ottobre 2017 “Volevo uccidere mio padre” dichiara ai pm Manuel Foffo assassino, insieme a Marco Prato, di Luca Varani. “Non posso biasimarti per quello che hai fatto”, gli scrive in carcere Pietro Maso, lui che il padre lo ha ucciso davvero, padre e madre, per incassare l’eredità e fare la bella vita subito, no, non poteva aspettare. Questa è la società di oggi, la famiglia contemporanea. Se non fosse che Eva Cantarella, storica dell’antichità, col suo nuovo libro, Come uccidere il padre. Genitori e figli da Roma a oggi (Feltrinelli), smonta la convinzione che certi crimini appartengano alla famiglia moderna. Con garbo (“devo dire che una simile ipotesi ha sempre destato in me molte perplessità”), l’autrice contraddice giornalisti ed esperti, mostrando invece la continuità con il passato. Ovvero: abbiamo sempre ucciso i padri (dove i padri rappresentano anche madri, fratelli, mogli). Nel mondo classico il grande problema tra generazioni era la patria potestas: mentre in Grecia terminava con la maggiore età dei figli, a Roma perdurava fino alla morte dei padri. Uomini adulti senza autonomia economica né diritti giuridici finché era in vita il padre. Ecco che la questione si faceva urgente: quando muore il padre? La morte del padre via via diventa desiderio, auspicio, libertà. “I sessantenni giù dal ponte”, recita un vecchio detto romano alludendo alla pratica di buttare i vecchi nel Tevere, in una società in cui i sessant’anni sono considerati estrema vecchiaia. A dimostrazione che - come nota Eva Cantarella intitolando un capitolo “Breve preistoria della rottamazione” - l’insofferenza odierna dei giovani, la loro voglia di prendere il comando non è una novità. Dalle fonti la studiosa riscontra che l’uso di gettare i vecchi nel Tevere fosse ancora abitudine nella Roma classica, benché qualcuno se ne vergognasse, vedi Ovidio: “Chi crede che i nostri antenati mandassero a morire i sessantenni li condanna a una terribile infamia” scrive nei Fasti, per poi contraddirsi altrove, come si contraddicono Cicerone, Lattanzio e Varrone. Insomma, a volte lo negano, altre lo ricordano, finendo solo per dimostrarne l’esistenza: sì, i vecchi venivano uccisi. Dalla realtà giuridica è anche facile capirne i motivi: padri unici titolari dei diritti e figli adulti costretti ancora a dipendere. Figli che, se maschi e se maggiorenni, godevano tuttavia di diritti minori, quale il diritto a partecipare alle assemblee, o a ricoprire cariche pubbliche, incongruenza che generava non pochi equivoci. Prendiamo l’esempio di Caio Flaminio, tribuno, che promulga una legge agraria nonostante l’opposizione del Senato il quale minaccia di scatenargli contro l’esercito, eppure niente: lui non cambia idea. Coraggioso, temerario, Caio Flaminio porta avanti la legge. Un giorno però, proprio quando sta riferendo in assemblea, arriva il padre che lo trascina giù dai rostri e lo porta via come un qualsiasi bambino bizzoso. E il figlio - il suddetto coraggioso temerario - senza protestare si rimette alla volontà paterna. Dunque: che cosa dovevano fare questi figli romani se non augurarsi la morte dei padri? Da una legge attribuita a Romolo veniamo a sapere che a Roma i padri sui figli avevano diritto di: incarcerarli, percuoterli, costringerli a lavorare nel proprio fondo, venderli e ucciderli. Ammettiamolo: era così innaturale desiderare ardentemente che questi padri morissero? I sessantenni giù dal ponte, sì, ci troviamo a concordare a distanza di secoli, perché le frustrazioni interne alla famiglia della Roma antica sono le nostre; e, seppur in differenti contesti sociali e giuridici, uguali sono le motivazioni, finanche le azioni. Tuttavia Come uccidere il padre non è solo un saggio, un’argomentazione documentata e intelligente. È qualcosa di più, qualcosa di unico grazie allo sguardo dell’autrice: potente, disincantato e acuto come quello di Truman Capote sulscienze sociali ci hanno indotto a ritenere che il parricidio sia una conseguenza della crisi familiare della contemporaneità. Eva Cantarella smonta questa costruzione risalendo fino ai tempi di Romolo, lungo secoli in cui i diritti dei genitori erano assoluti: potevano incarcerare, picchiare, vendere e assassinare la prole. Perciò è naturale che questa a un certo punto si ribellasse Ecco un Ovidio ritratto nei suoi vezzi. Ovidio che s’innamora di continuo: “Avevo il cuore tenero e facilmente conquistabile dai dardi di Cupido, e sensibile a un impulso anche leggero” (Tristia); Ovidio che ha parole denigratorie per la prima moglie - “una donna né degna né utile”; Ovidio che liquida la seconda come una che non ha mai occupato un posto saldo nel suo cuore. E oltre: Ovidio che si contraddice parlando di una stessa donna amatissima, la terza moglie, di cui celebra la devozione immaginandola sofferente per la lontananza, poi - quasi in un repentino cambio d’umore - dubitando: ma sarà davvero triste? Infine rimproverandola: “Hai perso un marito, devi pure essere triste, affliggiti, dunque, per la perdita che ti ha colpito, mia dolcissima sposa, e trascorri il tempo della tristezza provocata dalla mia sventura piangendo la mia sorte”. Un Ovidio capriccioso, narcisista, iracondo e romantico, insicuro, fragile quanto la Marilyn di Truman Capote, “la bellissima bambina” che non vuole vedere cadaveri. Come uccidere il padre di Eva Cantarella non è quindi solo studio assennato, ma narrazione che appassiona, diverte, e commuove. Appassiona nel racconto dei casi familiari, vedi quello del figlio che s’innamora della matrigna, come testimoniato nelle Controversiae di Seneca. Succedeva di frequente del resto che i figli, rimasti nella casa paterna dopo il divorzio dei genitori, fossero costretti a convivere con una matrigna loro coetanea se non più giovane di cui s’innamoravano. Conseguenze: litigi, minacce, omicidi. Come uccidere il padre diverte, specie sull’argomento sesso: medici che consigliano il controllo degli eccessi sessuali, Lucrezio che deplora il desiderio come malattia, raccomandando all’uomo saggio di evitare la follia del piacere delle carni. Come uccidere il padre commuove quando - secondo testimonianze da Lattanzio a Plinio - i vecchi decidono di andare a morire. Nessun conflitto, nessuna costrizione o parricidio, solo uomini che arrivati a un certo punto dell’esistenza si sentono inutili, forse stanchi, e si gettano nelle acque di loro spontanea volontà. Padri che tolgono il disturbo, lasciando i figli finalmente liberi: che adesso siano i giovani a vivere, a portare il fardello. Casini: “Sollo ius soli non possiamo essere subalterni a Lega e grillini” di Carlo Lania Il Manifesto, 8 ottobre 2017 “Voterei la fiducia sulla legge e come me almeno altri cinque senatori di Ap”. “Viviamo in un paese che è regredito. Quindici anni fa dissi di essere favorevole allo ius soli e la cosa non fece alcuno scandalo. Ora invece siamo tornati all’età della pietra grazie a forze politiche che si alimentano con la paura, dello ius soli come dei vaccini”. Ex presidente della Camera oggi alla guida della Commissione d’inchiesta sulle banche, Pier Ferdinando Casini è sempre stato un sostenitore della cittadinanza per i ragazzi nati in Italia da genitori immigrati. Presidente lei ha definito il voto sullo ius soli un dovere di coscienza. Ho detto e ribadisco che è un dovere di coscienza per me, nella coscienza degli altri non ci voglio entrare. Quindici anni fa, quando ero presidente della Camera, dissi di essere a favore dello ius soli e non c’è un motivo al mondo per cui oggi dovrei dire l’opposto. Aggiungo che quindici anni fa, presidente della Camera eletto dal centrodestra, non destai scandalo. In questo tempo il Paese invece di andare avanti è regredito, per cui oggi fa scandalo quello che quindici anni fa era un’ipotesi di scuola. Cosa ha provocato la regressione? Il motivo vero è che purtroppo l’Italia ha fatto i conti con il problema dell’immigrazione negli ultimi 25 anni. Questo l’ha portata a vivere in tempi rapidi una situazione alla quale altri Paesi, come la Francia e l’Inghilterra, erano abituati da tempo. Per cui da noi la reazione istintiva delle parti più deboli del Paese, reazione che va compresa e non demonizzata, è autentica. A questo va sommato il fatto che sono nate e si sono consolidate forze che sul populismo, sulla demagogia e sulla paura del diverso hanno costruito i loro successi politici. La miscela che ne esce è esplosiva. È in corso un processo di disinformazione, di alterazione della realtà. Quello di cui parliamo tanto per cominciare non è lo ius soli, ma lo ius culturae. Ma a prescindere da questo il diritto alla cittadinanza viene messo in relazione con l’immigrazione clandestina. Ma che rapporto c’è tra questa e i bambini che stanno nella scuola elementare con i nostri figli, parlano l’italiano magari con accento veneto o romanesco, e si sentono italiani? Con questi ragazzi dobbiamo creare un progetto di vita in comune, e più lo faremo più riusciremo a emarginare i disintegrati, quelli che non si integrano e che possono essere un pericolo per tutti, per noi e per chi riceve lo ius soli. Oggi invece siamo all’età della pietra, invece di andare avanti stiamo andando indietro e naturalmente ci sono forze politiche che vivono e si alimentano della paura. E sono le stesse forze politiche che si alimentano della paura dei vaccini. Il Vaticano sta spingendo perché i senatori cattolici approvino la legge. Appelli che però finora sono caduti nel vuoto. La Chiesta sta perdendo la sua influenza sulla politica italiana? Non c’è dubbio, ma io mi aspetto che un cattolico non trasformi in un automatismo l’indicazione della Chiesa bensì che abbia chiara nella sua testa la distinzione tra la sfera religiosa e quella politica. Non ne faccio una questione di rapporto con il mondo cattolico, bensì di rapporto con la società italiana. Il premier Gentiloni aveva promesso la fiducia sullo ius soli in autunno, ma ancora non se ne vede traccia. La voterebbe? Glielo chiedo perché lei fa parte del gruppo di Ap del ministro Alfano, fortemente contrario al ddl. Io la voterei con convinzione e penso che nel gruppo di Ap al Senato non sarei certamente l’unico. Mi vengono in mente i nomi di altri quattro o cinque senatori. Guardi il punto è questo: più rimaniamo subalterni alla propaganda leghista e grillina, più non riusciremo ad esprimere liberamente un’idea della politica. Più siamo intimoriti dalle loro sfuriate su questi temi e più ci facciamo del male. Questo vale soprattutto per i moderati. Come giudica il tergiversare del Pd e del governo sulla legge? Lo giustifico perché purtroppo c’è un problema di legge elettorale, c’è un problema di legge di stabilità e fino all’altro giorno c’è stato un problema di Def. Capisco che questa cosa è molto delicata e c’è il bisogno di avere la certezza che il percorso della legge non possa accidentare un po’ tutti. Crede ci sia ancora la possibilità di approvare lo ius soli? Non è facile, ma un margine c’è. Bisogna vedere se il governo riuscirà a superare gli scogli di cui abbiamo parlato oppure no. Se ce la fa, allora c’è anche la possibilità che l’approvazione dello ius soli diventi reale. Aderisce allo sciopero della fame proposto dal senatore Manconi? No. Ognuno ha i suoi metodi però chi sta in parlamento per me deve legiferare più che fare scioperi della fame. Naturalmente non biasimo, ma personalmente seguo una strada diversa. Veltroni: “Avanti sullo Ius soli, non è battaglia di partito, spero nei cattolici e nei grillini” di Tommaso Ciriaco La Repubblica, 8 ottobre 2017 L’ex leader Pd: “Con la legge sarà un’Italia più giusta. Se il Parlamento voterà secondo coscienza si può trovare il consenso necessario”. “Lo Ius soli non è un tema di partito, né deve diventarlo. Non può essere una bandiera elettorale. Sia piuttosto al centro di una grande campagna culturale e civile. Vorrei che ogni singolo parlamentare fosse chiamato a rispondere alla propria coscienza su un’idea di società. E a un quesito: il bambino cinese o senegalese che va a scuola con i tuoi figli deve essere considerato cittadino italiano? Può sentirsi parte di un universo di valori o deve essere respinto?”. Walter Veltroni pensa che sia ancora il momento giusto. Che lo Ius soli possa diventare legge in questa legislatura. E che forse la strada migliore è davvero quella più diretta, quella di un appello semplice al Parlamento e ai suoi rappresentanti. “Quel bambino dobbiamo accoglierlo, integrarlo, conquistarlo al nostro sistema di valori, oppure dobbiamo fare in modo che si senta straniero, estraneo, respinto? Straniero parlando la stessa lingua degli altri, indossando le stesse magliette di calcio degli altri, parlando magari anche un italiano migliore degli altri? Deve essere parte del nostro mondo o ai margini?”. Non è una bandiera di partito. Eppure la legge procede con la zavorra nello zaino. Chi, se non il Pd, può prendere questa battaglia sulle spalle? “Penso che non debba diventare una battaglia di un solo partito. Lo Ius soli è un atto elementare di giustizia sociale, per questo prevalga la libertà di coscienza. Certo, il Pd ha il dovere di provarci fino in fondo. Ma in questa storia non devono esserci sconfitti, né vincitori, né bandiere da sventolare in campagna elettorale. Vince lo Ius soli, non un partito. Per questo bisogna appellarsi a tutti i parlamentari. Non mancano le buone ragioni per approvare la legge che prevede filtri adeguati, equilibrata. Pragmaticamente, l’aspetto demografico, del Pil e del welfare. E poi i valori di una società dell’inclusione”. Fuori dal Parlamento molto si muove, con seicento adesioni allo sciopero della fame a staffetta (ieri quella del priore di Bose Enzo Bianchi). Ma nelle Camere a chi rivolgersi, a sei mesi dal voto? “Ci sono tanti parlamentari di centrodestra sensibili al tema dei diritti. E tanti nel Movimento 5 stelle che non riesco a immaginare sulle posizioni della Lega, almeno per come li conosco”. Il problema arriva prima ancora dal veto di Ap. “Fatico a pensare che molti dei parlamentari di Ap, una volta superata una preoccupazione politica, non siano interpellati nelle loro coscienze di cittadini e cattolici. Bisogna provarci”. Anche a costo di non farcela? “Tra provare e non farcela oppure comunque non farcela, non ho dubbi. Provarci, accompagnando il tentativo con una sincera campagna civile e culturale. Penso alle parole di papa Francesco, a come si è esposta la Chiesa, la Cei, le associazioni. È materia per uomini di buona volontà. Sia chiaro, non voglio che appaia soltanto come una battaglia di principio. È importante difendere la nostra identità e garantire la sicurezza, come sta facendo in modo equilibrato ed efficace il ministro Minniti. E per fare tutto questo occorrono anche autentiche politiche di integrazione”. L’appello alle altre forze, dunque. Ma il Pd? A giugno lei chiedeva un riformismo più coraggioso. Più coraggio serve adesso al partito che ha fondato per portare a casa la legge? “Penso che siamo alle radici della identità profonda di un pensiero democratico. Ciò che ha sempre distinto il nostro sistema di valori è scommettere sull’integrazione contro la discriminazione e confidare sul valore dell’equità e della cultura delle opportunità. Esiste nella società di oggi un bisogno di sicurezza, fisiologico quando le crisi economiche sono drammatiche. La sicurezza moderna, per tutti, richiede non solo rigore, anche inclusione”. Ma c’è la destra e il populismo di chi mette assieme barconi e Ius soli, terrorismo e integrazione: non è destinato a prevalere chi parla il linguaggio semplice, diretto alla pancia? “Quando qualcuno parla al fegato, la sinistra deve parlare al cuore e al cervello. I peggiori disastri della storia si verificano se di fronte a chi parla al fegato si reagisce imitandolo o nascondendosi. Contro la politica fondata sulla paura esiste solo quella che agisce sulla speranza. Se non si è Obama, vince Trump”. Si perdono le elezioni, però. I sondaggi dicono che non conviene insistere. “Capisco il tema del consenso, i sondaggi non favorevoli. Ma credo che solo una campagna persuasiva possa cambiare il corso delle cose. E poi c’è la politica”. Che consiglia di provarci comunque? “La politica deve collocarsi più avanti del sentimento comune. Se Roosevelt avesse chiesto con un referendum agli americani di mandare i loro figli a morire per sconfiggere Hitler e Mussolini, avrebbe visto prevalere il ‘no’. E se Kennedy avesse lanciato un referendum per chiedere se aprire ai ragazzi neri le università dei bianchi, cosa gli avrebbero risposto? La grandezza della politica sta nel seguire un progetto, un’idea del mondo e delle relazioni tra le persone”. La politica si sente poco, a dire il vero. “Sta perdendo peso e ruolo. Il risultato è che si mostra conservatrice o impaurita dal sentiment dell’opinione pubblica. La convivenza umana è legata all’equilibrio tra identità e apertura. Sa, io non sono affatto sordo al tema dell’identità, della nazione e delle radici. Ma se tutto questo si contrappone all’apertura, se ci si fa “piccola patria” in un mondo globalizzato, se prevale la paura dell’altro - di qualsiasi altro - allora lastrichiamo la strada verso il conflitto e la violenza. È sempre successo così, nella storia”. Veltroni si ferma. Cerca un libro. Legge un passaggio di “Cari fanatici” di Amos Oz: “Nessun uomo è un’isola, ma ognuno di noi è una penisola, una mezza isola”. Tutti noi siamo per metà connessi a quella terraferma che è la famiglia, la lingua madre, la società, l’arte e la conoscenza, lo stato e la nazionalità e via di seguito, mentre per l’altra metà ognuno di noi volge le spalle a tutto ciò e guarda verso il mare, le montagne, gli elementi eterni, i desideri reconditi, la solitudine, i sogni, le paure e la morte”. Identità e apertura? “Ho coscienza della mia storia, ma mi apro agli altri. È il gesto semplice di aprire la porta di una classe, come quando da bambini arrivava un nuovo compagno. A me, negli anni sessanta, capitò uno di Ascoli, e noi a pensare ‘caspita, viene dalle Marche, come sarà?’. Non possiamo pensare che la globalizzazione sia solo Instagram e sia solo per ricchi. Se il mondo non accetterà la meraviglia della libertà e dell’arcobaleno, finirà che torneremo tutti vestiti dello stesso colore”. Egitto. Shawkan, in prigione da 1.500 giorni per il “reato” di fotogiornalismo di Riccardo Noury Corriere della Sera, 8 ottobre 2017 Superato il 1500° giorno di detenzione, oggi l’ennesima udienza del processo contro il foto-giornalista egiziano Mahmoud Abu Zeid (detto Shakwan) ha prodotto soltanto l’ennesimo rinvio. Dalla prima volta che è comparso di fronte a un giudice, il 14 maggio 2015, il processo viene sistematicamente aggiornato. La prossima udienza si terrà il 17 ottobre: Shawkan l’affronterà in condizioni di salute sempre più precarie a causa dell’epatite C contratta in carcere. Per non parlare, citando le sue parole, dei “sogni che ormai si sono infranti per sempre”. Shawkan è stato arrestato il 14 agosto 2013 mentre si trovava, per conto dell’agenzia fotografica Demotix di Londra, in piazza Rabaa al-Adawiya, al Cairo, a documentare il violentissimo sgombero di un sit-in della Fratellanza musulmana. Fu un massacro con centinaia e centinaia di morti in un solo giorno. Per aver svolto il suo lavoro, Shawkan rischia una condanna all’ergastolo per questo lungo elenco di pretestuose accuse: “adesione a un’organizzazione criminale”, “omicidio”, “tentato omicidio”, “partecipazione a un raduno a scopo di intimidazione, per creare terrore e mettere a rischio vite umane”, “ostacolo ai servizi pubblici”, “tentativo di rovesciare il governo attraverso l’uso della forza e della violenza, l’esibizione della forza e la minaccia della violenza”, “resistenza a pubblico ufficiale”, “ostacolo all’applicazione della legge” e “disturbo alla quiete pubblica”. Il suo “reato” è solo quello di aver fatto il suo lavoro. Russia. Proteste anti-Putin, oltre 270 persone arrestate di Giuseppe Agliastro La Stampa, 8 ottobre 2017 La manifestazione più grande a San Pietroburgo contro l’arresto di Aleksey Navalny. L’opposizione russa torna in piazza contro Vladimir Putin. E la polizia torna a reprimere le contestazioni ricorrendo alla forza. Nel giorno del 65° compleanno del leader del Cremlino - per il quale, secondo l’Ansa, Silvio Berlusconi sarebbe volato a Mosca - migliaia di persone si sono radunate a San Pietroburgo e in altre città della Russia per protestare contro l’arresto di Aleksey Navalny e la sua esclusione dalle presidenziali del prossimo marzo. La polizia ha reagito con un’ondata di fermi. Stando all’Ong Ovd-Info, in tutto il paese sarebbero oltre 270 le persone fermate. Gli agenti in assetto antisommossa hanno usato il pugno duro soprattutto nella città sulla Neva, dove secondo la testata online Fontanka.ru hanno trascinato nelle loro camionette oltre 100 dimostranti che sfilavano da Marsovo Pole (Campo di Marte) verso piazza dell’Insurrezione. Ma la polizia sostiene di aver fermato “soltanto” 38 persone, che sono già state rilasciate. Le manifestazioni non autorizzate, organizzate proprio da Navalny, si sono svolte in 80 città della Russia. Ma - fatta eccezione per San Pietroburgo, città natìa di Putin - i dimostranti erano decisamente meno rispetto alle grandi proteste della scorsa primavera. E a Mosca la polizia si è spesso limitata a osservare cosa avveniva, invitando continuamente la gente a disperdersi ricordando che si trattava di un evento “illegale”. Nella capitale, circa mille persone hanno sfidato la pioggia e si sono radunate sotto la statua del grande poeta Aleksandr Pushkin, nel cuore della capitale, urlando “Putin, vai via!” e “Libertà per la Russia”. Alcuni sventolavano il tricolore russo, altri stringevano in mano cartelloni con slogan antigovernativi sfidando apertamente la polizia. “Sono qui perché ritengo ingiusto che Navalny non possa candidarsi alle presidenziali per condanne costruite a tavolino dalle autorità. Non è possibile svolgere elezioni senza che Putin abbia un vero rivale” ci racconta sotto la pioggia scrosciante Elena, 50 anni. “Protestiamo perché vogliamo elezioni libere e non un candidato unico di fatto circondato da oppositori di facciata”, le fa eco Maria, 22 anni. Anche oggi, come in primavera, in piazza Pushkin c’erano molti ragazzi, alcuni dei quali ancora minorenni: sono il pubblico più attento alle denunce e ai proclami di Navalny. L’oppositore non era presente alle manifestazioni perché è finito dietro le sbarre per l’ennesima volta: si è beccato una condanna a 20 giorni di carcere amministrativo per aver incitato i suoi sostenitori a scendere in piazza a San Pietroburgo. E le autorità non vogliono permettergli di candidarsi alle presidenziali a causa dei suoi guai giudiziari, che molti osservatori ritengono però di matrice politica. Se il Cremlino ha deciso di non reprimere la protesta di Mosca ricorrendo alla forza come ha fatto più volte in passato, secondo i politologi è per evitare che i media liberali e quelli internazionali dessero grande risalto all’evento. Del resto, sarebbe stato doppiamente controproducente, visto che non sono scese in piazza folle oceaniche. Il motivo del mezzo flop - sempre stando agli esperti - è che questa volta la manifestazione era apertamente incentrata su Navalny, e non abbracciava tutto il vasto spettro della tanto divisa opposizione russa. Inoltre, contrariamente ad alcuni mesi fa, non prendeva di mira una piaga tanto odiata della società come la corruzione. A Mosca, insomma, la polizia avrebbe ricevuto l’ordine di non rovinare il compleanno a Vladimir Putin. Diversa la situazione a San Pietroburgo, dove la protesta ha riscosso un buon successo. A Grozny il controverso leader ceceno Ramzan Kadyrov ha intanto messo in piedi una partita di calcio in onore del presidente russo: sono tornati a indossare le scarpe coi tacchetti alcune ex stelle della nazionale azzurra come Stefano Fiore, l’eroe delle Notti Magiche Totò Schillaci e il campione del mondo Paolo Rossi. Venezuela. Arrestati 3 giornalisti: c’è anche un italiano La Repubblica, 8 ottobre 2017 Roberto Di Matteo stava conducendo un’inchiesta sulle carceri. Insieme a lui un venezuelano e uno svizzero. La conferma della Farnesina. Tre giornalisti, tra cui un cittadino italiano, Roberto Di Matteo, sono stati arrestati in Venezuela mentre stavano conducendo un’inchiesta nel carcere di Tocoron, nello Stato di Aragua. Insieme a Di Matteo, un collega venezuelano ed uno svizzero. A rendere nota la vicenda, secondo quanto ha riferito per primo il sito venezuelano El Nacional, sono state l’Unione Nazionale dei Lavoratori della Stampa (Sntp) e l’organizzazione Espacio Público La conferma della presenza del giornalista italiano è arrivata anche dalla Farnesina. L’ambasciata d’Italia a Caracas, in stretto raccordo con Roma, ha fatto sapere di essere fin dal primo momento sul caso in stretto contatto con le autorità locali. Gli altri due fermati sono Filippo Rossi di Lugano e il venezuelano Jesus Medina. Di Matteo, che si occupa di video reportage da zone di conflitto o rivoluzione, è originario di Sannicandro, nella Murgia barese e collabora con il Giornale e il sito Gli occhi della guerra. In un messaggio su Facebook, il padre di Roberto scrive: “Roberto è stato fermato in Venezuela mentre stava svolgendo il suo lavoro di giornalista”. E conferma che il figlio “è in Venezuela per realizzare un reportage sulla situazione del Paese” ma aggiunge di non sapere quali siano le accuse mosse contro il reporter italiano: “Domani il giudice dovrebbe fissare l’eventuale udienza del processo”.