41 bis, serve una vera riforma di Luigi Manconi Il Dubbio, 6 ottobre 2017 Apprezzabili le disposizioni del Dap, ora tocca alla politica. mancano risposte importanti, sulla applicabilità della videosorveglianza, sulle perquisizioni dei familiari e sulla riservatezza dei colloqui con i parlamentari. Giuro: non è un tic o una ossessione linguistica e nemmeno la manifestazione patologica di una passione smodata per la parola in sé. È il fatto, piuttosto, che, questa volta, le parole pesano ancora più di quanto accada in genere. Per questa ragione ritengo che l’intera discussione sul regime speciale del 41bis sia deformata da un uso errato dei termini che la definiscono. E in primo luogo, che definiscono quello stesso regime. In altre parole, non si tratta in alcun modo di "carcere duro" (o meglio: non dovrebbe trattarsi di "carcere duro"), come immancabilmente si dice. Il regime del 41bis, infatti, non designa un sistema carcerario particolarmente afflittivo, o addirittura sempre più afflittivo: ma qualifica né più né meno quell’organizzazione penitenziaria capace di impedire "i collegamenti" tra persone recluse e "un’associazione criminale, terroristica o eversiva" esterna al carcere. Di conseguenza, tutti i provvedimenti, le misure, i divieti e i limiti devono tendere a quel solo scopo: e quanto eccede quel solo scopo è da ritenersi inutile e, di conseguenza, illegale. Il 41 bis, insomma, non è un sistema di sanzioni e trattamenti efferati ("duri") bensì un dispositivo di sicurezza. Dimenticare questo, cioè la ragione prima ed esclusiva del regime di 41bis produce una discussione a dir poco alterata. E ora veniamo alla recente circolare del capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Santi Consolo. La volontà dell’Amministrazione penitenziaria di ridefinire le regole che presiedono alla quotidiana applicazione del 41bis va certamente apprezzato. Per alcune disposizioni sono state recepite una parte delle indicazioni della Commissione diritti umani del Senato. Per esempio: la possibilità di cumulare due ore di colloquio; la facoltà di tenere con sé, senza vetro divisorio, per tutta la durata del colloquio il proprio figlio o il proprio nipote minore di 12 anni; o ancora la possibilità di avere più di quattro libri nella propria cella. Mancano però risposte importanti, sulla applicabilità della videosorveglianza, sulle perquisizioni dei familiari e finanche sulla riservatezza dei colloqui con i parlamentari e con i garanti territoriali. Evidentemente queste e altre disposizioni, anche di rango legislativo, andrebbero riviste nell’ambito di una riforma organica del 41bis, che è stata esclusa dai decreti delegati della riforma della giustizia penale voluta dal Ministro Orlando. Ma che resta all’ordine del giorno, soprattutto nella prospettiva di quanti non hanno inteso contestare la legittimità di misure speciali di prevenzione per i capi delle organizzazioni criminali. E tuttavia ritengono che esse debbano essere limitate a quelle strettamente necessarie, senza mai diventare inutilmente vessatorie e limitative di diritti fondamentali universalmente riconosciuti. Al 41 bis anche i giornali vengono "selezionati" di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 ottobre 2017 Nella Circolare del Dap i quotidiani e le riviste ammesse per i detenuti al carcere duro. Al 41 bis, a differenza della detenzione normale, è consentita la lettura solo di alcuni quotidiani a tiratura nazionale. Le linee guida che uniformano il regime duro per tutti gli istituti che lo ospitano, riaffermano la censura dei giornali e riviste che trattano particolarmente i temi del sistema penale dal punto di vista garantista. A pagina 51 della circolare emanata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria c’è la tabella dove vengono riportati nero su bianco tutti i quotidiani nazionali e le riviste consentite. Si viene così a sapere che al 41 bis, i detenuti possono acquistare La Repubblica, Il Corriere della sera, Il Giornale, Il Giorno, Il Messaggero, Il Sole 24 ore, il Fatto Quotidiano e Italia Oggi. Però vengono esclusi Avvenire, Il Manifesto, Il Foglio, Il Dubbio e Il Mattino, quotidiani a tiratura nazionale che, seppur diversi tra loro, portano avanti delle critiche riguardante il nostro sistema penale. Per quanto riguarda le riviste, i detenuti al 41 bis hanno varie scelte: da Chi, Di Più, passando per Diva, la Settimana Enigmistica, Panorama e l’Espresso. Mentre però non compare Ristretti Orizzonti, una rivista - conosciuta soprattutto tra gli addetti ai lavori e giornalisti che si occupano di questi temi - fatta in carcere a Padova e che informa sulla giustizia e sull’esecuzione della pena. Il direttore dell’Ufficio detenuti e trattamenti del dap Roberto Piscitello, che ha redatto la circolare sottoscritta anche dal capo del Dipartimento Santi Consolo, spiega a Il Dubbio che non è stata una loro scelta, ma che si sono basati su una norma già preesistente e redatta dalle varie direzioni delle carceri che, a loro volta, le hanno tratte da una vecchia tabella ministeriale. "La tabella si basa sui giornali a tiratura nazionale che hanno un minimo di copie vendute", spiega Piscitello. Rimane però poco chiaro quale sia il criterio utilizzato e perché un giornale può essere acquistato dai detenuti in regime del 41 bis in base al numero di copie vendute, anche in considerazione del fatto che Avvenire è tra i quotidiani più diffusi. Molto critica Rita Bernardini, l’esponente del Partito Radicale: "Il divieto in 41 bis di acquistare alcuni giornali o riviste come Ristretti Orizzonti si basa sul principio della sospensione della Costituzione. Non credo che sia una casualità che venga limitata la possibilità di acquistare giornali che portano avanti denunce del sistema penitenziario. Anche noi abbiamo avuto problemi a causa delle censure. Tutto quello che può interessargli direttamente, tipo la lotta del Partito Radicale anche per il superamento del 41 bis e la loro riabilitazione come prevede l’articolo 27 della Costituzione, difficilmente lo possono venire a sapere. D’altronde la posta viene sottoposta a censura". Salute in carcere. Simspe-Simit: solo un detenuto su tre non è malato avantionline.it, 6 ottobre 2017 Solo 1 detenuto su 3 non è malato. 1/2 è ignaro della propria patologia. In aumento la tubercolosi. Gravi i dati su Hiv e Hcv. Necessario un nuovo approccio per la sanità nelle carceri. "Un detenuto su tre è affetto da Epatite C e il problema sarebbe oggi risolvibile", afferma il prof. Babudieri (Univ.Sassari) Possibile il controllo delle patologie correlate ai nuovi flussi, come la tubercolosi. I Lea nelle carceri. I Lea - Livelli Essenziali di Assistenza, ossia le Linee Guida, i limiti minimi che devono essere mantenuti dal Sistema Sanitario Nazionale, entrano oggi nell’ambito penitenziario. Questa la novità nel 2017: si è pensato di applicarli anche ai detenuti. "È un punto di svolta perché fino ad oggi la sanità penitenziaria è stata attendista, mentre l’obiettivo oggi è di farla diventare proattiva, con una presa in carico di tutte le persone che vengono detenute", dichiara il Prof. Sergio Babudieri Direttore delle Malattie Infettive dell’Università degli Studi di Sassari e Direttore Scientifico di SIMSPe - Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria. "Abbiamo scelto questo tema, significativo poiché denso di contenuti, per approfondire una riflessione ormai quasi decennale sugli effetti concreti del transito dei servizi sanitari penitenziari al Sistema Sanitario Nazionale", afferma Luciano Lucanìa Presidente SIMSPe 2016-18. "Si chiede una sanità adeguata a un bisogno di salute diverso. in qualità e quantità. Serve maggiore attenzione ai problemi legati all’intrinseca vulnerabilità sociale che certamente ampia parte dei detenuti presenta, occorrono buone prassi di informazione sulle maggiori patologie infettive. Fondamentale la cura e la garanzia di un diritto costituzionale. Auspicabile lo sviluppo dei reparti ospedalieri per detenuti con una diffusione almeno regionale, così da poter garantire assistenza ospedaliera in maniera più adeguata". Le malattie nelle carceri - Nel corso del 2016 sono transitate all’interno dei 190 istituti penitenziari italiani oltre centomila detenuti. Diverse le malattie diffuse; solo un detenuto su 3 non presenta alcuna patologia, nonostante si tratti di una popolazione molto giovane rispetto alla media. Tuttavia, uno dei problemi principali è rappresentato dalla metà dei malati che è ignaro della propria patologia, o comunque non la dichiara ai servizi sanitari penitenziari. Gli stranieri detenuti sono oggi il 34% dei presenti e la detenzione è un’occasione unica per quantificare il loro stato di salute, dal momento che in libertà sono difficilmente valutabili dal punto di vista sanitario. La loro età media è più giovane rispetto agli italiani ed oltre la metà è portatrice latente di Tubercolosi. Molto diffuse anche le patologie psichiatriche, ed alcune fra le più gravi, quale la schizofrenia, appaiono notevolmente sottostimate, con appena uno 0,6% affetto da questa patologia, che rappresenta in realtà solo i pazienti detenuti con sintomi conclamati e facilmente diagnosticabili. Notevolmente maggiore è la massa di coloro che hanno manifestazioni meno evidenti ed uguale bisogno di diagnosi e terapia e non vengono spesso valutati. Hiv E Hcv - Ma i dati più preoccupanti provengono dalle malattie infettive. Si stima che gli Hiv positivi siano circa 5.000, mentre intorno ai 6.500 i portatori attivi del virus dell’epatite B. Tra il 25 e il 35% dei detenuti nelle carceri italiane sono affetti da epatite C: si tratta di una forbice compresa tra i 25mila e i 35mila detenuti all’anno. Proprio l’epatite C costituisce un esempio emblematico dei benefici che si potrebbero trarre dai nuovi Lea: dall’1 giugno, infatti, l’Agenzia Italiana del Farmaco ha reso possibile la prescrizione dei nuovi farmaci innovativi eradicanti il virus dell’epatite C a tutte le persone che ne sono affette. Quindi una massa critica di oltre 30mila persone che annualmente passa negli istituti penitenziari italiani, potrebbe usufruire di queste cure per guarire dall’Hcv, ma anche per non contagiare altri nel momento in cui torna in libertà. "È una sfida impegnativa" - prosegue il prof. Babudieri - "si tratta di un quantitativo ingente di individui, soggetti peraltro a un continuo turn-over e talvolta restii a controlli e terapie. Un lavoro enorme, di competenza della salute pubblica: senza un’organizzazione adeguata. Pur avendo i farmaci a disposizione, si rischia di non riuscire a curare questi pazienti. La presa in carico di ogni persona che entra in carcere deve dunque avvenire non nel momento in cui questi dichiara di star male, ma dal primo istante in cui viene monitorato al suo ingresso nella struttura. Questa nuova concezione dei Lea significa che lo Stato riconosce che anche nelle carceri è necessaria un certo tipo di assistenza. Fino al 2016 non c’era alcuna regola: questa segnale può essere un grande progresso". Il congresso - Oltre 200 specialisti riuniti a Roma sino a domani per la XVIII Edizione del Congresso Nazionale Simspe-Onlus "Agorà Penitenziaria", presso l’Hotel dei Congressi in viale Shakespeare 29, all’Eur. Un confronto multidisciplinare tra medici, specialisti, infettivologi, psichiatri, dermatologi, cardiologi, infermieri. Un confronto, organizzato insieme alla Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali - Simit, che coinvolge le diverse figure sanitarie che operano all’interno degli istituti penitenziari con l’obiettivo di fornire spunti per una riflessione approfondita del fare salute in carcere agli stessi operatori sanitari, a chi amministra gli Istituti e a chi ha il compito di stabilire le regole ed allocare le risorse. Carcere e suicidi di Adolfo Ferraro (psichiatra) cantolibre.it, 6 ottobre 2017 Nelle carceri 46 suicidi da inizio anno, l’ultimo a Poggioreale, oltre 4000 gli atti di autolesionismo. Le recenti cronache ci raccontano che, a tutt’oggi, nelle carceri italiane sono 46 i morti suicidi dall’inizio dell’anno (l’ultimo nel carcere di Poggioreale ai primi di ottobre), 567 i tentativi di suicidio sventati, 4.310 gli atti di autolesionismo. E la notizia che i numeri delle colluttazioni e dei ferimenti e delle risse nelle carceri dall’inizio del 2017 hanno mostrato un aumento preoccupante, è certamente un ulteriore segnale di un innalzamento del livello di tensione che si sta attuando nelle strutture detentive. I numeri elevati indurrebbero ad una riflessione sul significato della reclusione, sulle sue modalità di attuazione, sulla dolorosa consapevolezza che il carcere spesso rappresenta una area di parcheggio senza funzioni riabilitative, sui tempi e sul tempo immobile della detenzione. Del resto che il carcere e tutto ciò che reclude/esclude faccia ammalare è cosa nota, e questo perché l’ istituzione detentiva tende fondamentalmente e per sua natura a depersonalizzare o ad annullare, e a proporre la custodia al posto della cura, con la realizzazione di spazi che, per definizione e pratica, non appartengono all’ospite, ma rappresentano un confine invalicabile dove le linee sono nette e definite : di qua i reclusi, di là i custodi e in lontananza il mondo esterno. Con tali premesse il suicidio in carcere (atto patologico ma che non sempre dipende da una psicopatologia) ha più significati e diversi tra loro : il significato di fuga, certamente, ma anche quello di lutto o di castigo, quello di vendetta e a volte di richiesta e ricatto, e sempre (sempre) il significato di sacrificio di chi non riesce ad esprimere il proprio dolore con gli strumenti comunicativi a disposizione, rimanendo vittima di una giustizia che tende a recludere il corpo e a non intervenire sull’anima. E in questo senso la detenzione in Italia è rimasta dolorosamente e concettualmente lombrosiana, giustificatoria e deresponsabilizzante, attanagliandosi al corpo, al materiale, al sovraffollamento e alle mancanze di risorse, che una linea politica tende a consolidare scegliendo la via della reclusione e non quella - opposta e contraria - dell’inclusione. Si aspettano soluzioni con il disegno di legge n. 4368, presentato dal Ministro Andrea Orlando di concerto con i ministri Alfano e Padoan, che apporta sostanziali modifiche all’Ordinamento penitenziario, ma che ha bisogno di tempi e decreti per essere attuato. E dove, nelle forme, appare che è nel privilegiare le norme che investono sulla riabilitazione, che può trovarsi un’altra parte della soluzione. Ma è soprattutto nell’abbandonare un modello culturale definito del carcere, una antica dinamica autoreferenziale, che si verifica un cambiamento vero. E questo può avvenire solo con un confronto e con una crescita, rammentando sempre che si ha a che fare con persone recluse che, con le loro forze e le loro debolezze, vivono dolorosamente il rapporto con la detenzione. E allora diventa necessario acquisire la consapevolezza che per ridurre i suicidi, gli atti auto lesivi, le aggressività auto ed etero dirette, che il carcere ha bisogno di riallacciare un legame tra interno e esterno, due luoghi apparentemente antinomici, divisi da una linea di confine che a volte diventa netta e invalicabile in tutte le situazioni in cui il bisogno di certezza diventa primario. Confine che deve tendere ad allargarsi, trasformandosi da linea di demarcazione in luogo in cui, forse, è possibile trovare risposte e una parte - consistente- della soluzione. Risoluzione del Parlamento Europeo: "le carceri sovraffollate aiutano il radicalismo" di Giovanni Maria Del Re Avvenire, 6 ottobre 2017 Gli eurodeputati hanno approvato una risoluzione dei penitenziari in Europa: va combattuto il sovraffollamento, che può favorire anche il radicalismo, e cercare misure alternative alla cella. Combattere il sovraffollamento delle carceri, che può favorire anche il radicalismo, e cercare misure alternative alla cella. Questa volta è il Parlamento Europeo ad affrontare il complicato tema dei penitenziari, citando l’Italia tra i Paesi con i maggiori problemi. Al centro è una risoluzione approvata ieri in plenaria a Strasburgo (474 sì, 109 no e 34 astensioni) che, va sottolineato, non è specificamente sull’Italia ma sul quadro complessivo dell’Ue. E tuttavia la Penisola è citata esplicitamente in un paragrafo, in cui si afferma che il Parlamento "deplora il fatto che il sovraffollamento delle carceri, che è molto comune nelle prigioni europee, in particolar modo in Grecia, Francia, Belgio, Italia, Slovenia e Romania, in molti casi abbia un serio impatto sulla sicurezza del personale carcerario e dei detenuti, e anche per quanto riguarda le attività disponibili, le cure mediche e il monitoraggio dei detenuti". Lo scorso 8 settembre il Comitato per la prevenzione della tortura (che non dipende dall’Ue ma dal Consiglio d’Europa) ha pubblicato un rapporto secondo il quale in Italia il 16% dei detenuti ha a disposizione meno di 4 metri quadri a persona. Complessivamente in tutta l’Ue nel 2014 si trovavano in carcere 1.600.324 persone, incluse quelle in detenzione cautelare. Il sovraffollamento, avvertono gli eurodeputati, favorisce violenze, suicidi ma anche la radicalizzazione, "un fenomeno in crescita", avverte il testo, gli stati dovranno incrementare la lotta. Soprattutto, la risoluzione deplora che la custodia cautelare sia "usata in modo sistematico in molti stati membri", mentre "dovrebbe restare una misura di extrema ratio, da usare solo quando è strettamente necessario e per il più breve tempo possibile". Più in generale, gli eurodeputati esortano gli stati membri "ad adottare misure non detentive come alternativa al carcere", che "dovrebbero avere la priorità nel caso di detenuti che non presentino un serio pericolo per la società". Si tratta però anche di migliorare le infrastrutture carcerarie e la formazione del personale. "Nella maggior parte dei Paesi dell’Ue - ha dichiarato la relatrice, l’eurodeputata francese indipendente Joelle Bergeron - la società civile si è allontanata dalle carceri, la maggior parte delle quali sono vecchie e sovraffollate. È giunto il momento di adottare una concezione più umana della vita carceraria, di vietare le carceri troppo grandi, di promuovere alternative all’incarcerazione e di adeguare le istituzioni al profilo dei detenuti". Restando in tema di giustizia, da registrare ieri il voto con cui il Parlamento Europeo ha approvato (456 sì, 115 no e 60 astenuti) in via definitiva l’istituzione della Procura europea. Il nuovo organo giudiziario Ue (non partecipano Svezia, Olanda, Malta, Ungheria, Polonia, Regno Unito, Irlanda e Danimarca), sarà basato a Lussemburgo e dovrà concentrarsi specificamente sulle frodi ai danni del bilancio Ue, con ampi poteri, tra cui anche l’arresto. "Sarà un salto di qualità nella cooperazione tra autorità nazionali" ha commentato il presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani. Il quale chiede che la procura europea si occupi anche di terrorismo. Stessa richiesta è giunta anche dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, soddisfatto comunque del via libera di Strasburgo. Corrotti come mafiosi? Orlando difende il nuovo codice antimafia di Serena Uccello Il Sole 24 Ore, 6 ottobre 2017 Serviva o meno un nuovo Codice antimafia? Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, trasforma una obiezione in una domanda e nel rispondervi, difende il testo da poco approvato, respingendo così le critiche di chi contesta il travaso delle misure di prevenzione nate per il contrasto alle mafie alla corruzione. Il codice, dice il ministro, serviva perché "i motivi ispiratori del testo sono concreti ed attuali". In testa la "corrispondenza tra il giusto processo e le misure di prevenzione così come ci è stato chiesto dalla Corte dei diritti dell’uomo" e poi l’intervento sulla complessa materia della gestione dei beni confiscati alla luce delle opacità e, in qualche caso, degli scandali emersi negli ultimi anni. Orlando è intervenuto con i procuratori di Roma, Giuseppe Pignatone, e di Milano, Francesco Greco, e gli aggiunti Ilda Boccassini e Michele Prestipino a un incontro organizzato dal Sole 24 Ore e da Radio24 ("Il racconto della giustizia che cambia") per i dieci anni del programma radiofonico Storiacce. "Siamo stati accusati di avere una logica anti imprenditoriale - ha detto il ministro -. Io credo che non sia vero e credo che chiuderemo questa legislatura con l’azione più forte contro questa obiezione: mi riferisco all’approvazione definitiva della legge sul fallimentare". L’attuale diritto fallimentare, ha aggiunto Orlando, "è un retaggio inaccettabile di una stagione completamente diversa e, quella sì, anti impresa". Erano gli anni Quaranta. "Quello che rivendico è che noi in questi anni abbiamo fatto interventi che hanno progressivamente rafforzato la lotta alla corruzione - ha concluso - e credo che le cose che abbiamo fatto per la giustizia sono anche cose per far funzionare meglio e far competere meglio le aziende sane e pulite". Il ministro Guardasigilli ha ricordato le norme sul falso in bilancio, quelle sull’auto-riciclaggio, l’allungamento dei tempi per la prescrizione. Questo perché, ha detto, "combattere la corruzione è anche un modo per evitare un aggressione antidemocratica da parte di qualcuno approfittando dell’indebolimento dell’istituzioni". Ma è sull’estensione ai corrotti delle misure di prevenzione previste per chi è accusato di reati associativi che Orlando ha inasprito i toni. E nei confronti della politica: "Leggo le dichiarazione di quello che è stato anche il presidente del Consiglio e che è il segretario del mio partito (Matteo Renzi, ndr): ecco voglio chiarire che io non ho mai voluto infrangere il tabù della proprietà privata. Noto tuttavia una foga garantista quando si tratta di aggredire i patrimoni. Vorrei la stessa foga quando discutiamo delle norme contro l’immigrazione clandestina, il reato di tortura, lo stato delle detenzioni". E riferendosi ai magistrati ha commentato: "Certe obiezioni potevano farcele prima". Il riferimento di Orlando è anche a quanto detto poco prima dal procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone: "Credo ci voglia prudenza nell’estendere gli strumenti del contrasto alle mafie nei confronti di corrotti. Perché i due fenomeni sono fenomeni diversi e perché gli strumenti dell’antimafia hanno un costo sociale molto alto, che non credo potrebbe essere accettato per la corruzione. La società è pronta ad accettare l’applicazione del 416 bis ad un corrotto?". Posizione peraltro ribadita dal procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini. Dai testi approvati a quelli in agenda: il ministro ha, infine, annunciato di puntare all’invio del testo delega relativo alle intercettazioni "per la settimana prossima a Palazzo Chigi". Giudice sbagliato: il processo Cucchi slitta ancora di Valeria Pacelli Il Fatto Quotidiano, 6 ottobre 2017 Nel collegio che giudicherà i carabinieri c’è una magistrata incompatibile. Il rischio prescrizione incombe sul processo Cucchi. Il reato di calunnia contestato a tre carabinieri si prescriverà tra un anno esatto, a ottobre del 2018. È l’ennesimo intoppo sull’infinita vicenda giudiziaria nata sulla morte di Stefano Cucchi, deceduto il 22 ottobre 2009 nell’ospedale Sandro Pertini di Roma, dopo l’arresto per possesso di droga. Sono passati otto anni dal giorno della morte del geometra e dopo una prima inchiesta finita con una sfilza di assoluzioni definitive per i medici, la fine sembra lontana. Con l’indagine bis, nata a settembre del 2015, la Procura di Roma ha intanto messo sotto accusa per la prima volta i carabinieri che arrestarono il giovane: in cinque sono stati rinviati a giudizio. La prima udienza, fissata per il 13 ottobre, però, rischia di slittare per incompatibilità del giudice designato dal Tribunale, allungando così ancora i tempi, mentre alcuni dei reati contestati sono già prescritti (come l’abuso di autorità contro arrestati e detenuti) mentre per altri (la calunnia) manca poco. Restano in piedi i reati più gravi, il falso in atto pubblico e l’omicidio preterintenzionale, quest’ultimo contestato ad Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e al vicebrigadiere Francesco Tedesco, che nel 2009 erano in servizio presso il Comando Stazione di Roma Appia. I tre militari - secondo il pm Giuseppe Musarò - avrebbero colpito Stefano con "calci, pugni e schiaffi" provocandone "una rovinosa caduta con impatto al suolo in regione sacrale" cagionando lesioni "che, unitamente alla condotta omissiva dei sanitari che lo avevano in cura al Pertini, ne determinavano la morte". Tedesco è accusato anche di calunnia perché come testimone davanti alla Corte d’Assise avrebbe dichiarato il falso sugli agenti di polizia penitenziaria imputati sulla base della prima inchiesta (poi sono stati tutti assolti in maniera definitiva). Lo stesso reato - a rischio prescrizione - è contestato anche al maresciallo Roberto Mandolini, all’epoca dei fatti a capo della stazione Appia, dove venne eseguito l’arresto di Cucchi, e a Vincenzo Nicolardi. L’udienza del 13 ottobre potrebbe saltare per un meccanismo automatico del Tribunale, che ha assegnato il processo alla III Corte d’Assise di Rebibbia presieduta dal magistrato Evelina Canale. È già stata presidente del collegio che nel primo processo Cucchi assolse gli agenti di polizia penitenziaria e gli infermieri, condannando invece i medici (poi assolti in appello). Per questo ieri l’avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi, ha presentato un’istanza al Tribunale, sollevando la questione dell’incompatibilità. "Apprendo che l’udienza - ha scritto Ilaria Cucchi su Facebook - non si terrà perché assegnata alla stessa presidente, Evelina Canale, del primo processo la quale si dovrà astenere con ulteriore slittamento di un dibattimento che avrebbe dovuto iniziare otto anni fa". Per la Cucchi il problema è l’intero sistema giudiziario: "Sembra che alla giustizia non interessi nulla. È noto che i carabinieri imputati contano sulla prescrizione. Era necessario far passare questi mesi senza fare nulla per sostituire il giudice incompatibile? Ci sentiamo presi in giro". Che il processo Cucchi, al di là dell’assegnazione a una nuova sezione, si preannunci lungo è evidente pure dalle liste testi che contano circa 200 persone. Non mancheranno i volti noti: il legale dei Cucchi vuole convocare in aula l’ex ministro Ignazio La Russa per le affermazioni fatte in passato in difesa dei carabinieri. Diritto all’oblio. Chiede 2mln € a Google: il suo nome legato al rapimento di una bambina di Chiara Spagnolo La Repubblica, 6 ottobre 2017 L’uomo fu arrestato nella provincia di Lecce nel 2014 e rimase per quasi un anno tra carcere e domiciliari: è stato poi stato assolto a titolo definitivo. "Malessere psico-fisico per l’associazione a quella vicenda". Arrestato nel 2014 con l’accusa di aver partecipato al rapimento di una bambina di sei anni e assolto a due anni di distanza, ora chiede il conto a Google: 2 milioni di euro di risarcimento per la mancata applicazione del diritto all’oblio. Il 41enne Giovanni Giancane considera illegale il fatto che nonostante il tempo e la sentenza di assoluzione, il motore di ricerca continui a riproporre la notizia del suo arresto a quanti ne digitano il nome: un mese di carcere poi dieci agli arresti domiciliari. Per questo periodo di detenzione è stato chiesto un ristoro di 2 milioni di euro al ministero della Giustizia. Le manette scattarono nel giugno 2014, al termine di un’indagine lampo dei carabinieri sulla scomparsa di una bambina bulgara di sei anni da un parco giochi di Monteroni. Giancane fu accusato di sequestro di persona insieme con una donna, quella Valentina Piccinonno che qualche anno più tardi finì nuovamente in carcere per aver assassinato un anziano al termine di un tentativo di rapina. Secondo la ricostruzione della Procura, l’uomo avrebbe avvicinato la bimba con la scusa di offrirle un gelato e poi l’avrebbe portata via con uno scooter. Quell’ipotesi accusatoria, però, non ha retto alla prova del dibattimento, tanto che il tribunale di Lecce ha decretato l’assoluzione di Giancane, ora diventata definitiva. Ma l’uomo - sostiene l’avvocato Daniele Scala - anche dopo la sentenza ha subito i contraccolpi del coinvolgimento in quella brutta vicenda giudiziaria. A sostegno della richiesta di risarcimento nei confronti del colosso di internet, il legale ha portato una serie di certificati medici, che attestano lo stato di malessere psico-fisico del 41enne. La sua richiesta sarà valutata dal Tribunale civile di Lecce, che dovrà verificare se effettivamente Google avrebbe dovuto rimuovere da tempo i contenuti relativi al rapimento della bambina, all’arresto di Giancane e a tutta la vicenda giudiziaria che ne è scaturita. La conversione dei mafiosi, il dramma dei figli, la lezione di don Italo di Mario Nasone zoomsud.it, 6 ottobre 2017 Sabato 7 ottobre la Diocesi di Locri-Gerace, accogliendo l’invito di papa Francesco, ha indetto una giornata di preghiera a Placanica per la conversione dei mafiosi. La domanda che in molti si fanno è se questa iniziativa è utile, se ci sono spazi reali per un cambiamento di vita di persone che hanno deciso di abbracciare una visione del mondo e della vita come quella mafiosa radicalmente contraria al Vangelo. Un tema difficile quello della conversione che ritorna spesso nei documenti e nei pronunciamenti pastorali dei nostri Vescovi e dei vari Pontefici e che negli anni purtroppo non risulta abbiano mai fatto breccia soprattutto nei livelli alti delle gerarchie mafiose. Se per conversione intendiamo cambiamento radicale di vita, ripudio della propria appartenenza all’organizzazione mafiosa, posa di atti di riparazione del male commesso. Atti esteriori di devozione, come partecipare a processioni, pellegrinaggi, tenere santini nei covi dove si nascondono o pregare un Dio su loro misura che non è quello della Chiesa e del vangelo, non assolvono e tanto meno reintegrano nella compagine ecclesiale. Per questo può essere utile ricordare quanto affermava don Italo Calabrò, un sacerdote che sul versante del contrasto alle mafie ha speso molto del suo servizio pastorale, anche da parroco di San Giovanni di Sambatello dove è nato e viveva don Mico Tripodo uno dei grandi capi più temuti della ndrangheta. Più volte confessò di non avere mai conosciuto un mafioso che si sia convertito, ad eccezione del detenuto che fece il discorso nel carcere di Reggio in occasione della visita di Giovanni Paolo secondo. Sulla conversione dei mafiosi don Italo non era ingenuo, diffidava di una concezione sbagliata di questa espressione. Autentica conversione doveva voler dire ripudio della propria appartenenza all’organizzazione mafiosa e posa di atti di riparazione del male commesso. Per questo, in occasione della cosiddetta Messa della riconciliazione tenuta nella cattedrale di Reggio, in piena guerra di mafia, presenti i familiari dei morti di mafia, fu critico verso una iniziativa che riteneva inutile ed ambigua e non aveva il presupposto di gesti di autentico pentimento. "Qui si tratta di farli smettere e non di autocelebrarsi" fu il suo commento. La conversione ridotta a fatto intimistico che non esprime gesti di riparazione visibili e pubblici non è autentica. La vera conversione del mafioso non darà certo la vita agli uccisi, ma riparerà il male commesso indicando all’autorità giudiziaria quegli elementi, quelle situazioni e quelle persone necessarie per debellare la struttura organizzativa della mafia, causa di ingiustizie e di violenza. Non basta essere pentititi, avere fatto accusa dei propri peccati ed essere stati assolti. La soddisfazione al male commesso richiede che il mafioso pentito non si sottragga alle pene comminate dalla sentenza definitiva della magistratura. Ancora, se chi è dentro i clan e non può oramai più uscirne da vivo, ha un’altra possibilità che è quella che ancora don Italo indicava loro "se voi non potete, fate almeno in modo che i vostri figli non vi entrino". In questo momento storico questa scelta è possibile. Grazie al lavoro fatto dal Tribunale per i minorenni di Reggio con il progetto Liberi di Scegliere, uomini e donne della ndrangheta possono aderire o comunque non contrastare la proposta dei servizi della giustizia minorile di dare l’opportunità ai loro figli di potere sperimentare dei percorsi alternativi di vita fuori dell’ambiente familiare e sociale in cui sono cresciuti. Sono già quaranta i minori che hanno fatto questo percorso con risultati largamente positivi. Assieme ad essi anche diverse donne che hanno scelto di rompere con il clan di appartenenza per dare ai loro figli un futuro diverso. Ad essi possono aggiungersi tanti altri, soprattutto se verranno aiutati dai loro genitori naturali a provare una vita diversa da minori e poi fare le loro scelte definitive da maggiorenni. Senza per questo ripudiare o cancellare dalla loro vita i genitori ma imboccando un cammino diverso. E quello che ha detto il Magistrato Stefano Musolino al carcere di Reggio al rampollo di uno dei capi della ndrangheta durante un incontro "anche se porti questo cognome anche per Te c’è una speranza, ma devi prendere le distanze dalle scelte fatte da Tuo padre, senza per questo rinnegare gli affetti". Le madri che hanno deciso di rompere con il clan, i mafiosi che in silenzio stanno aiutando i figli a stare lontano dai loro affari, quelli che scrivono al Presidente Di Bella per incoraggiarlo sono piccoli segni di speranza che vanno coltivati. Se l’appello alla conversione della giornata del 7 ottobre non vuole essere generico questa potrebbe essere una delle strade da indicare, garantendo come Chiesa un accompagnamento pastorale ed una vicinanza alle famiglie che vogliono realmente incamminarsi su questa strada di vita e di risurrezione religiosa e civile. Campania : Radicali Italiani nelle carceri; settimana di mobilitazione, 3 tappe in Regione di Fabrizio Ferrante Ristretti Orizzonti, 6 ottobre 2017 Radicali Italiani torna a mobilitarsi sul fronte carceri: tra il 9 e il 15 ottobre sono infatti previste visite ispettive su tutto il territorio nazionale che vedranno la partecipazione di militanti e dirigenti radicali ma anche di rappresentanti istituzionali. In Campania saranno tre le carceri coinvolte nell’iniziativa con altrettante ispezioni che avranno luogo a partire da venerdì 13 ottobre, dalle ore 15:00, quando si schiuderanno le porte del carcere napoletano di Poggioreale. Sabato 14, a partire dalle 9:30, si resterà a Napoli ma ci si sposterà nel penitenziario di Secondigliano mentre domenica 15 ottobre, sempre dalle 9:30, i riflettori saranno accesi sul carcere casertano di Santa Maria Capua Vetere. A comporre le delegazioni che accederanno negli istituti di pena, esponenti radicali come Raffaele Minieri, membro della direzione nazionale di Radicali Italiani, assieme a numerosi altri militanti del movimento guidato da Riccardo Magi. Saranno altresì presenti esponenti di altre associazioni come Antonello Sannino, presidente di Arcigay Napoli e Pietro Ioia, leader degli ex detenuti organizzati napoletani. Prevista la presenza nelle carceri napoletane anche di Luigi Felaco, consigliere comunale eletto nella lista De.Ma. Per Radicali Italiani si tratta di un ritorno nelle carceri partenopee a distanza di poco tempo, dal momento che nelle scorse settimane, tra Poggioreale e Secondigliano, si sono svolte le raccolte firme fra i detenuti a supporto della campagna “Ero Straniero” oltre che quella (in sinergia con la camera penale di Napoli) a sostegno della separazione delle carriere in magistratura. Le visite ispettive consentiranno di aggiornare vecchie e nuove criticità ma anche per segnalare qualche progresso. A Poggioreale è tornato il sovraffollamento con oltre 2100 detenuti in 1600 posti e celle che arrivano a contenere fino a nove persone. Inoltre la poltrona di direttore è vacante dopo la recente promozione di Antonio Fullone a provveditore delle carceri di Toscana e Umbria. Una gestione che ha portato con sé non pochi miglioramenti (come nuove attività e un miglior rapporto tra agenti e detenuti) sebbene continuino a esistere situazioni critiche, in particolare per quanto riguarda i detenuti ammalati. Così come nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, laddove da anni sussiste un problema perfino per l’approvvigionamento idrico con tutte le conseguenze del caso sulla vita dei ristretti e, in genere, della comunità penitenziaria. Questi e altri spunti saranno approfonditi nel corso delle visite che Radicali Italiani effettuerà in tutta Italia nell’ambito di un’iniziativa nazionale che partirà lunedì 9 ottobre fino a domenica 15, coprendo dunque l’intera settimana per quella che sarà una delle ultime iniziative prima dell’imminente congresso di Radicali Italiani. Evento che avrà luogo all’Hotel Ergife di Roma tra il 29 ottobre e il primo novembre prossimi. Trento: la Garante dei detenuti "diritti in carcere, i cittadini vanno coinvolti" di Linda Pisani Corriere del Trentino, 6 ottobre 2017 Menghini: "La recidiva scende con le misure alternative". Antonia Menghini, neo Garante dei detenuti, parla dopo l’investitura del consiglio provinciale. "I diritti dei detenuti vanno difesi partendo dalla politica, dalle istituzioni e dai cittadini" dice. Possibile pensare ai diritti dei detenuti quando imperversano populismo e demagogia? Sì, anche se mettere insieme due parole come diritti e detenuti sembra un ossimoro. "I cittadini devono essere sensibilizzati - dice Antonia Menghini, professoressa aggregata di diritto penitenziario presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento e ora neo eletta Garante dei detenuti. Il lavoro da fare è molto e questo sarà uno degli obiettivi del mio mandato, anche attraverso il coinvolgimento delle istituzioni e della politica". Menghini, esperta di diritto penitenziario, è stata nominata Garante dal Consiglio Provinciale dopo otto anni di attesa. Di che cosa si occuperà? "Contribuirò a garantire l’effettivo esercizio dei diritti dei detenuti attraverso la promozione di interventi, azioni e segnalazioni". In genere, l’idea è che la detenzione sia un’espiazione della colpa per reati commessi. Una punizione. "L’idea retributiva della pena, e in particolare di quella privativa della libertà, è ancora fortemente radicata. Vanno tuttavia promossi percorsi di rieducazione, peraltro espressamente previsti dal nostro ordinamento. Lo dice anche l’articolo 27 comma 3 della Costituzione. Ritengo che la tutela dei diritti dei detenuti sia funzionale a un pieno riconoscimento della dignità della persona. Il cammino per il riconoscimento e la tutela di tali diritti è stato lungo e difficile e non può dirsi certo concluso. Dopo l’approvazione della legge sull’Ordinamento penitenziario del 1975, la giurisprudenza, soprattutto costituzionale, ha dato un contributo fondamentale in questo senso". L’Italia però è stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani. "Nel 2013 siamo stati condannati dalla Corte di Strasburgo nel caso Torreggiani, per la grave situazione di sovraffollamento carcerario. L’Italia ha violato l’articolo 3 Cedu che vieta i trattamenti disumani e degradanti, perché nel caso di specie i ricorrenti erano ristretti in una superficie inferiore a tre metri quadrati a testa". Il sovraffollamento delle carceri e la mancanza di personale penitenziario ha raggiunto livelli di cronicità anche nel carcere di Trento. "Le difficoltà dovute alla mancanza di risorse sono cosa nota e, solo per fare un esempio, la sorveglianza dinamica che prevede l’apertura delle celle, ha di certo contribuito ad aggravare i compiti del personale. Dati positivi invece sono legati al fatto che oggi abbiamo un direttore che si occupa esclusivamente della struttura di Spini e non è più a scavalco e che è stato nominato un nuovo presidente del Tribunale di sorveglianza. Sono quindi ottimista e confido che si possano trovare delle soluzioni". In che modo? "Attraverso un percorso di ampio respiro. Sarà necessario innanzitutto raccogliere le istante di tutti i soggetti interessati e quindi attivare dei processi virtuosi, in stretta sinergia con le varie istituzioni coinvolte, sensibilizzando allo stesso tempo su tutti i problemi i cittadini e le autorità. Nei programmi politici, economici e sociali a tenere banco è il tema della sicurezza. Come pensa di farsi ascoltare? "Nessuno, o pochi, considerano i diritti dei detenuti un tema capace di aggregare consenso. I media si concentrano troppo spesso esclusivamente sul problema della sicurezza. Anche su questo piano credo che il garante possa dare il proprio contributo. Solo un dato: in pochi sanno che i casi di recidiva sono dell’80% se la pena si sconta totalmente in carcere, mentre scendono al 19% se si applicano misure alternative". Un altro tema sensibile è la presenza degli immigrati nelle carceri. "La percentuale di soggetti stranieri si aggira mediamente intorno 33% quasi in tutte le realtà carcerarie italiane. Diventa dunque fondamentale predisporre un percorso rieducativo che tenga conto delle caratteristiche specifiche e dei bisogni dei soggetti ristretti. La maggior parte degli stranieri necessita di corsi di alfabetizzazione primaria, senza i quali non è immaginabile l’attivazione di alcun percorso rieducativo". Lei arriva dal mondo universitario. Pensa che la sua preparazione influenzerà il suo lavoro di Garante? "Credo che gli anni di ricerca in questo specifico settore e le iniziative già promosse a livello nazionale e internazionale possano essere un’adeguata base di partenza in un’ottica costruttiva e mi sembra molto positivo che le competenze dei docenti e degli studiosi universitari vengano messe a servizio del territorio". Padova: polemica sui permessi premio, parlano i volontari di Silvia Quaranta Il Mattino di Padova, 6 ottobre 2017 "Il Due Palazzi è un modello virtuoso". La fuga di un detenuto in permesso premio è stato un episodio grave, ma è pur vero che si tratta di un solo caso su moltissimi. Il carcere padovano, con tutto l’universo di associazioni che vi ruotano attorno, è considerato un modello virtuoso. Le uscite premio, poi, permettono al detenuto di trascorrere qualche ora di libertà, a volte anche con i familiari: è un’occasione importante, sostengono i volontari dell’Ocv (Operatori Carcerari Volontari), utile per il reinserimento nella società. "I volontari dell’associazione", spiega la presidente, Chiara Fuser, "si fanno sempre carico di sorvegliare affinché dalla struttura non esca chi non ne è autorizzato, oppure accompagnano i detenuti all’esterno per le loro piccole esigenze quando ciò è previsto dal relativo decreto autorizzativo. Mi preme sottolineare che Boris Rasnik è uscito dalla struttura di accoglienza accompagnato da un familiare (la cui identità era stata accertata), perché ciò era espressamente previsto dal decreto stesso. Il detenuto in questione, infatti, godeva di un permesso concesso dal Magistrato di Sorveglianza, in virtù della sua buona condotta e dei risultati di studio conseguiti. Posso assicurare che l’attenzione posta dai volontari nello svolgimento dell’attività di accoglienza è sempre adeguata alle responsabilità che questa richiede". "Mi preme inoltre sottolineare", conclude la Fuser, "che, se la fuga di un detenuto in permesso premio dal punto di vista giornalistico fa notizia, la stragrande maggioranza di coloro che ne beneficiano fa regolarmente ritorno in carcere: rimaniamo dunque convinti che questo sia uno strumento utile ai fini del trattamento e del reinserimento sociale del carcerato". Napoli: luci e ombre del carcere di Secondigliano di Vanessa Vaia liberopensiero.eu, 6 ottobre 2017 Finito di costruire nel 1991, il carcere di Secondigliano fu inaugurato nel corso dell’anno successivo. La sua genesi era giustificata da una motivazione ben precisa: doveva andare a costituire un modello alterativo al carcere di Poggioreale. Quest’ultimo era "popolare" per delle motivazioni non proprio nobili; tra queste spiccano le rivolte degli anni 80 e le modalità di trattamento dei detenuti: molte sono state le indagini che hanno mirato a mettere in luce i bassi standard di rispetto della dignità umana al suo interno. Negli intenti iniziali, dunque, l’origine del carcere di Secondigliano era legata ad un obiettivo onorevole; le aspettative, tuttavia, saranno ben presto disattese. Uno dei problemi che affliggerà fin da subito l’istituto sarà il sovraffollamento. L’edificio si compone, infatti, di ben 600 celle tutte progettate come singole, ma abitualmente adibite a due detenuti attraverso l’utilizzo di letti a castello. Per tal motivo lo spazio per ogni detenuto risulta ristretto e questo crea difficoltà e disagi, accentuati nel periodo estivo. All’interno di ogni cella è presente un bagno, che non reca, tuttavia, la doccia interna. Per ovviare il problema del ristretto spazio vitale viene utilizzato il "sistema a celle aperte", che consente ai detenuti maggiore libertà di movimento e la possibilità di trascorrere diverse ore in sale ricreative o spazi esterni. Va sottolineato che il problema del sovraffollamento non interessa soltanto il carcere di Secondigliano, ma è esteso al resto d’Italia: per tal motivo le condizioni di vita dei detenuti risultano invivibili e questo ha spinto la Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo a intervenire, sanzionando l’Italia per trattamento inumano e degradante. I tempi lunghi dei processi, condizioni igienico-sanitarie spesso inadeguate, mancanza di contatti: situazioni che possono portare a fenomeni di autolesionismo, che spesso sfociano nel suicidio; 13 i tentativi di suicidio che si contano a Secondigliano, più l’effettivo suicidio nel 2011 di un detenuto di origini tunisine. Ciò che lamentano in particolare i detenuti è la mancata possibilità di ricevere immediati interventi negli ospedali: è la sanità, dunque, la seconda emergenza con cui il centro penitenziario deve fare i conti. Che poi, a ben vedere, le due problematiche risultano in qualche modo correlate: il sovraffollamento, infatti, rende più delicate le condizioni igienico-sanitarie. Tuttavia, nel carcere non mancano le attività che favoriscono il processo di rieducazione e riappacificazione dell’individuo con la società. È presente una palestra polifunzionale, adibita a teatro; proprio quest’anno 11 detenuti si sono esibiti davanti ai propri familiari con un progetto ideato dall’associazione "La Mansarda". La stessa associazione è stata promotrice anche di altre iniziative, come i tornei di calcetto. Il messaggio è chiaro: punire una persona con la reclusione e privarla della sua libertà, non vuol dire privarla anche della sua dignità. Alcuni detenuti lavorano, inoltre, all’impianto di separazione dei materiali, guadagnando circa 400-500 euro al mese. Con l’ordinamento penitenziario del 1975, il lavoro è diventato parte integrante del trattamento rieducativo del detenuto in vista del suo reinserimento nella società. Si ha la sensazione, però, che il lavoro dietro le sbarre sia un "lusso" concesso a pochi. A Secondigliano i "fortunati" detenuti lavoratori sono ben consci di ciò: il lavoro è visto come uno "svago" e come un momento di distacco dalla monotonia di 24 ore nelle celle. Sono principalmente le cooperative sociali a dare lavoro ai detenuti; le imprese profit tradizionali raramente si accontentano della manodopera poco qualificata e instabile che offre il carcere, le cooperative, invece, nascono già con lo scopo di offrire occupazioni a lavoratori svantaggiati. L’inserimento lavorativo del detenuto rappresenta una possibilità per garantirgli una posizione anche una volta uscito dal carcere. La funzione fondamentale del carcere è, o dovrebbe essere, quella riabilitante: a tal scopo, il suo obiettivo primario è la "rieducazione" dell’individuo per un suo successivo reinserimento in società. Dunque, un paese che si dice democratico può considerare accettabili soltanto due funzioni del carcere: la risocializzazione e la differenziazione sociale, ossia quell’attività realizzata dall’individuo per assicurargli una migliore posizione nel contesto sociale al momento dell’uscita dal carcere. Qualsiasi dizionario di latino porterà come prima traduzione del termine "carcer" quella immediata di "carcere" o "prigione". Andando avanti con la lettura, potrebbe saltare all’occhio una cosa parecchio interessante: carcer può anche essere tradotto con gabbia per bestie feroci. Questo pone le basi per fare una semplice osservazione: il significato di un termine può evolvere, così come evolve una società, ma talune sfumature restano ineliminabili. E a questo proposito preme sottolineare che non è un caso che in molti carceri i detenuti siano trattati come bestie feroci (o finiscano per diventarlo). L’ingresso del detenuto in carcere finisce spesso per coincidere con quella che Erving Goffman definisce spoliazione. La spoliazione si ha nel momento in cui il detenuto perde la sua identità per acquisirne una nuova e tale perdita può essere irreversibile (nel caso di condanne molto lunghe). La perdita del sé avviene attraverso la negazione dei contatti e attraverso l’innalzamento di una barriera che separa l’individuo dal mondo esterno; inizia nel momento in cui si assume il "ruolo" di detenuto. Un esperimento di psicologia sociale molto interessante mostra proprio come il ruolo, anche in tempi brevissimi, possa disorientare l’individuo e fargli perdere il contatto con la realtà. Era il 1971 quando un team di ricercatori, guidati dal professore Philip Zimbardo della Stanford, decisero di dare vita ad un esperimento. 24 studenti universitari vennero selezionati tra i 75 che risposero ad un annuncio apparso su un quotidiano; gli sperimentatori si impegnarono a selezionare un campione assolutamente "normale", ragazzi di ceto medio che non manifestavano in alcun modo comportamenti devianti. Ad ognuno di loro venne assegnato a caso il ruolo di "prigioniero" o il ruolo di "guardia". Fin da subito si manifestarono episodi di violenza da parte di entrambi i gruppi. I prigionieri mostrarono ben presto sintomi evidenti di disorientamento e di perdita della realtà; le guardie diventavano sempre più sadiche, investite di potere e controllo. Per Zimbardo la prigione finta era vissuta come vera dai soggetti. L’assegnazione di ruoli aveva portato ad un processo di "deindividuazione": in un gruppo coeso gli individui tendono a perdere l’identità personale e ciò innesca un processo di deresponsabilizzazione collettiva, che porta, talvolta, a comportamenti antisociali. L’esperimento di Zimbardo è tristemente attuale; basti pensare alle torture a cui furono sottoposti i prigionieri iracheni nella prigione di Abu Ghraib ad opera di militari statunitensi. In Italia gli istituti di pena destano preoccupazione, proprio perché spesso alla perdita di libertà è associata la perdita di dignità. Eppure la Costituzione è ben chiara: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". E il carcere di Secondigliano non deve perdere il senso della sua ragion d’essere: è nato nel rispetto della dignità del detenuto in quanto uomo e se questo principio fosse negato in gioco sarebbe la stessa esistenza dello Stato di Diritto. Milano: carcere di Bollate, detenuto inventa una macchina che traccia i rifiuti di Chiara Pracchi Il Fatto Quotidiano, 6 ottobre 2017 In 18 mesi la differenziata è cresciuta fino al 91%. Il detenuto brasiliano Fernando ha inventato un meccanismo che pesa, smista (dopo aver selezionato il materiale), registra l’immondizia. Il successo del congegno è stato immediato, anche perché chi esegue correttamente la divisione può ottenere una telefonata e un colloquio in più al mese. "Non appena sono entrato in carcere, a 19 anni, sono rimasto stupito dallo spreco di cibo che c’era nelle celle e nelle cucine. Mi sono domandato: ma come è possibile che anche qui, nella fascia più bassa della società, ci sia tutto questo spreco?". A parlare è Matteo, uno dei detenuti di Bollate del gruppo "Keep the Planet Green", che con il progetto Riselda ha avviato la raccolta differenziata dei rifiuti nella casa di reclusione. "Quattromila chili di pane al mese vengono buttati via! Quattromila chili!", spiega stupefatto il detenuto. "Poi - continua - ho incontrato Fernando, che ha inventato una macchina in grado di tracciare i rifiuti: in futuro potrebbe dare la possibilità ai cittadini di risparmiare sulla Tari". Fernando è brasiliano. Raccontano i suoi compagni che è nato in una favela e forse per questo è sensibile al tema dello spreco di cibo. Fernando ha chiamato Riselda, cioè con il nome di sua madre, il cassonetto raccoglitore che pesa, smista (dopo aver selezionato il materiale) e registra i rifiuti. Il successo del congegno è immediato: in 18 mesi di lavoro e con il contributo attivo di Amsa e Novamont, che hanno fornito i materiali, il tasso di raccolta differenziata fra i detenuti di Bollate ha raggiunto il 91% (anche se Amsa preferisce attestarsi su un più cauto 80%), laddove la già buona percentuale della città di Milano è al 54%. Per ottenere questo risultato e convincere i detenuti ad adempiere a un dovere che anche i cittadini liberi fanno fatica a sostenere, si è deciso di utilizzare i premi: chi esegue correttamente la divisione dei rifiuti può ottenere una telefonata e un colloquio in più al mese. "È straordinario perché per qualsiasi richiesta, qualsiasi problema ci sia in carcere, tu devi compilare un modulo, il 393, e ora per richiedere la telefonata si scrive: per il progetto di raccolta differenziata", dice Matteo. Un successo per nulla scontato, raggiunto grazie a un’opera di persuasione reciproca e costante, e che sotto il coordinamento dell’operatrice Chiara Maffioletti ha portato all’apprendimento di un metodo. "Abbiamo iniziato raccogliendo dati - continua il detenuto - come la quantità di rifiuti prodotti giornalmente da un detenuto. Fernando tutte le mattine andava fra le celle a pesare la spazzatura con una bilancia da cucina. Potete immaginarvi quanto fosse amato". I ragazzi di Keep the Planet Green sono evidentemente orgogliosi dei risultati raggiunti. "Ora siamo in 40 a lavorarci, fra referenti, volontari e persone che come me possono uscire e tenere i rapporti con Amsa", continua Matteo nel suo ruolo di portavoce del gruppo, forte anche del fatto che il progetto ha portato a 16 nuovi posti di lavoro all’interno del carcere. Adesso il gruppo ha nuovi obiettivi: n primis estendere la differenziata alle altre sezioni della casa circondariale (che in tutto ospita quasi 2000 persone), quindi esportare l’esperienza in altre carceri. Il gruppo sta anche lavorando per costituirsi in associazione, con l’appoggio del Consorzio Vialedeimille, incubatore di imprese carcerarie promosso dal comune di Milano. La speranza è quella di aprire una sede fuori dalla casa di reclusione e di riuscire a vendere il servizio all’esterno. Verona: Fatna Ajiz, predicatrice del Corano in carcere di Gaetano Costa Italia Oggi, 6 ottobre 2017 Fa parte di un progetto per evitare il rischio radicalizzazione. Porta il velo per scelta. "Il Corano non obbliga la donna in nulla. Il velo, per me, è una scelta. Anche se in carcere preferisco portarlo. Se devo parlare di religione e la religione in cui credo e di cui parlo lo prevede, mi sembra giusto farlo. Altrimenti più di qualcuno potrebbe mettermi in dubbio". Fatna Ajiz, marocchina con cittadinanza italiana, è la prima donna musulmana a predicare il Corano ai detenuti di fede islamica della casa circondariale di Montorio, a Verona. L’Ucoii, l’Unione delle comunità islamiche in Italia, ha scelto lei per avviare un progetto sperimentale col Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Otto ragazze, tra cui Ajiz, spiegano il testo sacro dei musulmani in altrettante prigioni. Lo scopo dell’iniziativa è dimostrare che non esiste solo l’islam radicale e che le donne, contrariamente ai principi del fondamentalismo, non sono relegate ai margini della società. Ajiz vive a Verona da 19 anni. Ha un marito e due figli e ha conseguito un master all’università di Padova volto ad analizzare la vita dei detenuti musulmani e il rischio di radicalizzazione nelle carceri italiane. Così è passata da mediatrice culturale a guida spirituale, ruolo che nel carcere di Montorio ricopre da sei mesi. "Quando sono arrivata al carcere di Montorio come mediatrice", ha detto al Corriere del Veneto, "ho spiegato alla direzione, alla polizia penitenziaria e a chi lavora nella struttura quali siano le esigenze e le cose fondamentali per chi segue la fede musulmana. Per esempio, che cosa prevede e che cos’è il Ramadan e che cosa è permesso mangiare. Così, un pò alla volta, anche la struttura penitenziaria ha accolto i detenuti islamici". "Quando l’Ucoii e il Dap hanno dato vita al progetto hanno chiesto una serie di nominativi. E grazie a quel master conseguito a Padova è spuntato il mio nome. Io gli parlo di un islam di pace, d’accoglienza e di convivenza". Un compito che, ha sottolineato Ajiz, non a nulla a che vedere con quello degli imam. "Sia chiaro: io non conduco la preghiera. Per quella del venerdì e per le feste sacre dell’islam viene condotta da imam della comunità islamica veronese. Io faccio altro. Io, se qualcuno di questi uomini esprime il desiderio di parlare della propria fede, vado e discutiamo. E cerchiamo quelle risposte che l’islam sa dare". Un islam moderato e non radicale. "Quando arrivo, sono in pochi a meravigliarsi o a contrariarsi del fatto che io sia una donna", ha proseguito la mediatrice culturale. "Anzi: per qualcuno diventa un elemento quasi rassicurante. Ma dipende molto dai Paesi e dalle tradizione di origine. I marocchini, i tunisini e gli egiziani non hanno alcun problema. Le difficoltà le ho con i pakistani o con gli afgani e, più in generale, con chi arriva da zone in cui l’islam mette la donna ai margini, coprendola anche fisicamente. Alla fine, però, riesco a dialogare anche con loro". Se qualcuno vuole parlare di islam tra le celle di Montorio, Ajiz c’è. "Quando qualcuno ha bisogno, mi avvisano. E io vado a parlargli". Civitavecchia (Rm): il progetto "Clessidra" dell’Asl nella sezione maschile del carcere terzobinario.it, 6 ottobre 2017 Il progetto Clessidra, attivato lo scorso anno dalla Asl Roma 4 e rivolto alle detenute della Casa circondariale di Civitavecchia, quest’anno sarà dedicato anche alla sezione maschile. "Clessidra - spiega l’azienda sanitaria - è un progetto di intervento riabilitativo finalizzato alla tutela del diritto alla salute e al miglioramento della qualità di vita dei detenuti ed ha l’obiettivo di sviluppare un’azione di sistema rivolta alla popolazione carceraria con finalità di attivazione delle risorse personali dei detenuti nell’obiettivo di ridurre la gravità e le conseguenze dei disturbi psichici che si manifestano durante il regime di detenzione. L’obiettivo del progetto è quello di incidere sulla salute psichica per garantire il diritto alla salute". Sono state molteplici le attività che lo scorso anno hanno visto impegnate le detenute. "Lavorare in gruppo - prosegue la Asl - rende l’ambiente carcerario più leggero e piacevole per tutti gli operatori coinvolti, perché in questo progetto sono parte attiva numerose figure, il personale penitenziario, la sicurezza, il centro diurno della Asl Roma 4, l’equipe medica e psichiatrica e le associazioni coinvolte. In corso d’opera il progetto Clessidra è stato inserito nei progetti di Istituto. L’Istituto Penitenziario quindi potrà finanziare il progetto che quest’anno sarà dedicato alla Sezione Maschile. Il laboratorio di presepistica sarà rivolto a due gruppi di detenuti e a gennaio partirà un attività di danza, suono e movimento con la collaborazione dell’Associazione Nessuno Escluso". Cagliari: Doddore Meloni è stato lasciato morire? Denuncia alla Procura linkoristano.it, 6 ottobre 2017 I familiari: "in carcere sottovalutata la sua condizione di salute. Gli hanno negato anche l’estrema unzione". Una denuncia è stata presentata alla Procura della Repubblica di Cagliari perché si accertino eventuali responsabilità sulla morte dell’indipendentista di Terralba e leader del movimento Meris, Doddore Meloni, avvenuta nell’ospedale Santissima Trinità di Cagliari il 5 luglio scorso successivamente a un attacco cardiaco, dopo oltre due mesi di sciopero della fame, accompagnato inizialmente anche dallo sciopero della sete, e dopo un uguale periodo di detenzione nelle carceri di Massama e di Uta. A presentarla la moglie Giovanna Uccheddu e la figlia Francesca Meloni, quest’ultima anche in qualità di presidente e legale rappresentante del movimento Meris. A renderla nota stamane il legale di fiducia, l’avvocato Cristina Puddu, che ha lamentato come a Meloni sia stata negata persino l’estrema unzione che aveva richiesto proprio quando si trovava recluso nel carcere di Uta. "Durante il periodo di carcerazione", si legge nella denuncia, "la condizione psicofisica di Doddore Meloni è stata gravemente sottovalutata e screditata portando al maltrattamento psicologico e fisico del detenuto, abbandonato a se stesso, oltretutto con pericolose conseguenze, sia per quanto riguarda il trattamento sanitario riservatogli, il costante ritardo nell’intervento medico, sia dentro la struttura penitenziaria che in quella ospedaliera, nonché per l’omissione di un provvedimento salvavita quale sarebbe stata la concessione a Meloni della detenzione domiciliare più volte richiesta a causa dell’incompatibilità del suo stato di salute con l’ambiente carcerario che poi di fatto ha portato alla morte di Meloni". Nelle 14 pagine della denuncia si ricostruisce con riferimenti circostanziati tutto il periodo di detenzione di Doddore Meloni nelle carceri di Massama e Uta e nel carcere di Brescia, dov’era stato tradotto in occasione dell’udienza sull’inchiesta dell’indipendentismo veneto e lombardo nel quale Meloni risultava imputato. Si ricostruiscono anche i periodi di ricovero nel centro clinico di Uta, all’Ospedale civile di Brescia e nell’ospedale Santissima Trinità di Cagliari. Soprattutto si lamenta, appunto, una presunta sottovalutazione delle condizioni di salute di Meloni. Contestazione che viene mossa anche al magistrato di sorveglianza, al quale si era presentata istanza perché le condizioni di Doddore Meloni giudicate dal suo legale non più compatibili con la detenzione in una struttura carceraria. "Chiediamo che questa denuncia sia inserita nel fascicolo aperto dalla Procura di Cagliarti per la morte di Doddore Meloni", ha detto l’avvocato Cristina Puddu annunciando che con molta probabilità slitteranno i termini di deposito della perizia medica sulla morte di Meloni a cui sta lavorando il perito incaricato, il dottor Roberto Demontis, supportato anche da due consulenti, un anatomopatologo e un professionista che deve valutare i riferimenti sul metabolismo. "I termini sono fissati per dopodomani", ha spiegato l’avvocato Puddu, "ma ancora mancano i risultati di alcuni esami". Il legale la scorsa estate aveva annunciato anche la nomina quale perito di parte della famiglia Meloni del professor Francesco Maria Avato, direttore dell’Istituto di medicina legale dell’Università di Ferrara, che ha seguito ultimamente la vicenda del ciclista Marco Pantani. Prato: da detenuti a tirocinanti, quando lo stage apre le porte del carcere di Annalisa Ausilio La Repubblica, 6 ottobre 2017 Nicola ha vissuto gli ultimi dieci anni della sua vita dentro una cella, Endry (nomi di fantasia) oltre sedici. Immaginare il ritorno alla libertà è stato per loro un conforto nei momenti più duri. Ma difficilmente avrebbero pensato che l’occasione per uscire da quelle mura si sarebbe presentata sotto forma di tirocinio. Operatore con i disabili mentali "Una sensazione travolgente, un misto di elettrizzante felicità e paura del nuovo" racconta Nicola, 41 anni "nel giro di pochi minuti sono passato dalla condizione di educando a quella di educatore". È ansioso, dopo anni in cella passati a preparare esami è arrivato per lui il momento di mettere in pratica quello che ha appreso sui libri. Nicola è stato uno studente-detenuto, si è iscritto al corso di laurea in Psicologia del lavoro dell’università di Urbino nel 2006 dal carcere di Fossombrone per poi passare alla facoltà di Scienze della formazione dell’Università di Firenze dopo il trasferimento nell’istituto penitenziario di Prato. "Studiare significava evadere dalla pesantezza della detenzione", spiega. Il tirocinio formativo previsto nel suo corso di studi, quattrocento ore per dieci crediti formativi, ha significato la possibilità di ritornare in quel mondo che da anni vedeva attraverso le sbarre. Così ha lasciato la cella per assistere persone con disturbi psichiatrici in un centro gestito dalla cooperativa Alice. "Ho ottenuto un articolo 21 esterno, un beneficio concesso dal direttore dell’istituto penitenziario che consente di lavorare all’esterno". Per tre mesi, da ottobre 2011 a gennaio 2012, Nicola ha assistito gli utenti della casa famiglia, rientrando in carcere alle otto di sera. "La mia condizione mi ha permesso di sviluppare empatia con gli ospiti, trascorrevamo le giornate insieme ma la sera anche loro come me andavano a dormire in una stanza, beh certo loro, a differenza mia, erano liberi di lasciare il centro in qualsiasi momento". La fine del tirocinio avrebbe significato per Nicola il ritorno al normale regime detentivo fino alla fine della pena. Attraverso l’università di Firenze è riuscito però ad ottenere un altro stage: stavolta presso la polisportiva Aurora, che organizza attività ricreative per persone affette da disabilità mentale. "La psichiatria mi ha sempre interessato, lavorare con queste persone è un’esperienza profondamente formativa che mi ha fatto conoscere una parte di me che non credevo di possedere". Per sei mesi quindi ha giocato sui campi di calcio, rugby e pallavolo con gli utenti della Polisportiva condividendo con loro passeggiate nei boschi e gite nell’hinterland pratese. "Grazie agli stage ho avuto la possibilità di acquisire competenze e conoscenze fondamentali per iniziare un percorso di reinserimento". Tre mesi fa ha ottenuto la scarcerazione e, come tutti gli stagisti, ha cercato una possibilità di inserimento lavorativo. Magari proprio nella cooperativa Alice: "Sono rimasti molto soddisfatti del mio lavoro e forse una possibilità c’è". Per ora scrive la tesi - la discuterà a febbraio - e per arrotondare, fa lo spedizioniere. Tramite l’assistente sociale ha ottenuto una borsa lavoro dal Comune di Prato, lavorerà come giardiniere. Prima dell’assunzione, tre mesi di tirocinio con un rimborso spese di 500 euro. Obiettivo: diventare assistente sociale. Anche Endry ha studiato nel carcere di Prato, anni sui libri inseguendo un sogno. Durante il suo percorso universitario ha svolto tre tirocini, due dei quali in centri di assistenza per anziani, "i nonni" li definisce. "Uno crede che dopo tanti anni dietro le sbarre non ci sia niente di peggio del carcere, ma anche fuori ci sono tante situazioni drammatiche. Il mio primo contatto con l’esterno è stato con la sofferenza". Lui, che ha convissuto sia con il dolore psicologico che fisico, qualche hanno fa ha subìto un pesante intervento chirurgico, ha conosciuto in questa condizione di marginalità l’altruismo degli operatori. "Vedere la dedizione di queste persone, l’aiuto che forniscono quotidianamente ai nonni mi ha reso ancora più convinto della mia scelta". Nel 2004, a quarantacinque anni, Endry si è iscritto al corso di laurea in Servizio sociale dalla casa circondariale di Prato, dopo aver preso la licenza elementare, media e superiore dietro le sbarre. Per imparare l’italiano ha dovuto mettere da parte il diploma preso in Albania, il suo paese d’origine e ricominciare da zero. "Ho scelto questa facoltà perché voglio aiutare gli altri, rendermi utile come le persone che mi sono state vicine, senza le quali non avrei mai saputo affrontare una condanna di trent’anni". Dopo l’assistenza ai "nonni", ha svolto il terzo stage previsto dal suo corso di laurea, a fianco di un’assistente sociale in una struttura delle Asl. Un’esperienza più lunga, di 440 ore cioè quasi tre mesi a tempo pieno: "In questa occasione ho capito la complessità del lavoro che voglio fare". Al momento Endry lavora all’esterno e rientra in carcere la sera. Sa bene che la sua strada sarà in salita date le difficoltà di inserimento in cooperative sociali e la sua condizione di detenuto. Fra pochi mesi conseguirà la laurea magistrale ed è determinato a portare avanti il suo obiettivo. "Se mi sarà concessa questa possibilità sarò l’uomo più felice della terra, in caso contrario" promette "io comunque non mollo". Bologna: "Cinevasioni", torna il cinema in carcere Corriere di Bologna, 6 ottobre 2017 Paolo Billi presidente della giuria formata da detenuti. In sala anche studenti. Se l’anno scorso una rassegna di film usciti da pochi mesi all’interno di una prigione era stata definita una "pazza idea" dallo stesso direttore artistico Filippo Vendemmiati, la seconda edizione di "Cinevasioni", organizzata dalla D.E.R, l’associazione di documentaristi dell’Emilia Romagna, da lunedì a sabato nella sala cinema della Casa circondariale della Dozza, è una conferma nel segno della continuità. Dieci film del 2016, tra finzione e documentari, presentati dai loro autori a un pubblico che oltre alla comunità di detenuti accoglierà presenze dall’esterno, con info su www.cinevasioni.it. Sotto l’ombrello dello slogan "Il cinema fa scuola", ecco studenti di scuole superiori bolognesi come il liceo Laura Bassi, universitari di Dams e Citem e detenuti che hanno partecipato al laboratorio "Ciakincarcere". Saranno loro a comporre la giuria presieduta dal regista teatrale Paolo Billi, che assegnerà la Farfalla di ferro, fabbricata nell’officina della Dozza. Un altro premio, quello alla carriera andato l’anno scorso a Claudia Cardinale, verrà consegnato a Carlo Delle Piane. "Nella scorsa edizione - segnala Vendemmiati - la maggior parte dei film sono stati scelti dall’organizzazione e chiesti direttamente alle case di produzione. Quest’anno invece le opere sono arrivate tramite iscrizione e hanno dovuto passare una selezione per arrivare nella rosa dei 10 titoli del festival". Così nel cartellone, due proiezioni giornaliere introdotte dai critici del Sncci, figurano film come Sicilian Ghost Story del duo Grassadonia-Piazza, Chi salverà le rose? di Cesare Furesi, con Delle Piane e Lando Buzzanca, spinoff di Regalo di Natale di Avati, La pelle dell’orso di Marco Segato con Marco Paolini, The Habit of Beauty di Mirko Pincelli con Francesca Neri e Tutto quello che vuoi di Francesco Bruni. In apertura, fuori concorso, Shalom di Enza Negroni sull’esperienza, nata proprio alla Dozza, del Coro Papageno. Chiusura affidata invece al film di animazione Gatta Cenerentola, una prima visione assoluta anche per le sale commerciali. Infatti la nuova sfida, secondo Vendemmiati, sarà proprio quella di "realizzare una vera e propria sala cinematografica dentro il carcere, che trasmetta film in prima visione in contemporanea alle sale esterne e porti registi e autori a presentare i propri film. Il finanziatore c’è già, Hera, i film pure, li porterebbe Rai Cinema, e lo staff di Cinevasioni curerebbe l’organizzazione. L’unico ostacolo ora è di tipo burocratico-organizzativo, perché sarebbe un ulteriore gravoso impegno per la Dozza". Terrorismo. Espulsioni, foreign fighter e detenuti radicalizzati ecco i segnali del pericolo di Fabio Tonacci La Repubblica, 6 ottobre 2017 Anis Amri, il terrorista della strage di Berlino passato dall’Italia, era tunisino. Ahmed Hannachi, il killer delle due donne a Marsiglia che si è sposato ad Aprilia con un’italiana, era tunisino. Triki Mohamed, Abdelkader Rehemi, Moez Guidaoui, Alhaabi Hisham, espulsi nell’ultimo anno e mezzo dall’Agro Pontino, erano tunisini. Ora il sindaco di Pozzallo scrive al ministro Minniti perché è preoccupato dal fenomeno migratorio che parte dalla Tunisia "per le possibili infiltrazioni di soggetti appartenenti alle cellule jihadiste". Lette tutte insieme, queste circostanze bastano a definire l’esistenza di un "problema tunisino" per l’Italia? L’unica strada sicura per non scivolare nella facile generalizzazione o nella conclusione sommaria è quella di affidarsi ai numeri, alle statistiche reali stilate degli apparati che si occupano di Antiterrorismo. E dunque. Nella lista delle espulsioni decise dal Viminale per motivi di pericolosità sociale legata all’estremismo islamista - 213 casi dal gennaio 2015 ad oggi - effettivamente la componente dei tunisini è assai folta: ne sono stati allontanati 64, quota che vale poco meno di un terzo del totale. L’ultimo ad essere rimpatriato con volo diretto per Tunisi, lo scorso 8 settembre, è stato un imam di 44 anni che viveva a Milano, più volte arrestato per reati comuni e spaccio: secondo un report del nostro servizio di intelligence aveva aderito all’ideologia del Califfato e stava cercando proseliti anche tra piccoli criminali italiani residenti nel suo stesso quartiere. È un fatto, poi, che la Tunisia dopo la Rivoluzione dei Gelsomini sia diventata il paese africano da cui è partito il numero più consistente di foreign fighter per andare a combattere nelle file dello Stato Islamico in Siria, Iraq, Yemen, Mali e Libia: secondo una stima dell’Onu risalente al 2015 sarebbero almeno 5.000, in maggioranza di età compresa tra i 18 e i 35 anni. Neanche l’Arabia Saudita wahabita ne ha esportati tanti. "Non è semplice dare una spiegazione univoca al paradosso tunisino", ragiona Lorenzo Vidino, direttore del Programma Terrorismo dell’Istituto per gli studi di politica internazionale. "Paradosso perché è il Paese più laico del Nord Africa, eppure allo stesso tempo è quello dove si percepiscono fermenti jihadisti più caldi e pericolosi. Negli anni della nascita dell’Isis, tra il 2012 e il 2014, a causa del crollo dell’apparato repressivo del regime di Ben Alì, le reti di militanti salafiti hanno potuto proliferare senza troppa fatica. Nello stesso periodo ha preso potere il movimento della Rinascita al-Nahda che è comunque di stampo islamista, seppur moderato, e non si è voluto opporre pubblicamente a questi gruppi". Quindi il grande esodo di miliziani verso il Califfato. Tant’è che adesso il governo tunisino si trova con una grana da risolvere: gestire e rendere innocui i reduci, almeno 800, tornati in patria con in testa l’ideologia violenta di Al Baghdadi e nel braccio le capacità militari acquisite sul campo per metterla in pratica. Tornando all’Italia, e allo strumento delle espulsioni che il nostro governo a scopo preventivo ha deciso di utilizzare più intensamente rispetto ad altri Paesi europei, c’è da dire che i tunisini non sono nemmeno i primi, nell’elenco del ministero dell’Interno: i cittadini di nazionalità marocchina allontanati sono 73, 9 di più, sparsi uniformemente sul territorio. Un discorso a parte lo meritano le carceri, dove gli analisti dell’Antiterrorismo riescono con più facilità a tastare il polso del fanatismo tra chi gravita nella "comunità" della piccola criminalità. Due dati. Il primo. Il numero dei detenuti monitorati a vario livello perché a rischio radicalizzazione è cresciuto: erano 393 a febbraio, oggi sono diventati 500. Il secondo. In questo gruppo i carcerati tunisini sotto controllo sono almeno il 30 per cento. Basta questo a mettere sotto accusa un intero popolo? Ovviamente no, non può e non deve. C’è però una questione sicurezza, che riguarda l’Italia e la di nuovo trafficata rotta tunisina, che non va sottovalutato. Razzismo. "Italia sempre più intollerante" 1.483 aggressioni in tre anni di Carlo Lania Il Manifesto, 6 ottobre 2017 La denuncia nel libro bianco dell’associazione Lunaria. Che non risparmia la politica. Siamo un Paese sempre più intollerante e violento. Negli ultimi tre anni, dal 1 gennaio 2015 al 31 maggio 2017, sono stati ben 1.483 gli atti discriminatori compiuti ai danni di cittadini stranieri. Quando è andata bene si è trattato dell’insulto lanciato contro l’immigrato incrociato per la strada, o magari in un negozio. Quando è andata male si è arrivati all’aggressione fisica e all’omicidio. Tutte manifestazioni di un razzismo diverso da quello strisciante, quasi nascosto al quale abbiamo assistito in passato. Quello di oggi è ostentato, rivendicato, perfino mostrato con vanto in video postati on line. E quindi più pericoloso, anche perché gli haters si spalleggiano incoraggiandosi a vicenda. "Negli ultimi tre anni si è verificata una degenerazione nel rapporto con chi viene da lontano, con un’insofferenza crescente non solo verso chi cerca aiuto, ma anche verso chi lo offre", spiega il giornalista Pietro Del Soldà presentando "Cronache di ordinario razzismo", quarto libro bianco sul razzismo in Italia dell’associazione Lunaria. Un’insofferenza che trova alimento anche nei media e, sempre più spesso, nella politica. Un esempio è la determinazione di alcune forze politiche nell’osteggiare l’approvazione della riforma della cittadinanza. Ma anche, come spiega la presidente di Lunaria, Grazia Naletto, "la svolta securitaria impressa dalle due leggi Orlando-Minniti e, prima ancora, la scelta di interrompere l’operazione Mare nostrum e poi la campagna contro le Ong per fermare gli arrivi dei migranti". Tra i dati del libro bianco che colpiscono di più c’è la constatazione che la maggior parte dei casi monitorati vede come protagonisti attori istituzionale (615), seguiti da gruppi (359) e individui singoli (337), quindi personaggi dello sport e tifoserie (117), operatori dei media (35) e infine ignoti (20). Lungo, purtroppo, l’elenco delle morti collegabili direttamente al razzismo. Il libri ricorda ad esempio il caso di Muhammad Shazad Kan, 28enne pakistano picchiato a morte a Roma il 18 settembre del 2014. O come quello di Roberto Pantic, ucciso nella notte tra il 21 e 22 febbraio 2015 con un colpo di fucile mentre dormiva nella sua roulotte. Ma anche la morte, se possibile ancora più assurda, di Sare Mamadou assassinato il 21 settembre 2015 a Lucera, in provincia di Foggia, per aver rubato in un campo un melone marcio. Ma per Lunaria anche le istituzioni e la politica hanno le loro responsabilità. Oltre alle già citate legge Orlando-Minniti, il libro richiama l’attenzione su come si sia tentato di mettere ai margini, se non a criminalizzare, tutte quelle situazioni in cui singoli cittadini o organizzazioni si sono adoperati a favore dei migranti. "La novità rispetto al passato - spiega Lunaria - è la delegittimazione operata nei confronti della società civile solidale: dalla che accoglie i richiedenti asilo nelle nostre città, alle Ong che prestano operazioni di soccorso in mare, sino ad arrivare a coloro che offrono solidarietà vicino alle frontiere". Cosa abbia significato rimanere vittime di quella che è stata definita "una narrazione tossica" lo spiega Gabriele Eminente, direttore generale di Medici senza frontiere, una delle Ong maggiormente prese di mira l’estate scorsa. "È stata fatta una vera criminalizzazione della solidarietà", spiega Eminente. "A partire dall’aprile scorso alcuni politici, tra i quali il vicepresidente della Camera si sono posizionati di colpo in modo aggressivo contro le Ong. Ma il momento peggiore è stato dopo il nostro rifiuto a firmare il codice di condotta per il soccorso in mare. Non firmare quel codice non significa mettersi fuori dalla legge, ma il messaggio che è passato è stato proprio quello: "Non firmando vi mettete fuori da un sistema", ci è stato detto. Ci vorrà tempo per disintossicare questa retorica e questa narrazione". Ius soli. Delrio rilancia: "proviamo a votare e se non c’è maggioranza, amen" La Repubblica, 6 ottobre 2017 "Sui diritti non ci si astiene, né ci si lega alla disciplina di partito", ha continuato il Ministro. "NON so se ci sarà la maggioranza o meno. Se non ce la faremo amen". Così il ministro delle infrastrutture Graziano Delrio torna sul tema dello Ius soli, poche ore dopo aver annunciato la sua adesione allo sciopero della fame proposto da insegnanti e parlamentari. Parlando dalle poltrone di Porta a Porta, il messaggio del Ministro è chiaro: la partita non è ancora chiusa. "Il mio amen - ha precisato Delrio - non indica un senso di rinuncia, solo il fatto che se non ci sarà la maggioranza per approvare la legge ne prenderemo atto. Ma intanto ci si prova fino alla fine". "Questo è un voto di coscienza individuale dei parlamentari", ha continuato il Ministro prima di ricordare che, secondo l’articolo 67 della costituzione, "ogni membro dell’assemblea deve rispondere alla nazione", pertanto "sui diritti non ci si lega alla disciplina di partito né ci si astiene". E ai cronisti che chiedono se esiste l’ipotesi di porre la fiducia, la risposta è secca: "Non è cambiato nulla. Le valutazioni si fanno tutte". Lo sciopero. All’iniziativa promossa da Luigi Manconi, Elena Ferrara e Paolo Corsini per sensibilizzare il Parlamento sul tema della cittadinanza e non lasciar morire la riforma dello Ius soli, hanno già aderito 800 insegnanti e 90 parlamentari tra deputati e senatori. Con Graziano Delrio, in questi giorni si sono uniti anche i sottosegretari Benedetto Della Vedova e Angelo Rughetti. E non c’e solo lo sciopero della fame tra le iniziative in programma per chiedere l’approvazione dello Ius soli entro la fine della legislatura. Il pomeriggio del 13 ottobre, infatti, a partire dalle 16, davanti a Montecitorio è prevista una manifestazione promossa dalla rete degli "Italiani senza cittadinanza". Il piano del Pd per lo Ius soli. Convincere gli alfaniani a uscire dall’aula del Senato di Francesca Schianchi La Stampa, 6 ottobre 2017 Quorum abbassato e la legge potrebbe passare con chi ci sta. "Io voglio farcela, voglio portare a casa lo ius soli". Nel tardo pomeriggio, in un Senato ormai quasi deserto dopo le votazioni del Def, il capogruppo del Pd Luigi Zanda lascia ancora una possibilità alla legge sulla cittadinanza. Riservatamente, sottotraccia, lì a Palazzo Madama dove il provvedimento è spiaggiato da due anni, si continua a lavorare: e chi, nei piani dei dem, potrebbe aiutare a raggiungere l’obiettivo, sono proprio gli alfaniani che hanno imposto uno stop al testo. Una bocciatura arrivata una decina di giorni fa: "Una cosa giusta fatta al momento sbagliato può diventare una cosa sbagliata", la spiegazione del leader di Ap, il ministro Alfano. Tanto netta da far sbilanciare la sottosegretaria Boschi - "non ci sono i numeri" - e convincere molti che le speranze di far passare la legge sono ridotte al lumicino. Sono cominciate le critiche e le iniziative di protesta: l’ultima in ordine di tempo, lo sciopero della fame a staffetta a cui aderiscono il ministro Graziano Delrio ("il parlamentare risponde alla nazione, non alla disciplina di partito: sui diritti civili non ci si astiene") e altri membri del governo (il viceministro Mario Giro, i sottosegretari Della Vedova, Olivero e Rughetti), oltre a una settantina di parlamentari e, in forse, la presidente della Camera Boldrini. Eppure, senza troppo darne notizia, c’è chi tra i dem del Senato non ha desistito, lavorando dietro le quinte per convincere gli alleati e permettere al premier Gentiloni di mantenere la promessa: "La approviamo entro l’autunno". Il piano messo a punto dal Pd prevede il coinvolgimento di Alfano e la sua truppa (in Senato sono 24), ma senza pretendere che votino la legge. La proposta che stanno avanzando al ministro degli Esteri e ai suoi è una sorta di compromesso: lasciate che portiamo il testo in Aula, che lo votiamo con chi ci sta (Sinistra italiana, dall’opposizione, ha dato la disponibilità addirittura a una "fiducia di scopo"), e voi dateci una mano uscendo dall’Aula, abbassando i numeri per ottenere una maggioranza. Tranne chi di loro - e qualcuno ci sarebbe - se la dovesse sentire di dare il suo sì a titolo personale. In questo modo, è il ragionamento dei dem, i centristi andrebbero incontro al mondo cattolico più vicino a papa Francesco - quello che col segretario della Cei monsignor Nunzio Galantino ha biasimato il fatto che si sia accelerato sui diritti gay e non su quelli di cittadinanza - ma senza intestarsi la legge. Una via di mezzo non scontata, visto che i voti sono faticosamente da cercare uno a uno, ma che se realizzata faciliterebbe anche la discussione in corso tra Pd e Ap su una possibile alleanza futura. E che ci sia qualche spiraglio di apertura, lo si capisce dalle parole della senatrice Simona Vicari: "Ho parlato col ministro Finocchiaro: se ci daranno la possibilità di andare un minimo avanti e non fare tristi battaglie elettorali ce la possiamo fare". Al momento, ufficialmente, la richiesta di Ap è di qualche modifica al testo. Il problema sono i tempi stretti: "L’ideale sarebbe chiudere in Aula prima delle Regionali siciliane di novembre, perché, dopo, può succedere di tutto", rivela chi è al corrente della trattativa, alludendo al rischio di fibrillazioni se il Pd, come previsto dai sondaggi, dovesse andare male nell’isola. Il segretario dem, Matteo Renzi, di ius soli non parla più. È una legge che, giura, avrebbe voluto portare a casa, ma ha lasciato che sia Gentiloni a decidere come affrontare la questione "e per noi andrà bene", il suo ritornello. Non a caso, ieri, né dal giornale online Democratica né dalla sua enews ha espresso una parola sullo sciopero della fame. Lascia che tra governo e Palazzo Madama si lavori per cercare i numeri necessari e convincere Alfano e i suoi a una "collaborazione passiva". "Non so se ci sarà la maggioranza o meno", commenta Delrio, ormai volto di questa battaglia: "Se non ce la facciamo, amen: ma mi interessa fare un dibattito tranquillo e ragionevole". Brasile. Battisti e l’ipotesi della messinscena: farsi processare per evitare l’estradizione di Emiliano Guanella La Stampa, 6 ottobre 2017 Sentito dal giudice anti-narcos in videoconferenza. Se c’è un procedimento, non può essere consegnato. Si è difeso ostentando la massima sicurezza possibile Cesare Battisti, ma nel frattempo cresce il sospetto che il suo non sia stato un passo falso né un tentativo di fuga, ma un’autorete voluta, pensando alla battaglia che stava per arrivare sull’estradizione in Italia. L’ex terrorista è stato sentito ieri in videoconferenza da Odilon de Oliveira, giudice federale del Mato Grosso conosciuto in Brasile per aver incarcerato super trafficanti e confiscato i loro patrimoni. Alla polizia federale brasiliana che l’ha arrestato mentre stava cercando di andare in Bolivia, Battisti ha sostenuto la tesi della gita fuori porta; con i suoi due amici voleva semplicemente andare a passare qualche giorno a pescare nei laghi della regione di Puerto Suarez. Sul fatto che avesse con sé una somma equivalente al doppio di quanto permesso portare a chi lascia il Brasile, ha spiegato che non era a conoscenza di tale norma e quei soldi servivano per comprare articoli in cuoio, a buon mercato dall’altra parte della frontiera. Il primo sospetto è stato quella della fuga, per evitare di essere colto di sorpresa da un’eventuale decisione del presidente brasiliano Temer, sollecitato formalmente dall’Italia a revocare la negativa all’estradizione espressa nel 2010 da Lula da Silva. Ma se a pensare male a volte ci si azzecca, basta fare un passaggio in più, con le leggi brasiliane alla mano, per capire che, a conti fatti, questo "incidente di percorso" a Battisti, in fondo, potrebbe alla lunga convenire. L’esportazione illegale di valuta è un delitto penale in Brasile ed è proprio un processo in loco che potrebbe blindare Battisti da questa nuova offensiva diplomatica italiana e dal cambio di vento politico a Brasilia. È il professore di diritto penale Davi Tangerino della Fondazione Getulio Vargas di San Paolo a spiegare tecnicamente quello che potrebbe succedere. "Secondo l’articolo 89 dello Statuto degli stranieri vigente, un cittadino di un altro Paese non può essere estradato se è in corso un processo per un crimine commesso in territorio brasiliano". In sostanza, dati i tempi non certo velocissimi della giustizia brasiliana, potrebbero passare anche degli anni. Lo stesso Statuto, promulgato all’epoca del regime militare e anteriore all’attuale Costituzione del 1983, permette un’altra via, quella dell’espulsione, che può essere decisa dal Presidente della Repubblica considerando (articolo 62) la pericolosità del soggetto o l’"indesiderabilità" dello stesso. Ma anche qui c’è un possibile intoppo. Battisti è sposato con una brasiliana e si è visto riconoscere nel 2016 la paternità di un figlio di due anni e mezzo frutto di una relazione precedente. E qui scatterebbe l’articolo 75, che impedisce l’espulsione di stranieri che abbiano la tutela o facciano da sostegno economico ad un figlio brasiliano. Quindi né estradizione, né espulsione. Si apre così una lunga battaglia giudiziaria. Il romanziere noir Battisti, che ieri ha giocato la parte dell’ignaro turista a passeggio nel Paese vicino, potrebbe essersi costruito una blindatura perfetta, scovando fra i cavilli della legge del Paese che lo ospita da più di dieci anni. E a quel punto anche un’intesa ai massimi livelli fra Roma e Brasilia potrebbe non bastare per riportarlo in patria e fargli scontare la condanna all’ergastolo per i quattro omicidi commessi negli anni di piombo. Brasile: Caso Battisti, il salvacondotto che gli diede Lula forse non può essere ritirato di Angela Nocioni Il Dubbio, 6 ottobre 2017 Orlando: "vogliamo l’estradizione". Ma sarà complicato. Un decreto del presidente della Repubblica del Brasile non può essere revocato passati cinque anni dal giorno in cui è stato firmato. Se non esistono eccezioni o escamotage legali a questa norma, l’ex militante dei Proletari armati per il comunismo Cesare Battisti, 63 anni, condannato in Italia all’ergastolo per quattro omicidi e fermato mercoledì mentre stava passando insieme ad altre due brasiliani (del sindacato dell’Università di San Paolo tra cui l’avvocato Vanderlei Lima Sima) a bordo di un taxi il confine brasiliano con la Bolivia, non potrebbe a norma di legge essere estradato in Italia dal Brasile perché il decreto con cui l’ex presidente Lula da Silva respinse la richiesta di estradizione italiana è del 31 dicembre del 2010. La inaggirabilità di questa norma è però tutt’altro che scontata. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ieri, ha detto: "L’Italia è fortemente determinata a far sì che Cesare Battisti sconti la sua pena nel nostro Paese, anche per restituire in parte ciò che è stato tolto alla nostra comunità e ciò che è stato inflitto alle vittime del terrorismo. L’estradizione è possibile, l’Italia la chiede da tempo, la richiesta dell’Italia rimane ferma, ci sono tutti i presupposti sulla base del diritto internazionale perché questa sia realizzata". I quattro omicidi per i quali Battisti è stato condannato sono: omicidio Santoro, maresciallo di polizia penitenziaria (Udine, 1978); omicidio Sabbadin, commerciante (provincia di Venezia, 1979); omicidio Torreggiani, gioielliere (Milano, 1979); assassinio Campagna, agente di polizia (Milano, 1979). La partita politica per tentare di ottenere l’estradizione è stata riaperta di fatto dall’arrivo al governo del Brasile di Michel Temer, tenuto in piedi (in bilico per l’esattezza: ha il record di popolarità negativa nella storia del Brasile) da una maggioranza di destra, opposta a quella dell’ex governo Lula. Ciò non vuol dire che Temer tenga particolarmente a rispedire Battisti in Italia, il caso laggiù non ha mai appassionato l’opinione pubblica. Potrebbe interessare molto a Temer, però, fare un piacere all’Italia. Ieri sera Battisti era ancora in stato di fermo, non d’arresto. Se venisse confermato che nell’auto in cui viaggiava è stata trovata cocaina, quella potrebbe essere la ragione per convalidare il fermo. Altrimenti, entro poche ore dovrebbe essere per legge scarcerato. Battisti ha dichiarato che stava andando a pescare, ma la polizia non ha trovato attrezzature da pesca in auto. Aveva con sé indirizzi boliviani, 1300 euro e 6000 dollari in contanti. Il totale eccede il limite massimo di denaro con cui si può passare il confine, ma si tratta di un illecito amministrativo. Battisti ha lo status migratorio di cittadino straniero con permesso di residenza e di lavoro permanente. Gli è stato concesso dal ministero dell’interno brasiliano nel 2011 perché dopo non averlo estradato era necessario per il Brasile dargli un documento che lo regolarizzasse come straniero presente nel paese. Il Tribunale supremo, massimo organo giudiziario del Brasile, chiamato a valutare la sua estradibilità, aveva dato parere positivo auspicando che il presidente della repubblica, cui per legge spetta l’ultima parola sulle richieste di estradizione, decidesse di accettare la richiesta dell’Italia. Lula decise invece di respingerla, com’era in suo potere fare. Sulla vicenda Battisti si giocò allora una partita tra poteri dello Stato - Tribunale supremo contro Presidenza della repubblica - che non si è mai definitivamente chiusa. Buona parte dell’alta magistratura brasiliana non ha digerito la mossa di Lula, considerata uno schiaffo dell’esecutivo al giudiziario. Buona parte del governo di allora, considerava l’insistenza della magistratura sul caso Battisti un tentativo di mettere in difficoltà il partito dei lavoratori al potere. L’unico comportamento imputabile a Battisti finora da quando è in Brasile è quello di essere entrato nel Paese con un documento falso, reato per il quale è stato già condannato ed ha già scontato la relativa pena. Cesare Battisti nel 1981 evase dal carcere di Frosinone dove stava scontando una condanna per rapina e si rifugiò in Francia. Poi si trasferì in Messico. Nel frattempo, in Italia, venne condannato in contumacia all’ergastolo per quattro omicidi. Nel 1990 tornò a Parigi, protetto dalla " dottrina Mitterrand", dove venne raggiunto da un mandato di arresto internazionale. Dopo quattro mesi fu liberato perché dichiarato "non estradabile". Nel 1993 la sentenza definitiva della Corte d’Appello di Milano: ergastolo. Nel marzo 2004 venne nuovamente arrestato a Parigi, in seguito a una nuova richiesta di estradizione e poi rimesso in libertà, con l’obbligo della firma. Due mesi dopo la Corte d’appello di Parigi accolse la richiesta di estradizione italiana, ma intanto Battisti era fuggito in Brasile. Nel marzo del 2007 Battisti venne arrestato in Brasile. Nel gennaio 2009 il ministro della Giustizia brasiliano, Tarso Genro, concesse a Battisti lo status di rifugiato politico, poi revocato. Battisti è perciò attualmente un cittadino straniero con residenza permanente in Brasile, in temporaneo stato di fermo. È padre di due minori cittadini brasiliani, il che potrebbe complicare la sua estradizione. Libia. "Lui ci ha torturato", le vittime a confronto il carceriere del lager per migranti di Francesco Patanè La Repubblica, 6 ottobre 2017 In tribunale a Palermo l’incidente probatorio contro l’uomo accusato di omicidi, violenze sessuali e sevizie contro i profughi nel "ghetto di Alì il libico". A giorni la procura chiederà il giudizio immediato per lui e il complice. "È lui il mio carceriere, l’uomo che mi ha torturato, che mi ha sequestrato e picchiato nel ghetto di Alì in Libia. È lui che ho visto mentre uccideva due persone, che ha violentato donne, che mi ha fatto vivere in quell’inferno per mesi, che mi ha costretto a chiamare i miei parenti per farsi consegnare i soldi". Quattro vittime della tratta di esseri umani oggi pomeriggio hanno riconosciuto il 25enne nigeriano Jhon Ogais, in arte Rambo, come uno dei capi del "ghetto di Alì il libico", una sorta di lager a Sabhah nella zona meridionale della Libia al confine con il Sudan. Sono arrivati da tutta Italia, dove sono ospitati nei centri di accoglienza, per l’incidente probatorio chiesto dai sostituti procuratori palermitani Geri Ferrara e Giorgia Spiri nell’inchiesta sul Ghetto di Alì. Tutti e quattro non hanno avuto alcun dubbio nel riconoscere Rambo, uno dei due feroci carcerieri della fortezza libica. Una sorta di "prigione di mezzo" dove vengono rinchiusi i migranti in arrivo dall’Africa centrale. Dove le centinaia di disperati che cercano di raggiungere le coste libiche per salire su un gommone devono pagare per essere rilasciati e continuare il loro viaggio della speranza verso la costa libica dove poi pagheranno ancora per imbarcarsi. Nell’incidente probatorio di oggi erano convocati in sette per "inchiodare" Rambo il carceriere. Tre di loro non hanno fatto in tempo ad arrivare al carcere Pagliarelli dove il gip Roberto Riggio ha disposto l’accertamento irripetibile. Lo faranno venerdì prossimo quando si concluderà l’incidente probatorio. E non perché non volessero presentarsi, ma a causa delle intemperanze di Rambo, violento e aggressivo con chiunque lo avvicina. Talmente incontrollabile che a fine settembre nella prima data fissata per l’incidente probatorio Rambo ha distrutto una sala del Pagliarelli, aggredito gli altri soggetti che gli sono stati messi a fianco durante il riconoscimento. Per questo il medico del carcere solo stamattina ha dato il via libera al riconoscimento. Un preavviso troppo breve per chi arrivava dal nord Italia. Ma già quanto dichiarato dalle quattro vittime oggi è sufficiente alla procura per chiedere il giudizio immediato di Rambo, che verrà depositato nei prossimi giorni. Oltre che per il nigeriano di 25 anni i sostituti Spiri e Ferrara chiederanno il giudizio anche per Sam Eric Ackom, ghanese di 21 anni, ritenuto l’altro carceriere del ghetto di Alì il libico. Anche per Ackom lo scorso aprile è stato disposto l’incidente probatorio e anche in quel caso tutte le vittime non hanno avuto dubbi nel riconoscerlo come il loro aguzzino. Ai due indagati vengono contestati i reati di associazione a delinquere finalizzata al traffico di esseri umani, sequestro di persona aggravato, omicidio, violenza sessuale e tratta di esseri umani. Secondo il racconto dei quattro scampati all’inferno di Sabhah le violenze e le torture erano quotidiane nelle tre palazzine della fortezza nel deserto, con mura alte e filo spinato, guardie con i mitragliatori. Violenze continue, minacce e abusi sempre più feroci anche durante le telefonate dei prigionieri con i familiari, per far capire dall’altro capo del telefono l’inferno che avrebbero vissuto i loro cari fino a quando non pagavano. Chi non aveva nessuno in grado di pagare Rambo e Ackon veniva trasferito nella palazzina "Vip" l’inferno degli inferni dove violenze sessuali, omicidi, flagellazioni e sanguinosi pestaggi con tubi di ferro erano all’ordine del giorno.che paghi per lui è costretto ai lavori forzati. Afghanistan. Mai così pericoloso, ma l’Unione europea accelera i rimpatri forzati di Riccardo Noury Corriere della Sera, 6 ottobre 2017 Sadeqa (non è il suo vero nome) e la sua famiglia erano fuggite dall’Afghanistan nel 2015 dopo che suo marito Hadi era stato rapito, picchiato e rilasciato dopo il pagamento di un riscatto. Dopo un viaggio pericoloso durato mesi, erano arrivate in Norvegia. Le autorità di Oslo hanno respinto la loro richiesta d’asilo dando loro la scelta se essere rimpatriate a forza o accettare 10.700 euro in cambio del ritorno "volontario" in Afghanistan. Pochi mesi dopo il rientro in Afghanistan, il marito di Sadeqa è scomparso. Giorni dopo si è appreso che era stato ucciso. Sadeqa ora ha persino paura di recarsi a pregare sulla sua tomba. Farid (non è il suo vero nome) aveva lasciato l’Afghanistan con la famiglia quando era ancora piccolo. Dopo un periodo trascorso in Iran, la famiglia era arrivata in Norvegia. Lì Farid si era convertito al Cristianesimo. Nel maggio 2017 è stato rimpatriato a Kabul, il luogo più violento di tutto l’Afghanistan, dove nel 2016 è stato registrato il 19 per cento di tutte le vittime civili dell’intero paese. Farid non ricorda nulla dell’Afghanistan. Ora vive nel costante timore di essere perseguitato, in un paese dove i gruppi armati come i talebani prendono di mira chi si converte a una fede diversa dall’Islam. "Ho paura. Non conosco l’Afghanistan, dove dovrei andare? Non ho soldi per vivere da solo e non posso vivere dai miei parenti perché vedrebbero che non prego". Sadeqa e Farid sono solo due dei circa 10.000 richiedenti asilo afgani sottoposti a rimpatrio forzato dai governi dell’Unione europea. Proprio mentre il numero delle vittime civili in Afghanistan raggiunge livelli record, sottolinea oggi un rapporto di Amnesty International, i governi europei stanno aumentando i rimpatri forzati di richiedenti asilo esattamente nei luoghi sempre più insicuri da cui erano fuggiti, in flagrante violazione del diritto internazionale. Secondo dati ufficiali dell’Unione europea, tra il 2015 e il 2016 il numero degli afgani rimpatriati dagli stati membri è quasi triplicato: da 3290 a 9460. Questo aumento corrisponde a un marcato calo delle domande d’asilo accolte: dal 68 per cento del settembre 2015 al 33 per cento del dicembre 2016. Nello stesso periodo, secondo la Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (Unama), è aumentato anche il numero delle vittime civili. Nel 2016, secondo Unama, sono state uccise o ferite 11.418 persone. Attacchi contro i civili, la maggior parte dei quali rivendicati da gruppi armati tra cui i talebani e lo Stato islamico, hanno avuto luogo in ogni parte dell’Afghanistan. Nei soli primi sei mesi del 2017 le vittime civili documentate da Unama sono state 5423. Il rapporto di Amnesty International racconta le storie orribili di afgani rimpatriati da Germania, Norvegia, Olanda e Svezia e che sono stati uccisi, sono rimasti feriti in attentati o sono costretti a vivere nella costante paura di essere perseguitati a causa del loro orientamento sessuale o della loro conversione al Cristianesimo. Tra gli afgani rimpatriati a forza dall’Europa c’erano anche minori non accompagnati e minorenni diventati adulti quando sono arrivati nel continente europeo. Diverse persone hanno raccontato ad Amnesty International di essere stati rimpatriati in zone dell’Afghanistan in cui non erano mai stati, nonostante la situazione di pericolo e l’impunità per violazioni dei diritti umani come la tortura. I governi europei sono tutt’altro che ignari rispetto a quanto accade in Afghanistan. In un documento riservato diventato pubblico, le agenzie europee avevano ammesso "il peggioramento della sicurezza e le minacce cui vanno incontro le persone", così come "i livelli record di attacchi terroristici e di vittime civili". Tuttavia, con spietatezza, hanno insistito sul fatto che "potrebbe essere necessario far tornare [in Afghanistan] oltre 80.000 persone nel breve periodo". Da qui il "Joint Way Forward", l’accordo tra Unione europea e le autorità di Kabul per il rimpatrio dei richiedenti asilo afgani, firmato il 2 ottobre 2016. Il ricatto dell’Unione europea nei confronti dell’Afghanistan, in sintesi, è stato questo: niente soldi se non ti riprendi i tuoi connazionali. Dopo la firma dell’accordo Ekil Hakimi, ministro delle Finanze, ha dichiarato al parlamento: "Se l’Afghanistan non collabora con gli stati membri dell’Unione europea nella crisi dei rifugiati, questo avrà un impatto negativo sull’ammontare degli aiuti destinati al nostro paese". Svizzera: Esecuzione delle pene, il Canton Ticino introduce la cavigliera elettronica di Andrea Manna La Regione, 6 ottobre 2017 Sorveglianza a distanza dei condannati: dal 2018 l’uso del dispositivo, testato per anni in Ticino, sarà previsto dalla legge. Al momento il Cantone ne ha a disposizione nove. Costo complessivo sui 50mila franchi. Nove bracciali elettronici, realizzati da una ditta giurassiana, per controllare a distanza il condannato: tramite radiofrequenza quando è a domicilio, via Gps quando è all’esterno. Per verificare che si attenga al programma definito con le autorità riguardo a spostamenti e orari. Testata per diciotto anni (dal 1999) in Ticino e in altri cinque cantoni, la sorveglianza elettronica sarà presto in tutta la Svizzera una forma di esecuzione della pena, contemplata dalla legge. Ovvero dal riformato diritto sanzionatorio che scatterà con il prossimo 1° gennaio. E che in particolare "ripristina le pene detentive di breve durata", ha ricordato il capo del Dipartimento istituzioni Norman Gobbi, intervenendo ieri alla presentazione del messaggio con il quale il Consiglio di Stato chiede al parlamento di approvare i necessari adattamenti della legislazione cantonale in seguito alla revisione del Codice penale decisa dalle Camere federali. È vero che le proposte di adeguamento sono uscite solo mercoledì dal governo, ma il tempo stringe. Al 2018 mancano appena tre mesi. L’Esecutivo invita allora il Gran Consiglio ad accogliere il messaggio "con una certa sollecitudine". Il nuovo sistema sanzionatorio elvetico segna per certi versi un ritorno al passato, alla situazione esistente prima del 2007, anno in cui è entrata in vigore la rivista parte generale del Codice penale che ha rimpiazzato le pene detentive di breve durata con pene pecuniarie. Insomma, per i reati minori "meno carcere e più borsello", per dirla con il presidente dell’Ufficio dei giudici dei provvedimenti coercitivi Maurizio Albisetti. "Attualmente - ha osservato il magistrato - quelle pecuniarie costituiscono circa l’85 per cento delle pene inflitte annualmente in Svizzera". Agire sul portamonete si è tuttavia rivelato negli anni assai poco efficace. "L’effetto deterrente in pratica non c’è stato", ha chiosato Gobbi. La Confederazione è così tornata in parte sui propri passi. In parte, perché ha sì reintrodotto la possibilità per i giudici di pronunciare pene detentive di corta durata, che andranno da un minimo di tre giorni a un massimo di sei mesi, ma ha mantenuto quelle pecuniarie. Con dei correttivi importanti. È stato abbassato, ha spiegato Albisetti, "il limite massimo della pena pecuniaria, da 360 a 180 aliquote giornaliere, così come è stato ridotto il termine per il pagamento della stessa: da dodici a sei mesi". Non solo. "È stata eliminata la sospensione condizionale parziale della pena pecuniaria: o viene sospesa o non viene sospesa", ha continuato il giudice, precisando che l’importo minimo dell’aliquota giornaliera "è stato fissato a 30 franchi, eccezionalmente riducibile a 10". Il riformato ordinamento sanzionatorio, inoltre, "reintroduce il lavoro di utilità pubblica", anche questo come forma di esecuzione. Sarà l’Ufficio dei giudici dei provvedimenti coercitivi "a decidere se commutare una pena detentiva di breve durata in lavoro di pubblica utilità o a concedere la cavigliera elettronica". Tunisia. In costruzione sei nuove carceri per contenere la sovrappopolazione carceraria Ansa, 6 ottobre 2017 La stretta sulla criminalità comune, sulla corruzione e il terrorismo da parte delle autorità tunisine negli ultimi mesi e il conseguente aumento numero di arresti sta portando nuovamente alla luce il problema della difficile situazione delle carceri del Paese. Sovraffollamento, condizioni igieniche precarie, mancanza di cure per i detenuti malati, sono spesso stati oggetto di critiche e rilievi da parte di associazioni umanitarie internazionali. La maggior parte dei detenuti è composta da semplici consumatori di droghe leggere, considerato che l’uso personale di stupefacenti in Tunisia è punito con la reclusione. Anche se da lungo tempo è in atto nel paese un dibattito sulla riforma della legge sugli stupefacenti, e qualche piccola modifica in senso positivo nell’interpretazione e applicazione della stessa, non è ancora stata votata una legge per sostituire la famigerata legge 52 del 1992 su consumo e spaccio di stupefacenti, giudicata da molti troppo severa. La costruzione di nuove case circondariali si presenta dunque come inevitabile, per questo lo Stato ha già avviato i lavori per sei nuovi istituti, ha detto il segretario generale del sindacato di base degli agenti penitenziari, Hassen Saidi, al giornale in lingua araba Al-Chorouk, sottolineando come la lotta contro la criminalità andrebbe condotta non solo attraverso arresti e provvedimenti coercitivi ma soprattutto tramite la sensibilizzazione dei cittadini ai temi della legalità e la prevenzione.