41-bis. E se invece tornassimo alla Costituzione? di Piero Sansonetti Il Dubbio, 5 ottobre 2017 Le nuove regole che disciplinano il 41-bis hanno sollevato polemiche, e probabilmente è solo l’inizio. Chi si occupa seriamente di lotta alla mafia (come il super-procuratore antimafia) non ha niente da eccepire, ma c’è sempre da tener conto del fatto che in Italia accanto all’antimafia c’è un altra entità - squisitamente politica - che si chiama "compagnia dell’antimafia", la quale di mafia sa pochissimo ma sa bene come si intercettano gli umori del populismo. E dell’antimafia fa, con abilità, mercato politico. Bene, la compagnia dell’antimafia non ammette nessuna misura, mai, che riduca, anche di un solo grammo, la durezza delle misure contro i mafiosi o contro gli accusati di mafia (presunti innocenti). E così le disposizioni del Dap, che attenuano, molto molto leggermente, la rigidità del carcere duro (cioè del regime di 41 bis in cella) vengono presentate come una scivolata buonista alla quale ribellarsi. La verità è che ci si dovrebbe ribellare - a norma di Costituzione - alla sola idea che esista il carcere duro (visto che ormai più nessuno si perita di chiamare il 41 bis carcere duro, neanche tra i magistrati e tra i più strenui sostenitori del 41 bis). Dice la Costituzione all’articolo 27: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Che vuol dire? Vuol dire che il carcere duro è escluso dalla Costituzione. Fu concepito come misura di emergenza, e in quanto tale era forse ammesso l’aggiramento delle norme costituzionali. Ma dopo un quarto di secolo è difficile parlare di emergenza. E dunque, se si vuole aprire un dibattito politico serio, e non viziato dalla demagogia, si dovrebbe semplicemente porre la questione di quando abolire il 41 bis e tornare a una situazione di normalità e di legalità nelle carceri. Anche tenendo conto della drastica riduzione della criminalità in questi anni. Quando fu introdotto il 41 bis il numero degli omicidi era più del doppio rispetto a oggi, e il numero degli omicidi mafiosi almeno il quadruplo. Dispiace che invece anche esponenti politici di forte sensibilità democratica vogliano mettersi in mostra opponendosi alle misure varate dal Dap. Tra le quali il permesso per i bambini sotto i dodici anni di abbracciare i genitori o i nonni restando con loro per un’ora intera al mese. Prima potevano farlo solo per un quarto d’ora. Quando parliamo di bambini ci riferiamo ai ragazzi sotto i 12 anni. Il giorno del loro dodicesimo compleanno, il privilegio scade, e da quel momento potranno incontrare il papà o il nonno (o la mamma, o la nonna) solo da dietro un vetro e con un citofono. Davvero qualcuno ritiene che in un paese civile questa misura possa essere considerata lassista? Carcere duro troppo umano? Il Procuratore nazionale antimafia dice di no di Giulia Merlo Il Dubbio, 5 ottobre 2017 Il "decalogo" emanato dal Dap, che punta a uniformare e ad alleggerire il trattamento dei condannati al 41bis è finito sotto il fuoco di fila delle associazioni dei familiari delle vittime e, soprattutto, sotto la lente d’ingrandimento della commissione Antimafia. "La commissione valuti attentamente il contenuto della Circolare del Dap sull’applicazione del 41 bis", ha infatti chiesto il senatore Giuseppe Lumia, componente della Commissione presieduta da Rosy Bindi. A stretto giro è arrivato il commento del Procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, che ha allontanato qualsiasi illazione: "Nella nuova circolare del Dap non c’è alcun annacquamento del 41 bis", ha scandito. Doveva essere una circolare interna per chiarire una volta per tutte i diritti e i doveri dei detenuti al 41 bis, è diventata terreno di scontro. Il "decalogo" emanato dal Dap, che punta a uniformare il trattamento dei condannati al regime di carcere duro (fino ad oggi rimesso ai singoli istituti di pena) è finito sotto il fuoco di fila delle associazioni dei familiari delle vittime e, soprattutto, sotto la lente d’ingrandimento della commissione Antimafia. "La commissione valuti attentamente il contenuto della circolare del Ministero della Giustizia sull’applicazione del 41 bis", ha chiesto il senatore Giuseppe Lumia, capogruppo del Pd in Commissione giustizia e componente della Commissione antimafia presieduta da Rosy Bindi. "È giusto dettare principi per rendere omogenea la sua applicazione in tutti gli istituti di pena italiani. Tuttavia è necessario valutare la coerenza di questi criteri con la legge, che è molto rigorosa perché ha l’obiettivo di impedire che all’interno delle carceri i boss possano comunicare con l’esterno, continuando a svolgere il loro ruolo di capi dell’ organizzazione" spiega il senatore dopo la seduta della Commissione. Per Lumia, dunque, è necessario verificare che la circolare sia coerente con la legge e non allarghi le maglie del carcere duro, regalando ai boss indebiti alleggerimenti di pena. A stretto giro è arrivato il commento del Procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, che ha allontanato qualsiasi illazione: "Nella nuova circolare del Dap non c’è alcun annacquamento del 41 bis", ha scandito durante la conferenza stampa sugli arresti del clan Rinzivillo a Gela. Nessun dubbio sul contenuto della circolare, dunque: "la Procura nazionale ha espresso parere favorevole e le previsioni contenute sono perfettamente conformi ai principi del diritto interno, internazionale e al diritto della persona", ha sottolineato Roberti, il quale ha liquidato la polemica con un "bisogna leggere il testo, non c’è alcuna alterazione del 41bis". Un giudizio, quello del Procuratore nazionale antimafia, condiviso anche dalla maggior parte della Commissione parlamentare antimafia. "Si è discusso solo incidentalmente della circolare, la seduta si occupava di altri temi. Torneremo sull’argomento, qualora ce ne fosse la necessità", ha chiarito Marco Di Lello, deputato membro della commissione sempre in quota Pd, il quale ha condiviso le considerazioni di Roberti. "Mi trovo in piena sintonia con il Procuratore nazionale antimafia: la circolare ha il pregio di portare omogeneità sul territorio nazionale nell’applicazione del 41bis e non provoca alcun abbassamento di tensione ad un regime carcerario che, comunque, deve essere considerato una misura eccezionale", ha spiegato Di Lello. La richiesta di Lumia, però, è chiara: l’Antimafia si occupi della circolare, verificandone la conformità. "Non la considero una richiesta eclatante, anche perché rientra nelle competenze della commissione. Anche se succedesse, sono tranquillo sulla correttezza del contenuto e non vedo alcun pericolo di contrasti", ha minimizzato il deputato. Anche il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha difeso il decalogo, sottolineandone soprattutto gli obiettivi: "Il 41bis deve evitare che chi è in carcere abbia contatti con l’esterno ma, quando non ci sono elementi in conflitto con questa ratio, non bisogna avere condizioni di disumanità", ha detto, rispondendo indirettamente all’Associazione familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili. Nei giorni scorsi, infatti, la presidente Giovanna Maggiani Chelli aveva sostenuto che, dopo la circolare, "in un modo o nell’altro il 41 bis si ammorbidisce proprio come voleva la mafia la notte del 27 Maggio 1993 in via dei Georgofili a Firenze. Giornali, libri, TV di ogni genere, il nuovo pacchetto benefici per ingannare lo scorrere delle ore, quel tempo che ai nostri figli hanno levato definitivamente sotto due metri di terra". Parole dure, quelle di Chelli, che si riferiscono direttamente ai contenuti della circolare nell’elencazione dei diritti dei detenuti al 41bis. Nelle 52 pagine, infatti, c’è tutta la vita dei detenuti: dalle dimensioni delle pentole al numero delle foto da tenere in cella, dai colloqui con i familiari alla corrispondenza e ai libri che è possibile ricevere. Il provvedimento specifica per la prima volta le regole del carcere duro, con l’obiettivo di impedire che le seppur minime diversità da carcere a carcere possano essere vissuti dai detenuti come riconoscimento di un potere. Un provvedimento "che dà omogeneità al 41bis, evitandone ogni forma di arbitrio e di misure impropriamente afflittive", ha chiarito il ministro Orlando, il quale ha ricordato che "le restrizioni inflitte dal 41 bis non sono una pena aggiuntiva". Del resto la circolare - atto interno all’amministrazione penitenziaria indirizzato ai direttori degli istituti, ai provveditori dell’amministrazione e al direttore del Gruppo Operativo Mobile - non ha ovviamente alcun potere dispositivo di nuove norme ma solo finalità organizzative. "Bisogna leggere il testo, non c’è alcuna alterazione del carcere duro" ha detto. Codice antimafia, la giustizia inquinata dal sospetto di Massimo Krogh La Repubblica, 5 ottobre 2017 In tema di giustizia, il "Codice antimafia" sembra voler privilegiare la sicurezza rispetto alla legalità, delineando un paese non tanto regolato da leggi e princìpi quanto dalle ombre oscure del sospetto. Insomma, spazia l’invadenza di un populismo giudiziario che ispira i provvedimenti in materia di giustizia, trasformando il processo penale in un sistema di sicurezza nel quale il sospetto può diventare prova. In altri termini, uno Stato ben lontano dal concetto di Stato di diritto. A tutto ciò non è superfluo aggiungere che gli effetti deleteri di questa situazione si sommano alla intollerabile durata del processo; le sentenze arrivano su fatti persino dimenticati dalla gente, un processo che si sviluppa in tempi sconosciuti persino ai paesi meno avanzati. La incredibile disfunzione giudiziaria non comporta solo la non rara impunità del delinquente per prescrizione dei reati, quanto il calvario dell’innocente intrappolato nel girone infernale di una vicenda penale. Per una distorsione sistematica divenuta regola, chiunque, quasi a caso, può essere raggiunto da una "informazione di garanzia", cioè da un avviso di reato come "atto dovuto", bastando una denuncia, anche la più inutile o infondata, insomma bastando un sospetto a determinare l’iscrizione di una pendenza-teorema che poi grava per anni sul malcapitato, con le conseguenze gravose provocate delle riforme approvate. A questo "pasticcio" non di rado si aggiunge la introduzione di nuovi reati ad ogni emergenza; il diritto penale, invece che ultima spiaggia, è ora il muro fra legalità e illegalità. Il dato più sconfortante è che la spinta giustizialista viene dalla strada, vale a dire un vero e proprio stato confusionale divenuto generale e dove i valori sono spesso capovolti nell’assenza di una guida che dovrebbe venire dalla politica; la quale purtroppo è scappata via e quando c’è peggiora le cose. Nell’inefficienza politica e nella carenza di un’adeguata funzionalità dell’amministrazione pubblica, il potere d’accusa, liberato da anticorpi, è pervenuto ad una condizione di stabile superiorità, non esclusivamente giudiziaria. In questo quadro, si verificano sconfinamenti che possono anche divenire drammatici, ad esempio, in tema di custodia cautelare. Persino Papa Francesco, in un incontro con i giuristi, definì la carcerazione preventiva "una illecita pena occulta che va oltre la patina della legalità". Il Sommo Pontefice, dal suo altissimo soglio, disse una cosa che s’inquadra perfettamente nei malanni che affliggono quotidianamente la nostra giustizia. Il punto trascurato, purtroppo al centro di un consolidato vuoto culturale, è se sia normale in democrazia che uno Stato possa subire gli eventi giudiziari fino ad esserne modificato. Ciò è avvenuto e avviene da noi; dove il settore giudiziario ha una posizione non equilibrata rispetto alla restante parte dello Stato. Il modello democratico non può prescindere dal frazionamento dei poteri del mondo anglosassone; ma il potere affidato al pubblico ministero per il controllo di legalità non deve essere così forte da annullare i meccanismi di salvaguardia contro gli eccessi. Da noi la giustizia penale ha pericolosamente assunto un improprio ruolo arbitrale. Per non restare sommersi dall’espansione del rimedio penale, occorre l’individuazione e praticabilità anche di mediazioni in grado di proporre soluzioni differenziate, naturalmente nel rispetto delle soglie di allarme sociale. Soprattutto, a me sembra che dovrebbe funzionare correttamente l’amministrazione pubblica, liberandola dalla soffocante piovra della burocrazia, vero e proprio nemico del cittadino, ma non solo, vero e proprio ostacolo alla tessitura di un abito moderno e civile per la società. Perché l’Italia si è rassegnata all’autoritarismo giudiziario di Rocco Schiavone L’Opinione, 5 ottobre 2017 Se la storia anche recente fosse veramente maestra di vita, in Italia si potrebbe dire che gli alunni sono tutti somari. Dai giornalisti, in special modo di "La7", ai magistrati passando per i politici di questa nefasta legislatura. Vedere, ad esempio, quasi ogni settimana lo sketch Floris-Davigo, con slogan come quello che sostiene che "non è vero che la giustizia non funziona ma è vero che non la si vuole fare funzionare", seguito da uno scroscio di applausi in studio, sta diventando un’abitudine quasi stucchevole. È come se gli italiani si fossero arresi non già al populismo ma al disegno di far diventare il Paese una specie di Corea del Nord. E questo disegno criminoso parte da lontano, addirittura dall’Unità d’Italia e dalle leggi speciali per combattere il brigantaggio, che poi nacque come resistenza disperata al saccheggio piemontese del Sud. E in seguito, ma in continuità, dall’introduzione del Testo unico di pubblica sicurezza durante il periodo fascista. Da allora noi italiani delle leggi speciali, e di quel Testo unico per le misure di prevenzione per chi (si suppone) si metta a delinquere abitualmente, non ce ne siamo mai liberati. Anzi, ne abbiamo sempre ampliato le competenze. Un’emergenza c’era sempre e i comunisti delle Brigate rosse con i loro velleitarismi terroristico-rivoluzionari degli anni Settanta ci hanno regalato leggi speciali a vita. Poi è venuta l’emergenza mafia, la legge sui pentiti della criminalità organizzata, e oggi siamo alle leggi speciali per l’omicidio stradale, lo stalking, lo stupro e qualsiasi altro grave reato che è sempre esistito nella storia dell’umanità e che è sempre stato possibile contrastare con leggi normali purché applicate intelligentemente e non burocraticamente come molti magistrati della penisola sono soliti fare. Quel che è peggio è che in questa orrenda legislatura il Partito Democratico, più di Andrea Orlando che di Matteo Renzi, per correre dietro alla fantapolitica grillina si è inventato questo Codice antimafia di impronta gesuitico-giustizialista che praticamente porrà i beni di milioni di italiani in serio pericolo e incoronerà lo Stato come Moloch e Leviatano del sospetto contro il singolo. Sequestrare i beni a un indiziato, non dico di corruzione, ma di stalking, indagato a querela di parte, e spesso innocente perché semplice vittima di una guerra dei Roses fra coniugi che stanno per separarsi, significa provocare una serie di problemi sociali a catena che fatalmente si concluderanno con un aumento del tasso di suicidi e omicidi in ambito familiare. Ma quel che fa più orrore è la trasformazione dello Stato in organo autoritario di controllo della morale e della società secondo modelli astratti imposti da media senza alcuna più autorevolezza, che a loro volta cavalcano il nulla del grillismo e delle stelle del giornalismo improvvisato da talk-show sperando solo di ricavarne briciole di ascolto e di vendite in edicola. Giornali un tempo autorevoli oggi vendono meno di un terzo delle copie di sette anni fa. Comprese quelle digitali. Direttori che fanno da cinghia di trasmissione di volontà editoriali sempre più aggressive e disinformanti nei confronti del lettore, al punto di promuovere le cosiddette fake news a protagoniste delle prime pagine. Con un effetto molto simile a quello dei menù turistici altisonanti dei locali del centro storico romano che da anni truffano i turisti "mordi e fuggi". Tutte queste concause e molte altre ancora, tra cui l’assenza di un’azione sindacale giornalistica degna di definirsi tale, e la pressoché inutilità dello stesso Ordine dei giornalisti, hanno precipitato la popolazione in una sorta di rassegnazione strisciante a questo modello autoritario di cui presto tutti si renderanno conto. Quando sarà difficile porvi rimedio, perché ormai per certe leggi si deve sperare nell’intervento della Corte costituzionale. Che però a sua volta agisce con logiche estemporanee più da Superenalotto che da Stato di diritto. Se gli italiani vogliono rassegnarsi a morire fascisti o comunisti, alla fine sono fatti loro. Ma chi è Radicale, liberale, individualista, e come il sottoscritto paventa il Moloch di cui sopra, non si rassegnerà mai. Piuttosto emigra. Visto che nessuno "lo aiuta a casa propria". Pajno (Consiglio di Stato): "i giudici non devono assecondare gli umori del momento" di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 5 ottobre 2017 "L’attività giurisdizionale opera in una realtà sociale fluida e ne costituisce un’espressione. Se di ciò non ha consapevolezza, rischia di diventare autoreferenziale". Alessandro Pajno, magistrato figlio di magistrato, più volte capo di gabinetto di ministri tra cui l’attuale presidente della Repubblica Sergio Mattarella, da un anno e mezzo presiede il Consiglio di Stato, organo supremo della giustizia amministrativa. La sua ultima relazione si è caratterizzata per un lessico sorprendente: società liquida, diseguaglianze, paura, futuro... Qual è la parola chiave? "Fiducia. La fiducia è l’elemento più rarefatto della società contemporanea, la crisi investe tutte le istituzioni. La giustizia amministrativa incrocia il rapporto tra potere e società: noi giudichiamo la qualità delle risposte che il potere dà ai cittadini". Quali tendenze vede nella società, dalla vostra frontiera? "Due spinte contrapposte. Da un lato la globalizzazione, dall’altro un riflesso identitario, l’esigenza di ri-valorizzazione dei confini. Nel contenzioso emergono in modo prepotente. Prima prevaleva quello economico, ora crescono questioni sociali, nuovi diritti. Cambiano le aspettative, cambia il ruolo del giudice". Cresce anche l’insofferenza per il ruolo del giudice? "Prende aspetti diversi. Frustrazione del cittadino per una giustizia lenta o insoddisfacente e difficoltà di accettare il controllo giurisdizionale. Oggi la critica principale al giudice amministrativo è che si occupa di tutto, dando al cittadino un eccesso di tutela nei confronti del potere pubblico". C’è un fondo di verità? "Zygmunt Bauman ha definito la società postmoderna società dell’incertezza, in cui una quota di sicurezza è stata scambiata con una quota di libertà. Lo scambio genera paura. Disuguaglianze, precarietà lavorativa e immigrazione l’alimentano. Ciò attribuisce alle corti superiori un compito nuovo: contrastare incertezza e paura". Qual è il problema principale? "Il groviglio è sempre più intricato, le fonti di diritto si moltiplicano e sovrappongono, territorio e potere si scindono. L’eccesso di regolazione viene usato come illusorio antidoto alla crisi di fiducia. Il diritto è in bilico tra vecchi confini e spazi aperti, con regolazioni globali dettate da regolatori senza territorio. Il giudice deve ricomporre questo iato". C’è uno specifico italiano? "Due emergenze si scaricano sul giudice. La prima è la legge. O è troppo particolare, come un provvedimento amministrativo, o a maglie troppo larghe, indicando vagamente i fini senza preoccuparsi degli strumenti per realizzarli. A ciò si aggiunge l’ipertrofia normativa". La politica, però, addebita al giudice l’eccesso di sentenze controverse e interpretazioni difformi. "Si scambia il medico con la malattia. La società è conflittuale, quella italiana oltre il fisiologico. Il conflitto politico su una legge si riproduce allo stesso modo sulla successiva sentenza. In un sistema a legislazione confusa, inevitabilmente il giudice lavora per categorie generali e contribuisce a creare diritto". E la seconda emergenza? "La pubblica amministrazione. Scarsa qualità, scarsa fiducia in se stessa. Terrorizzata dall’ipotesi di essere chiamata a rispondere della sua azione, chiede che a decidere siano la legge o la sentenza, azzerando la discrezionalità". E i giudici, l’emergenza non li riguarda? "I giudici devono fare i giudici. Esercitare l’indipendenza: all’interno, contro le chiusure corporative, e all’esterno, contro ogni condizionamento, compreso quello del populismo che chiede di assecondare gli umori del momento. E rifiutare una giurisdizione che si arroga scelte politiche e amministrative: noi controlliamo che il potere agisca nel quadro delle regole, non ci sostituiamo a esso". Su quali fronti siete impegnati? "La consapevolezza dell’importanza del rapporto tempo-processo e quella delle conseguenze sociali, economiche e politiche delle sentenze". Lei insiste sulla stringatezza delle sentenze. "Le sentenze sono soluzioni argomentate a casi concreti, non trattati". Società liquida, confini mobili tra poteri, paura e incertezza, riflessi identitari. Qual è la minaccia principale allo stato di diritto? "Mai come oggi le garanzie nell’accesso al giudice e nel controllo di legalità sono state ampie. Ciò ha prodotto un riflusso: la politica rivendica il suo primato e una parte della società reclama certezze e speditezza delle decisioni, anche se a scapito dei diritti individuali. Dobbiamo evitare che queste giuste esigenze comportino meno garanzie per la persona e il rischio di una deriva autoritaria". Carriere separate: la sfida di noi penalisti per la sola riforma che cambia il processo di Francesco Petrelli* Il Dubbio, 5 ottobre 2017 Domani si apre a Roma il Congresso dell’Unione Camere Penali italiane. Muovendo dal tema della separazione delle carriere, i penalisti italiani formulano nei confronti della politica un inequivoco invito a "voltare pagina", uscendo da quel modo di legiferare che rischia di far retrocedere il nostro sistema giudiziario a livelli non più compatibili con uno Stato costituzionale di diritto. L’articolo del professore Giovanni Verde, comparso lo scorso 20 settembre su Il Mattino, sul tema della separazione delle carriere, ci dà l’occasione per operare qualche necessario chiarimento sui contenuti politici posti al centro del dibattito congressuale in quanto la riforma ordinamentale è certamente paradigmatica di ogni possibile recupero di legittimazione del sistema. Scrive l’autorevole giurista che l’avvocatura penale, nel reclamare la necessità di una separazione delle carriere, "non si rende conto che un’effettiva separazione urta contro lo scoglio della Magistratura intesa come corpo unitario al quale partecipano giudici e pubblici ministeri" e che tale unicità "trova giustificazione nell’idea che l’attività del pubblico ministero, in quanto attività doverosa, non sia molto diversa da quella del giudice". Se non vi è dubbio che l’idea unitaria della giurisdizione sia il vero ostacolo che si frappone alla realizzazione di un processo di parti moderno ed efficiente, qualche perplessità sorge invece circa la giustificazione teorica della unicità delle carriere. L’obbligatorietà dell’azione penale, come tutti sanno, è oramai nella realtà soltanto un feticcio in quanto ogni singolo magistrato, legittimato dalle circolari delle Procure, opera quotidianamente scelte discrezionali. Si tratta di una prassi distorta che sostituisce la Magistratura al Legislatore, il quale dovrebbe essere l’unico a poter regolare il sistema penale, decidendo di volta in volta, in base a trasparenti criteri di politica giudiziaria, a quali categorie di reati dare eventualmente precedenza. La riforma proposta dall’Ucpi, pur lasciando inalterato il principio della obbligatorietà, restituisce al Parlamento ogni decisione in ordine alla regolazione dell’esercizio dell’azione penale. Tuttavia, la discrezionalità del pubblico ministero non si manifesta esclusivamente nelle forme "binarie" dell’esercizio o del non-esercizio dell’azione penale in quanto sono i "modi" con i quali quella delicata funzione viene esercitata a fare la differenza, e sono per così dire i contro- limiti giurisdizionali ad assumere dunque un ruolo essenziale. La riforma proposta dalle Camere penali mira proprio a modificare l’attuale assetto ordinamentale al fine di allinearlo con i valori e i principi del processo accusatorio. Questo nuovo modello conferisce equilibrio al sistema e lo adegua al resto dell’Europa, dove - ha ragione sul punto il professore Verde - una simile confusione fra "giudici e procuratori" risulta del tutto sconosciuta. Né è un caso che quella stessa unitarietà della giurisdizione sia il prodotto ed il residuo di una cultura antidemocratica ed autoritaria, che rispondeva ad una idea di processo inquisitorio inteso come macchina repressiva. L’idea del processo penale come strumento di accertamento delle responsabilità del singolo cittadino, propria invece dei regimi moderni liberal- democratici, cozza evidentemente con un sistema ordinamentale nel quale chi esercita l’azione e chi la giudica, controllori e controllati, hanno carriere uniche e si giudicano l’un l’altro a fini disciplinari e di carriera. Si tratta dunque di uno "scoglio" che occorre superare con una riforma tanto semplice quanto essenziale per rinforzare la nostra stessa debole democrazia. Dire che una questione è solo "culturale" è spesso funzionale a legittimare l’angustia dell’esistente. Infatti la cultura di un Paese è anche il prodotto delle sue leggi, e dei modelli assunti dalle sue istituzioni. Cambiare o combinare in maniera alternativa e differente alcune forme organizzative significa spesso concorrere a fondare una cultura nuova. Nel caso che ci riguarda, a fondare ed a legittimare una nuova cultura del giudice. Va detto che quel che manca nel sottile ragionamento del professore Verde è proprio questo: la figura del Giudice. È il giudice terzo, garante dei limiti dell’azione penale, della prova e del processo, a segnare infatti la differenza. Un giudice che seleziona le intercettazioni utili da quelle inutili, che scandisce severamente i tempi delle indagini, che filtra attentamente e rigorosamente le prove acquisibili, che opera da arbitro nella tutela del rito, e che valuta la prova collocato istituzionalmente nella prospettiva della terzietà è il fine ed il prodotto inequivoco della separazione delle carriere. Tanto ci rendiamo conto che lo "scoglio" di ogni riforma sia la visone unitaria di magistratura, che riteniamo indispensabile rimuovere questo ostacolo con una riforma tanto ovvia quanto necessaria, la cui realizzazione sarà per questo inevitabile. *Segretario dell’Unione Camere Penali Italiane Le ombre del Codice antimafia secondo i commercialisti di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 5 ottobre 2017 Un amministratore giudiziario penalizzato e costretto a gestire i beni senza rete di protezione. È solo una delle ombre che il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, vede nella riforma del Codice antimafia. Secondo i consiglieri nazionali delegati alle funzioni giudiziarie Valeria Giancola e Giuseppe Tedesco, nell’approvare una norma importante per il nostro Paese la fretta è stata cattiva consigliera. Invece di cogliere l’occasione per migliorare l’impianto si è scelta una logica punitiva nei confronti dell’amministratore giudiziario "che - si legge nella nota - nell’ambito del ridotto numero di incarichi, sarà chiamato a gestire i beni in assenza di "reti di protezione" e con un bagaglio normativo privo di strumenti gestionali efficaci". Pur convinti che l’aggressione al patrimonio sia più efficace delle pene detentive, i commercialisti considerano una pecca della nuova norma l’essere troppo "attenta" alla destinazione dei beni confiscati sottovalutando l’importantissima fase di gestione dei beni. Resta il vuoto - in attesa di un successivo decreto attuativo - sulle norme di agevolazione fiscale, bancaria e giuslavoristica delle imprese sequestrate e confiscate, come manca una disciplina che "consenta la regolarizzazione amministrativa dei beni dal punto di vista urbanistico-catastale, dei condoni, della sicurezza nei luoghi di lavoro". Nel cahier de doleance si sottolinea che la norma - bollata come "ammazza amministratori giudiziari"- limita a tre gli incarichi aziendali mettendo in atto una disparità di trattamento rispetto ad altri professionisti: una discriminazione che crea dubbi anche dal punto di vista della legittimità costituzionale. Commercialisti perplessi anche sulla possibilità di nominare dipendenti pubblici o di società partecipate amministratori giudiziari di aziende "di straordinario interesse socio-economico". Soddisfazione, ma parziale per l’esclusione della responsabilità civile dell’amministratore giudiziario: la proposta della categoria prevedeva l’esclusione estesa anche al penale. L’eritreo sbagliato. 500 giorni in cella per uno scambio di persona di Saul Caia Il Fatto Quotidiano, 5 ottobre 2017 Le sue prime dichiarazioni in Corte d’Assise: "Non è il mio nome, è tutto molto strano". Il legale: "Scambio di persona". "Non è il mio nome, non è il mio cognome. È tutto molto strano". Sono le prime e uniche parole pronunciate dal detenuto eritreo, un anno e mezzo dopo il suo arresto, nel corso dell’udienza di martedì mattina alla seconda Sezione della Corte d’assise di Palermo. L’uomo è stato estradato nel maggio 2016 dal Sudan, con l’accusa di essere un trafficante di esseri umani. Ma sulla sua identità restano ancor forti dubbi. La Procura crede si tratti di Medhanie Yedhego Mered, 35enne chiamato il Generale, tra gli organizzatori del "viaggio" naufragato il 3 ottobre 2013 a largo di Lampedusa, in cui persero la vita 368 migranti. L’avvocato Michele Calantropo sostiene invece che ci sia stato uno scambio di persona, il suo cliente è Medhanie Tesfamarian Behre, 27enne falegname oggi detenuto al Pagliarelli. Dopo un primo anno al Tribunale di Palermo, lo scorso luglio i giudici hanno dichiarato la propria "incompetenza per materia" e rinviato alla Corte d’assise, che si occupa di reati sulla tratta del traffico di esseri umani. Nel nuovo processo sono confluiti gran parte di precedenti atti, e i documenti della Procura di Roma, che come Palermo, ha indagato sull’organizzazione di Mered. "I nuovi elementi arrivano dal processo di Roma, la guardia costiera ha chiaramente individuato il vero trafficante, in più ci sono i verbali di Seifu Haile e quello della polizia olandese a Merhawi Yehdego Mered, fratello di Mered - aggiunge l’avvocato Calantropo, sono verbali dirimenti, perché intervengono in un’epoca antecedente all’arresto del mio cliente". L’indagine condotta dal sostituto procuratore Carlo Lasperanza si è avvalsa del collaboratore di giustizia eritreo Seifu Haile, estradato dalla Svezia e oggi detenuto a Rebibbia con l’accusa di traffico di esseri umani. La sua attendibilità, scrivono i pm, è data dal fatto di aver "lavorato in Libia" per Mered, "coabitando nella medesima casa" nel "periodo in cui venivano eseguire le indagini". Altro elemento è l’intercettazione telefonica del luglio 2014, in cui Seifu conferma al suo interlocutore che Mered è l’uomo nella foto "con i capelli lunghi e un po’ stempiato", e che "indossa anche una catenina con una grossa croce". Chiaro riferimento allo scatto acquisito dal profilo Facebook del trafficante in fase d’indagine, e usata anche dalla Procura di Palermo. "Mered è forse l’unico che si può permettere di andare in giro con un crocifisso al collo - racconta Seifu ai pm romani -, lui è cristiano". Una seconda conferma arriva da Merhawi, fratello del trafficante, e rifugiato in Olanda, che in merito alla foto dell’uomo con il crocifisso ha spiegato: "Si quello è mio fratello". In udienza sarà ascoltato, una seconda volta, il vicequestore aggiunto di Palermo Carmine Mosca, presente a Khartoum nel corso dell’estradizione, e che al precedente processo aveva espresso "delle perplessità" e "dei dubbi sull’identità dell’imputato", perché "rispetto alla foto la persona consegnata (dalle autorità sudanesi, ndr) non aveva quelle fattezze". "Cercherò di accelerare la definizione di questo processo - conclude Calantropo, perché è dentro un innocente; è giusto che questo ragazzo esca dal carcere il prima possibile". È consumato il furto aggravato dell’auto anche se c’è l’antifurto satellitare di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 5 ottobre 2017 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 4 ottobre 2017 n. 45637. Chi ruba un’automobile dotata di antifurto satellitare va incontro comunque alla condanna per furto consumato aggravato. Per il ladro è, infatti inutile invocare l’applicazione della pena più mite prevista per il furto aggravato tentato. Ferma restando l’aggravante costituita dall’esposizione del bene alla pubblica fede, i giudici si concentrano sulla richiesta del ricorrente di applicare la norma sul tentativo di furto. Ma la Suprema corte, con la sentenza 45637, nega che l’esistenza del sistema sia utile ad evitare che il furto, nella sua concezione giuridica, venga portato a compimento. La Cassazione precisa che tale strumento non esclude che il soggetto passivo perda, almeno fino al momento di attivazione del sistema di rilevazione satellitare, il controllo materiale e giuridico sulla cosa sottrattagli". Il sistema satellitare non assicura, infatti, precisa la Suprema corte una costante vigilanza durante l’intera fase dell’azione illecita, perché la possibilità di rilevare e seguire gli spostamenti dell’auto dipende da una richiesta che l’interessato deve fare al centro operativo. Il successivo rilevamento ha dunque solo una "funzione recuperatoria di un bene ormai uscito definitivamente dalla sfera di controllo del possessore". Con l’evasione di accisa sui carburanti sì al sequestro del fabbricato deposito di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 5 ottobre 2017 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 4 ottobre 2017 n. 45596. È legittimo il sequestro di un fabbricato adibito a deposito commerciale nel caso sussistano elementi certi che dimostrino l’inerenza tra il bene sotto misura cautelare e il comportamento penalmente rilevante quale l’evasione di accisa e Iva. A precisarlo la Cassazione con la sentenza n. 45596/2017. Il ricorso - Il ricorrente aveva eccepito che la misura non fosse legittima in quanto le prove addotte dai giudici sembravano piuttosto generiche. L’unico elemento contro il ricorrente consisteva in un appunto trovato sull’agenda della sigla "Lav" dal quale si era desunta - a detta del ricorrente - la congettura di evasione senza riscontri concreti. Sul punto, però, la Corte ha evidenziato come il provvedimento impugnato non avesse affatto una motivazione carente o addirittura mancante. Il provvedimento di merito, infatti, faceva riferimento alle indagini condotte dalla Guardia di finanza, nonché a documenti e a pedinamenti che avevano portato a ritenere la presenza del fumus che integrava il reato di evasione delle accise a fronte di plurimi acquisti di carburanti senza registrazioni, con evasione delle imposte (13 acquisti emergenti dalla contabilità in nero, che annotava il quantitativo di gasolio vicino alla richiamata sigla "Lav"). Proprio per questo motivo la Corte ha ritenuto che la motivazione non potesse considerarsi apparente. Giudizio pienamente nei termini - Respinte poi le ulteriori richieste del ricorrente in merito a un ipotizzato sconfinamento dei termini. A tal proposito la Corte ha ricordato come il rinvio operato dal Tribunale all’udienza del 23 giugno 2016 per l’udienza del 4 luglio 2016 non avesse cagionato nessuna violazione del contraddittorio. Il provvedimento impugnato aveva già precisato come gli atti fossero pervenuti nella loro completezza in tribunale solo alla data del 23 giugno 2016 senza quindi superare la soglia dei 10 giorni ex articolo 324 del cpp, comma 1. Abruzzo: "caro presidente Di Pangrazio, i detenuti aspettano il Garante" Il Dubbio, 5 ottobre 2017 La lettera dell’associazione "Amnistia Giustizia Libertà Abruzzi" per sostenere Rita Bernardini. La candidatura di Rita Bernardini all’incarico di Garante dei detenuti nella Regione Abruzzo fu avanzata nel 2015 da Marco Pannella. Da allora la nomina del Garante viene rinviata di riunione in riunione del Consiglio, con pretesti a volte davvero ridicoli e nonostante la sollecitazione giunta anche da parte del Garante Nazionale. La candidatura di Rita Bernardini era finora sostenuta soltanto dall’Associazione "Amnistia Giustizia Libertà Abruzzi", fondata da Marco Pannella a Teramo e da lui presieduta fino all’ultimo. Qualche giorno fa il presidente del Consiglio Regionale, Giuseppe Di Pangrazio, ha espresso indignazione per il colpevole ritardo nella nomina del Garante ed il suo appoggio alla candidatura di Rita Bernardini. Appresa questa notizia, la Presidente, il Segretario e la Tesoriera dell’Associazione Agla hanno scritto al Presidente Di Pangrazio per affiancarlo nella sua azione. Ecco il testo della lettera. Caro presidente Di Pangrazio, Il suo appello a superare l’impasse in cui si trova impantanata la nomina del Garante dei detenuti ci sembra quanto mai opportuno e riteniamo anzi doveroso unirci alla sua voce, avendo noi per primi avviato una campagna finalizzata alla elezione del Garante, insieme a Marco Pannella e a Rita Bernardini, proponendo con entusiasmo quest’ultima per via della sua innegabile dedizione, capacità e competenza. Tuttavia, il riferimento che lei fa alla modifica della legge istitutiva ci conduce a un’analisi che purtroppo non ha nulla di edificante sul contegno mantenuto dal Consiglio regionale tutto, con rarissime eccezioni. Pannella parlava di "solfa indecente" ormai circa due anni or sono, e con buona ragione: da allora infatti abbiamo assistito ad ogni genere di capriola politica, ed è utile ripercorrerne qualcuna per inquadrare il cambiamento normativo nel suo contesto. La candidatura di Rita Bernardini risale all’estate del 2015, quando già la legge giaceva vergognosamente inapplicata ai danni non soltanto dei detenuti, ma dell’intero apparato giudiziario. E fin dal primo istante vi fu un tentativo d’impedirne la nomina, agitando una presunta ineleggibilità per via delle condanne ricevute dalla Bernardini a causa delle sue azioni di disobbedienza civile. Seguì, com’è noto, un appello trasversale per la sua elezione, sostenuto da varie forze politiche oltre che dalla Unione delle Camere Penali e personalità del mondo dell’informazione e dello spettacolo. Contro la presunta ineleggibilità si espresse in tempi record il Tar, a seguito del ricorso presentato dalla candidata. Di lì, l’elezione del Garante viene sistematicamente inserita all’ultimo punto dell’ordine del giorno, slittando di seduta in seduta fino ad oggi. Stendiamo un velo pietoso sulla strumentalità delle motivazioni con cui forze politiche come il Movimento 5 Stelle si sono opposte alla nomina della Bernardini, al pari dei ripetuti tentativi di spingerla a fare "un passo indietro", cui lei ha sempre replicato: "Votate chi vi pare, purché votiate". Dopo tutto questo tempo viene da domandarsi: possiamo noi credere che le modalità di elezione previste dalla legge siano state il vero ostacolo alla elezione del Garante? O è piuttosto una foglia di fico con cui si vuole coprire altre logiche? In virtù del suo ruolo istituzionale, le chiediamo di opporsi con forza a questa "solfa indecente", unendosi a noi nel denunciare la grave irresponsabilità dimostrata dal Consiglio e correndo ai ripari anzitutto inserendo la nomina in cima all’ordine del giorno. Noi continuiamo a sostenere la candidata di Marco Pannella: ci dispiace che in Regione ci sia chi, anziché cogliere la straordinaria occasione offerta dalla disponibilità di una persona dall’alto profilo istituzionale e politico, pensa piuttosto a litigare per le poltrone. Laura Arconti, Presidente di Amnistia Giustizia e Libertà Abruzzi Vincenzo Di Nanna, Segretario di Amnistia Giustizia e Libertà Abruzzi Federica Benguardato, Tesoriera di Amnistia Giustizia e Libertà Abruzzi Napoli: il Garante dei detenuti Ciambriello "morire di carcere a Poggioreale" linkabile.it, 5 ottobre 2017 Occorre accendere i riflettori, con figure sociali che facciano da sostegno ai detenuti. Il neo eletto Garante dei detenuti regionale Campania, il professore Samuele Ciambriello, a meno di una settimana dal suo insediamento ufficiale, ha svolto oggi pomeriggio, la prima visita formale ed istituzionale nel carcere di Poggioreale, dove ha incontrato sette detenuti che gli avevano fatto richiesta di essere ascoltati. La visita ufficiale del Garante, di ieri è stata listata a lutto, in seguito al suicidio di un giovane 39enne che è avvenuto martedì pomeriggio nel carcere di Poggioreale al padiglione Salerno. Ecco la prima dichiarazione ufficiale del Garante: "Morire di carcere. La mia prima uscita pubblica, come Garante dei detenuti, nel carcere di Poggioreale è stata listata a lutto. Un detenuto del padiglione Salerno, a piano terra, ieri alle 18.00 si è suicidato dopo un pomeriggio tranquillo e dopo un incontro di catechesi. Probabilmente qualche cattiva notizia familiare o di provvedimento giudiziario, lo hanno sconvolto, lo hanno segnato. Un padiglione, il Salerno, a regime aperto, con diverse iniziative, dove si è seguiti, non sono bastati a tenerlo in vita. Dopo quello di febbraio è il secondo suicidio a Poggioreale. Detenuti e polizia penitenziaria hanno bisogno di figure sociali che fanno da sostegno, interazione tra detenuti, diagnosi, esperti, psicologi delle Asl. Occorre raggiungere una visibilità istituzionale su questo tema" conclude la nota il Garante Regionale per i ristretti Samuele Ciambriello. Oggi, 5 ottobre, il Garante visiterà invece il carcere di Secondigliano, dove ascolterà un nutrito gruppo di detenuti dell’alta sicurezza. Mantova: detenuto morto all’Opg nel 2013, disposta perizia medico-legale bergamonews.it, 5 ottobre 2017 Un 31enne detenuto all’Opg di Castiglione delle Stiviere morì nel 2013, dopo un pasto a base di pesce. Il Gip di Mantova ha disposto la perizia per verificare eventuali negligenze. In sede di incidente probatorio il Gip di Mantova ha disposto una perizia medico legale per stabilire se c’è o meno una correlazione tra il decesso, avvenuto nel 2013, di C. U. di Osio di Sotto, detenuto dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere, ed eventuali negligenze da parte del personale medico sanitario dell’ospedale Carlo Poma. A darne conto è La Voce di Mantova. La sera di martedì 2 aprile 2013, il 31enne di Osio Sotto ed altri compagni, consumano la cena a base di pesce. Poche ore più tardi, nella notte, tutti gli ospiti dell’allora Opg di Castiglione delle Stiviere avvertono malori, vomito e dissenteria. Dei 63 detenuti, 60 vengono dimessi poche ore dopo, due rimangono in osservazione mentre il 31enne bergamasco a mezzogiorno del giorno successivo, viene trasferito all’ospedale Carlo Poma di Mantova dove muore il 3 aprile, tre ore dopo il ricovero, steso su una barella in attesa di essere trasferito nel reparto di chirurgia. Il 31enne era arrivato al Poma dall’Opg di Castiglione per una presunta occlusione intestinale, che però non sarebbe stata evidenziata in sede di autopsia. La Procura della Repubblica di Mantova ha aperto un fascicolo d’indagine per omicidio colposo nel quale è stato iscritto il nome di un medico dell’ospedale. Il 31enne aveva problemi psichici e di tossicodipendenza ed era ricoverato all’Opg dal 28 gennaio 2011. Il 15 marzo 2013 aveva trascorso l’ultima giornata in compagnia dei genitori, dopo un permesso. La vicenda è stata portata anche all’attenzione del parlamento con un’interrogazione scritta (del 16 aprile 2013), presentata da Giovanna Martelli di Sinistra Italiana indirizzata all’allora Ministro di Giustizia, dove si chiedeva "secondo quanto riportato da diversi organi di informazione la procura di Mantova ha aperto un’inchiesta sulla morte di un detenuto dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere causata sembra da intossicazione alimentare. L’autopsia sul corpo del 31enne di Osio di Sotto, confermerebbe l’ipotesi dell’intossicazione dopo un pasto a base di pesce congelato. Con lui, il 2 aprile 2013, erano stati male altri ospiti dell’ospedale psichiatrico giudiziario: quali iniziative, nel rispetto della diversa e autonoma iniziativa della magistratura competente, abbia posto in essere il Ministro interrogato per verificare quanto accaduto". Trento: Antonia Menghini eletta Garante dei diritti dei detenuti di Donatello Baldo ildolomiti.it, 5 ottobre 2017 Giornata super-produttiva quella di oggi in Consiglio provinciale. Due importanti provvedimenti sono stati approvati quasi all’unanimità: la Riforma della cultura e la nomina della Garante dei detenuti. Come anticipato, il nome su cui si è trovata la convergenza di gran parte dei consiglieri è stato quello di Antonia Menghini, professore aggregato di Diritto penale alla facoltà di Giurisprudenza di Trento, esperta di diritto penitenziario. Maurizio Fugatti della Lega e Claudio Cia di Agire hanno espresso la loro contrarietà con la scheda bianca. Tutti gli altri, 26 consiglieri su 29 presenti, nel segreto dell’urna, hanno espresso il loro favore per la candidata Menghini, superando di 4 unità la maggioranza dei 2/3 richiesta per questa votazione. I primi a congratularsi pubblicamente con la neo-eletta garante è Walter Alotti: "Nonostante il pensiero contrario dei vandali che di recente hanno sfregiato la nostra sede con frasi offensive contro il sindacato e i lavoratori dei penitenziari, la UIL del Trentino ha a cuore non solo l’organico insufficiente degli agenti di polizia penitenziaria ma anche i 214 detenuti (la capienza massima è di 125) dei quali solo 52 accedono a forme di lavoro". "Ecco perché siamo molto lieti della nomina della ricercatrice di diritto penale Antonia Menghini come Garante dei detenuti. Il fatto che sia autrice di testi sullo spazio detentivo, il recupero dei detenuti, la dignità e l’umanità della pena - scrive il segretario della Uil- ci fa ben sperare nei suoi auspicabili prossimi interventi nell’ottica della valorizzazione del lavoro dei detenuti stessi". Da oggi, quindi, dopo anni di attesa e tra gli ultimi a dotarsene, anche il Trentino ha un suo Garante dei detenuti. Soddisfatto Mattia Civico, il "padre" della legge che lo ha istituito soltanto pochi mesi fa, che ha tessuto i rapporti tra maggioranza e minoranza con l’intento, riuscito, di portare a casa la nomina entro la legislatura. Lecce: tatuaggi sì, ma sicuri, e preservativi in cella. Il progetto prevenzione in carcere di Anna Puricella La Repubblica, 5 ottobre 2017 Il corso di Antigone forma 15 giovani detenuti che diventeranno poi i "tutori della salute". La pratica del tatuaggio non è di certo nuova agli ambienti carcerari. Ma se è lo stesso carcere a dare il benvenuto ai tatuatori le cose cambiano: nella casa circondariale di Lecce partirà a breve un progetto che coinvolgerà i detenuti, e li introdurrà all’arte di incidersi la pelle in maniera corretta e igienica. Impareranno a tatuare e a tatuarsi, quindi, senza ricorrere a mezzi di fortuna, ad aghi infetti e inchiostro di dubbia provenienza. L’idea è di Antigone, che è stata inserita insieme ad altre associazioni italiane in un percorso - Iride 1 - che recepisce le raccomandazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità ed è stato sviluppato con il ministero della Salute. È una denuncia, in realtà, delle cattive condizioni dei penitenziari, dove i rischi di contrarre malattie sono all’ordine del giorno. "Fra le 15 raccomandazioni dell’Oms - spiega Maria Pia Scarciglia, referente regionale di Antigone - ne abbiamo selezionate tre: abbiamo fatto informazione, educazione e comunicazione sui comportamenti che i detenuti dovrebbero evitare, siamo al lavoro per la distribuzione di preservativi e puntiamo infine a formarli sul tatuaggio". La questione, più che un vezzo, è una vera emergenza. "Perché i detenuti a Lecce si tatuano, e pure tanto". Farlo seguendo le norme igieniche deve diventare un obbligo. Stesso discorso per la distribuzione di condom: "C’è una certa resistenza da parte dei detenuti e anche del personale, ma contiamo di distribuirli quanto prima. Anche perché sappiamo che i rapporti sessuali non protetti in carcere esistono, così come quelli subiti per coercizione dai nuovi arrivati". Esistono, e le malattie sessualmente trasmissibili - Hiv, tubercolosi ed epatite C - sono la conseguenza più immediata, e una realtà anche a Lecce. Il carcere salentino - mille detenuti, l’età media è di 30 anni - è uno dei primi in Italia a partire con il programma Iride 1 - in tutto sono 11 - e l’obiettivo di Antigone è portare la stessa esperienza a Bari e Taranto. Da dicembre si partirà con lezioni prima teoriche e poi pratiche sull’arte del tatuaggio, con Vladimiro Apollonio: "È uno dei nomi più noti a livello nazionale e internazionale, con lui faremo un percorso di responsabilizzazione dei detenuti, formando una classe di 15 - spiega Scarciglia - e lavorando in una stanza sterile, con aghi e inchiostri monouso. È un’iniziativa straordinaria rispetto al carcere, dove sono vietate le modifiche corporee. Ma è un’occasione di responsabilizzazione dei detenuti, oltre che una possibilità lavorativa per il loro futuro". Napoli: a Poggioreale entro fine ottobre il nuovo direttore, ma diverse novità in arrivo di Fabrizio Ferrante Ristretti Orizzonti, 5 ottobre 2017 Ieri mattina una delegazione degli Ex detenuti organizzati di Napoli, di "Je so pazz ex Opg occupato" e di Gioco di Squadra Onlus, è stata ricevuta nel carcere di Poggioreale. Tre militanti sono stati accolti dal vicedirettore Ciro Proto, dal dirigente sanitario Bruno Di Benedetto e da Manlio Russo, medico che si occupa di salute mentale. "Qui il sovraffollamento esiste sempre" ha esordito Pina Vittozzi in rappresentanza degli ex detenuti. "Conosciamo le condizioni in cui vivono i detenuti, fino a nove persone in una stanza e dobbiamo ottenere che, almeno, non si vada oltre i sei/sette ristretti per cella". Un numero comunque alto ma meno inaccettabile di quel che succede oggi e, in questo senso, da Poggioreale fanno sapere che si impegneranno ma anche che, ad oggi, la sentenza Torreggiani è rispettata. "Noi saremo sempre qui a lottare per una detenzione dignitosa" ha chiosato la Vittozzi che è moglie di Pietro Ioia, storico leader e fondatore dell’associazione che riunisce gli ex detenuti di Napoli. In questa giornata non è mancata l’occasione per conoscere le sorti di uno specifico detenuto che si sta seguendo: "Ho chiesto al dirigente sanitario in merito a Carlo Oliviero, un detenuto che la nostra associazione segue da tempo e che è affetto da un calcolo al rene, per cui ha subito tre ricoveri anche nel Padiglione Palermo del Cardarelli. Sta bene e sta ricevendo le cure di cui necessita". Sulla poltrona vacante di direttore del carcere si è soffermata Carmela Esposito, presidente di Gioco di Squadra Onlus: "Il nuovo direttore sarà in carica per la fine di ottobre. Al momento non si sa chi potrebbe essere. Anche se lo stesso vice direttore, dottor Ciro Proto, si è candidato a ricoprire l’incarico". Altre novità sono state annunciate da Antonio, uno dei tanti ragazzi che animano "Je so pazz ex Opg occupato": "Ci sono state promesse, sempre per fine mese, delle novità anche riguardanti l’accettazione e l’accesso dei parenti dei detenuti ai colloqui. Questi saranno agevolati da procedure facilitate rispetto al passato. Sulla sanità serve chiarezza e che finisca il rimpallo di responsabilità fra amministrazione penitenziaria e Regioni che va a discapito della salute dei detenuti". Sulla nuova modalità di accesso al carcere e su nuove opportunità per detenuti e familiari, si è soffermata ancora Carmela Esposito: "La saletta sarà spostata, l’accesso cambierà e al momento mancano solo gli arredi. I parenti dei detenuti non saranno costretti a lunghe attese all’esterno ma staranno al chiuso. Una fila non ci sarà più anche perché sarà istituito uno sportello bancomat con una scheda, grazie alla quale i parenti potranno caricare i soldi per il loro congiunto in carcere, che già oggi dispone di un apposito libretto. Soldi che vengono usati per la spesa settimanale ed è una cosa buona perché se oggi occorre fare tre file per entrare, presto bisognerà farne solo due. Abbiamo inoltre chiesto che gli avvisi siano più leggibili e più visibili perché spesso passano inosservati come quelli relativi a cosa si porta nei pacchi. In merito alle condizioni di vita nel penitenziario: "Abbiamo chiesto - ha proseguito la Esposito - che le coperte siano sterilizzate più spesso (ci sono stati casi di scabbia) e il vicedirettore ci ha detto che aveva già pensato di richiederne altre. Altra importante novità, il fatto che i detenuti potranno avere dei cappellini invernali perché spesso capitava che a causa del freddo i ristretti si vedessero costretti a tagliare le maniche dei maglioni per farne dei cappelli di lana". Focus sull’altro tema caldo, la salute in carcere: "Per quanto riguarda la sanità abbiamo parlato col dottor Manlio Russo che da novembre fa ambulatorio a Poggioreale e le ore sono anche aumentate, 36 settimanali. In più possono effettuare con mezzi propri il Tso, altra cosa importante. Quello che preoccupa è che non essendoci più le strutture psichiatriche, Poggioreale si sta riempiendo di detenuti afflitti da problemi psichici. Segnatamente il Padiglione Firenze ci dicono ne accolga diversi e molto spesso si tratta di situazioni di tossicodipendenza non capite nell’immediato. Così come vi sono persone all’apparenza calme ma che hanno alla base problemi psichici molto più gravi. Questo problema è stato sollevato anche dagli stessi agenti della Penitenziaria, serve inoltre aprire il padiglione Genova (finito ma chiuso) e assumere personale anche fra gli infermieri, visto che sono pochi e il servizio è esternalizzato". Sui medicinali, continua la militante: "Dal carcere sostengono che questi arrivano regolarmente tutti ma soprattutto che ci sono anche gli specialisti. In questo modo si può stabilire prima la compatibilità di un detenuto col carcere, spostarlo al centro clinico, a casa o in ospedale. Ci è dispiaciuto sentire che talvolta i medici relazionino che il detenuto abbia talune necessità affinché il magistrato possa disporne ad esempio i domiciliari ma poi questi malati restano o tornano in carcere nonostante tutto. Ci chiediamo come mai sia stato costruito l’ospedale del Mare senza un posto per i detenuti, così come ci chiediamo perché se il Cardarelli oltre al Padiglione Palermo ha messo altri due posti per la chirurgia, il Pascale si rifiuta di ricoverare i detenuti. Lì ci si ferma al pre-ricovero, come confermatoci dal dirigente sanitario, ma di ricoverare i detenuti non se ne parla. Chiederemo un incontro con il Presidente della Regione, Vincenzo De Luca, e chiederemo al dottor Di Benedetto di farci compagnia per portare la sua competenza. Di buono c’è intanto che è stato fatto un contratto e sono arrivate le nuove ambulanze per il trasporto dei detenuti, in luogo di quelle molto fatiscenti in uso fino a poco tempo fa". Per avere un’idea della situazione recente, Pina Vittozzi ha raccontato che una volta un detenuto cadde col lettino per strada, in quanto si aprirono le porte dell’ambulanza mentre era in movimento, una vecchia ambulanza che aveva i ganci difettosi. Spazio infine per qualche altra buona notizia: "Ci sono delle nuove attività, una delle quali sarà anche riconosciuta dal Comune di Napoli - ha spiegato Carmela Esposito - come un corso per operatore turistico. Questo è importantissimo perché nessuna attività svolta in carcere è riconosciuta dalle istituzioni". Pina Vittozzi ha quindi ricordato il progetto attuato da Pietro Ioia nel 2009, denominato "Esco Dentro". I detenuti accompagnavano i turisti ovunque sbarcassero a Napoli, evitando che fossero scippati. Poi il progetto fu dismesso, fino a oggi che sta per essere reintrodotto e riconosciuto. Antonio dell’ex Opg ha evidenziato che è in programma un incontro (sempre oggi a Poggioreale) coi presidi delle scuole secondarie per capire se si può fare in modo che un detenuto possa completare un intero ciclo di studi dietro le sbarre. "La cultura è importante anche per essere consapevoli dei propri diritti" secondo l’esponente di Je so pazz. Infine, prevista per oggi anche la prima visita in carcere nelle vesti di nuovo Garante dei detenuti della Campania, da parte di Samuele Ciambriello. Così la Esposito sul nuovo garante: "Ricordo che entrava come presidente dell’associazione "La Mansarda" nelle carceri, in cui lavora da anni e conosce le situazioni, per cui gli facciamo i migliori auguri e sappiamo che è già molto attivo". Napoli: fiaccolata davanti al penitenziario di Secondigliano, per i diritti dei detenuti Cronache di Napoli, 5 ottobre 2017 Si svolgerà stasera, dalle 20 alle 22, la fiaccolata silenziosa davanti al penitenziario di Secondigliano. Dopo la condanna del Consiglio di Strasburgo sul sovraffollamento di cittadini detenuti nelle carceri italiane e l’ultimo suicidio avvenuto, nei giorni scorsi, presso il carcere di Poggioreale, Luigi Mazzotta, presidente dell’associazione "Radicali per la Grande Napoli", membro del comitato nazionale di Radicali Italiani, insieme alle famiglie dei detenuti iscritti al partito radicale nonviolento transnazionale transpartito, organizzeranno una fiaccolata, esponendo striscioni e cartelli con senno "Amnistia", "41bis basta tortura di Stato", "Emergenza sanitaria". La paralisi della giustizia, 9 milioni di procedimenti civili e penali pendenti, le mancate riforme del sistema penitenziario, il sovraffollamento, le emergenze sanitarie: sono questi alcuni dei temi che i radicali tengono ad affrontare per tutelare i diritti dei detenuti. La fiaccolata sarà organizzata anche dinanzi alla casa circondariale di Poggioreale: si terrà martedì dalle 20 alle 22. In quell’occasione sarà presente Rita Bernardini, esponente di rilievo del partito radicale. Pisa: pet therapy in carcere, la storia di Alessandro e del golden retriever Zoe di Alice Zampa lifegate.it, 5 ottobre 2017 Uno dei contesti in cui l’esperienza di pet therapy con i cani è particolarmente efficace è quello carcerario. A parlarcene è un ex detenuto, "rinato" grazie a un’amica speciale. Il racconto di un’esperienza diretta è, spesso, il modo migliore per riuscire a cogliere il cuore di una realtà. Ecco perché, ascoltare le parole di un ex detenuto, "rinato" proprio grazie all’incontro con un golden retriever, può dare, più di molte spiegazioni, un’idea chiara di cosa sia la pet therapy. Sono tanti i contesti, di disabilità, disagio, isolamento, in cui questa pratica può portare autentici benefici e diverse le associazioni che se ne occupano in Italia. Una di queste è "Do re miao", impegnata con progetti nelle carceri, dove le problematiche relazionali e di solitudine affliggono quotidianamente i detenuti. A parlarcene è stato Alessandro (40 anni), rinchiuso per un anno nella casa circondariale Don Bosco di Pisa dove, più di qualunque altra cosa, l’esperienza con i cani, e in particolare con la dolce golden retriever Zoe, lo ha aiutato ad affrontare le difficoltà della vita carceraria. Come lui sono in molti ad avere un debito di gratitudine verso gli amici a quattro zampe, impegnati ogni giorno in attività di sostegno e soccorso. A celebrare proprio queste realtà è stato l’evento Trainer cani eroi show 2017 svoltosi il 16 e 17 settembre al Parco fluviale di San Donà di Piave, in provincia di Venezia. Com’è avvenuto l’incontro con la pet therapy? Nel 2015 sono entrato nel carcere Don Bosco di Pisa per scontare un residuo pena di un anno. Dopo tre mesi sono stato spostato nella sezione a regime attenuato, la Prometeo, che è un po’ un fiore all’occhiello delle carceri italiane. L’organizzazione lì è più simile a quella di una comunità: le celle restano aperte durante il giorno e ci sono dei laboratori e una sala polivalente destinata a varie attività, tra cui i corsi di pet therapy. Come mai hai deciso di provare questa esperienza? Me lo propose il mio compagno di cella, ma all’inizio ero molto titubante, perché a casa avevo lasciato il mio cane Roy, un rottweiler adottato in canile. Il distacco con lui era stato doloroso per me e avevo paura che stare con altri cani mi avrebbe fatto stare peggio. Poi, però, mi hanno convinto a fare un tentativo e così ho conosciuto i ragazzi dell’associazione Do re miao!, che venivano da noi una volta a settimana. In cosa consisteva il corso di pet therapy? Facevamo degli esercizi e dei giochi per capire come interagire con i cani in modo corretto. Io, in particolare, mi sono molto affezionato a Zoe, un golden retriever di otto anni. La cosa interessante per me è stata scoprire che, nonostante l’esperienza che avevo già avuto con i cani, c’era ancora tanto da imparare su di loro. Così ho deciso di proseguire il corso e di aprirmi ancora di più a questo mondo. Un momento bellissimo è stato quando sono riusciti a portarmi il mio cane Roy, dopo sei mesi che non lo vedevo. Un’emozione fortissima che non dimenticherò mai. Quindi hai sempre avuto la passione per i cani? Sì, ho fatto volontariato in un canile e ho adottato dei cani. Roy l’ho preso al canile di Modena dopo che era stato tolto ai precedenti proprietari. Quando l’ho portato a casa soffriva per le conseguenze di un’operazione all’anca e non si capiva come risolvere la situazione. Dopo diverso tempo è venuto fuori che erano rimaste all’interno alcune garze sterili, che non facevano rimarginare la ferita. Per fortuna il problema poi si è risolto e da allora lui si è attaccato a me in maniera quasi morbosa. Mi piace pensare che questa simbiosi che c’è tra noi sia dovuta anche un po’ al vissuto che ci accomuna. Della pet therapy nello specifico avevi già sentito parlare? Sì, perché mio padre era direttore di una casa per anziani dove avevano fatto dei corsi con malati di Alzheimer, con ottimi risultati. Ho anche un’amica che ha sperimentato, per suo figlio, la pet therapy con i cavalli, risolvendo così diverse sue insicurezze. Cosàhai imparato da questa esperienza? Ho capito quanto gli animali ti possano dare. Per spiegare quello che si prova faccio sempre un paragone un po’ crudo, ma reale. Durante i colloqui in carcere con i miei famigliari si parlava sempre di qualche problema. Quando è venuto Roy, invece, è stato come se non ci fossimo mai lasciati, come se non fosse successo nulla. Lui ti riprende lì, dove ti aveva lasciato. Non ti giudica. Tutto questo ti ha aiutato a vivere meglio la situazione che stavi attraversando? Sì, anche nel rapportarmi con le altre persone. Io vengo da una famiglia tranquilla e da un contesto normalissimo. Perciò all’inizio vivevo con una sorta di paranoia la mia situazione e mi isolavo, temendo continuamente di essere giudicato da tutti per quello che avevo passato. L’esperienza con la pet therapy, invece, mi ha aiutato a capire che, come gli animali, anche le persone possono essere in grado di guardarti non per quello che hai fatto ma per quello che sei e che fai ora. Come venivano vissute le ore di pet therapy dagli altri detenuti? Benissimo. C’erano persone anche piuttosto "rattoppate" o che soffrivano di autolesionismo che, durante il corso con i cani, non sembravano nemmeno più loro. Riuscivano a tirare fuori quello che nei momenti di vita normale non riuscivano a esprimere. A differenza di altri corsi, dove si finiva sempre a parlare di questioni giudiziarie o dei propri problemi, nell’ora di pet therapy si stava solo lì a interagire con gli animali e a fare gli esercizi. Dopo quell’ora io tornavo sempre in cella rilassato. Mi sentivo come se stessi camminando a dieci centimetri dal suolo. E in un ambiente oppressivo come il carcere, non è una cosa da poco. Anche perché, dopo un po’ che sei lì dentro, pensi solo al fatto che sei chiuso tra quelle quattro mura. Da quando sei uscito hai più rivisto Zoe? Sì, a volte partecipo agli eventi dell’associazione. Vedere Zoe è molto emozionante per me perché significa ricordare i momenti belli vissuti in un brutto periodo. Cosa ti sentiresti di dire ad altre persone che stanno vivendo le stesse problematiche che hai attraversato tu? Che vale sempre la pena provare un’esperienza come la pet therapy. Può davvero aiutare in tanti frangenti e, comunque, male non può fare. Napoli: "Dare un calcio al passato"; avvocati, magistrati e detenuti in campo di Vincenzo Sbrizzi napolitoday.it, 5 ottobre 2017 Il torneo "Dare un calcio al passato" si terrà a Nisida il 14 ed il 28 ottobre ed avrà come protagonisti diversi esponenti della Camera penale". Avvocati, magistrati e minorenni detenuti per un giorno uniti dalla passione per il calcio. Daranno il benvenuto gli organizzatori dell’evento, gli avvocati Gennaro Demetrio Paipais, Presidente dell’Unione Giovani Penalisti e l’avvocato Mario Covelli, Presidente della Camera Penale Minorile. Prenderanno parte alla competizione calcistica gli avvocati dell’Unione Giovani Penalisti di Napoli, della Camera Penale Minorile, i magistrati e i minori dell’Istituto Penale Minorile di Nisida e di Airola. Nel corso della presentazione del Torneo, l’avvocato Sergio Pisani consegnerà al Direttore dei due Istituti Minorili Gianluca Guida le maglie "Shirthink" con lo slogan, che tra l’altro titola l’evento, "Diamo un Calcio al Passato", per tutti i detenuti. Tra gli ospiti alla presentazione, l’ex calciatore del Napoli Ciro Caruso. Le partite si terranno il 14 ed il 28 ottobre presso il campo di calcio dell’Istituto Penale Minorile di Nisida. "L’integrazione passa anche da una partita di calcio - dichiara l’avvocato Gennaro Demetrio Paipais, presidente dell’Unione Giovani Penalisti di Napoli - ed è per questo che, insieme alla Camera Penale Minorile, presieduta dall’avvocato Mario Covelli e con il supporto del Giudice Maurizio Baruffo e del Direttore Guida, abbiamo fortemente voluto scendere in campo con i ragazzi di Nisida e di Airola. Organizzeremo ulteriori incontri sportivi - conclude Paipais - nell’ottica dell’aggregazione sociale, anche presso le periferie". Alla cerimonia di presentazione si confronteranno, tra gli altri, il Direttore del Dipartimento di Giustizia Minorile, Dott.ssa Gemma Tuccillo, il Presidente del Tribunale per i Minorenni, Dott.ssa Patrizia Esposito, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni di Napoli, Dott.ssa Maria de Luzenberger, il Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Napoli, Avv. Armando Rossi, il Presidente della Camera Penale Minorile, Avv. Mario Covelli, il Direttore degli IPM di Nisida e di Airola, Dott. Gianluca Guida ed il Professore di Diritto Penale dell’Università Federico II di Napoli, Sergio Moccia. Non mancherà l’intervento del maggiore fautore del recupero dal disagio giovanile, il noto Maestro Gianni Maddaloni, che racconterà la sua esperienza di "trincea" in un quartiere particolarmente a rischio come quello di Scampia. Altra realtà che prenderà parta alla conferenza stampa è l’Associazione per la Legalità Senza Bavaglio il cui Presidente Claudio Ferrara si prodiga in prima persona per la riqualificazione del quartiere puntando proprio sui giovani del quartiere di Scampia. Altro testimone importante dell’evento è l’avvocatoAngelo Pisani, Presidente nella scorsa consiliatura proprio dell’VIII Municipalità (Scampia - Chiaiano - Piscinola - Marianella), che nel corso del suo intervento racconterà come ha lavorato tantissimo nel recupero dei minori a rischio proprio durante la sua Presidenza. Migranti. Il paradigma della sicurezza genera mostri di Don Armando Zappolini* Il Manifesto, 5 ottobre 2017 Il piano del governo italiano, e dell’Ue, per bloccare i migranti in Libia è un caso esemplare della grave inadeguatezza della classe politica nazionale ed europea dinanzi a un mondo globalizzato che muta vorticosamente. L’entusiasmo che circonda il ministro dell’Interno è sorprendente. Come abbiamo affrontato "l’emergenza migranti"? In primo luogo, si è riaffermato che "la sicurezza è una questione di sinistra". Non è una novità: già nel 2007-2008 fioccarono una miriade di provvedimenti di giunte di sinistra contro migranti, prostitute, "lavavetri" e "mendicanti molesti". Il piano immigrazione e il piano sicurezza si fondano sulle stesse vecchie, sbagliate premesse. Poi, si sono criminalizzate le Ong che salvavano vite umane nel Canale di Sicilia. Infine, si è permesso alla Guardia costiera libica (su cui pende un’indagine di collusione con milizie e trafficanti - un segreto di Pulcinella - da parte della Corte penale internazionale), di minacciare le navi delle Ong. Intanto il nostro ministro dell’Interno incontrava una schiera di capi tribù e "sindaci" libici affinché facciano il lavoro sporco che noi proprio non possiamo fare: rinchiudere i migranti nei "centri di detenzione", luoghi di abusi e violenze e uno dei business più lucrosi in Libia. Abbiamo dato campo libero alla Guardia costiera libica. E stabilito una bella alleanza - certamente onerosa - con milizie, bande armate, militari che ambiscono al ruolo di rais. Il generale Haftar ha chiesto droni, elicotteri, visori notturni, veicoli. E avrebbe ottenuto un programma di addestramento dei "soldati libici" in Italia. Armare personaggi inaffidabili per colpire i nemici (che, in questo caso, chi sarebbero? I migranti?) è una specialità dell’Occidente. Che, in genere, finisce male. I risultati? A parte le spaventose conseguenze per la vita di decine di migliaia di persone innocenti, già la barriera anti-migranti appare una patetica Maginot: le partenze sono riprese, dalla Tunisia. Il centro di Lampedusa è tornato a riempirsi. Pensare di fermare un movimento epocale come le migrazioni regalando soldi - e potere di ricatto - ai personaggi più vari, da Erdogan fino al "sindaco" di un paesino libico al confine con il Niger, appare sconsiderato, anche "dimenticando" sofferenze e ingiustizie terribili. Non crediamo che la strategia europea e italiana nasca (solo) da un impressionante cinismo. Vi sono certo a Bruxelles e nelle capitali europee leader convinti che "There is no alternative", in economia come nella difesa del nostro livello di benessere (due questioni ovviamente collegate) da un’invasione che manderebbe in rovina istituzioni e pace sociale. Una convinzione che va contestata. La strategia del "muro" può forse funzionare nel breve periodo, ma è destinata al fallimento. Nella sola Africa abitano più di un miliardo di persone, che triplicheranno nei prossimi trent’anni. Tantissimi sono giovani, che non hanno opportunità di vita decenti nei loro paesi. Più di 350 milioni di africani vive con meno di due dollari al giorno. Vogliamo andare avanti finanziando bande armate e oligarchie corrotte, lasciando mano libera alle transnazionali e ai traffici di armi e usando i (pochi) soldi del cosiddetto "aiuto allo sviluppo" nel modo scandaloso fatto finora? Portando avanti un neocolonialismo che produce risentimento, migrazioni e radicalizzazione? Oppure vogliamo, finalmente, favorire - in modo trasparente - la nascita e lo sviluppo nei paesi africani di un’economia locale, investendo in istruzione e formazione? Un’economia collegata al miglioramento delle condizioni di vita delle comunità territoriali e alla riduzione delle disuguaglianze sociali. L’Italia non dovrebbe chiedere solo il superamento di Schengen, ma anche un nuovo patto con l’Africa. Attivando nel contempo canali legali per chi vuole e, soprattutto, è costretto a migrare. Smantellando i Cie e i mega centri di accoglienza straordinaria che stipano centinaia di migranti in condizioni di vita non dignitose, con speculazioni intollerabili e forti tensioni con le comunità locali. Chiediamo molto. Ma l’alternativa è molto peggio. Il paradigma della sicurezza genera mostri. Noi ci confronteremo su questi temi alla nostra assemblea a Spello, da oggi al 7 ottobre, il 21 ottobre saremo alla manifestazione contro il razzismo e raccogliamo le firme con la campagna Ero straniero per una nuova legge sull’immigrazione. *Presidente del Cnca, Coordinamento nazionale comunità di accoglienza Migranti. Uno sciopero (della fame) per non sentirsi impotenti di Luigi Manconi e Antonella Soldo Il Manifesto, 5 ottobre 2017 Lo scorso anno sono arrivati in Italia circa 26mila minori non accompagnati. Quest’anno "solo" circa 13.400. Ecco, dei migranti non arrivati, una parte significativa ora si trova in Libia, in quei centri di detenzione definiti orribili da tutte le organizzazioni per la tutela dei diritti umani. Ragazzi e bambini come quegli 800mila figli di stranieri nati e cresciuti nel nostro Paese a cui non viene riconosciuto il diritto a una cittadinanza piena. Nella storia c’è un precedente a tutto, ma quella che si configura appare una sorta di guerra ideologica contro i minori: e questo sì, rappresenta un fatto storico senza precedenti. Eppure qualcosa si deve fare per non doverci amaramente rammaricare, tra qualche mese o qualche anno, della nostra impotenza o ignavia. E se - come molti segnali sembrano confermare - questi sono giorni decisivi per la sorte dello ius soli è necessario provare ad impedire che si chiuda lo spiraglio, pur esile, che sembra essersi aperto. È per questo motivo che, a partire da oggi, 5 ottobre, iniziamo uno sciopero della fame a staffetta senatori e deputati, insieme a tutti quei cittadini che ritengono quella sullo ius soli una legge ragionevole e saggia. L’iniziativa raccoglie il testimone del digiuno attuato lo scorso 3 ottobre (giornata nazionale in memoria delle vittime delle migrazioni) da oltre 900 insegnanti in tante scuole italiane a sostegno della legge. Infatti, dopo l’approvazione della nota di aggiornamento al Def, si apre una finestra. La legge di stabilità arriverà alle Commissioni del Senato verso la fine di ottobre: ciò vuol dire che vi sono due settimane di tempo per ricercare i numeri necessari alla fiducia sul provvedimento relativo alla riforma della cittadinanza. Ed è esattamente in queste settimane che si svolgerà la nostra iniziativa di digiuno a staffetta. Hanno aderito già decine di senatori e deputati, il ministro Graziano Delrio e i sottosegretari Benedetto Della Vedova e Angelo Rughetti, oltre ai dirigenti di Radicali italiani. Ma ciò che ci aspettiamo è l’adesione e la partecipazione attiva di tanti cittadini. Si tenga conto che quello stesso periodo di tempo coincide con la fase conclusiva della campagna "Ero straniero. L’umanità che fa bene" e della relativa raccolta di firme per una proposta di legge di iniziativa popolare finalizzata al superamento della "Bossi-Fini". I due obiettivi potrebbero - e dovrebbero - sostenersi e incentivarsi a vicenda. E si ricordi che il pomeriggio del 13 ottobre, a partire dalle ore 15, davanti a Montecitorio è prevista una manifestazione, promossa dalla rete degli "Italiani senza cittadinanza", alla quale sarebbe importante che molti partecipassero. Si tratta, ne siamo consapevoli, di una prova difficile ma che vale la pena affrontare. Una sfida che riguarda le parole e i pensieri e la rappresentazione di fenomeni che fanno parte della nostra vita e della nostra contemporaneità. D’altra parte "tutte le grandi rivoluzioni della vita umana avvengono nel pensiero", come scriveva Lev Tolstoj. E nella dimensione del pensiero, lì dove si formano idee e sentimenti, l’intolleranza etnica può trovare lo spazio per covare e svilupparsi. Ma anche quello per essere contrastata e sconfitta. Migranti. Manconi: "sciopero della fame, la mia battaglia per salvare lo ius soli" di Errico Novi Il Dubbio, 5 ottobre 2017 "Con la xenofobia, non con il razzismo, attenzione, si deve fare i conti. E si deve considerare il crescere di un’ostilità verso lo straniero risvegliata dalla crisi economica e da una crisi della stessa concezione universalista dell’illuminismo. Eppure io credo che la politica possa ancora riscattarsi, mostrare la propria autonomia dal linguaggio dei sondaggisti e delle tv, e approvare con uno scatto di reni lo ius soli". Luigi Manconi, presidente della commissione Diritti umani del Senato, è in tensione su un tema, quello del rapporto con l’altro inteso come straniero, che lo ha spinto a scrivere un libro analitico ma denso di preoccupazioni, Non sono razzista, ma. Un lavoro pubblicato con Federica Resta e segnato da un approccio sociologico originale. La tensione non gli fa perdere speranza in una svolta sul riconoscimento della cittadinanza a chi cittadino italiano lo sarebbe già nei fatti. Prova a svegliare il governo e la maggioranza con uno sciopero della fame a staffetta che inizia oggi. La lotta vede coinvolti "almeno 30 senatori e 40 deputati, abbiamo già due sottosegretari, Benedetto Della Vedova e Angelo Rughetti: raccoglieremo firme e ci batteremo affinché non si chiuda lo spiraglio". D’accordo, senatore. Ma intanto nel suo libro scrive che il prurito xenofobo si insinua e che la politica non sa eliminarlo. Primo: la tentazione xenofoba ha forse un suo radicamento lontano, quanto meno ha una sua storia antropologica, e ora l’ansia diffusa dalla crisi la ripropone. C’è un altro elemento di novità: i sistemi di valori che hanno accompagnato la storia europea negli ultimi secoli, l’illuminismo e la democrazia, si mostrano inadeguati a respingere il ripiegamento etnocentrico. Però non è che la politica strettamente intesa sia estranea a tale processo. Che intende dire? La destra ha sicuramente saputo lavorare sullo spazio in cui si accumula l’ansia collettiva, lo osservo dalla fine degli anni Ottanta. Nello stesso periodo non ho notato alcuna particolare iniziativa di segno contrario da parte della sinistra. Va anche detto che neppure la Lega può essere ridotta a partito xenofobo: la sua sostanza non è semplificabile in quello. Come italiani, e italiani di sinistra, potremmo dirci fortunati ma inerti. Ergo lo ius soli non passerà mai? Se lo dicesi io perderebbe di senso lo sciopero della fame a staffetta che intraprendo proprio oggi. Ma prima di trarre conclusioni sul suo quesito vorrei dire cosa finora la politica non ha fatto. Prego. C’è un dato che precede ogni insulto, ogni offesa calderoliana, ogni gergo da osteria o ammiccamento un po’ lascivo un po’ offensivo. Quel dato, che è la causa di tutto il resto, è nella sproporzione tra il numero complessivo dei comuni italiani, 7972, e il numero dei comuni che aderiscono al Servizio di protezione per i richiedenti asilo, lo Sprar, che è di appena 1300. È chiaro che se il peso oggi sopportato da questi ultimi ricadesse sull’intero Paese, la gestione dell’accoglienza sarebbe assai meno affannosa. Concordo sulla richiesta dell’Anci: l’adesione allo Sprar sia volontaria. Ma qui, per estendere la platea delle adesioni, deve intervenire la politica vera. Nel suo libro, l’odio razzista diffuso via internet resta ai margini. Vero, è una scelta chiara: non intendevamo proporre un libro antirazzista. Non ci interessava dunque rispondere agli insulti. E anzi, dare del razzista a chi usa un certo linguaggio induce l’interlocutore a radicarsi nel proprio atteggiamento. Piuttosto, il segnale che arriva dall’opinione pubblica e dalla stessa politica, oggi, è una richiesta d’aiuto: aiutateci a non essere razzisti. Tre settimane fa il Cnf ha riunito a Roma tutte le avvocature dei G7: l’odio diffuso attraverso i social media è un fattore disgregativo per la stessa democrazia, è stato l’assunto condiviso da tutti. Verissimo, concordo in pieno. L’odio abbatte la possibilità di trovare mediazioni, quindi la dialettica della democrazia. Ma ripeto: è la conseguenza, non la causa, di un’inerzia della politica. Ma la politica pare terrorizzata dall’idea di mettersi contro i sondaggi e la tv, in materia di accoglienza. Sono pronto a giocarmi tutto sul fatto che qualora il segretario del Pd facesse una battaglia sullo ius soli fino a porre la fiducia, guadagnerebbe un notevole vantaggio in vista delle prossime elezioni. Dimostrerebbe che il suo partito persegue gli obiettivi e li raggiunge, e che sa sottrarsi al ricatto di alleati pavidi. E se non andasse così? Vorrebbe dire che la politica è segnata in modo profondo dalla pusillanimità. Che è vittima delle proprie ansie, incapace di qualunque autonomia, che è subalterna ai sondaggisti, ai messaggi televisivi e persino alla platea internettista. Iniziamo lo sciopero della fame proprio perché, a quest’idea, non intendiamo rassegnarci. Migranti. Allarme sbarchi dalla Tunisia: "non riusciamo a rimpatriarli" di Alessandra Ziniti La Repubblica, 5 ottobre 2017 Quasi azzerato il traffico dalla Libia, si è riaperta la rotta dal Paese vicino. Impossibile spedirli indietro: ricevono un foglio di via e spariscono. Dopo settimane passate a bivaccare tra i padiglioni dell’hotspot e a razziare bottiglie di alcolici e contanti in negozi e hotel dell’isola, alla vigilia delle celebrazioni del 3 ottobre li hanno stipati sulla nave norvegese Olympic Commander e li hanno sbarcati al porto di Messina. Con un foglio di via ma liberi. I più intraprendenti sono scesi tra due ali di polizia facendo il segno di vittoria per essere riusciti ad evitare il rimpatrio e si sono diretti verso la stazione. Hanno sette giorni di tempo per lasciare l’Italia ma, va da sé, nessuno lo farà e andranno ad ingrossare quell’ormai non più piccolo esercito di nuovi irregolari tunisini che, da due mesi a questa parte, sbarcano a ritmo quotidiano sulle coste della Sicilia. Almeno quattromila, numero per difetto, se si considera che più della metà di chi arriva sulla rotta Tunisia-Sicilia sparisce senza essere intercettato né a mare né a terra, non ha diritto a chiedere la protezione internazionale, è destinato all’espulsione ma sa di avere buone chance di non essere rimpatriato. L’allarme lanciato due settimane fa dal nuovo sindaco di Lampedusa Salvatore Martello, e ribadito ieri dal primo cittadino di Pozzallo Roberto Ammatuna dopo l’ultimo sbarco, va ben al di là di un problema di ordine pubblico nei centri degli hotspot alle prese con le intemperanze di questi migranti, buona parte dei quali pregiudicati, alcuni scarcerati per un recente indulto, sicuramente destinati a non entrare mai nel circuito dell’accoglienza. Dietro l’allarme si nasconde una preoccupazione: quella che, tra le fila di queste centinaia di tunisini tornati improvvisamente a sbarcare sulle nostre coste come accadde nei mesi della Primavera araba del 2011, possano nascondersi soggetti in contatto con il terrorismo internazionale. Al Viminale c’è la piena consapevolezza che dalla Tunisia arriva il maggior numero di foreign fighters in Europa, da qui la decisione di accendere un riflettore su questi "sbarchi fantasma" che rischiano, per numeri e frequenza, di far saltare il collaudatissimo meccanismo dei controlli negli hotspot. A cominciare dai rimpatri che, seppur previsti dall’accordo bilaterale con la Tunisia, possono essere effettuati per numeri contingentati, non più di 30 a settimana. E se si considera che negli ultimi dieci giorni di tunisini ne sono sbarcati più di 500 si comprende perché nei confronti dei 380 tenuti per settimane nel centro di accoglienza di Lampedusa non c’è stato altro da fare che emettere un decreto di espulsione e ordinare loro di abbandonare l’Italia entro sette giorni. Il primo atto è stato la convocazione della commissione italo-tunisina per cercare di capire cosa ci sia dietro a questo esponenziale aumento di partenze dalle spiagge di Sfax e Biserta. Ed è ben più di un sospetto che, dopo gli accordi con la Libia, possa trattarsi di una forma di pressione che Tunisi sta mettendo in atto per poi battere cassa. In Sicilia l’allarme è alto: il sindaco di Lampedusa Martello è stato convocato per martedì al Viminale da Minniti, quello di Pozzallo Ammatuna ha scritto una lettera al ministro dell’Interno: "Manifesto i miei timori sugli ultimi sbarchi avvenuti che sembrano evidenziare l’arrivo non solo di persone che fuggono dalla guerra e dalla miseria, ma anche di delinquenti. Il fenomeno migratorio che parte dalla Tunisia desta preoccupazioni per possibili infiltrazioni di potenziali soggetti appartenenti a cellule jihadiste. Proprio tra quelli arrivati con l’ultimo sbarco di oltre 150 tunisini in dieci hanno tentato la fuga, successivamente ricondotti all’hotspot dalle forze di polizia. È un episodio increscioso, che desta tra i miei concittadini allarme sociale e preoccupazione di cui mi faccio portavoce, in una città che ha sempre affrontato la questione migranti con spirito di accoglienza". Un allarme condiviso dal procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio che ha chiesto a polizia e carabinieri di monitorare con estrema attenzione un fenomeno che ritiene "pericoloso" proprio per il rischio che "tra questi migranti possano arrivare soggetti legati al terrorismo internazionale". Brasile. L’ex terrorista Cesare Battisti arrestato al confine con la Bolivia di Rocco Cotroneo Corriere della Sera, 5 ottobre 2017 Fermato al confine di Corumbà per esportazione illegale di valuta. I giudici decideranno oggi se trattenerlo. Il rebus giuridico. Renzi: "Ora ce lo restituiscano". In fuga verso la Bolivia, con un po’ di soldi, visto che le cose per lui in Brasile si stavano mettendo male. Il nuovo capitolo della vicenda Cesare Battisti si svolge nella calda e polverosa Corumbà, città di confine tra i due Paesi. I dettagli sono ancora confusi e incerte anche le motivazioni del suo tentativo di passare la frontiera: al momento l’ex terrorista dei Pac è in stato di fermo della polizia brasiliana con l’accusa di "contrabbando di valuta". Gli viene imputato soltanto un reato di tipo amministrativo, non tale quindi da consentire una detenzione superiore a poche ore. Fino a tarda sera Battisti è stato interrogato nel locale commissariato, anche su indicazione delle autorità federali di Brasilia. Senza ulteriori accuse potrebbe lasciare Corumbà nelle prossime ore e tornare a casa. In Brasile Battisti è da tempo libero cittadino e non gli è certo vietato recarsi all’estero. Ma il vasto fronte che qui - oltre che in Italia - crede ancora alla sua estradizione si augura che possa essere trattenuto in detenzione, almeno fino alla prossima decisione dei brasiliani sul suo destino. Non è ancora chiaro se il controllo sia avvenuto per caso (prima in un distributore di benzina, poi l’auto di Battisti è stata seguita fino al confine con la Bolivia) o se il fuggitivo era pedinato. Aveva in tasca 5.000 dollari e 2.000 euro, oltre il limite di esportazione di valuta consentito (10.000 reais brasiliani). L’unica certezza è che Battisti voleva cambiare aria, spostandosi in un Paese dove forse avrebbe qualche chance in più di evitare l’estradizione in Italia. In Bolivia c’è un governo di sinistra, quello di Evo Morales, ma è anche vero che non esistono episodi recenti che indicano una sua politica di difesa di latitanti italiani (decenni fa, invece, il Paese andino era rifugio di terroristi neri). Forse Battisti ha agito d’impulso, come tante altre volte nella sua ormai quarantennale fuga, dopo aver appreso dai giornali le notizie di una ripresa seria delle pressioni diplomatiche italiane. La scusa rimediata per gli agenti della stradale brasiliana ("sto soltanto andando a pescare"), non sta in piedi, anche perché la località è a varie centinaia di chilometri dalla sua attuale residenza. Messo in libertà dall’allora presidente Lula nel 2010, contro il parere del Supremo tribunale federale, Battisti ha condotto finora una vita tranquilla in una cittadina dello Stato di San Paolo con la moglie Joice e una figlia. L’unico incidente di percorso in questi anni è stato un altro arresto, nel 2015 e durato poche ore, su richiesta di una giudice di Brasilia. In quella occasione i suoi legali riuscirono a far valere le istanze superiori, le quali avevano concesso all’ex terrorista l’asilo politico e poi il permesso di soggiorno permanente. Ma le cose nell’ultimo anno sono nuovamente cambiate, e stavolta a sfavore di Battisti. Dopo 14 anni di governi di sinistra, in Brasile governa Michel Temer, succeduto a Dilma Rousseff lo scorso anno con un polemico processo di impeachment. Se già la sinistra brasiliana negli ultimi anni era apparsa divisa sulla poca giustificabile protezione offerta all’italiano, la destra oggi al potere ha pochi dubbi: l’asilo a Battisti non ha più senso. Anche per questo motivo negli ultimi mesi i governi Renzi e Gentiloni si sono mossi, tramite l’ambasciatore a Brasilia Antonio Bernardini. Con la dovuta discrezione, sulla scrivania di Temer è arrivata nei mesi scorsi la richiesta di annullare la decisione presa all’epoca da Lula. Dal punto di vista giuridico, insiste l’Italia, la richiesta di estradizione era stata accettata all’epoca dal Tribunale supremo. Non consegnarlo poi, e garantirgli il soggiorno in Brasile, è stata soltanto una scelta politica che può essere rivista. La domanda italiana è già passata al vaglio di due ministeri (Esteri e Giustizia), i quali non hanno trovato nulla da eccepire nel merito, così come ai consiglieri giuridici della presidenza della Repubblica. Dall’Italia è subito arrivata la richiesta di una immediata consegna al nostro Paese: l’hanno avanzata tra gli altri il leader del Pd, Matteo Renzi, quella di FdI, Giorgia Meloni, leader di FdI, e gli esponenti di Forza Italia, Mara Carfagna e Marco Marin. Tale era la preoccupazione di Battisti per il cambiamento d’aria a Brasilia che i suoi legali hanno presentato nei giorni scorsi un habeas corpus preventivo al Supremo per "impedire la sua eventuale estradizione, deportazione o espulsione dal Brasile". Ieri gli avvocati di Battisti si sono dichiarati sorpresi per il tentativo di fuga in Bolivia, ma hanno ribadito che non esistono i presupposti per ribaltare la sua attuale situazione. "I termini per rivedere la decisione di Lula sono scaduti, c’è la prescrizione. A meno che non si voglia deturpare l’ordinamento giuridico brasiliano la questione è chiusa". L’ex terrorista Cesare Battisti è stato arrestato a Corumbà, nello stato di Mato Grosso do Sul alla frontiera tra Brasile e Bolivia. Secondo il sito del quotidiano "O Globo", le autorità brasiliane sono convinte che l’ex membro dei Proletari armati per il comunismo (Pac), condannato in Italia all’ergastolo per quattro omicidi, stesse cercando di fuggire in Bolivia. Egitto. Una legge per revocare cittadinanza agli oppositori politici di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 5 ottobre 2017 A breve in Egitto chi si opporrà con determinazione alle politiche del regime di Al Sisi rischia di perdere la nazionalità egiziana. È quello che sostengono gli attivisti per i diritti umani nel paese nordafricano, a proposito della recente approvazione da parte del governo egiziano di una proposta di legge per modificare i poteri del primo ministro sulla revoca della cittadinanza. Secondo la proposta del Consiglio dei ministri, a qualunque cittadino egiziano condannato per un reato contro lo Stato o la sua sicurezza - commesso fuori o dentro al paese - potrà essere revocata la cittadinanza. Ciò vale anche per i cittadini stranieri che abbiano ottenuto la cittadinanza egiziana. La convinzione degli attivisti è che questa legge potrà essere usata per togliere la cittadinanza a chiunque si opponga politicamente - e in modo pacifico - alle politiche del regime, col pretesto della tutela della sicurezza nazionale. La proposta verrà inviata a breve al Consiglio di Stato per una revisione legale, per poi passare dal Parlamento, la cui maggioranza sostiene il presidente Abdel Fattah al Sisi. "Alcuni tra i nuovi arrivati in Egitto, provenienti da paesi con una situazione di sicurezza instabile si servono di scappatoie legali per l’acquisizione della cittadinanza egiziana, per questo abbiamo sentito la necessità di fare questa proposta", il commento del Gen. Ahmed Anwar, del Ministero dell’Immigrazione, il quale aggiunge che gli emendamenti mirano a "preservare l’identità e la nazionalità egiziana". In molti credono che la legge sulla revoca della cittadinanza possa essere applicata sopratutto nei confronti di esponenti della Fratellanza musulmana - dichiarato gruppo terroristico dal governo -, e in primis all’ex presidente eletto Mohammed Morsi, tuttora detenuto dopo il colpo di stato del 2013. In proposito in Gen. Anwar ha affermato che la decisione necessiterà di un giudizio finale e dell’approvazione dal Consiglio dei ministri. Già nel giugno 2016, il Tribunale amministrativo del Cairo si rifiutò di privare Mohammed Morsi della nazionalità egiziana, per mancanza di elementi concreti che provassero il tentativo di minare la sicurezza nazionale o danneggiare gli interessi del Paese. Tuttavia, dopo che lo scorso 17 settembre Morsi era stato condannato per le sue comunicazioni con il Qatar - al cui boicottaggio l’Egitto aderisce al fianco dell’Arabia Saudita - nei suoi confronti era stata aperta una nuova causa, finalizzata nuovamente alla revoca della cittadinanza. "La proposta del governo viola esplicitamente l’articolo 6 della Costituzione egiziana ed è contraria alle convenzioni internazionali firmate dall’Egitto, incluso il patto internazionale sui diritti civili e politici", spiega Nasser Amin, membro del Consiglio nazionale egiziano per i diritti umani. "La nazionalità è un diritto umano basilare e non può essere revocata da nessuno governo o regime. Se la legge passerà, sarà un disastro legislativo che trasformerà i cittadini in stranieri. Potrebbe inoltre essere usata dal governo o dal regime per perseguire un civile o un gruppo di civili per motivi politici", conclude Amin. La pensa diversamente Salah Fawzi, professore di diritto costituzionale all’Università di Mansoura, intervistato da Al Monitor. Fawzi, che ha preso parte all’elaborazione della bozza di Costituzione egiziana nel 2014, sostiene che gli emendamenti proposti non violerebbero né la Costituzione né la Dichiarazione universale sui diritti umani. "La Costituzione non proibisce la revoca della nazionalità ai cittadini egiziani e lascia al governo la facoltà di regolare questo processo di garanzia o revoca della cittadinanza stessa", commenta, aggiungendo che gli emendamenti hanno la funzione di contrastare il crescente supporto di cui le organizzazioni terroristiche - tra i quali è lecito pensare si alluda alla Fratellanza musulmana - stanno beneficiando, oltre a prevenire operazioni terroristiche in se stesse. L’articolo 6 della Costituzione egiziana dice che "la nazionalità è un diritto di chiunque sia nato da padre o madre egiziana, e il riconoscimento legale attraverso la necessaria documentazione dei suoi dati personali è un diritto garantito e regolato dalla legge. I requisiti per l’acquisizione della nazionalità dovrebbero essere specificati dalla legge". Stati Uniti: Pauline Quinn, la suora che addestra i cani per ciechi nelle carceri di Franca Giansoldati Il Messaggero, 5 ottobre 2017 La storia di suor Pauline Quinn ha dell’incredibile e stamattina, durante l’udienza in piazza San Pietro, ha commosso Papa Francesco mentre dava il benvenuto a questa arzilla suora americana arrivata sul sagrato della basilica con uno dei cani per ciechi che da anni addestra nelle prigioni femminili americane. Un programma di recupero umano fatto attraverso gli animali che ha dimostrato di dare risultati positivi, persino sulla recidiva carceraria. La vocazione di suor Pauline è nata per una scommessa che da ragazzina ha fatto con Dio: "A 13 anni ero così provata che pensavo di dovere morire. Sono stata persino abusata e ho avuto una vita difficilissima, trascorsa lontana dalla mia casa in California. Una esistenza randagia e terribile e così pregai Dio e gli chiesi di porre fine alla mia sofferenza: se lui lo avesse fatto io lo avrei ripagato aiutando gli altri". Le cose piano piano si rimisero a posto, Pauline incontrò un prete che la aiutò a rimettersi in carreggiata, facendola studiare, fino a che Pauline non decise di farsi suora domenicana. I successivi decenni li ha impegnati a realizzare un programma straordinario che ha chiamato: "Pavimentare la speranza" e si basa sull’addestramento di cani da destinare a persone non vedenti, un addestramento che viene fatto in carcere. Un programma attualmente coinvolge le detenute di 40 istituti di pena in 24 Stati. La vita di Puline è diventata anche un film, nel 2001, intitolato "Dentro queste mura". "Il programma di addestramento dei cani si basa su un obiettivo centrale, cercare di fare imparare ai detenuti i bisogni degli altri, di farli entrare nei panni di chi non può vedere. In questo modo i detenuti si trovano di nuovo in contatto con degli animali, i cani, e questo offre loro un impatto emotivo molto importante per il recupero". La prima prigione nella quale la religiosa ha introdotto questo programma nel 1981 era a Washington. Oggi sono quasi cento le carceri che applicano questo metodo, anche in Argentina, Australia, Polonia e Italia.