Niente pensione ai condannati per mafia e terrorismo: ma questa pena accessoria è legittima? di Paolo Persichetti Il Dubbio, 7 ottobre 2017 Dalla primavera di quest’anno i condannati per terrorismo e mafia che hanno raggiunto l’età pensionabile e non hanno un reddito sufficiente per sopravvivere o si trovano in gravi condizioni di salute non percepiscono più nessuna forma di prestazione sociale e assistenziale. La revoca dell’indennità di disoccupazione, dell’assegno sociale, della pensione sociale e della pensione d’invalidità civile durante il periodo di esecuzione pena, colpisce chi ha subito condanne in via definitiva per i reati previsti agli articoli 270- bis, 280, 289- bis, 416bis, 416- ter e 422, secondo quanto previsto dall’art. 2, commi 58- 63, della legge Fornero. Questa discriminazione, introdotta con un emendamento della Lega Nord votato senza batter ciglio da tutti i gruppi parlamentari (la legge è passata con 433 voti a favore e soli 6 astenuti), è divenuta operativa soltanto nel marzo scorso. Prima di questa data l’Inps non disponeva di una banca dati con la posizione giuridica dei suoi utenti. Vuoto colmato solo nel febbraio 2017 con la stipula di una convenzione con il ministero della Giustizia. Se si scorre la circolare applicativa del 5 giugno 2017, n. 2302, ci si accorge che la lista delle prestazioni e delle indennità revocate è lunga; soprattutto colpisce il fatto che ad essere tagliati sono proprio quegli ammortizzatori sociali che fornivano un minimo di sollievo alle situazioni sociali più difficili. Contrariamente a quanto sostenuto al momento della sua approvazione, questa misura non colpisce affatto i boss mafiosi che possono continuare a fare affidamento su eventuali ricchezze rimaste nascoste. Nelle organizzazioni criminali l’accumulazione dei capitali illeciti riguarda i vertici del gruppo, non vi è alcuna ripartizione del profitto. La manovalanza ne resta esclusa. Ricevere una condanna per il 416 bis non è garanzia di ricchezza ma solo di lunghi anni di carcere duro. Obiezione che trova ancora più fondamento per le formazioni della lotta armata che perseguivano obiettivi privi di qualunque scopo di lucro. Senza una reale giustificazione, questa ulteriore pena accessoria, introdotta a corollario di quelle già contenute nel codice penale, viola diversi articoli della costituzione (dalla parità di trattamento dinanzi alla legge, al diritto alla salute, al fine rieducativo e non afflittivo della pena) ed estende lo sta- to di eccezione dal campo giudiziario (penale e carcerario) a quello amministrativo, istituzionalizzando l’esistenza di una categoria di persone minus habens che legittima un criterio di assegnazione tipologica delle prestazioni anziché censitario. La revoca delle prestazioni si caratterizza, inoltre, per la sua natura demagogica e per la ferocia nei confronti di chi versa già in condizioni economiche disagiate e di salute precaria. Come se non bastasse, dopo che l’Inps ha ricevuto dal ministero della Giustizia la lista delle persone condannate, sono state sospese le pensioni anche a chi aveva terminato la pena da diversi anni ed oggi è in libertà. Questo perché il ministero si è guardato bene dal segnalare nelle informazioni inviate quelli che hanno terminato di scontare le condanne, con un aggravio di burocrazia sulle altre amministrazioni (gli uffici esecuzione dei tribunali devono certificare il fine pena e l’Inps deve aprire delle procedure del tutto inutili dovendo prima sospendere e poi riattivare l’erogazione), mentre nel frattempo gli ex condannati restano senza quel misero reddito. In tutto questo ci sono persone che si sono viste comunque rifiutare l’erogazione dell’assegno nonostante avessero certificato il fine pena, perché abusivamente ritenuto “illegittimo”. Questa vessazione economica si aggiunge al fatto che la conclusione delle condanne non mette fine alle pene accessorie, come l’interdizione dai pubblici uffici, la perdita del diritto di voto attivo e passivo, sancendo in sostanza l’esclusione permanente dalla cittadinanza piena. Una volta usciti dal carcere permangono forme di sanzione ed esclusione perenni. In un paese normale i magistrati non fanno politica a mezzo stampa di Claudio Cerasa Il Foglio, 7 ottobre 2017 Ma in Italia vige il codice mediatico-giudiziario. In un paese in cui si rispettano i princìpi della separazione dei poteri i magistrati non fanno politica. O almeno, se pure lo fanno, e non si può negare che sia capitato, non lo proclamano apertamente. Ma se invece qualche magistrato lo fa, venendo meno alla deontologia della sua professione, gli organi di stampa, almeno quelli seri, lo criticano. In Italia da un quarto di secolo abbondante capita invece l’esatto contrario: si è creato un circuito (circo) mediatico-giudiziario che detta i tempi e spesso i modi della politica, che interferisce nella creazione dello spirito pubblico ed esercita una specie di dittatura informale. Piercamillo Davigo ha il diritto, come cittadino, di pensare quel che gli pare. Se però le sue tesi giustizialiste e il suo particolarissimo modo di intendere la giustizia travalicano i limiti del suo libero convincimento diventando la base di un’offensiva politica (come dovrebbero essere le leggi, come dovrebbero essere trattati i politici) e vengono riportati dagli organi di informazione, questo accade perché è un magistrato, e non un privato cittadino. Soltanto che, in quanto magistrato, dovrebbe tenere un comportamento del tutto difforme, e la stampa avrebbe il dovere di ricordarglielo. Se Davigo ha intenzione di partecipare alla lotta politica, appenda la toga al chiodo e si candidi. Ma a quel che pare la campagna elettorale che sta conducendo è per ottenere la carica massima della magistratura, quella di presidente della Cassazione. Non sarà vero, speriamo, ma già il fatto che si possa pensare che per concorrere a una carica così delicata sia utile una sovraesposizione mediatica dovrebbe far riflettere. Si dice che a queste intemperanze dovrebbe reagire l’organo di governo (diventato, contro la Costituzione, di autogoverno) della magistratura, cioè il Csm. Ma quando, come nel caso Consip, ci sono evidenti fughe di notizie, taroccamento di intercettazioni a fini evidentemente politici, il Csm si arrende di fronte allo strapotere del circuito mediatico-giudiziario. A ben rifletterci, è questa accettata prevalenza del circuito mediatico-giudiziario la vera anomalia italiana. Nessuno chiede processi sommari, nemmeno nei confronti dei magistrati; ma anche i proscioglimenti lampo, tanto rari per i comuni cittadini, sembrano un’esclusiva di una sola categoria, anzi due: i membri di una procura e i giornalisti che li spalleggiano. Vedi, ma giusto per fare un esempio, l’archiviazione di Henry John Woodcock nell’indagine per la propalazione delle notizie coperte da segreto nell’affaire Consip. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, cui compete la funzione di promuovere inchieste sulle anomalie giudiziarie, si limita a prendere atto, tutte le volte e anche questa volta. Se Davigo fa politica, si limita a osservare che le tesi del magistrato non coincidono con quelle del governo, per poi concludere che in fondo tutto questo è “fisiologico”. È un po’ come dire che una patologia del sistema istituzionale che ha influito pesantemente sulla vicenda politica nazionale è diventata fisiologica. Capovolgendo l’assunto: vuol dire che è invece “patologico” continuare a battersi per una magistratura che faccia il suo mestiere e non si impegni nell’usurpazione giustizialista di quello degli altri organi dello stato. Diversamente, ieri parlando ai penalisti il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini è stato esplicito: “In nessun paese europeo è consentito passare con tanta facilità dai talk-show alle prime pagine dei giornali di funzioni requirenti o giudicanti”. Accettare questo stato di cose è la vera anomalia del sistema italiano. Però, ha aggiunto Legnini, “non ci sono norme per arginare questo fenomeno”. Appunto. Fate presto. Legnini (Csm): “basta toghe nei talk show” di Fabrizio Caccia Corriere della Sera, 7 ottobre 2017 Il vicepresidente del Csm non nomina Davigo ma accusa “chi passa da tv e giornali alla Cassazione”. No ai giudici nei talk show. Giovanni Legnini, vicepresidente del Csm, non nomina mai Davigo ma punta il dito contro la sovraesposizione mediatica delle toghe. “Ho letto le dichiarazioni ma non intendo fare commenti”, risponde lapidario al telefono Piercamillo Davigo, giudice di Cassazione ed ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati. Le dichiarazioni sono quelle del vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, Giovanni Legnini, intervenuto ieri a Roma al congresso straordinario delle Camere penali: “Non è in discussione la libertà di espressione per ciascun magistrato - ha detto Legnini - ma in nessun Paese europeo sarebbe consentito passare con tale facilità dai talk show e dalle prime pagine dei giornali all’esercizio di funzioni requirenti, giudicanti e anche alla presidenza di collegi di merito e di Cassazione”. Proprio quest’ultimo riferimento alla presidenza di collegi di Cassazione - Davigo è presidente della II Sezione Penale presso la Suprema Corte - ha fatto pensare che Legnini ce l’avesse con l’ex pm di Mani Pulite, ospite martedì scorso di Giovanni Floris a Di Martedì su La7 dove ha parlato di giustizialismo e lotta alla corruzione, poi giovedì ad Agorà, il programma di Serena Bortone su Rai3, e infine ieri in prima pagina sul Corriere, intervistato da Giovanni Bianconi. Ma a chi gli chiedeva se le sue critiche contro la sovraesposizione mediatica delle toghe fossero da intendersi rivolte a Davigo, Legnini ha replicato senza specificare: “Mi voglio solo riferire al fatto che, nell’Europa dei diritti e del rispetto delle funzioni istituzionali, in nessun Paese ciò è consentito con tale facilità”. Poi, però, ecco un nuovo affondo: “Non esistono disposizioni e norme che consentono di arginare questo fenomeno, ma l’argine spetta a ciascuno dei protagonisti, soprattutto a chi tiene al rispetto sacrosanto dell’indipendenza e dell’imparzialità della magistratura che deve essere percepita come tale da ciascun cittadino”. Non va per il sottile, invece, il vicepresidente del Senato, Maurizio Gasparri, di Forza Italia, che chiama in causa direttamente l’ex capo di Anm: “Davigo continua ad andare in televisione e a fare interviste sui giornali. Nega di voler partecipare alla vita politica, ma si comporta da leader politico emettendo giudizi su tutto e su tutti. Leggo anche preoccupato che potrebbe diventare il presidente della Corte di Cassazione. La trasformerà in una tribuna elettorale permanente più di quanto non sia già avvenuto in questi anni? Mi auguro davvero che il Csm eviti l’errore. Davigo parla ovunque di tutto, dimostrando che indossano la toga persone che non possono valutare il comportamento dei cittadini nei tribunali, perché non autonome e indipendenti”. “Per lo stalking stop all’estinzione con pagamento”. Orlando annuncia la correzione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 7 ottobre 2017 Lo stalking uscirà dalla lista dei reati che è possibile estinguere con una condotta riparatoria. L’ufficio legislativo del ministero della Giustizia, su indicazione dello stesso ministro Andrea Orlando, ha infatti depositato un parere favorevole all’emendamento presentato dalla senatrice del Pd, Francesca Puglisi, al disegno di legge di tutela degli orfani degli omicidi domestici. Una decisione tanto più urgente dopo che giovedì, a Torino, in una delle primissime applicazione della nuova causa di estinzione del reato, un’accusa di stalking era caduta dopo l’offerta di 1.500 euro alla vittima. Quest’ultima non aveva accettato e tuttavia, dopo il versamento della somma su un libretto di deposito giudiziario, la sentenza aveva dichiarato estinto il delitto. Il giudizio di congruità della somma, infatti, nella valutazione del giudice dell’udienza preliminare, non è legato all’accettazione da parte della persona offesa. Decisione che ha fatto molto discutere anche perché ha reso concreto il timore che già in agosto aveva accompagnato il varo della norma. Forti le perplessità espresse, per esempio, dall’Anm e anche dalla Cgil. E la pronuncia del Gup torinese non ha convinto neppure la Procura generale che ha deciso di impugnarla. Anna Finocchiaro, ministra per i Rapporti con il Parlamento sottolinea di esser “d’accordo con la decisione di dare parere favorevole all’emendamento che esclude l’estinzione del reato di stalking in seguito a condotte riparatorie. Con questa modifica, potremo finalmente accelerare e rendere possibile in questa legislatura l’introduzione della legge che tutela gli orfani di crimini domestici, che sarà esaminata la prossima settimana dalla Commissione Giustizia del Senato”. Ma forti perplessità erano state espresse anche dal presidente Pd Matteo Orfini: “la sentenza emessa dal tribunale di Torino in merito al caso di stalking non punisce il colpevole ma ferisce una seconda volta la vittima. Lo stalking non può essere ricompreso in una logica di giustizia riparativa. Se una norma scritta male produce sentenze assurde è necessario correggerla per evitare nuovi rischi”. Sui ritardi del Governo nel correggere la norma è assai più critica Mara Carfagna di Forza Italia: “È da luglio che diciamo, inascoltati, che lo stalking va escluso dai reati ricompresi tra quelli estinguibili con la giustizia riparativa. Oggi, dopo che uno stalker è libero di continuare nei sui atti persecutori perché ha pagato 1.500 euro ed il reato è sparito, il Governo ed il Partito democratico se ne escono fuori con un ravvedimento a dir poco tardivo. Strumentalizzano la questione e portano avanti una politica deteriore, dando parere favorevole ad un emendamento quando c’è una proposta di legge (di tre righe) depositata dal 28 luglio alla Camera”. Lo stalker paga e viene assolto. Orlando: “cambieremo la legge” di Giulia Merlo Il Dubbio, 7 ottobre 2017 “Il reato di stalking deve essere cancellato da quelli per i quali è possibile dichiarare l’estinzione in forza delle condotte riparatorie dell’imputato”. La decisione, contenuta nel parere favorevole dell’ufficio legislativo del ministero della Giustizia (pare, su precisa direttiva dello stesso Andrea Orlando) all’emendamento Puglisi, arriva esattamente con 4 giorni di ritardo. A precederla, l’applicazione da parte di un giudice di Torino della legge sulla giustizia riparativa, datata 3 agosto 2017. Il Tribunale piemontese, infatti, ha emesso sentenza di non doversi procedere nei confronti di un accusato di stalking. L’uomo, 39 anni, viene fermato dopo la denuncia di una ventiquattrenne, che lui ha seguito per tre volte. Lui si difende dicendo di essere stato ingenuo, si scusa con la ragazza e si offre di risarcire il danno con 1500 euro. In giugno inizia il processo con rito abbreviato, la vittima non si costituisce parte civile, ma non ritira la querela e non accetta l’offerta risarcitoria. A fine settembre, arriva la sentenza: “La somma è congrua rispetto ai fatto. Di conseguenza deve essere emessa sentenza di non doversi procedere, per essersi il reato estinto per condotte riparatorie”. “Bastano 1500 euro per assolvere uno stalker”, tuonano i deputati del Movimento 5 Stelle e, anche se non riguarda tutta la fattispecie dello stalking, la smentita è difficile. “Lo stalking va tolto dai reati ammessi alla giustizia riparatrice. La sentenza di Torino ci dice che dobbiamo fare presto. I partiti appoggino subito la correzione”, è il commento della senatrice Pd Francesca Puglisi, presidente della Commissione contro il femminicidio e prima firmataria dell’emendamento (approvato dal ministero della Giustizia) che dovrebbe correggere l’errore della legge 103/2017. L’emendamento si inserisce nel disegno di legge sugli orfani dei crimini domestici, che sarà esaminata la prossima settimana dalla commissione Giustizia del Senato. La speranza del Partito Democratico e del Ministero è che la commissione in sede deliberante approvi la legge velocemente, chiudendo così definitivamente la “finestra” che consente la riparazione pecuniaria del reato di stalking. La vicenda, che mette in serio imbarazzo il Ministero, si è incistata tra le aggrovigliate maglie del codice penale a causa di una svista del legislatore. L’articolo 162- ter, introdotto dalla legge 103/ 2017 sulla giustizia riparativa, prevede infatti che “nei casi di procedibilità a querela soggetta a remissione, il giudice dichiara estinto il reato, sentite le parti e la persona offesa, quando l’imputato ha riparato interamente il danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento, e ha eliminato, ove possibile, le conseguenze dannose o pericolose del reato”. Sulla carta, si tratta di una norma volta a potenziare la giustizia riparativa, con finalità deflattive del contenzioso penale. Sempre sulla carta, riguarda i reati considerati a minor afflittività sociale, ovvero quelli procedibili a querela di parte, che la parte stessa può rimettere. Proprio qui, però, si annida l’errore di chi ha scritto la norma. All’articolo 612bis, il codice penale rubrica il reato di “atti persecutori”, noto alle cronache come stalking e introdotto nell’ordinamento nel 2009. Un reato odioso, che prevede la reiterazione della condotta minacciosa, la provocazione nella vittima di “un grave stato d’ansia o di paura o il fondato timore per l’incolumità propria”, tale da “far temere per l’incolumità propria o di prossimi congiunti” o da “costringere ad alterare le proprie abitudini di vita”. Il delitto di stalking è punito a querela della vittima e - qui sorge la questione la querela può essere rimessa, solo processualmente e dunque nel corso del giudizio, unicamente nel caso in cui la minaccia non sia grave e non sia aggravata. Risultato: nel caso di stalking operato con “minaccia non grave”, la querela della vittima è rimettibile. Dunque, in caso di minaccia non grave (concetto dibattuto al momento dell’approvazione della norma perché vago e discrezionale) è applicabile la nuova legge sulla giustizia riparativa. E questo è esattamente ciò che è accaduto nel caso di Torino, poco più di un mese dopo la promulgazione della legge. Violenza sulle donne. Il carcere è inutile se non aiuta a modificare una cultura sbagliata di Lea Melandri Il Manifesto, 7 ottobre 2017 Le contraddittorie ricette di Sandra Newman che invita a semplificare: “Lo stupro è un crimine da punire. Punto”. Ma aumentare le pene non cura la patologia. “Perché gli uomini violentano? Semplice: perché pensano di farla franca. Basta con le giustificazioni sociali e psicologiche. Lo stupro è un crimine da punire. Punto”. Stando al titolo che D La Repubblica (30 /9/17) ha dato allo scritto di Sandra Newman - un’analisi peraltro articolata e contraddittoria, verrebbe da rispondere che se le cose stessero davvero così, fermare gli stupratori sarebbe effettivamente semplice: aumento degli anni di detenzione e carcere a vita per i recidivi. Ma, oltre alla discutibile riuscita del deterrente che viene indicato, bisogna aggiungere che si tratta anche di un titolo profondamente diseducativo rispetto alla convinzione, oggi più condivisa che in passato, che la violenza maschile contro le donne vada affrontata attraverso processi formativi fin dall’infanzia, sapendo quanto sono precoci i pregiudizi sessisti e razzisti derivanti dalla cultura che abbiamo ereditato da secoli di dominio maschile. Quando ci si pone il problema di “capire” che cosa spinge gli uomini allo stupro, il riferimento non sono solo le ragioni “sociali e psicologiche”, ma il portato di una ideologia che è stata per secoli il fondamento della nostra come di altre civiltà: dalla cultura alta al senso comune. È dentro questa cultura, che ha visto il potere maschile innestarsi e confondersi con le vicende più intime (la maternità, la sessualità, l’amore), che vanno “capiti” i comportamenti violenti dei singoli o dei gruppi, con tutto il carico di patologia, responsabilità e storia. Come spiegare altrimenti che molti uomini, anche giovani, intervistati, stando a quanto viene riportato nell’articolo, rispondono di non riuscire a “fare un collegamento tra sesso non consensuale e stupro”, o il fatto che uno studente su quattro risponde che “è colpa del desiderio?”. Non sarebbe forse il caso di cominciare a chiedersi che cosa è stato ed è ancora purtroppo, nell’immaginario e nelle convinzioni di tanti uomini -ma anche donne- quello che chiamiamo amore, desiderio, sessualità? Una volta preso atto che la “natura” degli stupratori non mostra differenze significative, tanto da poter concludere che sono, come la maggior parte degli uomini “tendenzialmente, in parole povere, stronzi misogini”, il discorso di Newman si sposta giustamente su convinzioni, pregiudizi, fantasie che sono alla base del pensare e del sentire comune, e quindi la ragione di cui gli stupratori si avvalgono per giustificare i loro crimini: “normale” usare la forza se la donna che ha accettato di uscire con te ti oppone un rifiuto, con quella che ha fama di essere “facile”, o che ha fatto l’autostop. La prima legittimazione alla violenza viene dunque dagli altri uomini, dall’approvazione o stigmatizzazione da parte di una comunità di simili. Negli stupri praticati dai soldati in guerra, sappiamo che l’incoraggiamento è venuto spesso dall’alto. Ma, nonostante che questa visione di insieme delinei la complessità di un fenomeno con radici profonde nella storia del dominio maschile e nell’inconscio collettivo, Newman conclude che il principale deterrente è la condanna penale dei responsabili. Fuorviante sarebbe ogni tentativo di vederlo come un problema diverso rispetto alla criminalità comune, o come un “mistero profondo” che rimandi alla psicologia, alla medicina o alla politica. Ora, è vero che lo stupro è prima di tutto l’esercizio di un potere brutale sul corpo della donna; più che di desiderio sessuale si deve parlare di sopraffazione, celebrazione della vittoria su un sesso considerato nemico o inferiore, da umiliare e sottomettere. Ma è davvero così estraneo alla sessualità da poterlo collocare tra crimini come la rapina, gli incendi dolosi, ecc.? Come definire i rapporti sessuali nascosti dietro la sacralità del matrimonio e imposti dai mariti alle mogli senza il loro consenso e senza troppi riguardi per le gravidanze indesiderate? Come non riconoscere il tratto violento che c’è nella sessualità generativa e penetrativa dell’uomo legata, come è stato finora, non solo all’ansia di prestazione, ma al desiderio e contemporaneamente alla paura di un ritorno al potente ventre materno? Parlare del coito come di una “vittoria sul trauma della nascita”, come fanno alcuni psicanalisti, vuol dire riconoscere nell’immaginario maschile la guerra mai dichiarata tra i sessi che ha preso forma intorno alla vicenda dell’origine, e che ha visto capovolgersi, nella storia che vi è andata sopra, un vissuto di dipendenza di inermità dell’uomo-figlio nell’appropriazione violenta del corpo materno. La speranza di riuscire a prevenire gli stupri, come altre violenze manifeste o invisibili sulle donne, sta nel coraggio di affrontare il problema in tutte le sue ambiguità, da ciò che la memoria del corpo e la vita psichica trattengono delle esperienza primarie di ogni individuo, maschio o femmina, alle condizioni sociali e culturali in cui si trova a vivere. Testimonianze, scritture che parlano una lingua “spudorata” nel dire verità dell’amore, della sessualità, delle fantasie, dei desideri e delle paure che restano generalmente “impresentabili”, sepolte nella vita dei singoli di un sesso e dell’altro, non mancano. Sono inquietanti, disturbanti, ma proprio per questo è importante vincere le resistenze e leggerle. L’antifascismo e le fragilità della sinistra di Luca Ricolfi Il Gazzettino, 7 ottobre 2017 Ci sono, nella vita, segni abbastanza inequivocabili: se hai 40 di febbre c’è, nel tuo corpo, qualcosa che non va. Anche in politica ci sono segni piuttosto chiari: se, nell’anno di grazia 2017, in occidente, un partito di destra rispolvera l’anticomunismo, vuol dire che non sta troppo bene. Non perché il comunismo non sia un’ideologia nefasta, che ha prodotto decine di milioni di morti e tolto la libertà a un paio di miliardi di abitanti di questo pianeta. Ma per una ragione molto semplice: il comunismo non è, attualmente, nei Paesi occidentali, una minaccia concreta all’ordine democratico. Lo stesso discorso vale per i partiti di sinistra: se un partito di sinistra, oggi, in un Paese occidentale, rispolvera l’antifascismo, vuol dire che non sta troppo bene. Di nuovo, non perché il fascismo non sia a sua volta un’ideologia nefasta. Ma per la stessa ragione di prima, perché il fascismo non è una minaccia attuale: non ha senso prendere un vaccino contro una malattia che non c’è più. Eppure, a pochi mesi dalle elezioni, il principale partito della sinistra proprio questo sta facendo: con la legge Fiano, già passata alla Camera e in procinto di passare al Senato, intende rendere ancora più severe le norme che già impediscono, non solo la ricostituzione del partito fascista, mala propaganda delle idee del fascismo (legge Scelba, del 1952; legge Mancino, del 1993). D’ora in poi, se la legge dovesse essere approvata, saranno punibili (da 6 mesi a 2 anni di carcere) persino il saluto romano, la vendita e la diffusione di immagini e gadget reminiscenti del passato regime; il tutto con pene aumentate se il canale di diffusione è internet. Eppure il Pd dovrebbe sapere che le norme proposte sono a palese rischio di incostituzionalità, in quanto in contrasto con l’articolo 21 della Costituzione: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Soprattutto dovrebbe sapere che, sul punto, la Corte Costituzionale si è già espressa ripetutamente in passato, chiarendo che la possibilità di perseguire la manifestazione del pensiero e la propaganda di matrice fascista vige solo se sussiste un pericolo concreto per le istituzioni democratiche. Un orientamento che, peraltro, non è solo della suprema corte italiana ma anche della giurisprudenza tedesca riguardo al passato nazista. Non tutti sanno che, da più di mezzo secolo (dal 1964), esiste in Germania un minuscolo partito, la Npd, che, a differenza della temutissima Alternative für Deutschland di Alice Weidel, si richiama esplicitamente ai valori del passato nazista. Ebbene, nonostante ciò, la Corte Costituzionale tedesca ha sempre respinto le richieste di metterlo fuori legge, in quanto per sciogliere un partito non basta che esso persegua obiettivi incostituzionali ma occorre che costituisca una minaccia concreta per le istituzioni democratiche. Un requisito, questo della concretezza della minaccia, che oggi pare più facile rinvenire in determinate espressioni del fondamentalismo islamico, che non nelle spiagge che esibiscono il ritratto di Mussolini (che paiono esistere, ma di cui non ho avuto esperienza diretta), o nelle case del popolo in cui troneggia il ritratto di Stalin. Anni fa mi è capitato di ammirare un ritratto di “Baffone” nella casa del popolo di un delizioso paesino del Levante ligure, ma non mi sono mai sognato di invocarne la rimozione: perché vietare a dei vecchi comunisti di venerare il loro eroe? In fondo, la loro ammirazione per un dittatore è già di per sé uno spot contro il comunismo, e un potente segno della superiorità della civiltà liberale. Ecco perché mi chiedo: come mai il Pd si è imbarcato in un’avventura tanto fuori tempo? Quali sono le ragioni che spingono un partito, che sul tema se ne è stato quieto per un’intera legislatura, a rispolverare improvvisamente la clava dell’antifascismo? La prima risposta che viene in mente è che, sfortunatamente, sui temi che interessano davvero i ceti popolari, ovvero lavoro e sicurezza, la sinistra ha ormai poco da dire. Il reddito di inclusione è poca cosa rispetto alla dimensione che, in questi 10 anni, hanno raggiunto la povertà e la disoccupazione. Vorrei ricordare che, se l’occupazione è quasi tornata ai livelli pre-crisi, è solo perché 1 milione di nuovi posti di lavoro conquistati dagli immigrati hanno compensato altrettanti posti di lavoro persi dagli italiani, che ancor oggi sono ben al di sotto dei livelli occupazionali pre-crisi. Quanto alla sicurezza, l’altro grande tema che sta a cuore ai ceti popolari, il bilancio di questa legislatura è drammatico: mai gli sbarchi hanno toccato i livelli del quadriennio 2013-2016, mai la macchina dell’accoglienza ha operato in tanto disordine. Ecco perché, se deve dire che cosa ha fatto o ha tentato di fare, la sinistra è costretta a snocciolare il rosario dei temi leggeri, ossia di quegli interventi - talora sacrosanti, talora discutibili o illiberali - che Marx avrebbe definito “sovrastrutturali”: testamento biologico, femminicidio, reato di tortura, codice anti-mafia, doppio cognome, eccetera. A quanto pare l’identità della sinistra è così fragile sulle cose che contano, da costringerla a continue trasfusioni di sangue identitario dal vasto universo dei temi che infiammano solo le élite e i ceti medi. C’è però anche un’altra risposta, non incompatibile con la prima. Il Pd, nonostante tenti faticosamente di cambiare, resta un partito i cui militanti (ma vale anche per non pochi elettori), hanno un pessimo rapporto con il senso comune. Mi è già capitato di ricordare l’incredibile lapidazione morale subita da dirigenti che, recentemente, hanno adottato posizioni di puro buon senso: Deborah Serracchiani, che dice che lo stupro compiuto da un ospite è particolarmente riprovevole; il sindaco di Firenze Dario Nardella, che mette in guardia gli studenti americani dai pericoli della movida; o il ministro Marco Minniti, che pone fine alla politica dell’accoglienza senza regole e senza limiti. Ora a questa catena di reprobi, la cui unica colpa è di non aver completamente rinunciato a ragionare come le persone normali, si aggiunge Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, reo di aver respinto la richiesta di togliere la cittadinanza onoraria a Mussolini, conferitagli nel lontano 1924. Una posizione che non deriva certo da simpatie fasciste (Gori è iscritto al Pd) ma dalla capacità di distinguere fra la storia, di cui il fascismo e i suoi simboli fanno parte (esattamente come il comunismo e i suoi miti), e i conflitti politici dell’oggi. Conflitti che una sinistra un po’ più attenta alle richieste dei ceti subordinati, duramente provati dalla crisi e dalla globalizzazione, renderebbe assai più concreti e utili al Paese. Ma forse la risposta vera, quella che rende conto della strana tempistica del neo-antifascismo del Pd, va ricercata nelle difficoltà che la sinistra incontra a far passare la legge sullo ius soli anche al Senato. Che cosa c’entra lo ius soli con l’antifascismo? Niente, per le persone normali. Ma può c’entrare se alla sinistra riesce di far passare la difesa degli immigrati come una battaglia antifascista. Un’eventualità che in realtà si sta già delineando. Visto che Casa Pound e diverse formazioni di destra sono impegnate in una battaglia contro lo ius soli, ecco pronta e servita su un piatto d’argento l’opportunità di cui la sinistra ha più che mai bisogno: impedire che la gente pensi che la destra ormai se ne fa un baffo del fascismo e si occupa di temi ben più attuali, come immigrazione e sicurezza, e far credere al proprio elettorato che anche lo ius soli rientri nella eterna e imprescindibile lotta contro il fascismo e i suoi rigurgiti. Codice antimafia, i penalisti bocciano le nuove regole di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 7 ottobre 2017 “Una politica preoccupata di accreditarsi presso la opinione pubblica come paladina della lotta alla corruzione, senza macchia e senza riserve, ha così varato una riforma che aumenta pericolosamente la distanza fra il mondo dell’imprenditoria e dell’economia del Paese, inoculando all’interno dell’intera società un formidabile e pericoloso strumento di destabilizzazione economica, e disincentivando l’iniziativa privata e gli investimenti”. Non usa mezzi termini il presidente delle Camere penali, Beniamino Migliucci, nella relazione di apertura del congresso in corso di svolgimento a Roma. Il nuovo Codice antimafia non piace, e non da oggi, ai penalisti. Averlo approvato in questo scorcio finale di legislatura testimonia “una accelerazione determinata dal desiderio di dimostrare efficienza, condita da una vena di giustizialismo. Poco importa che sia una legge profondamente illiberale che estende ingiustificatamente l’applicazione di norme già sbagliate, retaggio di un’epoca autoritaria, a fattispecie di reato e illeciti che nulla hanno a che vedere con il fenomeno mafioso”. Tanto più che un’altra agenda era possibile. In questo modo infatti, stigmatizzano i penalisti, sono state lasciate per strada leggi impegnative come lo ius soli, la morte assistita, una decente legge sulla tortura, la legalizzazione delle droghe leggere, le norme sui magistrati in politica. E il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, intervenuto al congresso, ha auspicato che “il Codice Antimafia, misura così divisiva, possa essere interpretato e applicato in modo che le misure di prevenzione siano adottate nel rispetto dei diritti e delle garanzie fondamentali di ciascuno”. E sull’altro tema “caldo” di questi giorni, l’intervento sulla diffusione delle intercettazioni, Migliucci, apprezzando la disponibilità del ministro della Giustizia, Andrea Orlando, a un confronto, mette in evidenza che il punto di partenza deve essere il riconoscimento che “le norme del codice di procedura penale poste a tutela del segreto o che stabiliscono il divieto di pubblicazione di atti o di immagini sono state aggirate e disapplicate. Per evitare che ciò avvenga e che la delega rimanga priva di effetti, è necessario non solo vietare la trascrizione di conversazioni i cui contenuti non siano rilevanti ai fini del procedimento, ma occorre sanzionare tale condotta”. Sanzione che poi dovrebbe presidiare, per scongiurare il rischio di un rimedio solo omeopatico, anche il divieto di ascolto delle comunicazioni tra avvocato assistito. E sul progetto di legge popolare per la separazione delle carriere tra giudici e Pm, Migliucci ha annunciato che sono state superate le 70.000 firme. Legnini, nel “rispetto” per l’iniziativa delle Camere penali, ha tuttavia ricordato che “nei dieci anni di attuazione della riforma nell’ordinamento giudiziario il principio della distinzione delle funzioni è andato via via consolidandosi e i percorsi professionali di giudici e pm vanno sempre più distinguendosi”. Consip è stato un complotto: sapremo mai chi l’ha ordito? di Piero Sansonetti Il Dubbio, 7 ottobre 2017 Probabilmente no, non lo sapremo mai. basta però che non tornino a farci la lezione sul giornalismo con la schiena dritta e i magistrati che vogliono solo la verità. Cala il sipario in modo pressoché definitivo sul caso Consip. L’annuncio lo ha dato l’Espresso che nel numero in edicola domani annuncia che l’ex Amministratore delegato di Consip, Luigi Marroni, ritira tutte le accuse che coinvolgevano il papà di Renzi, e che erano state il pilastro dello scandalo giornalistico- poliziesco- giudiziario, montato, a quanto pare, per colpire il capo del Pd. Maroni l’inverno scorso aveva accusato Carlo Russo, amico di Tiziano Renzi, di avergli raccomandato l’imprenditore napoletano Romeo, e cioè di averlo sollecitato a far vincere a Romeo alcuni grossi appalti pubblici. Ora però smentisce, dice anzi il contrario: le raccomandazioni furono per far vincere l’avversario di Romeo. Ma siccome tutte le accuse a Renzi padre si basavano su una presunta tangente pagata a lui da Romeo, si capisce bene che il castello delle accuse crolla definitivamente. Improbabile che Romeo pagasse per far vincere il suo avversario, no? E il castello delle accuse crolla anche perché nei mesi passati erano già crollati altri indizi, anzi si era scoperto che erano falsi, e che erano stati costruiti dal Noe, cioè da un nucleo dei carabinieri e precisamente dal famoso capitan Scafarto, l’uomo forte del Pm Woodcock. A questo punto le accuse e i sospetti che pendevano sul capo di Tiziano Renzi scompaiono tutti. E sullo sfondo, invece, appare l’ombra sempre più lunga di qualcosa di molto simile a una piccola congiura di palazzo. Piccola, sì, e pasticciona, ma molto brutta e pericolosa. È probabile che a questo punto tutti gli attori (vittime e carnefici) del caso- Consip, preferiranno mettere una pietra sopra l’intera vicenda. Perché sanno bene che in una faccenda così sporca, o ti tiri fuori o ti riempi di fango anche se sei innocente. E tuttavia, invece, sarebbe giusto fare chiarezza fino in fondo, perché c’è di mezzo non solo la solita porcheria della giustizia-spettacolo e del cortocircuito Procure-Informazione, ma stavolta ci sono molte probabilità che non si trattasse di un incidente o di una semplice spinta giustizialista, ma di un “complottino” in piena regola. Progettato forse all’interno di un settore dell’arma dei carabinieri, forse di una Procura, e realizzato con la piena collaborazione - probabilmente inconsapevole - di un giornale molto importante, e cioè “Il Fatto” che per mesi ha pubblicato carte segrete e in parte anche false, senza farsi nessuno scrupolo di verificare la loro attendibilità e la loro legittimità. Recentemente la Procura di Roma ha scagionato il Pm napoletano John Woodcock dall’accusa di essere stato lui a organizzare la fuga di notizie ai giornali. Benissimo. Vogliamo allora rinunciare a sapere cosa è successo, e se ci è stato un tentativo di costruire prove false per colpire il capo del partito dei maggioranza? Possiamo derubricare una eventuale operazione di questa portata a semplice divertimento innocuo messo in pedi da giornali e carabinieri fantasiosi e burloni? A me non pare che si possa far finta di niente. Se davvero il dottor Maroni ha ritrattato le sue accuse, o addirittura le ha rovesciare cambiando completamente la scena, i casi sono due: o qualcuno lo ha indotto a mentire l’inverno scorso, o qualcuno lo ha spinto a ritrattare ora. Nel secondo caso - che però, francamente, appare piuttosto improbabile - il nostro ragionamento non si tiene più in pedi, e anzi il caso Consip si riapre clamorosamente e con conseguenze devastanti. Ok. Ma nel primo caso invece diventa difficile fare spallucce sull’ipotesi del complotto. E se un complotto c’è stato occorrerà indagare per trovare i colpevoli: nelle forze armate, nelle Procure, nei giornali, o dovunque altro si nascondano. Naturalmente sappiamo benissimo che questo non avverrà. Che alla fine prevarrà l’armistizio, e ciascuno sceglierà la via più semplice per non rischiare di farsi male. È sempre così, dovremo adeguarci. Basta che poi nessuno venga a farci la lezione sulla stampa libera e con la schiena dritta, che non si tira mai indietro, che racconta tutto quello che c’è da raccontare per spirito di verità. O l- altra lezione, quella della magistratura incorruttibile, che marcia contro la politica non per calcolo di potere ma per spirito di verità. Non è così. La stampa - come dice Francesco Damato in un articolo che pubblichiamo nella pagina qui accanto - è completamente militarizzata, è a disposizione di diverse battaglie dei vari gruppi politici di potere. E tra questi gruppi politici e di potere non ci sono solo quelli di maggioranza. Anzi, più spesso sono i gruppi di minoranza ad usare giustizia e indagini per le proprie battaglie. In particolare i 5 stelle. Quanto alla magistratura, è chiaro che ormai è molto divisa e che al suo interno è aperto uno scontro asperrimo tra lealisti (fedeli alla Costituzione e che vorrebbero riportare la magistratura al suo compito istituzionale di ordine Costituzionale adibito a giudicare i reati), e “moralizzatori” (che invece si sentono investiti di un compito etico che sta al di sopra della democrazia e delle istituzioni, e che si esercita nelle Tv, nei giornali, nelle interviste). Ieri è stato addirittura il capo del Csm, Giovanni Legnini, a denunciare la deriva quasi eversiva di alcuni magistrati, che confondono le aule di giustizia con le ribalte dei talk show televisivi. È stato durissimo nella sua denuncia e si riferiva in modo palese a Pier Camillo Davigo. Legnini ha posto esattamente il problema che avevamo sollevato ieri sul Dubbio: come può un cittadino che finisca ad essere giudicato da una sezione della Cassazione presieduta da Davigo, sentirsi tranquillo, dopo aver assistito alle sceneggiate colpevoliste a tutti i costi che lo stesso Davigo ci offre quasi tutti i giorni in Tv? Il problema è che lo stesso Legnini ha detto (come aveva fatto il giorno prima il consigliere Galoppi): “Non abbiamo strumenti per intervenire”. E allora che facciamo? Ci arrendiamo? La risposta deve darla la politica. La politica ha tutti i poteri necessari. Vuole usarli, o ha paura e preferisce restare imboscata e criticare piano piano, sottovoce, senza farsi sentire? Il decalogo di tortura al 41bis di Carmelo Musumeci imgpress.it, 7 ottobre 2017 Un nuovo provvedimento emanato dal Dap (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria) del Ministero della Giustizia regolamenterà, e torturerà democraticamente, i detenuti sottoposti al regime di tortura del 41 bis. Quando ho letto questa Circolare ho pensato che difficilmente, per non dire mai, il carcere riesce ad educare il prigioniero, ma alcune volte, per fortuna, riesce a far riflettere. Queste parole di Gherardo Colombo, ex Procuratore di Mani Pulite, che di gente in carcere ne ha sbattuta parecchia, lo confermano: “Se vogliamo educare al bene, per farlo dobbiamo utilizzare il bene. La vendetta non può bastare. Eppure, il nostro sistema penale fa proprio questo. E stop. Garantisce nel migliore dei casi un risarcimento economico. Ma così il dolore della vittima, con il quale solidarizza il nostro senso di giustizia, non incontrerà mai il dolore del colpevole, anch’egli oggetto del nostro senso di giustizia (“deve pagare”). In questo modo crediamo di “fare giustizia”, invece scaviamo un solco. Creiamo nuove lacerazioni. E aumentiamo la recidiva. Fino a un certo punto della mia vita sono stato convinto che il carcere fosse educativo. Poi ha cambiato idea. Se vogliamo educare al bene, per farlo dobbiamo utilizzare il bene.” Anch’io la penso in questo modo. Questa mattina all’uscita del carcere ho incontrato un detenuto che conoscevo da molto e che ha finito di scontare la pena. Ho pensato che dopo tanti anni di carcere ci vorrà tanto tempo perché si riadatti a una vita normale. Gli ho fatto coraggio, come se stesse andando in guerra perché non gli sarà facile non ritornare in galera. Credo che chi commette dei reati vada fermato, ma una volta in carcere la pena dovrebbe fare “male” esclusivamente per farti diventare buono. In realtà, invece, il carcere in Italia fa male solo per farti diventare più cattivo o più mafioso di quando sei entrato. Per paura di essere frainteso, scrivo subito che la mafia mi fa schifo e in carcere mi sono sempre scontrato con la cultura mafiosa e a modo mio l’ho sempre combattuta. Mi fa, però, schifo anche la mafia dei poteri forti, che finge di combattere i mafiosi ma in realtà vuole prendere il loro posto, o mira a vantaggi mediatici o politici. Penso che tra le istituzioni dell’antimafia ci siano tante persone buone, e in buona fede, convinte di fare bene, ma ci siano anche tanti opportunisti. Ecco alcuni brani di questa circolare: “Il regime detentivo speciale di cui all’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario è una misura di prevenzione che ha come scopo quello di evitare contatti e comunicazioni tra esponenti della criminalità organizzata.” Bene! Credo che su questo dovremmo essere tutti d’accordo, ma io non sono d’accordo su alcune di queste restrizioni che non hanno questo obiettivo, ma tendono esclusivamente a complicare la vita dei prigionieri: “È vietato lo scambio di oggetti tra tutti i detenuti/internati, anche appartenenti allo stesso gruppo di socialità.” A parte che la solidarietà è un valore e se uno rimane senza sigarette, sciampo, dentifricio? “Vietato affiggere alle pareti foto.” Perché? Non credo che questo divieto consenta di prevenire contatti del detenuto con l’organizzazione criminale di provenienza. Un prigioniero vive di piccole cose e avere attaccato alle pareti della propria cella le foto dei familiari è importante. “Gli effetti personali relativi all’igiene personale, per loro natura pericolosi e potenzialmente offensivi, verranno consegnati ai detenuti/internati all’apertura della porta blindata della camera, e poi ritirati al termine della giornata.” Perché? A mio parere questi oggetti sono più “pericolosi” di giorno che di notte, quando il prigioniero è solo e murato da un cancello blindato. “È fatto divieto al detenuto/internato di ricevere libri e riviste dall’esterno, dai familiari o da altri soggetti tramite colloqui o pacco postale.” Perché? Credo che la lettura potrebbe aiutare molto a sconfiggere l’anti-cultura mafiosa. “Può detenere all’interno della camera un numero massimo di quattro volumi per volta.” Perché solo quattro libri? Penso piuttosto che ci dovrebbe essere una buona legge per “condannare” i detenuti a tenere più libri in cella e, forse, anche una norma per obbligare chi ha scritto questa circolare a leggere di più. “I detenuti/internati 41 bis possono permanere all’aperto per non più di due ore al giorno.” Perché? L’aria è criminogena? “È consentito tenere nella propria camera immagini e simboli delle proprie confessioni religiose, nonché fotografie in numero non superiore a 30 e di dimensione non superiore a 20x30.” Perché troppe foto dei familiari e figurine dei santi fanno male alla sicurezza?” “Colloqui visivi della durata massima di un’ora, nella misura inderogabile di uno al mese, presso locali all’uopo adibiti, muniti di vetro a tutta altezza. Il chiaro ascolto reciproco da parte dei colloquianti sarà garantito con le attuali strumentazioni all’uopo predisposte. Il detenuto/internato potrà chiedere che i colloqui con i figli e con i nipoti in linea retta, minori di anni 12, avvengano senza vetro divisorio per tutta la durata (dell’ora di colloquio)”. I colloqui sono audio/video registrati, allora perché impedire a una madre o a un padre, anziani, di poter abbracciare il proprio figlio? Mi fermo qui, non elenco tutte le numerose restrizioni di questo decalogo che disciplina questo girone infernale, che crea dei mostri vegetali, perché dopo alcuni anni di regime di 41 bis il prigioniero non pensa più a niente e diventa solo una cosa fra le cose. Non credo che proibire ai detenuti di abbracciare figli, padri, nipoti e madri per decenni serva a sconfiggere la mafia, come non serve a questo neppure proibire di attaccare le loro foto alle pareti della cella. Credo che lo Stato possa dire di aver già sconfitto militarmente la mafia, ma forse continua a fare di tutto per alimentare la cultura mafiosa, perché anche questo decalogo porterà odio verso lo Stato e le sue istituzioni. Sicilia: “nessuna risposta sulle carceri”, il comitato “Esistono i diritti” scrive a Crocetta livesicilia.it, 7 ottobre 2017 Il comitato “Esistono i diritti” scrive a Rosario Crocetta per chiedere ancora una volta attenzione sul tema delle carceri. “Il 7 febbraio scorso si è svolta una conferenza stampa, presso la sala stampa dell’Assemblea Regionale Siciliana, indetta dagli onorevoli. Toto Cordaro e Pino Apprendi, sulla condizione in cui versano le carceri siciliane, alla quale hanno partecipato, in rappresentanza del Comitato “Esistono i Diritti”, promotore dell’iniziativa politica, la segretaria Rossana Tessitore e Alberto Mangano, dopo aver inviato, nel luglio del 2016, insieme al presidente Gaetano D’Amico, una lettera a tutti i parlamentari regionali, nella quale si chiedeva loro di convocare il Presidente Crocetta in Aula, quale Garante della legge regionale “per la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e per il loro reinserimento sociale”, sulla perdurante negazione dei diritti fondamentali dei cittadini detenuti e dei cittadini detenenti. In quella sede avevamo chiesto che il Presidente Crocetta riferisse all’Assemblea sull’operato del Garante dei diritti dei detenuti”. “A seguito della lettera inviata dal Comitato - prosegue il testo -, l’onorevole Toto Cordaro, come primo firmatario, ha presentato una interpellanza parlamentare, controfirmata dagli on. Pino Apprendi, Giuseppe Di Giacomo e Bernardette Grasso, a cui non è stata data risposta alcuna. Da allora la situazione nelle carceri della regione non solo non è migliorata ma si sono verificati altri drammatici suicidi che confermano lo stato di degrado dei diritti umani nel nostro sistema carcerario. Avevamo dato al Presidente Crocetta la possibilità di rientrare nella legalità conferendo all’Assemblea sull’esito del lavoro svolto dal Garante, da lui nominato. Tutto ciò non è successo e pertanto, alla fine del suo mandato chiediamo, ancora una volta al presidente Crocetta di rientrare nella legalità convocando una conferenza stampa nella quale, insieme al Garante Prof. Giovanni Fiandaca, riferisca sulla situazione delle condizioni di vita dei cittadini detenuti e dei cittadini detenenti”. La lettera è firmata Gaetano D Amico, Rossana Tessitore, Alberto Mangano, Antonella Sgrillo, Aldo Penna. Napoli: Marcello si è tolto la vita in carcere; stava male, doveva essere trasferito di Andrea Aversa vocedinapoli.it, 7 ottobre 2017 L’uomo di soli 39 anni, è stato trovato morto nella sua cella. La famiglia pronta a sporgere denuncia per conoscere la verità. “Le condizioni fisiche e psichiche del signor Marcello appaiono in fase di peggioramento, sia sotto il profilo del tono dell’umore, sia sul versante somatico in quanto il paziente ha nel frattempo perso almeno 20 chili, a causa di una condizione anoressica, che peraltro non emerge dalla lettura della cartella clinica. Egli è infatti passato da un peso di circa 92 chili all’attuale peso di 71 chili, perdendo gran parte della massa muscolare. Si tratta di una perdita di peso di circa il 20%, realizzatasi molto rapidamente nell’arco di 5 mesi”, inizia così il certificato medico firmato dal dottore che ha visitato Massimiliano Marcello il detenuto 39enne trovato morto all’interno della sua cella nel reparto “Palermo” presso il carcere di Poggioreale. La notizia è di qualche giorno fa ed ha rappresentato l’ennesimo caso di suicidi che avvengono all’interno delle nostre patrie galere, un fenomeno che dimostra lo stato incivile e degradante degli istituti penitenziari italiani. Una nota del Sappe (Sindacato Autonomo della Polizia Penitenziaria) ha ribadito come i numeri del sovraffollamento carcerario siano drammatici: “In Campania ci sono 7.174 detenuti rispetto ad una capienza consentita di 6.146. Invece, gli agenti della Penitenziaria sono 4.274 rispetto ai 4.588 previsti”, queste le dichiarazioni di Aldo Di Giacomo, Segretario generale del Sappe. Nel documento clinico pubblicato dall’Avvocato Sergio Pisani, che ha avuto il caso dall’associazione Pronto Intervento Legale, si evince come Marcello “sia stato visitato il 3 maggio 2017: in quell’occasione, egli ha manifestato gravi segni di sofferenza psichica, motivo per il quale gli psichiatri della casa circondariale hanno richiesto ‘ grande sorveglianza all’ingresso in carcere. È stato poi visitato successivamente il 31 maggio ed infine il 5 luglio. In tale occasione è stata constatata una deflessione”. Come raccontato dall’Avvocato Pisani la famiglia di Marcello ha chiesto una consulenza legale per appurare le responsabilità oggettive per quello che è accaduto al 39enne. Per far luce sulla vicenda è necessario ricostruire i fatti: “In base alle condizioni di salute di Marcello, avvalorate dalle prove mediche, è stato chiesto al Tribunale del riesame di sospendere il regime carcerario. I tempi della pratica si sarebbero inesorabilmente allungati, e dobbiamo cercare di comprenderne il motivo. Al momento vi è un’indagine in corso che ha il dovere di spazzare via le ombre che incombono sulla morte di Marcello. Domani alle 12.00 è prevista l’autopsia, il cui responso potrà fornire maggiori elementi”, queste le parole di Pisani. Come riportato da Il Roma, Massimiliano Marcello stava scontando una pena di dieci anni dopo una sentenza emessa nel 2014. L’accusa era di traffico e spaccio di stupefacenti. Infatti, il 39enne faceva parte di un sodalizio con a capo Lucio Morrone detto Spalluzzella (arrestato ad aprile del 2015 in Spagna dopo 5 anni di latitanza), che attraverso l’appoggio del clan Abbinante di Scampia, ha rifornito di droga il centro città. Il collegamento tra Marcello e l’organizzazione, era la sua appartenenza al gruppo Ultras delle Teste Matte dei Quartieri Spagnoli (uno dei capi della compagine di tifosi era Salvatore Cardillo alias Beckenbauer, uno degli scissionisti del clan Mariano Picuozzi), territorio nel quale il 39enne gestiva i flussi di stupefacenti. Roma: Miravalle (Antigone) “un suicidio in carcere è un fallimento per tutti” di Marco Magnano riforma.it, 7 ottobre 2017, 7 ottobre 2017 La procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio per due agenti penitenziari per il suicidio di un detenuto a Roma, ma così si rischia di punire due capri espiatori e non interrogarsi sul senso di casi come questo. Ogni suicidio in carcere rappresenta una sconfitta per l’istituzione carceraria stessa. Ogni volta che un detenuto si toglie la vita in una cella viene meno quello che dovrebbe essere il principio di base del sistema penale, cioè rieducare e reinserire in società chi ha commesso un reato per il quale deve pagare un prezzo. In particolare, in questi giorni si è tornati a parlare di un fatto avvenuto lo scorso febbraio, quando un ragazzo di 22 anni, Valerio Guerrieri, si era suicidato nel carcere di Regina Coeli, il principale istituto penitenziario di Roma. Si trattava della decima persona che, a quel punto dell’anno, decideva di togliersi la vita in una struttura carceraria. A distanza di otto mesi e altri 35 suicidi di persone private della libertà in tutta Italia, su quella vicenda si è espressa la Procura di Roma, che ha chiesto il rinvio a giudizio per due agenti penitenziari, colpevoli secondo il pubblico ministero Attilio Pisani di non aver controllato il detenuto. Se lo avessero fatto, afferma infatti il pm, “non avrebbe mai avuto abbastanza tempo per legarsi un lenzuolo intorno al collo e morire soffocato”. Secondo Michele Miravalle, avvocato e coordinatore nazionale dell’Osservatorio sulle condizioni detentive dell’associazione Antigone, i due agenti “sono dei classici capri espiatori per aver semplicemente ritardato di qualche minuto l’intervento, ma una volta che Valerio aveva già sostanzialmente messo in atto il suicido”. Valerio Guerrieri, che soffriva di patologie psichiche, era stato arrestato il 3 settembre del 2016 per resistenza, lesione e danneggiamento, quindi gli erano stati applicati gli arresti domiciliari. Poco dopo, la sua abitazione era stata ritenuta non idonea, e quindi era stato portato a Regina Coeli. Dopo una serie di modifiche disposte dal tribunale di Roma, che avevano visto il ragazzo entrare e uscire da diverse strutture, il 14 febbraio di quest’anno il perito aveva confermato l’esistenza di uno scompenso tale da rappresentare un concreto rischio di suicidio. Tuttavia, a causa della lista d’attesa per l’ingresso in una Rems, Valerio Guerrieri era rimasto in carcere, dove dieci giorni dopo si era ucciso. Al di là della necessità di individuare eventuali responsabili diretti della mancata sorveglianza, rimane il dubbio che fosse veramente necessario tenere il 22enne all’interno delle mura di un carcere. “Certo che no”, continua Michele Miravalle. “Speriamo che l’inchiesta lo accerti, anche se i risultati dell’altro giorno non ci rendono troppo ottimisti”. Perché si è arrivati a questo punto? “Il problema è tutto ciò che è avvenuto prima. C’è stato un oscuro scaricabarile, difficile da spiegare, tra l’istituzione penitenziaria e l’istituzione sanitaria. Quel che è certo è che persone come Valerio, che aveva già un trascorso anche da minorenne di entrata e uscita dalle istituzioni sanitarie, di presa in carico da parte della sanità, in carcere non ci dovevano stare e questo è un dato di fatto”. Possiamo considerarlo un caso isolato? “No. Diciamo che è la punta dell’iceberg, forse una delle storie più tragiche come epilogo, ma che purtroppo vediamo ripetersi in tutta Italia. I motivi sono vari, ma tra questi dobbiamo sicuramente citare la mancanza di dialogo tra la psichiatria, in particolare la psichiatria del territorio, sempre più privata di mezzi e risorse, e giudici e forze dell’ordine, che hanno ancora una visione eccessivamente repressiva in questo campo. Ecco, invece di coordinarsi nell’ottica della cura della persona con le istituzioni sanitarie, la giustizia preferisce scaricare sul carcere questi problemi, ma il carcere è inadeguato sul piano strutturale e sul piano dei servizi offerti per affrontare i casi come quello di Valerio”. Questa vicenda ci deve far pensare che il passaggio dagli Opg, gli ospedali psichiatrici giudiziari, alle nuove strutture, le Rems, Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, sia stato un fallimento? “Forse non sarei così severo, non parlerei di fallimento nel passaggio dagli Opg alle Rems. Ecco, direi che probabilmente tutte le istituzioni coinvolte semplicemente non stanno remando nella stessa direzione. Con la Legge 81 del 2014 si chiude la vicenda degli Opg, una vicenda orribile di cui tutti abbiamo visto le immagini trasmesse in diretta televisiva ai tempi della commissione presieduta da Ignazio Marino. Tuttavia e la legge è molto chiara su questo punto, le Rems non devono ospitare tutti quelli che stavano negli Opg, ma soltanto quelle persone per cui ogni altra misura sul territorio non è in grado di curare il paziente. Il problema è proprio qui, in questo inciso della legge, perché esistono le Rems, ma anche tutta un’altra serie di servizi, a partire dalle comunità e i gruppi appartamento sul territorio in tutta Italia che forse non sono stati adeguatamente stimolati e non vengono adeguatamente presi in considerazione. In questo momento si preferisce pensare che le Rems siano uguali agli Opg, per cui in maniera un po’ frettolosa viene disposto il ricovero in Rems quando probabilmente esisterebbero altre strutture sul territorio, in grado di ospitare il disagio psichico in modo più efficace. Probabilmente, e questo è anche il caso di Valerio, se ci fosse stato un corretto dialogo tra la magistratura che deve disporre la misura e i servizi territoriali psichiatrici, probabilmente non avremmo avuto questo epilogo tragico. Detto questo, però, la legge che ha destituito gli Opg è comunque un buon punto di partenza, però è da costruire, da riempire di significato”. Viterbo: detenuto del 41bis muore per un tumore non diagnosticato, aperta un’inchiesta tusciaweb.eu, 7 ottobre 2017 Una decina gli avvisi di garanzia inviati a personale sanitario di Mammagialla e di Belcolle, nonché ai vertici del carcere - Il pm chiede l’archiviazione, ma il Gip si riserva. Vittima uno dei reclusi sottoposti al regime di carcere duro, il cosiddetto “41-bis”, previsto per chi commette reati di mafia. Attualmente sono 22 le carceri italiane, tra cui il penitenziario viterbese, che ospitano detenuti sottoposti a questo particolare regime. Il totale dei detenuti, invece, a livello nazionale, ammonta a più di 55mila unità. Sul caso la Procura della Repubblica di Viterbo ha aperto un fascicolo che per gli indagati potrebbe ancora sfociare in un processo per omicidio colposo, anche se ieri mattina il sostituto procuratore Stefano D’Arma ha ribadito la richiesta di archiviazione al giudice per le indagini preliminari Rita Cialoni. Il Gup, al riguardo, si è riservata, rinviando la decisione. Tornerà invece in aula nelle prossime settimane il processo per la morte dell’ex brigatista 59enne Luigi Fallico, deceduto di infarto nel sonno nella sua cella del carcere Mammagialla il 24 maggio 2011. Devono rispondere di omicidio colposo i due medici che l’avevano visitato una settimana prima. Responsabile civile la Asl, parti civili le sorelle. Fallico era stato arrestato nel 2009 per terrorismo e banda armata nell’ambito dell’inchiesta sul presunto attentato progettato alla Maddalena, dove si sarebbe dovuto tenere il G8 spostato all’Aquila. Da dimostrare il nesso tra la morte e il malore del 17 maggio, quando Fallico, giunto in infermeria con 110 di minima e 190 di massima, sarebbe stato rimandato in cella con un diuretico e un’aspirina, fissando al 25 maggio una visita cardiologica, senza nemmeno un elettrocardiogramma. Il 19 maggio, però, per Fallico ci fu un altro evento potenzialmente stressante, il trasferimento a Roma per il processo in corte d’assise. Viterbo: il detenuto è grave ma non lo operano, il calvario di Stefano Frignani viterbonews24.it, 7 ottobre 2017 Il calvario di Stefano Frignani, affetto da paradontopatia, a Mammagialla. Spazio all’interno delle celle ridotto ai minimi termini, sovraffollamento, abusi da parte della polizia penitenziaria e degli stessi detenuti più forti su quelli più deboli. Sono tante le criticità che affliggono il microcosmo degli istituti di pena italiani. Oltre alle sopraelencate, vi è anche quel diritto alla salute, quello sancito dall’articolo 32 della Costituzione italiana che, a volte, sembra essere assente. L’ultimo caso, come riporta il sito L’ultima ribattuta, è quello di Stefano Frignani, un detenuto in gravi condizioni di salute della casa circondariale di Mammagialla. Una via crucis, fisica e tra le pieghe della burocrazia, iniziata il 20 novembre delle scorso anno quando l’avvocato di Frignani, Alessandro Cacciotti, scrive al magistrato di sorveglianza di Viterbo per denunciare le precarie condizioni di salute del suo assistito, affetto da una grave forma di parodontopatia. La patologia, riscontrata dagli stessi medici del penitenziario, ha causato un “severo riassorbimento osseo di tipo orizzontale e conseguente perdita dell’anatomia che determina l’appiattimento della cresta ossea”, compromettendo le funzioni della bocca e dell’apparato digerente e causandogli gravi difficoltà nella masticazione e nel parlare. Unica cura: un intervento urgente di chirurgia maxillo facciale. L’avvocato fa richiesta al magistrato di fornirgli le opportune indicazioni per permettere al detenuto di ricevere le cure necessarie nella struttura ritenuta più idonea, ma la sua rimane una lettera senza risposta. Passano i mesi, quattro per la precisione, le condizioni di Frignani peggiorano e le cure richieste continuano a non arrivare. L’avvocato Cacciotti scrive allora un’altra email all’ufficio del magistrato e, questa volta, anche alla direzione sanitaria del carcere e a Stefano Anastasia, il Garante per i detenuti della Regione Lazio, cui spetta per legge il compito di “vigilare affinché l’esecuzione della custodia delle persone detenute in carcere e degli internati sia conforme a principi e norme nazionali ed internazionali” e intervenire qualora fossero riscontrate criticità che richiedano un immediato intervento. “Si chiede urgentemente - scrive l’avvocato - di provvedere a porre in essere tutte le attività necessarie per la salvaguardia della salute di Stefano Frignani”. Nessuna risposta, anche in questo caso, e il quadro clinico del detenuto continua nel frattempo ad aggravarsi, come testimoniato da ulteriori esami medici effettuati. La svolta di questa vicenda arriva pochi giorni fa quando, dopo ulteriori richieste inviate dall’avvocato agli organi competenti tra cui il Ministero della Sanità, la direzione sanitaria del carcere certifica la gravi condizioni di Stefano Frignani e lo inserisce in una lista di attesa per essere, finalmente, operato. Due operazioni, una per un polipo alla gola, l’altra patologia di cui è affetto il carcerato, e un’altra per la maxillo facciale, da effettuarsi all’Umberto I e al George Eastman di Roma, le uniche strutture sanitarie autorizzate ad accogliere e operare i detenuti. Ma qui sorgono ulteriori problemi. La lista d’attesa potrebbe durare anche anni e, qualora si sbloccasse e Frignani fosse chiamato per le operazioni, avrebbe bisogno di un piantonamento h 24 da parte della polizia penitenziaria. Quattro agenti per controllarlo a turno, uno ogni 6 ore, durante l’intervento e il ricovero. Ma se quel giorno non fosse disponibile il servizio di piantone, anche se mancasse solo un agente, l’operazione salterebbe e sarebbe rinviata a data da destinarsi. E allora ricomincerebbe tutto da capo. Pisa: Fratelli d’Italia-An “Don Bosco in condizioni critiche, serve un nuovo carcere” pisatoday.it, 7 ottobre 2017 “Il carcere Don Bosco va dismesso, serve costruire una nuova struttura penitenziaria in grado di garantire la sicurezza di chi ci lavora”. Sopralluogo questa mattina, venerdì 6 ottobre, alla casa circondariale di Pisa degli esponenti locali, regionali e nazionali di Fratelli d’Italia-Alleanza Nazionale. “Una visita - spiegano l’onorevole Achille Totaro e il consigliere regionale Giovanni Donzelli - che arriva dopo le diverse sollecitazioni che abbiamo ricevuto da parte dei sindacati di Polizia Penitenziaria. Le condizioni che abbiamo trovato all’interno del carcere sono drammatiche, ingiuste ed inadeguate sia per le persone che lavorano al suo interno, sia per tutti quelli che vogliono invece intraprendere un percorso di recupero”. Diverse le criticità riscontrate da Fratelli d’Italia-An. “Innanzitutto il personale - spiega Filippo Bedini, consigliere comunale di Nap-FdI-An - che è ampiamente sotto organico rispetto a quello che sarebbe necessario, con i lavoratori che svolgono perciò il loro ruolo in condizioni di difficoltà estrema. A questo si sommano poi le condizioni in cui versa la struttura con alcune parti che sono addirittura pericolanti: il carcere è ormai vecchio ed è inutile insistere con interventi di riqualificazione o manutenzione, serve costruire una nuova casa circondariale. Questo sarà uno dei punti del nostro programma per le amministrative 2018: fare pressione sullo Stato affinché venga costruito un nuovo carcere”. Secondo FdI-An ci sarebbe anche un problema relativo all’eccessiva presenza di detenuti stranieri rispetto alle altre carceri italiane. “Se nelle altre carceri gli stranieri sono circa il 40% dei detenuti totali - afferma ancora Bedini - a Pisa la popolazione straniera è pari al 70%, quindi ampiamente sopra la media nazionale. Questo genera forti tensioni tra le varie etnie che si trovano all’interno della struttura”. “In condizioni del genere - concludono Totaro e Donzelli - non sorprende che si sia verificata anche una rivolta tra i detenuti: il Don Bosco va chiuso e al suo posto va costruita un’altra struttura penitenziaria. Se così non sarà ci saranno altre rivolte”. Roma: detenuta appena arrivata a Rebibbia evade nascondendosi tra i visitatori La Repubblica, 7 ottobre 2017 Una 32enne bulgara, estradata dalla Germania, era appena arrivata nel carcere dopo essere sbarcata a Fiumicino, ma è riuscita a far perdere le proprie tracce. In corso le ricerche. Sono in corso dal primo pomeriggio di venerdì le ricerche della detenuta evasa dal carcere di Rebibbia. Secondo quanto si apprende, la 32enne di nazionalità bulgara è stata arrestata su mandato europeo perché doveva scontare quattro anni per furto e rapina. Estradata dalla Germania, la 32enne era arrivata venerdì a Fiumicino, dove era stata presa in carico dalla polizia penitenziaria e scortata nel carcere di Rebibbia. Secondo una prima ricostruzione, l’evasa sarebbe riuscita a divincolarsi dalla custodia poco prima di arrivare all’ufficio matricole, nascondendosi poi tra i visitatori e riuscendo così a far perdere le proprie tracce. “Nei primi sei mesi del 2017 si sono verificate, nelle carceri italiane, sei evasioni da istituti penitenziari, 17 evasioni da permessi premio e di necessità, 11 da lavoro all’esterno, 11 da semilibertà e 21 mancati rientri di internati”, è l’allarme lanciato dopo la notizia della nuova evasione da Maurizio Somma, segretario nazionale per il Lazio del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria. Padova: San Vincenzo de Paoli, premiati i migliori racconti dei detenuti di Enrico Silvestri Il Gazzettino, 7 ottobre 2017 Più che un premio letterario, una seduta di autoanalisi, in cui i detenuti si sono raccontati senza scuse o sconti. Un concorso, il “Premio Carlo Castelli per la solidarietà”, lanciato dieci anni fa dalla San Vincenzo de Paoli, a cui hanno risposto 200 detenuti da tutt’Italia. Tra loro, la commissione presieduta dal giornalista Luigi Accattoli, ha scelto le tre opere migliori, premiate ieri nella palestra del carcere Due Palazzi, riconoscendo altre dieci “degne di menzione”. Tra cui quella Valerio Sereni, che 17 anni dopo aver commesso un omicidio, è andato a suonare alla porta dei carabinieri. Il premio, dedicato a Carlo Castelli, 30 anni di vita a “visitare i carcerati”, aveva quest’anno come tema “Esercizi di libertà”. Tema ricorrente in tutti gli elaborati la carcerazione come molla per cercare la verità, passaggio necessario per raggiungere una libertà interiore mai conosciuta prima. Un percorso reso possibile dagli studi effettuati in carcere, dove chi ha preso il diploma, chi la laurea. Dunque la cultura come “lente” per potersi finalmente guardare dentro, esercizio impossibile quando “fuori” erano tutti in preda a delirio onnipotenza e rabbia. Infine la consapevolezza di essere gli unici responsabili del proprio destino, con quell’Io usato insistentemente sia quando indica quella persona malvagia che rubava e ammazzava, sia quella che ha poi compreso le follie commesse e la necessità di emendarle. Come Valerio Sereni, autore nel 1992 a Modena di un omicidio, confessato poi spontaneamente nel 2009, venendo quasi scambiato per pazzo. Sereni, terzo premio, spiega come la vera libertà sia “smettere di nascondersi” e cercare la verità. Per Daniele Carli, 5 anni per bancarotta, la carcerazione ha posto finalmente fine a quella corsa disperata verso il successo, quasi una “vacanza”, per trovare il modo di guardarsi dentro fino a poter dire “Sono libero”. Primo premio ad Alby, le cui mani, per sua stessa ammissione, sono sporche di sangue: “Dopo aver detto e letto dentro di me la verità di tutto, stranamente mi sento diversamente libero: libero dentro”. Certo, dietro le sbarre rimangono tanti individui che mai vedranno la redenzione, ma Alby, Daniele e Valerio ce l’hanno fatta, si sono salvati grazie a se stessi e all’impegno di tanti operatori e volontari attivi in carcere. E chi salva un uomo salva l’umanità. Larino (Cb): da detenuti a pizzaioli, con l’Alberghiero nel carcere tutto si può di Emanuele Bracone termolionline.it, 7 ottobre 2017 L’Istituto Alberghiero di Termoli, presente nell’ Istituto penitenziario di Larino con due sezioni, ha organizzato, nell’ambito dei percorsi di alternanza scuola lavoro, un corso per pizzaiolo. Il progetto ha coinvolto venti detenuti che, con passione ed entusiasmo, si sono cimentati nella realizzazione di uno dei prodotti alimentari più tipici dell’Italia. Sotto la guida del Pizzaiolo Claudio Bavota hanno imparato come preparare i diversi tipi d’impasto e di lievitazione come stendere i panetti, come accendere e cuocere la pizza in un forno a legna. Nel primo pomeriggio ci sarà la giornata conclusiva del percorso con la consegna degli attestati e una dimostrazione da parte dei detenuti delle competenze acquisite. Presenzieranno alla manifestazione il dirigente scolastico dell’Alberghiero Maricetta Chimisso e il direttore della struttura Rosa La Ginestra, il Funzionario Giuridico Pedagogico Brigida Finelli e il Personale docente dell’Alberghiero. Palermo: lo chef La Mantia “la mia passione per la cucina è nata in cella” di Alessio Ribaudo Corriere della Sera, 7 ottobre 2017 “In carcere per errore, cucinare mi ha dato la forza per andare avanti. Ho iniziato a cucinare per me e altri 11 detenuti per sognare di essere a casa e non in una cella del carcere Ucciardone di Palermo: preparando i sughi sentivo gli stessi odori e sapori che avevo respirato e gustato sin da bimbo”. Era il 1986 ma Filippo La Mantia, oggi uno dei cuochi più famosi, parla come se fosse accaduto ieri. “Sognavo che, prima o poi, avrebbero riconosciuto la mia innocenza - dice mentre dirige la brigata del suo ristorante di Milano - e il 24 dicembre, dopo sei mesi, mi consegnano l’ordine di scarcerazione firmato da Giovanni Falcone: ho visto materializzare il sogno”. La Mantia era un apprezzato fotografo a Palermo. “Nel 1982, a 21 anni, avevo realizzato gli scatti dell’omicidio del generale dalla Chiesa che erano finiti sulle prime pagine dei giornali - prosegue - e nella mia città insanguinata dalla guerra di mafia lavoravo tanto, venivo pagato bene e mi sentivo di aver tutto: soldi, moto potenti e amici con cui ci divertivamo dopo il lavoro”. Poi, all’improvviso, l’arresto. “A 25 anni, mi sono trovato rinchiuso all’Ucciardone con un’accusa infamante sul groppone”. Avevano ammazzato barbaramente il vicequestore aggiunto Ninni Cassarà e La Mantia viene coinvolto nell’indagine. “Gli inquirenti sospettavano che i proiettili fossero partiti da un appartamento di cui io risultavo essere l’ultimo affittuario registrato - dice - ma io quella casa l’avevo lasciata mesi prima dell’omicidio e mi ero trasferito a vivere a Mondello. Palermo era davvero una città sotto assedio e divisa: tutti colpevoli o tutti innocenti. Sin quando non è arrivato il provvedimento di Falcone mi sono fatto forza solo grazie al sogno degli odori e sapori familiari”. I ricordi sono ancora vivi. “Uno è indelebile, le porte dell’Ucciardone che si chiudono dietro di me e la certezza che con loro si chiudeva anche il mio passato di fotoreporter. Così, dopo un periodo in cui mi sono riappropriato della mia vita, ho iniziato ad avere un nuovo sogno: cucinare per professione”. Il cuoco palermitano fa le prime esperienze in Sicilia e poi si trasferisce a Roma. “È stata dura ricominciare a 40 anni ma pian piano ho ingranato e ho sognato di avere un ristorante mio - afferma: è finita che ne ho diretti due. A 54 anni volevo rimettermi a sognare e ho deciso di cambiare tutto: nel 2015 mi sono trasferito a Milano e ho aperto un ristorante. Dopo due anni e tanto lavoro mi sento di iniziare a realizzare anche questo”. Un sognatore, certo, ma di quelli pragmatici. Per questo, domani, è stato scelto per raccontare i suoi segreti dal palco del “Dreamers Day 2017”, alternandosi con protagonisti di mondi professionali diversi come l’avvocato Stefano Simontacchi, tra i massimi esperti di fiscalità, presidente della fondazione Ospedale dei bambini Buzzi di Milano e consigliere di amministrazione di Rcs Media Group. Gli organizzatori hanno come obiettivo quello di far scattare “una scintilla, uno stimolo al cambiamento che renda concreta la frase “ce la farò anche io”“. “Non ho fatto scuole di cucina, non ho avuto grandi maestri, non ho stelle e non ci tengo ad averne - conclude La Mantia - ma sognavo di diventare oste e cuoco e ci sono riuscito. Racconterò domani come ho trasformato in vantaggi gli ostacoli che mi ha posto davanti la vita”. Un consiglio? “Sognate a occhi aperti ma il sogno declinatelo al singolare sin quando non è chiaro. Al massimo raccontatelo a chi vi ama e non vi scoraggia”. Ricordo le porte dell’Ucciardone che si chiudono dietro di me e la certezza che con loro si chiudeva anche il mio passato Tutti possono farcela: io non ho fatto corsi, non ho avuto grandi maestri ma sono riuscito nel mio intento. Varese: nuovo progetto di reinserimento sociale dei detenuti, lezioni di yoga in carcere La Provincia di Varese, 7 ottobre 2017 Negli Stati Uniti d’America cresce il progetto innovativo per il reinserimento nel mondo del lavoro di chi è in stato di detenzione. Lo “Sportello dei Diritti”: “Un’idea da replicare in Italia per rendere meno dura la vita dietro le sbarre e facilitare il rientro in società”. Un progetto per il quale si era scommesso poco e che risale al 2004 quello di offrire delle lezioni di yoga ai condannati del carcere di San Quentin, il celebre istituto di detenzione tra i più duri della California e che poi sta portando ottimi risultati per il miglioramento delle condizioni carcerarie e per facilitare il reinserimento dei detenuti. L’idea nasce da James Fox, un istruttore professionista che ha sviluppato “Prison Yoga”: una serie di lezioni settimanali concepite come uno spazio dove i detenuti imparano a fare i conti con il proprio passato, le difficoltà nel relazionarsi con gli altri e la mancanza di auto-controllo. Negli Stati Uniti, sei detenuti su dieci tornano dietro le sbarre nei tre anni successivi alla loro scarcerazione: un dato definito da più parti “allarmante”, che apre però la strada a programmi integrativi come quello di Prison Yoga. “Imparare la meditazione, il respiro e il rilassamento sono abilità che aiutano i carcerati ad affrontare al meglio sia la vita dietro le sbarre che quella che li aspetta nel ritorno nella società” racconta Fox. L’insegnante, originario di Chicago, negli ultimi sei anni ha formato oltre 1200 istruttori, pronti a lavorare in ambienti complessi come quelli delle carceri di massima sicurezza. “Oggi sono oltre 100 le case circondariali d’America che hanno aderito al nostro progetto - dichiara Fox - ma siamo convinti che presto ogni carcere del Paese vorrà offrire un servizio simile al nostro”. Per Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti” si tratta di un’idea da replicare in Italia dove le condizioni carcerarie e il sistema penitenziario non fanno alcun passo avanti da decenni per rendere meno dura la vita dietro le sbarre e facilitare il rientro in società. L’organizzazione Ican (per il bando alle armi nucleari) ha vinto il Premio Nobel per la Pace La Stampa, 7 ottobre 2017 “È un messaggio agli Stati che hanno armi nucleari” ha detto il direttore della Campagna. È la 19esima volta che il comitato norvegese si batte a favore del disarmo. È stato assegnato all’organizzazione per il bando alle armi nucleari (Ican, International Campaign to Abolish Nuclear Weapons) il Premio Nobel per la Pace 2017. Lo ha annunciato oggi il comitato norvegese del Nobel affermando che con questo premio si vuole riconoscere “il suo ruolo nel fare luce sulle catastrofiche conseguenze di un qualunque utilizzo di armi nucleari e per i suoi sforzi innovativi per arrivare a un trattato di proibizioni di queste armi”. Al mondo ci sono 15mila armi nucleari, obiettivo della campagna Ican è quello di avviare negoziati per la loro progressiva e definitiva eliminazione. L’organizzazione non-profit fondata nel 2007, raccoglie 468 organizzazioni partner in 101 Paesi. È stato determinante quando nel luglio di quest’anno l’Onu ha adottato il nuovo trattato per la messa al bando delle armi nucleari, che entrerà in vigore quando 50 Stati lo ratificheranno. Un onore difficile da descrivere per Beatrice Fihn, direttore esecutivo di Ican : “È un premio importantissimo per coloro che lavorano dal 1945 alla lotta contro le armi nucleari - ha detto -, un tributo ai sopravissuti di Hiroshima e anche alle vittime dei test nucleari che ancora si fanno”. Poi il monito al presidente Usa, Donald Trump in relazione alle politiche nei confronti della Corea del Nord: “Non si può minacciare di uccidere milioni di persone con la pretesa della sicurezza. Ci fa vivere -ha detto- in una situazione di insicurezza permanente. È un comportamento inaccettabile che non appoggeremo mai”. “Stiamo mandando un messaggio a tutti gli stati in particolare agli stati nucleari” ha detto la presidente del comitato norvegese del Nobel, Berit Reiss-Andersen. Poi anche il Comitato ha rivolto poi un appello agli Stati perché “si avviino negoziati rivolto alla graduale eliminazione dal mondo delle 15mila armi nucleari”. Il prossimo sforzo, ha aggiunto, deve “riguardare gli Stati che hanno l’atomica”. Illustrando le motivazioni del premio, la presidente del Comitato del Nobel norvegese, Berit Reiss-Andersen, ha spiegato come l’assegnazione all’Ican incarna le “intenzioni di Alfred Nobel” ovvero risponde “a tre criteri del premio: la promozione della fraternità tra le nazioni, l’avanzamento del disarmo e del controllo delle armi e la promozione di congressi di pace”. “L’Ican - ha aggiunto Berit Reiss-Andersen - è fortemente impegnata nel raggiungimento del disarmo nucleare” e “ha giocato un ruolo importante”. “È ferma convinzione del comitato Nobel - ha riferito - che l’Ican più di ogni altro abbia dato un contributo enorme e un nuovo vigore al progetto di un mondo senza armi nucleari”. L’annuncio della scelta di Oslo ha colto tutti di sorpresa, dal momento che l’Ican non era nella rosa ristretta dei favoriti. E fino all’ultimo tutti puntavano alla vittoria dei principali negoziatori dell’accordo sul nucleare con l’Iran, il ministro degli Esteri di Teheran Mohammad Javad Zarif e l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza della Ue, Federica Mogherini. È la 19esima volta che il Nobel per la Pace va a chi si batte a favore del disarmo. Nel 2013 il Nobel per la Pace era stato assegnato all’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opac) e il Comitato lo aveva motivato con “l’impegno a favore dell’eliminazione delle armi e degli arsenali chimici nei vari scenari di guerra in tutto il mondo”. Allora l’Opac stava supervisionando lo smantellamento delle armi chimiche in Siria. Erano 318 i candidati di quest’anno, di cui 215 persone singole e 103 organizzazioni. Nella storia del premio è il secondo numero di candidati più alto: il record è ancora della scorsa edizione, quando i candidati furono 376. Il premio Nobel per la Pace fu assegnato per la prima volta nel 1901 e andò al francese Frederic Passt, fondatore e presidente della Società d’arbitraggio tra le nazioni, la prima società espressamente creata per il mantenimento della pace. A differenza di tutti gli altri premi Nobel, il Nobel per la Pace viene consegnato a Oslo, in Norvegia, e non a Stoccolma, in Svezia. Migranti. Fragoroso silenzio al Nazareno, lo ius soli spaventa i vertici dem di Andrea Colombo Il Manifesto, 7 ottobre 2017 La paura del voto nel Pd. Cade l’alibi del pallottoliere, la maggioranza c’è ed è anche ampia Pier Ferdinando Casini a favore, lascia ai suoi libertà di coscienza. I numeri per approvare lo Ius soli al Senato ci sono, e cade così l’alibi dietro il quale si sono trincerati Pd e governo: 157 voti, raccolti con un lavoro a uomo dal senatore di Ala Gianni Mazzoni e dalla capogruppo di Si Loredana De Petris, nella quasi completa latitanza del governo e del gruppo del Pd. “Mancano solo quattro voti per approvare la legge”, afferma anche l’ex ministra Cécile Kyenge. Sulla carta è così, la maggioranza assoluta essendo di 161 voti. Però solo sulla carta: perché lo Ius soli non è una di quelle leggi, per la verità poche, che richiedono la maggioranza assoluta e su quella relativa contare su 157 voti significa stare in una botte di ferro. E non è neanche detto che non venga superata nei prossimi giorni anche l’asticella dei 161 voti: 5 senatori infatti hanno chiesto tempo per riflettere. “Noi non usciremo dall’aula per abbassare il quorum e quei numeri sono solo fantasiosi”, replica, livido, il capogruppo di Ap alla Camera Maurizio Lupi. Non è vero. I consensi sono stati verificati uno per uno, tranne naturalmente quelli del Pd che sono stati dati per certi. Non essendo previsto il voto segreto dovrebbero esserci tutti. Quattro vengono proprio da Ap, anche se uno solo è targato Ncd. Gli altri sono dell’area Casini, incluso, “per dovere di coscienza”, lo stesso Pier. Dal gruppo misto dovrebbero arrivare un quindicina di voti ed è schierato a favore della legge metà del gruppo Gal. Decisivo è lo schieramento dei verdiniani. Il capogruppo Barani ha annunciato la decisione di lasciare libertà di coscienza, aggiungendo però che la maggioranza del gruppo sarà favorevole. A esitare sono due senatori: D’Anna e Falanga. Per il Pd dovrebbe essere una buona notizia. Non sembra sia così. Il sospetto che il Nazareno stia adoperando il pallottoliere come alibi per evitare una legge a rischio di impopolarità non è malizioso, ma inevitabile. Il senatore Esposito, un pasdaran renziano che rappresenta al meglio, o se si preferisce al peggio, la destra del partito, pur essendo favorevole allo Ius soli, risponde a brutto muso a Luigi Manconi: “Mi ha stupito la sua dichiarazione secondo cui i voti ci sarebbero. Io non ne ho contezza ma se lui ha un conteggio che dice questo, facciamo subito un elenco e sbrighiamoci”. L’elenco, come si è detto, c’è già e non è affatto escluso che nei prossimi giorni i senatori favorevoli alla legge non escano tutti allo scoperto con tanto di nome e cognome. Sui tempi, il discorso è più complesso. La strada maestra sarebbe mettere la fiducia: in caso contrario la legge dovrebbe tornare alla Camera, col rischio di non farcela. Ma non è certo che tutti i favorevoli siano anche disposti a votare la fiducia e sarebbe comprensibile se il governo chiedesse di slittare sino a dopo il varo della legge di bilancio. Anche se un’eventuale sfiducia non avrebbe esiti negativi, essendo la legislatura già morta. La calendarizzazione a gennaio cozza con l’intenzione di Renzi, ribadita tra le righe anche ieri in direzione, di sciogliere le Camere subito dopo il voto sulla finanziaria, in dicembre. Un”ccelerazione alla quale sarebbe però fermamente contrario il capo dello Stato, senza contare la difficoltà per il segretario del Pd di impuntarsi sullo scioglimento immediato al solo fine di impedire lo Ius soli. Il segnale più evidente e clamoroso delle resistenze annidate ai vertici del Pd è il silenzio in materia di Renzi - e in realtà di tutti tranne Cuperlo - nella direzione di ieri. Un silenzio davvero fragoroso, non solo perché già ieri era assodato che i numeri, contrariamente a quanto affermato qualche giorno fa dalla sottosegretaria Boschi, ci sono, ma anche perché si allarga a macchia d’olio lo sciopero della fame a staffetta promosso da Luigi Manconi. Sono una settantina i parlamentari che hanno aderito, tra cui il ministro Graziano Delrio. Ieri si è aggiunta anche la presidente dell’Antimafia Rosy Bindi. La destra intera si è scatenata nel bersagliare l’iniziativa, cercando invano di ridicolizzarla, e in particolare nel prendere di mira Delrio, la cui protesta contro il governo di cui fa parte ha di certo un aspetto singolare. Ma alcune critiche più puntuali sono arrivate anche dal capo dei deputati Mdp La Forgia e, con maggior delicatezza, dalla presidente dei senatori di Si De Petris: più degli scioperi, o oltre, sarebbe opportuno che Delrio e il Pd si muovessero per far approvare la legge. I conti dicono che si può fare, solo a volerlo e a non avere troppa paura. Migranti. La sconfitta dello ius soli e gli interrogativi sui diritti di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 7 ottobre 2017 È stata frenata l’integrazione non di chi sta arrivando sui barconi ma di chi è già tra noi da dieci o vent’anni, solo un terzo dei quali sono islamici. Lo ius soli è (quasi) morto. E sembra assai difficile che a rianimarlo basti lo sciopero della fame di Graziano Delrio assieme a un gruppo di parlamentari e comuni cittadini raccolti attorno all’appello dei Radicali e di Luigi Manconi. Salvo veri colpi di scena, il diritto a essere italiani di ottocentomila bambini e ragazzi nati o cresciuti tra noi non verrà riconosciuto in questa legislatura perché non ha più maggioranza nel Paese prima ancora che al Senato. Troppo stretta la finestra d’intervento nell’iter della legge di stabilità; troppo alto il rischio che, aprendola davvero, si abbattano venti di tempesta sul governo Gentiloni (di cui peraltro Delrio fa parte). Ma è bene sgomberare il campo dagli equivoci. Lo ius soli nostrano (certo migliorabile ed emendabile, ma già assai temperato e accompagnato dallo ius culturae) non è stato abbattuto dal sovranismo di Matteo Salvini o dai ripensamenti di Angelino Alfano. E neppure dal pragmatismo un po’ cinico del Pd. Nemmeno la crisi economica e le ondate di sbarchi sono state forse determinanti, perché il nostro Paese, al dunque, si era in passato sempre dimostrato capace di aprire le braccia ai più deboli, condividendo ciò che aveva. Diciamolo chiaro. I diritti dei giovani italiani di seconda generazione sono stati vittime del terrorismo jihadista. Sei anni fa, il 71 per cento dell’opinione pubblica era favorevole allo ius soli. Gli ultimi sondaggi danno questa quota poco sopra il 40 per cento: un crollo senza precedenti. In mezzo ci sono stati gli attentati in Europa che, da Charlie Hebdo in poi, hanno assunto cadenza quasi mensile, mietendo centinaia di vite innocenti nelle nostre strade e insinuando in ciascuno di noi il timore dell’altro, specie quando l’altro proviene da una cultura aliena e spesso ostile come è stata a lungo nella storia d’Italia la cultura islamica. Perfettamente comprensibile, dunque, il rovesciamento del sentimento collettivo che sull’anemica politica di questi tempi pesa, attraverso i sondaggi, assai più delle idee, giuste o sbagliate che siano. L’assassino di Marsiglia urlando “Allah u Akbar” sposta più di mille analisi e concioni. Ma una politica saggia dovrebbe serbare la capacità di toccare i cuori e le menti di una comunità, non inseguirne la deriva emotiva. Infatti se esiste un nesso tra gli attentati terroristici in Europa e lo ius soli è un nesso al contrario: è intuitivo che a maggiore integrazione corrisponda minor “rischio banlieue”, meno sacche di rancorosi esclusi nelle nostre periferie, e zero o quasi zero rischio multiculturale poiché nell’impianto normativo italiano non sarebbero riconosciute sacche di ambiguità “all’inglese”, con la sharia infilata di soppiatto a regolare i rapporti privati. Ai nuovi concittadini si sarebbe chiesto di giurare sulla Costituzione, di conoscere la nostra lingua, di fare da ponte con le loro famiglie, migranti di prima generazione, rendendole a noi più prossime e comprensibili. In cambio si sarebbe dato loro ciò che oggi non hanno, pur vivendo nelle case e nelle scuole d’Italia sin da bambini: la possibilità di partecipare a concorsi pubblici e iscriversi ad albi professionali senza intoppi, di gareggiare col tricolore sul petto, di non essere costretti ad attendere dai quattro ai sei anni (questi sono i tempi veri, raccontano in molti, e con file estenuanti all’ufficio stranieri della questura) per ottenere forse, infine, l’agognato passaporto. È assai probabile che tutto ciò non succederà, colpendo l’integrazione non di chi sta arrivando sui barconi ma di chi è già tra noi da dieci o venti anni. Il fatto che la componente islamica rappresenti soltanto un terzo della platea dello ius soli (ci sono cattolici, ortodossi, buddisti e, immaginiamo,… atei) aggiunge un tocco di surreale ingiustizia al quadro. La compressione dei diritti individuali e delle soggettività dentro macro-categorie spirituali (l’orientamento religioso del Paese d’origine pare assorbire l’identità personale come se non fossero passati quattro secoli e mezzo dal “cuius regio eius religio” che attribuiva al suddito la fede del suo signore) suona infine come una abdicazione ai principi liberali. Tant’è. Per superare ciò che in casa Pd chiamano realpolitik ma somiglia assai a una navigazione a vista, occorrerebbe non uno sciopero della fame ma un politico così forte e credibile da poter dire ai suoi concittadini: fidatevi di me e seguitemi, la strada giusta non è quella che voi credete. La più prossima a questo identikit è Angela Merkel, e persino lei ha pagato un altissimo prezzo elettorale alle sue aperture sui rifugiati siriani. I nostri politici continuano a ispirarsi a quel fantastico caleidoscopio dei caratteri italici che ci donò Manzoni: “Il buonsenso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune”. Si parlava di peste e untori, pare scritto ieri. Libia. I trafficanti di uomini cacciati da Sabrata di giordano stabile La Stampa, 7 ottobre 2017 Successo delle forze di Al-Serraj ma anche Haftar ha partecipato con una sua milizia. Il clan dei Dabbashi, “specializzato” nel traffico di migranti, è stato cacciato dalla città costiera di Sabrata, il principale centro per le partenze verso l’Italia. Dopo tre settimane di combattimenti “l’esercito libico” ha rivendicato la vittoria e la gente “è scesa nelle strade a festeggiare”. Sabrata si trova a 70 chilometri a Ovest di Tripoli ed è inserita nel patrimonio protetto dall’Unesco per le sue rovine romane. Le forze in campo - Il successo è stato rivendicato dalla cosiddetta Ghourfa Amaliat, forze speciali delle milizie alleate del premier Fayez Al-Serraj, ma anche dal generale Khalifa Haftar, rivale di Al-Serraj, che ha appoggiato l’operazione con una milizia sua alleata, la Brigata Wadi. Centinaia di feriti - Le due forze si sono scontrate con la Brigata 48 del signore della guerra locale Amu, cioè “zio”, Dabbashi, comandante militare del clan di Anis Dabbashi. In tre settimane di scontri ci sono stati almeno 30 morti e 270 feriti, e sono stati danneggiati anche alcuni monumenti di epoca romana, trasformati in fortini. Il clan Dabbashi - La lotta fra le tre fazioni ha costretto migliaia di persone a lasciare il centro della città. Il clan Anis Dabbashi, forte dei suoi cinquecento combattenti, controllava la città e, soprattutto, il traffico dei migranti verso l’Italia. Sabrata è il primo porto libico per le partenze per l’Europa. Brasile. Caso Battisti, il tribunale concede la libertà all’ex terrorista di Rocco Cotroneo Corriere della Sera, 7 ottobre 2017 Il giudice ha accolto la richiesta avanzata dagli avvocati dell’ex terrorista, che potrebbe lasciare il carcere nelle prossime ore. Il piano di Temer per rimandarlo in Italia. Cesare Battisti è di nuovo libero. Fermato tre giorni fa mentre cercava di fuggire in Bolivia, è stato rimesso in libertà nella serata di ieri per decisione del giudice José Marcos Lunardelli, al quale avevano presentato ricorso i suoi legali. A meno di ulteriori colpi di scena l’ex terrorista dovrebbe lasciare il commissariato di Corumbà nelle prossime ore e tornare a casa. Il giudice del ricorso ha smontato la tesi che aveva trasformato il fermo iniziale in arresto, cioè “trasgressione” alle norme che regolano la sua presenza come residente in Brasile e “offesa all’ordine pubblico”. Opinioni del giudice di primo grado, dopo che il reato del fermo iniziale (esportazione illegale di valuta) non consentiva di tenere Battisti in custodia, in quanto di tipo amministrativo. Il piano per rimandarlo in Italia - Nelle prossime ore sapremo se resterà in piedi il piano del presidente Michel Temer di rimandare al più presto Battisti in Italia, rispondendo alle richieste del nostro governo. Tutto sembrava correre in questa direzione nella giornata di ieri. Un aereo militare è fermo sulla pista di Corumbà, si infittiscono le trattative con Roma, tramite la nostra ambasciata a Brasilia. Temer starebbe aspettando soltanto il via libera definitivo dei suoi consiglieri giuridici, per firmare la consegna di Battisti all’Interpol. Per far ciò ha bisogno di sapere se è legittimo ribaltare la decisione del suo predecessore Lula, il quale nel 2010 si rifiutò di eseguire l’estradizione stabilita dal Supremo tribunale e garantì all’ex terrorista un visto di residente fisso in Brasile. La procedura sarebbe stata più semplice con un Battisti dietro le sbarre, naturalmente. I retroscena sulla cattura - Intanto emergono retroscena sulla cattura e lo strano tentativo di fuga in Bolivia. Potrebbe essere stata una operazione preparata con cura, puntando sulle debolezze psicologiche di un uomo in fuga da 40 anni, in eterna paranoia. Le domande sono molte: perché la sua automobile è stata fermata due volte sulla strada verso la Bolivia; come mai un aereo della Fab, l’aviazione militare brasiliana, è su quella pista da giorni pronto a portarlo verso l’Italia? E infine: come mai la convalida del suo arresto è finita sulla scrivania di un giudice che ha pescato nel passato di Battisti piuttosto che giudicarlo sui fatti per cui è stato fermato? L’ipotesi di una trappola organizzata dalle autorità brasiliane per agevolare la soluzione finale, qualcosa che assomiglia ad una deportazione blitz, si poggia sulla sequenza degli avvenimenti nelle ultime settimane. A partire dalle notizie pubblicate dal quotidiano O Globo, lo scorso 24 settembre, indicando che il governo italiano aveva nuovamente posto a quello brasiliano la questione dell’estradizione di Battisti, e che in quest’ultimo, a differenza del passato, tirasse un’aria favorevole. Poiché la richiesta italiana è di parecchi mesi prima, è legittimo pensare che la diffusione della notizia adesso sia stata un messaggio indirizzato proprio a Battisti. Unita all’esito sfavorevole del primo habeas corpus presentato dai suo avvocati, e a vari problemi di ordine personale, la paura di essere spedito in Italia avrebbe scatenato nell’ex terrorista la decisione di mettersi in viaggio verso la Bolivia. Una mossa quasi disperata. I soldi che gli sono stati trovati in tasca (il corrispettivo di 8.000 euro) non sono certo sufficienti a garantirgli un nuovo capitolo dell’eterna latitanza, gli amici che lo hanno accompagnato in auto sono apparsi ancora più sprovveduti di lui, come risibili le motivazioni del viaggio (pesca, shopping). Non è quindi da escludere che Battisti fosse seguito da giorni e sia stato lasciato arrivare tranquillamente fino alla frontiera con la Bolivia, dove a quel punto è stato facile trovare un capo di imputazione per fermarlo. Perù. Fujimori e la sterilizzazione forzata di 200mila donne di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 7 ottobre 2017 Duecentomila donne sterilizzate senza il loro consenso durante il mandato del presidente peruviano Alberto Fujimori (1990-2000). La denuncia è stata presentata alla Procura di Lima da un gruppo di Ong ed organizzazione femminili. In base alla Legge Nazionale per la Popolazione, inviata da Fujimori in Parlamento nel 1996, centinaia di migliaia di donne peruviane sono state sterilizzate senza sapere esattamente la portata della procedura medica e le sue conseguenze. La normativa includeva la vasectomia e la legatura delle tube di Falloppio tra i metodi anticoncezionali. Secondo le cifre dell’ufficio dell’Ombudsman nazionale peruviano, dal 1996 al 2001 ci sono state 272.028 operazioni per legare le tube di Fallopio e 22.004 vasectomie e, nella quasi totalità dei casi, le persone sottoposte a questi interventi erano indigeni o abitanti delle zone rurali più povere del paese. Fujimori è attualmente in carcere, per scontare una pena di 25 anni di prigione per gravi violazioni dei diritti umani durante il suo governo.