Il decalogo per i detenuti al 41bis: sì ai cartoni animati in tv, ma niente calcio La Repubblica, 4 ottobre 2017 Il ministro Orlando: "strumenti per ridurre il potere dei boss". Le nuove regole per i detenuti al carcere duro: "potranno vedere i figli piccoli. la radio? solo a onde medie". Sì ai cartoni animati di "Rai Yoyo" e alle dirette dal Vaticano di Tv2000, no alle partite di calcio trasmesse da Sky. Sì alle forbicine con punte arrotondate, al rasoio elettrico a batterie e al taglia unghia (ma senza limetta), no ai deodoranti spray. Sì a una foto di un familiare sistemata alle pareti della cella, no alle ciabatte "crocs", "perché lo spessore della suola si presta a manomissione ed occultamento di vario genere". Arriva il decalogo per i 700 mafiosi al 41 bis, il carcere duro istituito dopo le stragi Falcone e Borsellino. Nel corso degli ultimi anni, una serie di ricorsi avevano creato situazioni diverse in giro per le 12 carceri italiane che ospitano i super boss: alcuni giudici di sorveglianza avevano già tolto in parte il vetro blindato fra il mafioso detenuto e il figlio minore. Adesso, una circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria lunga 52 pagine regolamenta anche questo aspetto. I boss rinchiusi al carcere duro potranno riabbracciare figli e nipoti che hanno meno di 12 anni durante l’ora di colloquio mensile (videoregistrato). E con loro potranno mettersi in posa, solo una volta all’anno, ma niente selfie, dovrà essere un fotografo di fiducia del carcere a scattare. Dice il ministro della Giustizia Andrea Orlando: "Bisogna sempre ricordare che le restrizioni inflitte dal 41 bis non sono una pena aggiuntiva, ma uno strumento teso a isolare i boss, per ridurne il potere criminale". Così, il decalogo stilato dal direttore generale del Dap, Roberto Piscitello, ex pm del pool antimafia di Palermo, ribadisce il divieto di incontri in carcere fra boss al vertice di clan alleati. Grande attenzione anche alle letture dei padrini che non potranno comprare giornali locali: "È emerso - spiega la circolare - che i detenuti si tengono informati sulle vicende dei loro clan, anche per verificare l’avvenuta esecuzione dei propri ordini veicolati all’esterno". Per i programmi in Tv c’è invece solo un problema tecnico e di costi: sì al digitale terrestre, con il suo pacchetto di news, movie, sport e intrattenimento; no al satellite. "E il telecomando dovrà essere sigillato e piombato, per evitare manomissioni", ribadisce la circolare. No anche alle radio Fm, al 41bis si possono ascoltare solo le onde medie. "Lo scopo di questa regolamentazione è uniformare il trattamento", spiega Piscitello. "Per evitare disparità e diseguaglianze, per scongiurare un abbassamento della guardia, per impedire soprattutto che privilegi anche minimi, derivati dalla confusione normativa, possano essere vissuti dai detenuti come riconoscimento di un potere". E, allora, ogni settimana i boss potranno fare spesa al massimo per 150 euro. Ogni giorno, non più di due ore all’aria aperta, in palestra o in biblioteca. Come cambia la vita dei detenuti al 41 bis: le novità introdotte palermomania.it, 4 ottobre 2017 Dagli arredi delle celle, al cibo e alle bevande, dal taglio dei capelli all’uso della tv, ai colloqui con i familiari. Dagli arredi delle celle, al cibo e alle bevande, dal taglio dei capelli all’uso della tv, ai colloqui con i familiari. È quanto previsto dalla Circolare diffusa dal Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria e che guarda alla vita quotidiana dei detenuti al 41 bis nelle 12 carceri italiane. Lo scopo è quello di "ottenere la più puntuale funzionalità del regime" del carcere duro attraverso una serie di regole che ne garantiscano l’applicazione uniforme. Obiettivo della circolare, spiega Roberto Piscitello, direttore generale dei detenuti e del trattamento del Dap "è rendere uniforme la vita quotidiana del regime, sotto un duplice profilo. Da un lato l’idea che il rispetto delle garanzie dei detenuti attraverso un trattamento uniforme impedisca pretese posizioni di potere che possono derivare anche dalla concessione di diritti. Deve essere chiaro quali sono le regole e che i diritti sono quelli per tutti e che non sono in alcun modo concessioni. Dall’altra parte qualunque forma di regola imposta non deve valere come forma di afflizione". La circolare "ha messo dunque insieme tutte le dinamiche quotidiane che riguardano la vita di questi detenuti, e il suo senso sta proprio nel dettaglio - sottolinea - tanto più è dettagliata tanto minore è lo spazio per la discrezione e per l’arbitrio". Dopo i primi articoli che riguardano la notifica del decreto di applicazione del regime, la custodia dei detenuti in sezioni speciali, le formalità di ingresso e la formazione dei "gruppi di socialità", la circolare affronta una serie di aspetti pratici: gli arredi della stanza, le dotazioni per la pulizia, personali e della cella, il numero e la tipologia del "pentolame": "una pentola di diametro max di 25 cm, un pentolino max 22 cm in lega di acciaio leggera e una macchinetta per il caffè del tipo moka da una tazza che potrà essere usato in cella dalle ore 7 e fino al ritiro alle ore 20 a cura del personale di polizia". Il fornello a gas "sarà consegnato al detenuto al momento dell’apertura della porta blindata della camera e sarà ritirato alla chiusura del medesimo". Ognuno "avrà il diritto di fruire di un solo fornello e relativa bomboletta del gas, di capacità non superiore a gr. 200". Quanto all’igiene personale "taglio dei capelli avviene, salvo necessità di carattere igienico-sanitarie, una volta al mese, su richiesta dell’interessato, nelle giornate stabilite dalla Direzione nel rispetto delle seguenti prescrizioni da parte del personale di polizia penitenziaria". È poi autorizzato "l’uso di rasoi elettrici e taglia barba autoalimentati con batterie intercambiabili, tramite acquisto consentito esclusivamente attraverso il servizio sopravvitto dell’istituto". Precise regole anche per le attività di socializzazione: "la permanenza all’aria aperta" è consentita "fino al limite di due ore giornaliere, compatibilmente con l’organizzazione dell’istituto e con l’esigenza di garantire a tutti i detenuti lo stesso trattamento". La circolare indica anche esattamente cosa si può portare nei "cortili passeggio": una sola bottiglietta d’acqua, un solo pacchetto di fazzoletti di carta e di sigarette. Nella sala pittura "è possibile effettuare disegni a matita o pastello su fogli/cartoncini e dipinti su tela del formato indicato". Negli armadietti "non devono essere consentite giacenze superiori a: n.1 matita, n. 1 gomma, n. 1 tempera matite, n. 1 tela o cartoncino da disegno non superiore a cm 50x50, n. 3 pennelli di varie dimensioni, n. 1 confezione di colori a tempera o ad olio non superiore a 12 colori o n. 1 confezione di colori ad acquarello non superiore a 12 colori o n. 1 confezione di matite colorate non superiore a 12 colori, n. 1 confezione di diluente e/o solvente non infiammabile". Nelle sale lettura i libri non possono essere scambiati tra i detenuti. Nelle celle "è consentito tenere immagini e simboli delle proprie confessioni religiose, nonché fotografie in numero non superiore a 30 e di dimensione non superiore a 20x30". L’uso del televisore "sarà consentito solo in orari stabiliti, con accensione alle 7 e spegnimento non oltre le 24 al fine di non disturbare il riposo degli altri detenuti/internati", e "non è consentito possedere personal computer portatili". Il fumo è consentito solo "all’interno della propria camera in prossimità della finestra, assicurando la necessaria areazione". I colloqui con i familiari possono avere "durata massima di un’ora, nella misura inderogabile di uno al mese da effettuarsi a intervalli di tempo regolari" e "sono ammesse massimo tre persone". La Circolare sul 41bis: un atto dovuto e un piccolo passo in avanti camerepenali.it, 4 ottobre 2017 La circolare del Dap che prevede l’organizzazione del circuito detentivo ex art. 41 bis o.p., dopo 25 anni dall’ applicazione del regime speciale, un atto dovuto e un piccolo passo in avanti, col quale vengono almeno tracciate le linee guida di comportamento. il riconoscimento, in parte, di una storica battaglia dell’Unione Camere Penali Italiane. Il documento della Giunta e dell’Osservatorio Carcere. Il 2 ottobre u.s. il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha inviato ai Provveditori Regionali e ai Direttori degli istituti la circolare 3676/6126, avente ad oggetto le disposizioni relative all’organizzazione del circuito detentivo speciale previsto dall’art. 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario. In pari data, il Ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha diramato un comunicato stampa e ha dichiarato " è un provvedimento frutto di un’interlocuzione con la procura Antimafia, il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e il Garante per i detenuti che dà omogeneità all’applicazione del 41 bis, evitandone ogni forma di arbitrio e di misure impropriamente afflittive". "Bisogna, infatti, sempre ricordare - ha aggiunto Orlando - che le restrizioni inflitte dal 41 bis non sono una pena aggiuntiva, ma uno strumento teso a isolare i boss, separandoli dal resto dell’organizzazione e riducendone così il potere criminale. Dopo venticinque anni era tempo di dare un assetto definitivo a questa importante leva nel contrasto alla criminalità organizzata, inquadrandola però in modo più chiaro nella cornice dello stato di diritto. Lo Stato è tenuto a rispettare le regole anche quando è chiamato a contrastare i suoi peggiori nemici". (Ansa). Nella premessa alla lunga circolare (41 pagine più allegati e 37 articoli), si legge: "Le prescrizioni imposte col decreto del Ministro non sono volte a punire e non devono determinare un’ulteriore afflizione, aggiunta alla pena già comminata, per i soggetti sottoposti al regime detentivo in esame. Le disposizioni impartite nelle pagine che seguono si prefiggono di ottenere la più puntuale funzionalità del regime e riguardano le modalità di contatto dei detenuti e degli internati sottoposti al regime tra loro e con la comunità esterna, con particolare riferimento ai colloqui con i minori; al dovere in capo al Direttore dell’istituto di rispondere entro termini ragionevoli alle istanze dei detenuti; alla limitazione delle forme invasive di controllo dei detenuti ai soli casi in cui ciò sia necessario ai fini della sicurezza; alla possibilità di tenere all’interno della camera detentiva libri ed altri oggetti utili all’attività di studio e formazione; alla possibilità di custodire effetti personali di vario genere, anche allo scopo di favorire l’affettività dei detenuti ed il loro contatto con i familiari. Le pagine che seguono, pertanto, forniranno precise linee guida per ottenere una regolamentazione omogenea dello svolgimento delle attività nelle sezioni detentive, nell’assoluto rispetto della legge e sulla base delle potestà rimesse alla competenza dell’Amministrazione Penitenziaria". Da quanto si legge tra le righe, possiamo affermare che vi è un’implicita ammissione che il regime non assicurava una parità di trattamento ai singoli detenuti e che, in molti casi, non veniva rispettata la loro dignità. Ricordiamo che, a fronte dell’iniziativa della Camera Penale di Roma, fatta propria dall’Osservatorio Carcere Ucpi, sull’invio di un questionario ai detenuti al 41 bis, solo in un istituto fu concesso ai ristretti di rispondere e il direttore fu sottoposto a provvedimento disciplinare. La "rivoluzione culturale" a cui aveva fatto riferimento il Ministro Orlando, nell’annunciare prima gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale e poi le Commissioni per la riforma dell’Ordinamento Penitenziario, ha comunque impedito qualsiasi intervento sull’art. 41 bis. La stessa delega al Governo per adottare decreti legislativi in materia recita: "Fermo restando quanto previsto dall’art. 41 bis della Legge 26 luglio 1975, N. 354". La norma non sarà dunque modificata, ma vengono, con la circolare del Dipartimento, finalmente disciplinate le modalità di espiazione della pena, al fine - ci auguriamo raggiunto - di impedire illegittime imposizioni. Tra i 37 articoli, di cui si compone la circolare, vanno evidenziati l’art 3.1, che disciplina la "Formazione dei gruppi di socialità"; l’art. 6 sulla "Consegna e possesso in camera di oggetti e generi"; l’art. 11 sull’ "Attività in comune"; l’art. 11.5 "Sala Pittura"; l’art. 11.6 "Servizio biblioteca e libri", che in nota indica che" è allo studio la possibilità di dotare il detenuto/internato di un lettore elettronico di testi letterari"; l’art. 16: "Colloqui visivi"; l’art. 16.2: "Colloqui telefonici"; l’art. 16.3: "Colloqui con i difensori"; l’art. 16.6: "Visite del Garante"; l’art. 18.1: "Visto di controllo sulla corrispondenza"; l’art. 22: "Udienze con gli operatori penitenziari"; l’art. 29: "Reclami"; l’art. 29.1: "Reclami avverso i DM di sottoposizione al regime speciale". La circolare rappresenta un "atto dovuto" da parte dell’Amministrazione Penitenziaria, nei confronti di coloro che sono detenuti nel circuito detentivo speciale previsto dall’art. 41 bis, ma anche un piccolo passo verso quella "trasparenza" che l’Unione Camere Penali ed altre associazioni chiedono da tempo. Una disposizione che giunge dopo 25 anni, che regola finalmente un regime straordinario ed eccezionale che si dovrebbe applicare "quando ricorrono gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica" (art. 41 bis O.P.), ma che purtroppo resterà ancora (fino a quando?) nel nostro Ordinamento. La Giunta U.C.P.I. L’Osservatorio Carcere U.C.P.I. "Istruirsi in carcere si può: io ce l’ho fatta!". Intervista a Salvatore Striano di Bruna Di Dio liberopensiero.eu, 4 ottobre 2017 Ebbene sì, in quell’inferno dei dimenticati c’è davvero qualcuno capace di autodeterminarsi attraverso le possibilità offerte nei luoghi di detenzione come il carcere. Basta cercare su internet e leggere tante storie di persone che, nonostante le condizioni precarie dei luoghi di detenzione, hanno avuto la possibilità e la forza psicologica di accrescere la propria cultura. Molti detenuti hanno compreso che la cultura non è un quadro da esporre: è un investimento. È un investimento sul futuro, una possibilità reale di valorizzare se stessi inserendosi attraverso l’acquisizione di capacità, nel tessuto sociale, prima e dopo aver scontato la propria pena. Intraprendere un percorso di studio all’interno delle carceri è davvero molto difficile: inutile negare che tali istituti violano tanti diritti umani, figuriamoci un diritto così complesso come quello allo studio. Basti pensare che secondo gli ultimi dati Istat dell’anno 2011, la media dei detenuti è di 146 persone ogni 100 persone e la regione con il record maggiore di sovraffollamento è la Puglia con 182.2. Tra l’altro, ai difensori dei diritti non saranno certo sfuggite le molteplici condanne da parte della Corte di Strasburgo nei confronti dell’Italia per inumanità. In verità, nell’Ordinamento penitenziario non vi è un reale diritto allo studio, un dato sicuramente in antinomia con l’articolo 34 primo comma della Costituzione Italiana: "La scuola è aperta a tutti". Perché si, mentre l’articolo 34 sancisce un diritto, nell’Ordinamento penitenziario è attribuito un ruolo di rilevanza all’Istruzione, ma solo come possibilità e non si esplicita una eventuale tutela di tale percorso. Eppure qualcuno ricorderà bene che l’articolo 27 della Costituzione Italiana recita: "Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato". Questo significa che ogni detenuto, secondo garanzia della madre Costituzione, ha il diritto di ricevere garanzia e tutela al fine di perseguire i propri obiettivi in termini di istruzione e/o percorso educativo. Naturalmente bisogna fare chiarezza su cosa intendiamo per diritto allo studio. Un diritto è un diritto, pertanto dev’essere legittimato in pieno e non in parte, come spesso succede con quello allo studio all’interno delle carceri. Difatti, gli stessi luoghi devono permettere la reale possibilità agli studenti detenuti di poter studiare prima e dopo le lezioni; chiedersi se i programmi interni stabiliti siano coerenti e adatti alla situazione del detenuto; istituire più Poli universitari: sono l’unica garanzia per chi vuole diplomarsi o addirittura laurearsi, perché offrono spazi e materiale didattico idoneo ad un qualsiasi individuo. Non a caso Voltaire affermò: "Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, perché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione". Un percorso educativo serio e professionale di una nazione civile è necessario affinché chiunque abbia sbagliato, nei reati gravi o meno gravi, possa metabolizzare e prendere consapevolezza di quanto fatto, anche e soprattutto attraverso la conoscenza di sé e del mondo con un possibile reinserimento nella società. Normalmente, in condizione di detenzione si trascorrono circa 22 ore in cella, a Poggioreale, ad esempio, il detenuto ha la possibilità di uscire negli spazi interni della struttura per circa due ore al giorno, palese anche, il problema del sovraffollamento che impedisce ogni tipo di percorso di rieducazione o reinserimento. Tali condizioni riconsegnano alla società persone completamente distrutte psicologicamente, e in tal modo, spesso, il crimine è riprodotto. Lo Stato deve farsi garante e non continuare a sottovalutare l’aspetto più umano di questi luoghi rispetto a quello burocratico-amministrativo: queste persone hanno il bisogno primario di conoscere e gestire la propria identità. Qui riportata un’intervista telefonica a Salvatore Striano, che ringraziamo per il tempo e la disponibilità. Circa 11 anni di detenzione, poi ha deciso di darsi un’opportunità nella vita: dedicandosi alla recitazione e alla scrittura, esordendo, tra l’altro, in un film di Garrone tratto dal best-seller di Saviano, "Gomorra". Salvatore, hai trascorso circa 11 anni della tua vita in carcere, ad oggi, dopo tale esperienza, quanto è cambiata la tua identità rispetto a quando, invece, ci sei entrato? "Beh, è totalmente cambiata in tutto: negli atteggiamenti, nel linguaggio, nei comportamenti, nelle azioni e nelle reazioni, nel pensiero stesso. Quando vieni da certe esperienze o cambi in tutto o non cambi, non si può cambiare in parte, è tutta la condotta che risulta sbagliata ed è la condotta che dev’essere totalmente rivista". Credi che il carcere dia reali possibilità di cambiamento e opportunità? "Io ho avuto la fortuna di trovarmi in un carcere in cui vi era una reale attenzione nei confronti della popolazione detenuta. Il teatro più di ogni altra cosa mi ha aiutato a cambiare, soprattutto quando abbiamo iniziato ad uscire dalle celle per le prove e andando in scena per un numero ampio di persone: erano lì ad applaudirci e, solitamente, quando le persone ci vedevano o ci incontravano tendevano a nascondersi. Il teatro per noi tutti è stata una fortuna, anche per me, per cui la rispetto e non la calpesto. Accolgo questa fortuna e continuo a fare ciò che mi piace: scrivere e recitare. Ma non è così in tutte le carceri, dentro e fuori c’è una totale indifferenza, bisognerebbe per davvero dichiarare bancarotta, chiudere! Io ho avuto gli anticorpi per combattere ma così com’è fatto il carcere oggi, è più dannoso che altro". Tornando alla tua esperienza, quale attività interna al carcere, secondo te, andrebbe potenziata? "Innanzitutto debellare ogni forma di violenza, evitando che i propri crimini vengano raccontati a tutti, diventando così tutti esperti di materia penale; bisognerebbe, invece, creare una grandissima catena umana che possa assistere la popolazione detenuta attraverso dei laboratori teatrali, attraverso la cultura e la conoscenza. Ne parlai con lo stesso Sindaco di Napoli a cui voglio bene: oltre a dover disinnescare i rapporti tra i detenuti e i propri familiari rispetto alle organizzazioni criminali, bisogna pensare a delle biblioteche, a luoghi in cui raccontare le proprie memorie, così avremmo sicuramente meno buffoni e persone più consapevoli. Non si può essere protagonisti del male ma bisogna che queste persone si innamorino del sapere! Purtroppo ci sono ancora tante vittime di questo sistema, come le mogli dei boss che si perdono, a causa delle condizioni psicologiche che si trovano a vivere. Bisogna essere un supporto per loro, bisogna depotenziare il potere della criminalità, rischiando anche l’isolamento per tagliare questo filo". Per concludere, un consiglio ai tanti detenuti che hanno perso anche il più semplice ma fondamentale stimolo: alzarsi al mattino e progettare. "Non posso dare dei suggerimenti, ho solo dei pensieri che vanno a loro. Guardando nella cella in cui ci sono stato per tanti anni e conoscendo gli strumenti che ci sono, in qualche carcere possono avere anche un computer, sarebbe una possibilità per diventare padroni di quella macchina e del pacchetto Office che ti permetterebbe di accedere ad un lavoro. Quel foglio e quella penna bisogna utilizzarli per raccontarsi, avendo il coraggio di mostrare chi siamo. Siamo persone, siamo persone recuperabili nonostante le botte, le porte chiuse in faccia ed i rumori strani delle carceri. Sarebbe bello andare nelle celle a Natale e mangiare con loro, iniziando così, con dei semplici gesti! Bisognerebbe pensare ad un tipo di associazionismo che non guardasse al proprio giardino ma ad una grande oasi". Ecco come cambiano le intercettazioni di Errico Novi Il Dubbio, 4 ottobre 2017 Decreto in arrivo. Stop alle spiate sui colloqui avvocato-assistito. Mancano trenta giorni. Da qui al 3 novembre prossimo il governo dovrà adottare i decreti legislativi sulle intercettazioni. Non un termine ravvicinatissimo, ma neppure comodo, considerata la delicatezza della materia. Ecco perché il ministro della Giustizia Andrea Orlando intende stringere i tempi e trasmettere già nei prossimi giorni il testo a Palazzo Chigi, in modo che possa essere calendarizzato per uno dei prossimi Consigli dei ministri. Ieri il guardasigilli ha confermato alcune anticipazioni già diffuse dieci giorni fa con un’intervista a Radio 24: stesso mezzo, stavolta l’emittente è Radio Capital, e la trasmissione è quella condotta dal vicedirettore di Repubblica Massimo Giannini, "Circo Massimo". Torna un concetto, quello del "doppio brogliaccio", ma ieri Orlando ha dato un elemento in più: niente virgolettati utili solo a "supplire alla cronaca o dare un giudizio morale della persona: ci sarà perciò una richiesta di richiamare le intercettazioni necessarie, essenziali, non tutte, ma non per sintesi". Vuol dire che viene superato definitivamente il paradigma delle intercettazioni "di contesto". E anche che in questo modo viene meno ogni possibile scorciatoia che consenta di far arrivare sui giornali i colloqui tra difensore e assistito. Due punti fermi, dunque. Negli atti delle Procure, e dunque anche in quelli di gip e Riesame, le conversazioni "necessarie" saranno riportate integralmente, con i virgolettati, e non per riassunto come ipotizzato nella prima bozza (definita ieri da Orlando "una base meramente tecnica"). Scompare così ogni appiglio che possa far qualificare il provvedimento come un bavaglio, anche se per il ministro "non lo era prima, non lo sarà nemmeno adesso". Secondo pilastro: sarà il pm a dover decidere se in una richiesta di misure cautelari sia davvero indispensabile inserire trascrizioni di telefonate o messaggi relativi "a dati personali definiti sensibili della legge" o che non siano pertinenti né all’ "oggetto" né a i "soggetti coinvolti" nell’inchiesta. Potrà forzare il principio della essenzialità, ma solo se certe conversazioni borderline dovessero avere, a suo giudizio, rilevanza "per i fatti oggetto di prova". Discrezionalità connessa evidentemente a una responsabilità: l’ordinamento giudiziario è tale per cui il pm che non si attenesse a tali norme sarebbe destinatario di un procedimento disciplinare. Non solo. Perché c’è un terreno sul quale neanche il pm potrà fare eccezione e mettere agi atti trascrizioni che, in prima battuta, la polizia giudiziaria non ha neppure potuto compilare: si tratta appunto delle conversazioni tra difensore e assistito. In quel caso infatti la Procura non potrà riconsiderare il lavoro degli investigatori e chiedere di trascrivere le telefonate rimaste nei file. Resta dunque invariato lo schema presentato da Orlando, poco meno di un mese fa, a magistratura e avvocatura: non si trascrive nulla, senza eccezioni o possibili "rivalutazioni" successive del pubblico ministero. Le norme sulla trascrivibilità delle intercettazioni in generale e quelle che riguardano i difensori in particolare aggiornano d’altronde due distinti articoli del Codice di procedura penale: nel primo caso il 268, nel secondo il 103. Le due questioni, insomma, non sono sovrapponibili. Resta però immutata l’alea relativa alla ascoltabilità. La telefonata con l’avvocato non viene trascritta, ma questo non vuol dire che il file potrà essere distrutto: resta nell’archivio riservato. Dunque il pm potrebbe ascoltarla e, eventualmente, acquisire elementi sulla strategia difensiva. Un vulnus destinato a non cicatrizzarsi, almeno per ora. A meno che i pareri delle commissioni parlamentari (destinati a questo punto ad arrivare a dicembre) sollecitino l’esecutivo a ripensarci. Ma trova senza dubbio accoglimento la richiesta di una maggiore attenzione al tema dei colloqui tra difensore e assistito, che il presidente del Cnf Andrea Mascherin aveva rivolto anche al presidente della Repubblica Sergio Mattarella in un incontro con il consigliere giuridico del Quirinale, Stefano Erbani. Un tema che di recente si era riproposto con le indiscrezioni sui contenuti di una telefonata fra Tiziano Renzi e il suo legale. Almeno questo genere di episodi non potrà ripetersi. Riforma del Codice di procedura penale: uso equilibrato del filtro di inammissibilità di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 4 ottobre 2017 Nella legge delega per la riforma del codice penale, del codice di procedura penale e dell’ordinamento penitenziario, fortemente voluta dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, si affronta il tema della riserva di codice e del cosiddetto filtro di inammissibilità in appello. Per quanto attiene le modifiche al codice di procedura penale sta facendo, infatti, discutere l’articolato già approvato che riforma le impugnazioni in appello. È stata inserita una norma che introduce nel giudizio di appello il previo vaglio di inammissibilità sull’esempio di quanto già avviene in Cassazione. Perplessità e timori sono stati espressi dall’avvocatura in quanto la nuova normativa allarga le maglie del filtro di inammissibilità: tale giudizio, per certi versi, viene ad assorbire i caratteri propri di quello di merito. Viene auspicato, come evidenziato da un recente convegno presso il Cnf con la collaborazione del Csm in tema di esame preliminare degli atti introduttivi, che le corti d’Appello facciano un uso estremamente equilibrato di questo nuovo filtro onde evitare che venga calata la scure sui ricorsi in appello con pronunce formalmente di inammissibilità ma che, di fatto, nascondono un giudizio di sostanza al di fuori di un qualunque contraddittorio delle parti. Sul fronte del codice penale, uno dei principi a cui si dovrà attenere il legislatore è quello della riserva di codice. Il principio prevede che alla sanzione penale si faccia ricorso solo quando non sia possibile tutelare un bene giuridico con altri strumenti dell’ordinamento. Il diritto penale, dunque, come extrema ratio. La legge Orlando si sforza, dunque, di porre un argine alla proliferazione di leggi ed atti ad essa parificati (come i decreti legge e decreti legislativi) il cui ricorso negli ultimi anni ha dato origine ad innumerevoli interventi normativi (in materia penale) per fronteggiare, nella maggior parte delle volte, emergenze sociali e per placare una "sete di giustizia" amplificata da fatti di cronaca. Il risultato di questi interventi di "pronto soccorso" giudiziario è stato quello di rendere arduo nel quotidiano il lavoro degli operatori del diritto circa l’individuazione della norma penale da applicare al caso concreto. Riemerge così l’ideale codicistico ottocentesco di ricondurre in un unico testo, appunto il codice, tutte le norme incriminatrici. Il disegno del Guardasigilli è anche di eliminare quelle disposizioni normative penali che risultano ormai irragionevoli nel rapporto fra importanza del bene giuridico tutelato e la sanzione penale. Vengono, quindi, inseriti nel codice penale fattispecie di reato già previste in leggi speciali, con contestuale abrogazione espressa delle vecchie norme. Entrano nel codice penale il reato ex art. 586-bis relativo all’indebito "Utilizzo o somministrazione di farmaci o di altre sostanze al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti", l’art. 452-quaterdecies, inerente le "Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti", l’art. 493-ter sull’Indebito "Utilizzo e falsificazione di carte di credito e di pagamento". Sono, inoltre, dettate norme specifiche a tutela della maternità: l’art. 593bis disciplina l’interruzione colposa di gravidanza, mentre l’art. 593- ter si occupa dell’interruzione di gravidanza non consensuale. Pietro Maso in tv? Non è uno scandalo, è un’occasione per parlare del reintegro sociale di Filippo Facci Libero, 4 ottobre 2017 Non è che mi ispiri epidermica simpatia Pietro Maso, l’assassino dei suoi genitori tornato in libertà dopo 22 anni di carcere, e non mi fa impazzire nemmeno Maurizio Costanzo, giornalista di provata esperienza che ha fatto un’intervista a Maso che andrà in onda giovedì su Canale 5. Ma alle migliaia di ignoranti che in queste ore stanno inondando il web di proteste (in sostanza perché a Maso dovrebbe essere impedito di parlare) c’è solo da spiegare che forse loro non lo sanno, anzi, non lo sanno sicuramente perché sono ignoranti: ma Pietro Maso ha gli stessi diritti giuridici che hanno loro, proprio gli stessi, identici. Anzi, a dirla tutta - ma questa è un’opinione personale - l’intervistato ha pure qualche diritto/dovere mediatico e sociologico in più, perché il suo resta uno dei più clamorosi casi di omicidio a sfondo familiare della cronaca italiana e forse più ne capiamo e meglio è. "Cosa c’è da capire e da approfondire nell’intervistare un assassino? A chi interessa?", questo, per esempio, hanno scritto sulla pagina Facebook di Maurizio Costanzo. Oppure: "Costanzo e Mediaset, vergognatevi. Dare visibilità, compensi e la possibilità di dire la sua ad un assassino x garantirsi il picco dell’audience. Misera pagina di giornalismo. Nessuno dovrebbe guardarla!". Tutti, però, dovrebbero leggere i libri. Quelli di scuola, per cominciare. Oppure il libro che Pietro Maso ha scritto assieme a Raffaella Regoli ("Il male sono io", Mondadori) perché sapete, Maso non solo è già stato intervistato, ma appunto, ha firmato un libro: i giudici da social però sanno poco di libri. Guardano la televisione. Non sanno che Roberta Cossia, il magistrato di sorveglianza che firmò il fine-pena di Maso, ha spiegato che lui è a tutti i diritti "un cittadino come gli altri e così dovrà essere considerato". Non sanno che si è sposato nel 2008 dopo aver ottenuto la semi libertà e un lavoro. Non sanno che il tribunale di sorveglianza ha valutato la riabilitazione di Maso "complessivamente positiva. Ha accettato di fare un percorso di revisione e di meditazione... e spero - ha detto il giudice - che la gente impari ad accettare che, quando un castigo viene interamente espiato, bisogna passare oltre, abbandonando l’istinto di aggiungere un surplus di punizione non previsto". Non sanno nulla, i coraggiosi giudici da social. Per loro è tutto parolame che non interessa. Non i libri. Neanche i giornali, ormai. Loro definiscono gli autori dell’intervista "sciacalli infami", invitano a boicottare il programma, a vietarlo ai minori: come se non lo trasmettessero a tarda ora, come se fosse programmato su "Boing" alle 5 del pomeriggio. Non è che non sappiamo che cos’abbia fatto Pietro Maso, 26 anni fa, e come l’abbia fatto. La villetta di Montecchia di Crosara, nel veronese, il delitto da Arancia Meccanica. Sappiamo pure che è ancora sotto inchiesta con l’accusa di aver cercato di estorcere soldi alle sorelle. Ma la morale, applicata al diritto, è roba da Paesi islamici. Maso è stato condannato a trent’anni di carcere con un parziale riconoscimento di seminfermità mentale. Dopo 22, è stato rimesso in libertà ed è stato ricoverato in una clinica psichiatrica. I suoi complici hanno preso rispettivamente ventisei e tredici anni, e sono fuori anche loro. Se l’intervista non interessa, c’è la solita idea geniale: non guardarla, cambiare canale, rileggersi l’articolo 27 della Costituzione sulla riabilitazione dei detenuti. Chi guarderà l’intervista invece potrà apprendere, per dire, che uno come Maso è stato chierichetto e ha studiato dapprima in seminario: i genitori erano religiosi. Potrà apprendere del suo carteggio, dal carcere, col vescovo di Vicenza che celebrò le esequie dei suoi genitori. Chissà che cosa farebbero, i giudici da social, se apprendessero che Maso ottenne anche dei permessi-premio e che l’indulto gli ha accorciato la pena di tre anni. Si arrabbierebbero moltissimo, ma è inutile spiegargli che sbagliano, e perché. Certa gente non è redimibile. Se Pietro Maso sia davvero redimibile non sappiamo, ma il percorso che la società ha deciso, lui, l’ha fatto tutto. È finito in galera a vent’anni. Ora ne ha quarantasei. Diritto all’oblio. Cosa fare nei casi di delitti efferati? di Umberto Ambrosoli Il Fatto Quotidiano, 4 ottobre 2017 Meglio il ricordo della vittima o il diritto dell’assassino? Nell’era dell’informazione su Internet, sempre più persone chiedono che non vi sia traccia di loro nelle ricerche in Rete. Ma cosa fare, per esempio, nei casi di delitti efferati? È importante riflettere su contenuti e limiti del diritto all’oblio? Si. Di più: è urgente. Un uomo è stato condannato a 17 anni di reclusione per aver ucciso nel 2011 la sua compagna: in preda a un raptus, egli l’aveva inseguita nell’appartamento dove lei si era rifugiata per sfuggire alla sua violenza, è entrato da una finestra e con un pugno al volto l’ha uccisa. Elena Catalina Tanasa è il nome della ragazza. È importante ricordare la sua storia e poterla ricostruire quando ci si interroga sulle radici della bestialità che anima l’uomo dei nostri giorni. È possibile farlo senza poter conoscere l’identità dell’omicida? Domanda attuale, perché Cristian Vasili Lapsa, come riportato domenica dal Corriere della Sera, oggi dal carcere invoca il diritto all’oblio: vuole che il suo nome non sia reperibile in Rete come collegato a quell’omicidio. Il diritto all’oblio è figlio di quello alla privacy: se quest’ultimo, banalizzando, è il diritto a essere lasciati in pace, quello all’oblio è il diritto a ché un segmento della propria storia sia lasciato in pace. Esso esiste da ben prima della Rete, ma con l’avvento del web il suo riconoscimento è diventato esigenza sentita in maniera assai diffusa. La Rete, con i suoi motori di ricerca rende accessibili tantissime informazioni sulle persone, informazioni che per lo più sono selezionate per notorietà. Così un fatto remoto assunto in origine agli onori della cronaca è riattualizzato in occasione di ogni ricerca: anche se nel frattempo il protagonista di quel fatto è cambiato, si è ricostruito una vita. Ogni persona ha diritto di evolvere: pure rispetto alle proprie colpe. Anche per questa ragione l’Art. 27 della Costituzione vuole che la pena sia inflitta per rieducare. E certamente è difficile accettare l’idea di una rieducazione se comunque la società ti risbatte in faccia pubblicamente in ogni momento il tuo errore e ti valuta solo per quello. La giurisprudenza riconosce il diritto all’oblio, ma alcuni limiti vengono posti a seconda del ruolo pubblico del richiedente, della natura della notizia, dell’interesse pubblico alla sua conoscenza, del tempo intercorso dal fatto. La tecnologia, poi, permette di assecondare on line il desiderio di oblio attraverso il delisting: agendo sull’algoritmo che governa le risposte dei motori di ricerca è possibile impedire che nei risultati appaiano specifiche pagine. La casistica dell’esercizio - o del tentativo di esercizio - del diritto all’oblio è la più varia: ex terroristi neri e rossi, persone coinvolte in procedimenti penali, soggetti dichiarati falliti, ecc. Ad aprire definitivamente la porta all’esercizio del diritto all’oblio è stato il caso di tale Costeja Gonzalez. Egli aveva chiesto all’Autorità spagnola della privacy che venissero rimosse dal web due pagine reperibili nell’archivio storico di un quotidiano nelle quali vi era l’annuncio di una vendita all’asta connessa a un pignoramento nei suoi confronti effettuato per la riscossione coattiva di crediti previdenziali. Le pagine erano state pubblicate nel 1998, ma a distanza di tantissimi anni erano facilmente reperibili in Rete digitando il nome del cittadino spagnolo. La vicenda giunse fino alla Corte europea per i diritti dell’uomo ove nel 2014 si confrontarono diversi diritti in gioco: quello di cronaca (la notizia era vera, legittimamente pubblicata a suo tempo per volontà del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali per dare massima evidenza alla procedura d’incanto, era poi legittimamente conservata in un archivio storico), quello all’oblio (il pignoramento effettuato per la riscossione coattiva dei crediti pubblici nei confronti del Signor Gonzalez era stato integralmente definito oramai da anni, la reputazione del richiedente era danneggiata dalla accessibilità ad una notizia priva di attualità e di rilevanza pubblica). La Corte diede ragione al richiedente con una decisione importante e celebre. E paradossalmente Costeja Gonzalez è passato alla storia per aver chiesto di essere dimenticato. Oggi persone più pragmatiche, furbe, scaltre e certo con consistenti mezzi economici, ogni giorno fanno ricorso a società private che, in assoluta legittimità, garantiscono l’oblio on line non attraverso un vero e proprio delisting, ma con artifici informatici che ingannano gli algoritmi dei motori di ricerca relegando determinate informazioni in posizione talmente remota da non essere suggerita alla curiosità degli utenti della Rete. (È la web reputation, bellezza!). Tra liberazione anticipata e altri eventuali benefici, l’assassino di Elena Catalina Tanasa potrebbe essere libero tra circa sette anni. Se avesse disponibilità economiche, o se la sua domanda di oblio venisse un domani accolta, il suo nome online non evocherà niente. Interrogarci sulle implicazioni del diritto all’oblio e sul dovere della memoria è oramai ogni giorno più necessario. Quasi flagranza, nessun arresto per chi è inchiodato solo dalle testimonianze di Silvia Marzialetti Il Sole 24 Ore, 4 ottobre 2017 La quasi flagranza non fa scattare le manette. Nessun arresto - dunque - per un cinquantenne senegalese catturato dalla polizia un’ora dopo aver rubato una birra e due scatolette di tonno in un supermercato. Rapina impropria, l’accusa. L’arresto era scattato sulla base delle informazioni fornite dal personale del supermercato, dopo che l’uomo era riuscito a fuggire, e non nell’immediatezza del fatto. Ma per la Cassazione - come pure per il gip - l’arresto è illegittimo. Con la sentenza 45322 del 2 ottobre, la Cassazione torna quindi sull’annosa questione di "chi, subito dopo il reato, è inseguito dalla polizia giudiziaria, dalla persona offesa o da altre persone, ovvero è sorpreso con cose o tracce dalle quali appaia che egli abbia commesso il reato immediatamente prima". La sentenza rilancia il principio di diritto sancito lo scorso anno quando, alla fine di un lungo dibattito giurisprudenziale, dalle Sezioni Unite arrivò la sentenza Ventrice (la 39131 del 21 settembre 2016), destinata a fare scuola. In sostanza, dopo aver riepilogato i diversi orientamenti sul punto, le Sezioni Unite ritennero di aderire all’indirizzo maggioritario in giurisprudenza secondo cui non sussiste la condizione di quasi flagranza qualora l’inseguimento dell’indagato da parte della polizia giudiziaria sia stato eseguito non a seguito della diretta percezione dei fatti, bensì per effetto e solo dopo la acquisizione di informazioni da parte di terzi. Anche nel caso appena esaminato, la suprema Corte non ha dubbi: anche il ristretto lasso di tempo di un’ora - quello intercorso tra il furto e l’arresto - fa decadere il principio di flagranza. E le testimonianze di terzi non valgono l’arresto. Campania: è allarme carceri, dieci su sedici sono sovraffollate Il Roma, 4 ottobre 2017 La percentuale di affollamento nelle carceri in Campania sale a 116%, con un picco nell’istituto di Arienzo, in provincia di Caserta, dove sono ospitati 86 detenuti sui 52 previsti. È quanto emerge da un incontro che si è svolto al consiglio regionale con il segretario generale del sindacato polizia penitenziaria, Aldo Di Giacomo. Sono 10 su 16 in totale i penitenziari sovraffollati in Campania, compresi quelli più grandi di Poggioreale e Secondigliano, con un sovraffollamento rispettivamente di 500 e 300 unità. I dati aggiornati a settembre riportano anche lo scarso numero di poliziotti presenti: sono 4.274 sui 4.588. "Questi sono i numeri di una situazione che rappresenta in pieno la drammaticità delle carceri campane - spiega Di Giacomo. A questo va aggiunto il fallimento della vigilanza dinamica ossia la maggiore fiducia concessa ai detenuti attraverso una serie di concessioni intramurarie prime tra tutte la piena possibilità di muoversi all’interno della sezione senza più essere chiusi all’interno della cella. Questo ha portato in Campania come nel resto d’Italia un aumento degli eventi critici primi fra tutti le aggressioni nei confronti degli agenti penitenziari che oramai sono quotidiane e gli scontri tra detenuti". Dall’inizio dell’anno ad oggi, nelle carceri italiane si sono verificati 44 suicidi. È un trend in continua crescita quello che denuncia Di Giacomo che sottolinea anche "la vergogna dei braccialetti elettronici, costati 110 milioni di euro e con un utilizzo di qualche decina di dispositivi per il decennio 2000-2010. Oggi, invece, vi è la corsa all’uso del braccialetto persino a chi ha ammazzato e se ne va in giro per ore. A questi si concede l’uso del braccialetto elettronico anche dopo 2 mesi di carcerazione". Di Giacomo ha annunciato che chiederà al Guardasigilli Andrea Orlando ed al governo, una revisione dell’attuale sistema carcerario e maggiori tutele per i poliziotti penitenziari. Napoli: carcere di Poggioreale, detenuto si suicida nel padiglione "Palermo" Il Roma, 4 ottobre 2017 L’uomo, che aveva 39 anni, si è impiccato. Un 39enne campano si è tolto la vita, impiccandosi, nel reparto "Palermo" del carcere di Poggioreale. Lo rende noto il segretario del Sindacato di Polizia Penitenziaria, Aldo Di Giacomo, che lancia l’allarme sulla situazione carceraria. "Nello specifico, in Campania - denuncia il sindacalista - a fronte di una capienza regolamentare di 6.146 detenuti ne risultano presenti 7.174, con un affollamento del 116%. Poliziotti previsti 4.588 ed una reale presenza di 4.274. Questi i numeri di una vergogna senza fine". Roma: malato psichico suicida in carcere, ma la procura incolpa i poliziotti di Eleonora Martini Il Manifesto, 4 ottobre 2017 Due agenti penitenziari rinviati a giudizio per sette minuti di ritardo nel controllo di un detenuto "illegale". Due notizie in una che danno il polso della triste condizione in cui versa ancora, malgrado le riforme, l’universo carcerario italiano. La prima risale al febbraio scorso, quando un ragazzo di 22 anni con gravi problemi psichici, Valerio Guerrieri, si è suicidato nella sua cella di Regina Coeli, dove sono "ancora sette gli internati trattenuti illegittimamente", come denuncia Stefano Anastasìa, Garante dei detenuti del Lazio. La seconda è di ieri e arriva dalla procura di Roma che ha rinviato a giudizio due poliziotti penitenziari del carcere romano "rei di aver tardato di sette minuti il controllo di Valerio, considerato soggetto a rischio suicidario", come spiega ancora Anastasìa. Una "montagna che ha partorito il topolino", commenta il Garante che considera "troppo facile accantonare lo scandalo delle detenzioni illegittime dei malati di mente, che avrebbero bisogno di accoglienza e cura sul territorio. In questo modo - aggiunge Anastasìa - non si farà altro che incentivare atteggiamenti difensivi del personale sanitario e di polizia penitenziaria, costretto a scaricarsi della responsabilità di un eventuale suicidio in carcere". La madre di Valerio Guerrieri a febbraio si rivolse all’associazione Antigone che ora comprensibilmente non gioisce affatto di questo rinvio a giudizio. "Valerio aveva problemi di carattere psichiatrico, per questo era stato ricoverato in una Rems (strutture riabilitative per malati psichiatrici che hanno preso il posto degli Ospedali psichiatrici, ndr) dal quale era scappato - riferisce Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione - Persone come lui non si possono curare dietro le sbarre, le si cura affidandole al sostegno medico, sociale, psicologico dei servizi". Antigone si augura ora che con l’inchiesta "non si vada alla ricerca di capri espiatori e che tutto si risolva in una questione di mancata sorveglianza". C’è invece solo da "capire perché il ragazzo fosse in carcere e se vi fossero tutti i titoli per trattenerlo in custodia". "Non è con un controllo esasperato, né privando i detenuti di magliette, cinte o lenzuola che si può risolvere la questione suicidi - sottolinea Gonnella - Il rischio, anzi, è quello di rendere la vita del detenuto ancora più faticosa e difficile di quella che già è". Purtroppo il numero dei suicidi in cella è impressionante: 44 dall’inizio dell’anno, secondo Ristretti orizzonti. Il sindacato di Polizia Penitenziaria denuncia "la vergogna dei braccialetti elettronici costati 110 milioni di euro e con un utilizzo di qualche decina di dispositivi dal 2000 al 2010". Mentre il senatore Lucio Barani (Ala) coglie l’occasione delle "condizioni vergognose in cui versano i penitenziari" per rilanciare oggi con una conferenza stampa l’inutile business dell’edilizia carceraria. Agrigento: prevenzione dei suicidi in carcere, protocollo tra Asp e Case circondariali grandangoloagrigento.it, 4 ottobre 2017 Prevenire con efficacia i suicidi e gli episodi di autolesionismo fra i detenuti attraverso una strategia condivisa ed integrata capace di valutare appieno i fattori di rischio. È questo, in sintesi, il significato di un protocollo operativo sottoscritto questa mattina dal commissario dell’Azienda sanitaria provinciale di Agrigento, Gervasio Venuti, e da Aldo Tiralongo e Angelo Belfiore, direttori, rispettivamente, delle Case circondariali di Agrigento e di Sciacca. Il documento, da più parti riconosciuto come un vero atto di civiltà, scaturisce dall’applicazione di alcune linee guida recentemente emanate dall’Assessorato regionale alla Salute e prevede una gamma di azioni mirata ad intercettare e trattare con tempestività stati di disagio psicologico nel detenuto, condizioni di disturbo psichico o altre fragilità. Uno staff multidisciplinare composto da operatori degli istituti penitenziari di Agrigento e Sciacca e da professionisti socio-sanitari dell’Asp, entrerà immediatamente in azione nel caso in cui si riscontrino segnali di rischio fra chi, a causa della privazione della propria condizione libertà e di una certa vulnerabilità da un punto di vista psichico, possa potenzialmente dar corso a pratiche autolesioniste. Un focus specifico riguarderà il complesso di valutazioni e test da condurre all’ingresso della struttura carceraria, sia per i nuovi detenuti sia per i casi di recidiva, ma il monitoraggio costante sarà condotto durante tutto il periodo detentivo. A questo proposito l’Asp di Agrigento sarà chiamata a fornire, in aggiunta ai peculiari adempimenti di taglio prettamente sanitario e terapeutico, anche preziosi strumenti formativi al personale di polizia penitenziaria affinché lo stesso, oltre ai consueti compiti di vigilanza, sia nelle condizioni di poter intercettare tempestivamente indicatori di disagio mentale e di potenziale rischio suicidario. Gli enti firmatari del protocollo operativo opereranno dunque insieme nella prevenzione dell’autolesionismo concertando, di volta in volta, la scelta dell’allocazione più confacente ai bisogni del detenuto, la riduzione dell’impatto con la realtà carceraria, l’osservazione diretta e congiunta della persona ristretta in carcere da parte di tutti gli operatori, l’approfondimento diagnostico, la richiesta di cure, la progettazione e l’attivazione di un piano di intervento condiviso sul soggetto portatore di disagio psichico o a rischio suicidario. Bologna: come trovare lavoro e fare documenti a chi esce dal carcere? di Giacomo Barducci cronacabianca.eu, 4 ottobre 2017 Un corso organizzato del Garante regionale dei detenuti. Formazione agli operatori da oggi a in quattro lezioni con specialisti. Marighelli: "Sembrano banalità, ma sono ostacoli veri". Ecco date e relatori. I problemi immediati di uno che esce dal carcere? Trovare un lavoro, i documenti di identità e l’accesso ai servizi. Le risposte per gli operatori che assistono chi sta uscendo dal carcere vengono fornite nel corso di "Formazione regionale per gli operatori di sportelli informativi", iniziato oggi a Bologna, nelle aule di Volabo, il Centro Servizi per il Volontariato della Città Metropolitana di Bologna del Villaggio del Fanciullo. Un progetto ideato dal Garante dei detenuti Marcello Marighelli: "Ho deciso di avviare questo progetto che, grazie a diversi esperti e rappresentanti delle reti istituzionali, affronterà in quattro incontri temi fondamentali per chi esce dal carcere. Aspetti apparentemente banali - continua la figura di garanzia dell’Assemblea legislativa - ma che invece spesso rappresentano un ostacolo per chi ha vissuto diversi anni della sua vita in una realtà come quella carceraria". In chiusura, il Garante ha chiesto ai partecipanti, nelle diverse professionalità che rappresentano (agenti di polizia penitenziaria, volontari, educatori, operatori di amministrazioni locali coinvolte) di "essere protagonisti dell’iniziativa, di far diventare questo percorso non solo un luogo di formazione ma anche un luogo di discussione, di scambio di informazioni ed esperienze". Per Marco Bonfiglioli dirigente del Prap (Provveditorato Amministrazione Penitenziaria di Emilia Romagna e Marche) "la formazione è essenziale per la crescita di tutto il sistema. Questo percorso è un’occasione fondamentale di confronto e incontro fuori dall’amministrazione per recuperare il senso di quel che facciamo. Mi ha fatto molto piacere - conclude Bonfiglioli - che questa idea si sia sviluppata proprio qui in Emilia-Romagna, perché è il luogo dove sono nati i primi sportelli informativi per i detenuti". La prima lezione odierna è stata quella di Romano Minardi, Responsabile servizi demografici del Comune di Bagnacavallo ed esperto Anusca (associazione nazionale ufficiali di stato civile e anagrafe), che ha trattato il tema dell’anagrafe: residenza, identità e relativi documenti. Ogni lezione prevede 40 partecipanti e verrà ripetuta in due date: 3 - 10 Ottobre: residenza, identità e relativi documenti. Docente Romano Minardi. 17- 21 Ottobre: permessi di soggiorno e rimpatrio volontario assistito. Docenti Michelina Pignataro (dirigente questura di Ferrara), Stefania Peca (organizzazione nazionale per le migrazioni, Regione Emilia Romagna), Alberto Dall’Olio (prefettura di Bologna), Marzio Barbieri (politiche per l’integrazione sociale, Regione Emilia-Romagna). 31 Ottobre - 7 Novembre: ricerca lavoro, stesura curriculum, valorizzazione esperienze formative e lavorative in carcere. Docente Katia Ceré (agenzia regionale per il lavoro Emilia Romagna). 14-21 Novembre: misure alternative alla detenzione, lavoro volontario gratuito in progetti di pubblica utilità. Docenti Stefania Carnevale (garante del comune Ferrara e Prof. diritto processuale penale Università di Ferrara), Antonietta Florillo (presidente tribunale sorveglianza Bologna), Maria Paola Schiaffelli (direttrice ufficio inter-distrettuale per l’esecuzione penale esterna). Tempio Pausania: il carcere di Nuchis è nuovo, ma ha i problemi di uno vecchio di Andrea Busia L’Unione Sarda, 4 ottobre 2017 "È stato inaugurato alla fine del 2012, ma il penitenziario di Nuchis ha gli stessi problemi di un vecchio carcere": le parole del segretario provinciale del Sappe (Sindacato autonomo della polizia penitenziaria), Antonio Cannas, sono l’ennesima denuncia della situazione del carcere di alta sicurezza di Tempio, che, nonostante l’età, cinque anni, è una struttura che dà molti grattacapi e richiede interventi continui di manutenzione. In particolare, segnala il Sappe, a causa delle condizioni dell’impianto idraulico. Le condotte, non solo rilasciano metalli nell’acqua, che infatti è color arancione, ma si guastano spesso e le perdite creano problemi seri in diversi settori del grande edificio. Il penitenziario è costato diverse decine di milioni di euro ed è stato realizzato dalla Gia. Fi. Costruzioni, la stessa impresa incaricata della ristrutturazione (intervento finanziato nell’ambito del G8) dell’ex ospedale militare di La Maddalena. Nei mesi scorsi, è stato presentato un esposto alla Procura della Repubblica di Tempio, ma, stando alle verifiche effettuate anche da una commissione tecnica dell’amministrazione penitenziaria, il capitolato d’appalto è stato rispettato. Il fatto è che prevedeva la realizzazione degli impianti con tubi di ferro e i risultati, ora, sono apprezzabili. Cannas: "Non c’è solo il problema degli impianti, a Nuchis la polizia penitenziaria opera in continua emergenza, che ora è diventata ordinaria amministrazione. Il personale è ridotto all’osso, mancano le figure apicali e, in aggiunta, si utilizzano agenti della polizia penitenziaria per incarichi incompatibili con le loro qualifiche, come amministratore della rete informatica". Vibo Valentia: Nesci (M5S) "situazione in carcere insostenibile, servono soluzioni" zoom24.it, 4 ottobre 2017 Con un’interrogazione al ministro della Giustizia, Andrea Orlando, la deputata M5s Dalila Nesci ha portato in parlamento il caso della mancanza di 60 unità di personale nel penitenziario di Vibo Valentia. Nell’atto la parlamentare ha scritto che "la situazione è divenuta insostenibile e comporta ulteriori aggravi per il personale della Polizia penitenziaria in servizio". ù Ad Orlando Nesci ha chiesto "quali urgenti iniziative di competenza intenda assumere per garantire la copertura dei posti mancanti", ricordando che "il penitenziario ha 230 condannati per ‘ndrangheta su oltre 400 detenuti", come denunciato dal sindacato Sappe, inascoltato e costretto a un sit-in di protesta tenuto lo scorso 29 settembre. Nell’atto la parlamentare ha scritto che "la situazione è divenuta insostenibile e comporta ulteriori aggravi per il personale della Polizia penitenziaria in servizio, utilizzato anche per i trasferimenti dei detenuti". Secondo la parlamentare 5stelle, il ministro interrogato deve e può trovare "adeguate soluzioni". Nella stessa interrogazione la parlamentare ha premesso che "la vicenda del crescente debito pubblico è dovuta quasi integralmente al sistema privato di emissione della cartamoneta" e che le relative conseguenze "non possano intaccare i settori della sanità, dell’istruzione, della giustizia e i servizi fondamentali, soprattutto in territori, come la Calabria, in cui è forte l’operatività della criminalità organizzata". Macomer (Nu): nell’ex carcere aprirà un Centro di permanenza per immigrati di Paolo Maurizio Sechi La Nuova Sardegna, 4 ottobre 2017 Manca solo l’ultima parola del ministero degli Interni. L’opposizione: sarà una struttura ghettizzante per i migranti. Sembra ormai certa l’apertura in città del Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr) nell’ex carcere che dovrebbe ospitare dagli 80 ai 100 migranti, manca solo il via da parte del Ministero degli Interni. Intanto l’Unione dei Comuni del Marghine ha pubblicato l’avviso esplorativo per acquisire le manifestazioni di interesse da parte dei privati per la cessione in locazione di appartamenti da destinare al progetto di accoglienza Sprar e individuare la disponibilità di proprietari di abitazioni ubicate nel territorio dei comuni di Birori, Bortigali, Bolotana, Borore, Macomer, Silanus e Sindia da cedere in locazione per l’accoglienza di nuclei familiari. Inizialmente il Ministero aveva individuato come unico Cpr in Sardegna l’ex carcere di Iglesias ma dopo il rifiuto netto da parte di amministratori e popolazione del centro del Sulcis, quella del capoluogo del Marghine sembra essere l’unica soluzione. Preoccupati dell’apertura del Cpr in città ne hanno parlato durante una conferenza stampa, i consiglieri di minoranza Uda, Castori, Pirisi, Atzori e Ledda: "È vergognoso che il sindaco parli di opportunità di sviluppo per la città e mentre tutti si rifiutano di ospitare tale struttura il nostro si candida svendendo il territorio. Siamo favorevoli alle forme di micro accoglienza previste dal progetto Sprar, che dovrebbe impedire l’apertura di altre centri di accoglienza, ma fortemente contrari al Cpr che riteniamo una struttura ghettizzante e destinata, come i vecchi Cara e Cei, a produrre situazioni di diffuso e ingestibile degrado sia per i migranti che per la comunità che li ospita". "Inoltre - affermano ancora i consiglieri di opposizione - Macomer si trova distante da porti e aeroporti, dalla Corte d’Appello e soprattutto dal punto degli sbarchi dei migranti. Il Centro di permanenza, contrariamente a quanto afferma il primo cittadino, non può essere un carcere per migranti in attesa di rimpatrio in quanto non possono essere detenute e devono essere trattate nel rispetto della dignità umana non certamente in cella considerando che diverse hanno l’allestimento per il 41 bis e che non sarà gestito dal Ministero di Grazia e Giustizia ma da quello dell’interno e quindi dalla Polizia Penitenziaria ma personale di società private". Torino: il bar del Palagiustizia affidato ad ex detenuti di Massimiliano Peggio La Stampa, 4 ottobre 2017 Siglato il protocollo d’intesa per il reinserimento lavorativo di soggetti detenuti ed ex detenuti nei locali del bar del Palagiustizia, che dopo mesi di chiusura riaprirà i battenti al termine delle procedure di assegnazione gestite dal Comune di Torino, proprietario dell’immobile. "Con questo progetto - ha spiegato il presidente della Corte d’Appello Arturo Soprano - si andrà ben oltre al recupero carcerario ma sarà una convergenza di attività, dalla fornitura di servizi, all’offerta di occupazioni, dalla preparazione professionale al recupero sociale". Sugli atti dell’accordo c’è la firma della sindaca di Torino, Chiara Appendino. "C’è stata subito una forte convinzione da parte nostra, ritenendo importante questa sfida per restituisce un servizio di ristorazione. Per questo sono stata subito entusiasta all’idea e la città è stata ben felice di sposare il progetto di valenza economica e sociale". L’ultima gestione del bar era stata coinvolta circa un anno fa mesi fa in guai giudiziari e quella precedente era stata travolta da un fallimento, a causa degli elevati costi del locale. Da qui l’idea di riaprire il bar, che fornisce anche servizio mensa al personale del Palagiustizia, affidando l’attività a cooperative sociali che operano nel settore del reinserimento dei detenuti. Il Comune si impegnerà a rivedere il canone d’affitto, abbassando le richieste. Parte dei locali saranno destinati ad attività collaterali e la convenzione avrà una durata di 6 anni. Il bando sarà pubblicato a breve. Alla firma del protocollo hanno partecipato il provveditore del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, Liberato Guerriero, il procuratore generale presso la Corte d’Appello, Francesco Enrico Saluzzo, il direttore della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno, Domenico Minervini e la garante dei Diritti delle Persone private della libertà, Monica Cristina Gallo. Cassino (Fr): inaugurata area verde per i colloqui con famiglie e figli minori agensir.it, 4 ottobre 2017 I detenuti della casa circondariale "S. Domenico" di Cassino (Fr) potranno usufruire di una nuova area verde per i colloqui con i famigliari. Lo spazio, inaugurato domenica 1° ottobre, è stato pensato soprattutto per i figli minori: sono infatti state installate panchine, tavoli, tettoie e anche un’area giochi per i bambini con altalene e scivoli. Così, scrive Adriana Letta in un articolo pubblicato sul sito della diocesi di Sora-Cassino-Aquino-Pontecorvo, "nella casa circondariale ‘S. Domenicò i bambini che verranno a incontrare i loro papà detenuti troveranno un nuovo ambiente, arioso e accogliente, pensato proprio per loro e per le loro famiglie". "L’area verde - prosegue - è adibita ai colloqui dei detenuti con le loro famiglie con prole di età inferiore ai 14 anni, ed è costituita da uno spazio all’aperto che è stato sistemato proprio per permettere alle famiglie con bambini di poter trascorrere il tempo del colloquio in maniera più serena e familiare, all’aria aperta, e favorire il risorgere e il crescere dei legami affettivi, che sono quelli più autentici e capaci di ‘salvarè adulti e bambini". La realizzazione della nuova area è stata possibile dalla disponibilità della direzione del carcere, che fa capo alla dott.ssa Irma Civitareale, e all’iniziativa degli educatori che vi lavorano, in particolare Enzo Tozzi, che si è fatto carico dell’organizzazione. "Ma importante - sottolinea Letta - è stato anche il contributo della Caritas diocesana e del Lions Club di Cassino, che da tempo sostiene le iniziative di rieducazione dei detenuti, che hanno offerto un rinfresco per i partecipanti all’evento". Caserta: progetto dell’Associazione Athena, detenuti girano cortometraggio su Ulisse corrierece.it, 4 ottobre 2017 "Nostos" è il nuovo progetto dell’Associazione Athena attivato presso la Casa Circondariale di Arienzo, ispirato al "tema" dell’Odissea. Nell’opera omerica Nostos significa "ritorno a casa", e Ulisse ritorna ad Itaca dai propri cari "Cambiato". Il cambiamento è alla base del ritorno. È necessario ritornare nel proprio mondo cambiati. Questo è il messaggio su cui i ristretti della Casa Circondariale di Arienzo devono lavorare, perché il ritorno è vicino, e presto saranno restituiti alla società civile, perché come è noto, l’Istituto Penitenziario di Arienzo è una struttura di fine pena. Gli educatori e i responsabili dei laboratori hanno selezionato i ristretti che parteciperanno al progetto. L’idea progettuale è articolata con un Laboratorio di sceneggiatura, finalizzato alla stesura di un testo per cortometraggio; un Laboratorio di regia cinematografica, finalizzato alla realizzazione del piano di regia della sceneggiatura scritta dai partecipanti del laboratorio di sceneggiatura. L’obiettivo è la produzione di un cortometraggio. Presentazione del cortometraggio realizzato con la proiezione presso la Casa Circondariale con relativo dibattito sul tema del cortometraggio da parte dei detenuti. Alle riprese del cortometraggio parteciperanno anche i ristretti che saranno sul set usufruendo di permessi speciali, al fine di vedere nella pratica come si realizza un film e vivere l’esperienza del cinema. Il cortometraggio realizzato sarà presentato, con una proiezione presso la Casa Circondariale di Arienzo con relativo dibattito sul tema del cortometraggio. L’Obiettivo generale è favorire l’inclusione sociale dei destinatari delle attività progettuali che saranno realizzate all’interno della Casa Circondariale di Arienzo, e nello specifico il progetto è finalizzato ad alleviare il peso della solitudine dei detenuti con attività laboratoriali ricreative e di aggregazione; favorire la socializzazione e il confronto tra i detenuti; educare i detenuti al rispetto delle regole e alla pacifica convivenza; sollecitare e favorire la creativa artistica e la libertà di espressione del detenuto. Il progetto è finanziato dal Csv Asso.Vo.Ce attraverso il bando della Microprogettazione sociale 2016. L’associazione Athena lavora da diversi anni all’interno della Casa Circondariale di Arienzo con diversi progetti, grazie alla collaborazione e alla disponibilità del direttore Maria Rosaria Casaburo e degli educatori Rosaria Romano e Francesca Pacelli. I laboratori saranno tenuti da Gaetano Ippolito, che di recente è stato al Napoli Film Festival con il documentario "Professione: Artista". Gaetano Ippolito è stato anche l’ideatore del progetto "Oltre le mura", che ha portato in scena in provincia di Caserta lo spettacolo dei ristretti di Arienzo "Aspettando San Gennaro", con un sold out di tre giorni ad Officina Teatro. Milano: il rugby tra le sbarre che rende "liberi" i ragazzi del Beccaria di Giacomo Iacomino Il Giornale, 4 ottobre 2017 Compie dieci anni il progetto "Freedom" dell’As Milano, il club nato nel lontano 1945. Ragazzi che già dopo due allenamenti sognano di diventare arbitri. Che per la prima volta nella loro vita si sentono parte di un gruppo, perché nessuno prima d’ora aveva detto loro: "Bravo, bel passaggio". Ragazzi incapaci di lasciare la propria cella, anche per sei mesi. E che poi finalmente trovano il coraggio di uscire in cortile, ma solo per buttarsi nella mischia assieme ai volontari dell’As Rugby Milano, che da dieci anni, una volta a settimana, con il sole, la neve o la pioggia, si fanno trovare lì, sempre, giù al campo dell’Istituto penale minorile Cesare Beccaria a totale disposizione dei giovani detenuti. Il percorso di "ovalizzazione" delle carceri continua, e le dieci candeline del progetto "Freedom Rugby" raccontano una storia di coraggio, riscatto e lealtà sportiva. Dal 1997 i tesserati dell’As Rugby Milano, club nato nel 1945 e che oggi conta 750 iscritti, insegnano ai ragazzi detenuti la pratica di un gioco di squadra che è anche sport di combattimento, basato sulla gestione dell’aggressività e su un sistema di regole tecniche ed etiche. "Questi ragazzi hanno ricevuto poco o niente dalla vita. Per loro, scoprire che c’è chi è disposto a prendersi un pestone o un placcaggio per farti andare avanti, è un insegnamento che può cambiarli" ha spiegato Giorgio Terruzzi, giornalista Mediaset e consigliere della società ieri mattina alla conferenza stampa di presentazione, a Milano. Freedom Rugby è anche il nome della squadra del carcere minorile Beccaria. Se lo sono scelti i detenuti, chiaro riferimento alla libertà che non hanno più. Anche lo stemma nasce da una loro idea, tre colombe legate a una corda mentre cercano di uscire da una finestra. "Quando dico a mio figlio che il mio lavoro è fare politica nello sport, mi chiede sempre cosa significa - ha detto Demetrio Albertini, ex giocatore del Milan, anche lui presente alla conferenza -. Credo che questo progetto sia la miglior risposta possibile alla sua domanda". Con lui anche Elvira Narducci, responsabile dell’area educativa del Ipm Beccaria, che ha sottolineato il valore di allenarsi insieme: "Il rugby è uno sport dove i passaggi si sviluppano in orizzontale, si corre uno accanto all’altro e non c’è messaggio migliore per i ragazzi". Parole di ringraziamento anche da parte dell’assessore Antonio Rossi: "Lo sport non è solo il metodo più educativo che ci sia - ha detto - ma in certi casi, se praticato in maniera preventiva, può anche togliere i ragazzi dalla strada della delinquenza". Sono una ventina i volontari a rotazione tra allenatori, educatori e giocatori del Rugby Milano che si alternano nel progetto. Una quindicina circa, i detenuti che vi prendono parte. "Sono ragazzi che davvero non hanno niente, basta una pacca sulla spalla, o un semplice: Dai, hai sbagliato ma la prossima volta andrà meglio per farli sentire parte di qualcosa" hanno aggiunto Filippo Bertelli e Giovanni Tanca, responsabili del progetto Freedom Rugby. Il momento più bello? Probabilmente la visita degli All Blacks, un paio di anni dopo l’inizio di questa avventura. Con un aneddoto raccontato da Giorgio Terruzzi: "Stavano giocando una partita a squadre miste e un ragazzo dell’Istituto si rivolse a un neozelandese dicendo: ehi tu, devi stare più indietro! La cosa meravigliosa fu che il giocatore obbedì. Il rugby è così: ci rende tutti uguali". Migranti. Grasso: "estendere il diritto d’asilo anche a chi fugge dalla fame" di Leo Lancari Il Manifesto, 4 ottobre 2017 Il Presidente del Senato a Lampedusa per ricordare la strage del 2013: "non solo chi fugge dalla guerra, ma anche chi scappa dalla povertà, dalla fame, dalla violenza ha diritto d’asilo". Ci vuole coraggio, visti i tempi, per proporre di allargare il diritto di asilo anche ai migranti economici. Lo sa bene il presidente Pietro Grasso intervenendo ieri a Lampedusa alla cerimonia per il quarto anniversario del naufragio che il 3 ottobre del 2013 provocò la morte di 366 migranti, tra cui molte donne e bambini. l presidente del Senato cita l’articolo 10 della Costituzione "quello - ricorda - che sancisce un diritto universale, il diritto d’asilo allo straniero al quale, nel suo Paese, sia impedito l’esercizio della libertà". Un diritto che adesso la seconda carica dello Stato propone di allargare a quanti fuggono non solo dalle persecuzioni, ma anche dalla miseria. Grasso parla davanti alla porta d’Europa, punto di partenza della marcia in memoria della vittime della strage di quattro anni fa. Per ricordarle sono venuti in tanti sull’isola più a sud d’Europa. Studenti delle scuole italiane ed europee, associazioni, organizzazioni umanitarie, politici. Oltre a Grasso ci sono il commissario Ue all’Immigrazione Dimitri Avramopoulos, i ministri degli Interni Minniti e dell’Istruzione Fedeli. Ma soprattutto ci sono i superstiti di quella tragedia, accolti al loro arrivo dall’applauso dei partecipanti. In prima fila Thareke Brhane, del Comitato 3 ottobre che ha promosso l’iniziativa. "Siamo stanchi di contare i morti", dice. "Quello che chiediamo è che l’Unione europea apra canali umanitari e incida nei paesi di origine di queste persone che non sono dei numeri". Quanto avviene nel Mediterraneo è il filo rosso che collega la tragedia di quattro anni fa con quanto accade oggi. Gli accordi stretti dall’Italia con la Libia per mettere un argine ai flussi hanno sì portato a una diminuzione degli sbarchi, ma il numero dei morti continua a essere alto. Come ricorda il cardinale Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento e presidente della Caritas italiana. "Davanti a questo mare di Lampedusa ci sono 30mila morti e sono solo quelli contati", ricorda. "Ma ve ne sono altrettanti non contati. Vogliamo e dobbiamo smettere di contare i morti. Bisogna abbattere i muri e i reticolati che ingabbiano anche i cuori e continuano a uccidere. Dobbiamo dire con forza "Mai più morti", "Tutti devono sopravvivere e avere speranza". "Questa Europa stanca e debole deve cambiare". La conferma di questa tragedia quotidiana arriva dai numeri delle vittime forniti dalla Comunità di sant’Egidio. "Se è vero che i numeri in assoluto sono diminuiti, le percentuali sono drammaticamente aumentate: nel 2015 su un milione e 15 mila sbarchi si contavano 3.771 vittime, nel 2016 su 362 mila erano 5.096 mentre nel 2017, fino a oggi, su 130 mila arrivi ben 2.655 hanno perso la vita, addirittura uno ogni 48 persone salvate", ricorda la comunità. "Oggi ricordiamo questi morti, ma le stragi continuano. Questo vuol dire che non è stato fatto quanti si doveva", dice padre Mussie Zerai, da anni un punto di riferimento per quanti fuggono dall’Africa e fondatore dell’Agenzia Habeshia. Che non risparmia critiche alla decisione del governo italiano di affidare ai libici il compito di fermare i barconi diretti in Italia. "I libici sono dei gendarmi a pagamento - ricorda il sacerdote eritreo -, svolgeranno i loro compiti finché l’Europa li pagherà. Ma il problema resta. Servono campi umanitari, interventi nei paesi di transito e di origine per combattere la carestia, la fame. Bisogna fermare le guerre e prevenire e affrontare con azioni mirate le situazioni di povertà". Bisogna, soprattutto, creare dei canali legali per entrare in Europa, l’unico modo per riuscire a scavalcare veramente i trafficanti di uomini. Sono tutte le realtà intervenute a Lampedusa a chiederlo all’Europa. Un esempio positivo di come si possano aggirare le organizzazioni criminali sono i corridoi umanitari organizzati da Sant’Egidio con le chiese protestanti con cui in quasi due anni sono riusciti a far arrivare in Italia dal Libano 900 profughi siriani favorendo la loro integrazione. Migranti. La tragedia di Lampedusa rimossa dall’odio di Filippo Miraglia* Il Manifesto, 4 ottobre 2017 Il 3 ottobre 2013, al largo dell’isola di Lampedusa morirono in un naufragio 368 persone. Quella data, il 3 ottobre, è stata dichiarata, con una legge approvata dal Parlamento, Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione. Si trattò di una vera tragedia, documentata da immagini strazianti, come la lunga fila di bare nell’aeroporto dell’isola, che fece in pochi minuti il giro del mondo. Il governo italiano dopo poche settimane attivò, per la prima volta, un programma pubblico di ricerca e salvataggio, Mare Nostrum, che consentì a decine di migliaia di persone di salvarsi. Poi, come, sempre, le diffuse tendenze razziste del nostro Paese, e del vecchio continente, hanno avuto il sopravvento, nel dibattito pubblico e nell’orientamento dei governi. Chiuso Mare Nostrum, prende definitivamente il sopravvento il punto di vista dei predicatori d’odio. Ogni tanto qualche barlume di umanità davanti ai morti. Come davanti alle immagini del corpo del bambino siriano, Aylan, sulla spiaggia di Bodrum. Ma si tratta, quasi sempre, di parole e impegni di circostanza, di lacrime di coccodrillo. Le politiche sull’immigrazione sono andate e continuano ad andare sempre nella stessa direzione: chiudere, fermare, controllare, respingere. La criminalizzazione dell’immigrazione e della solidarietà è proceduta a grandi passi, per dare solide basi di consenso alle scelte dei governi e dell’Ue. In questi anni le frontiere sono state ulteriormente blindate. Sono andate avanti con grande impegno le iniziative volte a esternalizzare le frontiere, scaricando su altri governi e Paesi l’onere di fermare i flussi e di respingere. Ricorrendo ad uso distorto e strumentale delle risorse per la cooperazione allo sviluppo. Prima la Turchia di Erdogan e poi la Libia di Serraj. Con grande dispiegamento di diplomazia e di denari pubblici. La memoria delle vittime dell’immigrazione non sembra aver scalfito il cinismo di chi continua a considerare questo tema un’arma di distrazione di massa (le destre xenofobe e razziste) e di chi invece è convinto che per sottrarre un argomento alle destre bisogna giocare d’anticipo e, parafrasando il comico, non lasciare il razzismo ai razzisti. Il 3 ottobre è una giornata di lutto. Per quei 368 esseri umani sterminati dalle politiche di gestione delle frontiere e per le migliaia che sono morte dopo quel giorno: 15.289 persone, secondo i dati ufficiali forniti dall’Unhcr. Più di 10 morti al giorno. Gran parte di queste persone non ha un nome e mai avrà una degna sepoltura. I loro corpi non saranno restituiti alle famiglie. Una giornata nella quale non è accettabile esprimere solidarietà senza denunciare le politiche che hanno prodotto e continuano a produrre la strage che avviene davanti ai nostri occhi. Non c’è spazio per una neutralità che non condanni le cause della strage. Per fermarla bisogna far cambiare le politiche dell’Ue e dei governi europei, a partire dal nostro, e mettere in campo politiche e leggi alternative, che consentano alle persone che sono obbligate o vogliono partire di rivolgersi agli stati e non ai trafficanti. In Italia e in Europa c’è una parte consistente dell’opinione pubblica, non solo gli antirazzisti, che pensano che le vite delle persone e i loro diritti vengano prima degli interessi elettorali dei partiti. Questa parte sana della società oggi non ha spazio e non le viene data, se non raramente, la parola. Molto più spazio e visibilità è dato a chi predica l’odio, a chi criminalizza l’immigrazione e la solidarietà. Il prossimo 21 ottobre è stata lanciata una manifestazione nazionale contro il razzismo. Una grande occasione per riprendersi le piazze e dar voce a chi non vuole arrendersi alle stragi e alla cancellazione dei diritti sanciti dalla nostra Costituzione. *Vicepresidente nazionale Arci Lo Stato deve intervenire sul mercato delle droghe di Alberto Cisterna Il Dubbio, 4 ottobre 2017 Superiamo il binario morto delle dispute ideologiche. proviamo a ripetere le strategie con le quali è stato affrontato l’alcol e il contrabbando del tabacco. La discussione sulle droghe è da tempo arenata nel binario morto delle battaglie ideologiche. Da un parte quanti, in nome di una illimitata libertà di scelta individuale, ritengono che l’accesso alle sostanze stupefacenti (in primo luogo a quelle cosiddette leggere) non possa subire veti o interdizioni di sorta da parte dello Stato. Dall’altra coloro che invocano lo sbarramento dei divieti quale unica ed irrinunciabile soglia per una società ordinata e moralmente ben orientata. Nel mezzo, tra proibizionisti e liberalizzatori, quanti più semplicemente guardano allo spettro della criminalità organizzata e agli enormi profitti che il traffico delle droghe produce quotidianamente e ritengono che la distribuzione controllata dello stupefacente da parte dello Stato sia l’unico mezzo per chiudere il rubinetto del narcotraffico, anziché raccogliere in terra l’acqua, dispersa in mille rivoli, delle reti di spaccio. Ciascun punto meriterebbe di essere approfondito e posto al setaccio dei valori costituzionali che materialmente orientano la società italiana nel Terzo millennio. Per evitare una discussione lunga e, forse, scontata, potrebbe essere opportuno spostare l’attenzione sul rapporto, assiologicamente complesso e controverso, tra "vizi" (si consenta la semplificazione) e diritto. Ossia mettere sotto osservazione la propensione dell’umanità, da Adamo ed Eva in poi, a consumare "frutti avvelenati" e la necessità dello Stato di contenere, disciplinare, incanalare la controversa tendenza di una parte dei consociati ad approvvigionarsi di beni illegali. I tentativi storicamente dati di questo approccio sono noti. Dal proibizionismo americano degli anni ‘ 20, alla chiusura in Italia della case di tolleranza, dalla leva fiscale sui tabacchi e l’alcol sino all’alleggerimento delle pene per lo spaccio di lieve entità del 2014. Sono politiche complesse che, spesso, hanno visto l’Erario, più che lo Stato, porsi in posizione di fermo antagonista dei competitor illegali. Guardando le cose da vicino si possono azzardare alcune considerazioni. Lo Stato ha strenuamente combattuto, sino alla fine degli anni 90, il contrabbando di sigarette. La rotta albanese e quella cinese erano fonte di continua preoccupazione per i Monopoli che vedevano il mercato dei tabacchi insidiato dall’arrivo di centinaia di tonnellate di tabacchi lavorati esteri venduti a minor prezzo nei bazar della penisola. Politiche repressive e un largo impiego di uomini e mezzi, con basi persino in Albania (il porto di Valona), hanno contenuto e praticamente debellato il fenomeno. Ma ciò, da solo, non sarebbe stato risolutivo. Si è avuta anche l’intelligenza di cercare un punto di equilibrio nel prezzo di vendita delle sigarette da parte dello Stato e così il contrabbando ha finito per dirigersi verso Paesi (in primis la Gran Bretagna) in cui il costo al consumo delle sigarette era molto più elevato che in Italia. Il fixing price dei tabacchi è un punto di osservazione emblematico. Prezzi troppi bassi incentivano i consumi. Prezzi troppo alti deprimono la vendita legale ed avvantaggiano quella illegale. Si potrebbe dire la stessa cosa per l’alcol il cui il monopolio legale non è stato mai sostanzialmente intaccato dalle produzioni illegali, almeno dall’America di Al Capone in poi. È una questione di prezzo, quindi. La leva del costo induce il consumatore a comportamenti adeguati. Certo, chiunque vorrebbe che lo Stato imponesse dazi proibitivi per le sigarette o l’alcol, al fine di evitare disastrosi danni alla salute e drammatiche ricadute personali e familiari. Tuttavia la presenza dei mercati paralleli clandestini esige, come detto, un contenimento della leva fiscale e suggerisce soluzioni diverse, volte alla persuasione ed alla dissuasione dei consumatori (basta vedere le immagini di morte apposte sui pacchetti di sigarette o le avvertenze nella pubblicità di prodotti alcolici o le pene per chi guida in stato di ebrezza). Un percorso lungo e difficile, in cui lo Stato ha rinunciato ad agire con eccessiva risolutezza sul fronte dell’imposizione fiscale per non agevolare la penetrazione dei contrabbandieri. Lo abbiamo detto, il rapporto tra beni illeciti e diritto è una relazione complessa in cui la repressione, penale o fiscale, non consegue risultati certi e automatici. Alcol, sigarette, prostituzione sono la più evidente dimostrazione di una sorta di arretramento delle prerogative statuali di repressione in favore di politiche flessibili e di lunga durata che agevolino l’allontanamento dei consumatori dai mercanti illegali. Resta il drug market. In questo caso, come detto in premessa, la partita ideologica è più aspra e, probabilmente, non hanno giovato ad un approccio sereno del problema manifestazioni di radicalismo liberale che volevano saldare l’idea del consumo delle droghe (soprattutto leggere) alla convinzione che la società si sarebbe così affrancata da vincoli di ordine religioso o moralistico. Una prima conclusione sul punto non può prescindere dalla considerazione che le droghe producono un circuito di illegalità che, volutamente forse, non viene misurato dalle statistiche giudiziarie e di polizia. Si dice, ad esempio, che le estorsioni in Italia nell’ultimo anno abbiano avuto un incremento di parecchi punti percentuali. Ma si omette di dire che molte di queste estorsioni non sono commesse dalle mafie, ma da tossicodipendenti e spesso in ambito familiare. Genitori, nonni, fratelli sono continuamente vessati dai giovani assuntori di droghe, in gran parte inoccupati, che talvolta praticano violenze inaudite per procurarsi denaro e droga. La stessa cosa potrebbe dirsi per gli scippi e le rapine. Esiste una "cifra oscura" dei reati connessi alle tossicodipendenze che nessuno rivela al Paese nelle sue esatte dimensioni. Eppure la pratica delle aule di giustizia è chiara ogni giorno e consegna un quadro drammatico. Una seconda conclusione è che da oltre 30 anni il prezzo al consumo delle droghe pesanti (cocaina in primo luogo) e leggere non subisce alcuna variazione apprezzabile. L’offerta di stupefacente è così alta e variegata che il prezzo, ad esempio, della cocaina non è neppure scalfito dai sequestri di polizia, ma è paradossalmente messo in crisi dalla produzione su larga scala di droghe sintetiche. Il mercato delle droghe è l’unico, tra i più importanti monopoli illegali, in cui lo Stato ha rinunciato ad entrare, limitandosi ad una, purtroppo inefficace, azione repressiva, ingaggiando una battaglia lunga decenni e senza mai una svolta significativa. A prescindere da ogni posizione di principio è evidente che l’irruzione, seria, meditata, prudente e ponderata, dello Stato (o degli Stati) nella determinazione del prezzo di cessione delle droghe potrebbe far saltare le regole del gioco e far bruscamente regredire le organizzazioni dei narcos e le loro ramificazioni al dettaglio. La distribuzione controllata di alcuni tipi di stupefacente avrebbe il risultato di deprimere il contatto, talvolta quotidiano, di tanti giovani assuntori con malviventi della peggiore specie e di porre un freno alla "cifra oscura" dei drug oriented crimes (a patto che venissero conteggiati, cosa invero del tutto semplice). Una partita delicata, sia chiaro, dagli esiti incerti, che dovrebbe essere accompagnata da politiche di sostegno altrettanto serie e durature. Sempre meglio, forse, di una logorante guerra, in cui il nemico da decenni non arretra di un millimetro. Droghe. Drug checking in Italia, finalmente di Lorenzo Camoletto Il Manifesto, 4 ottobre 2017 Il drug checking è una pratica di grande impatto nell’ambito della riduzione dei rischi da droghe: una persona ti chiede di confermare, smentire, aprire interrogativi in merito ai principi attivi contenuti nella sostanza che vorrebbe utilizzare, e questo apre spazi relazionali di valore incommensurabile. Nessuno lo ha mai negato nel mondo italiano dei servizi di riduzione dei rischi e dei danni. Però per decenni il drug checking o meglio il pill testing (come lo si chiamava un tempo) è stato uno dei temi "sensibili", una delle pratiche possibili solo nei paesi avanzati e pragmatici del nord Europa. Un intervento che da noi poteva essere portato avanti solo da gruppi di volontari/attivisti, in progetti che non dovessero rendere conto a una committenza istituzionale. I coraggiosi che ci avevano provato, che lo avevano proposto in progetti formali, erano stati costretti a battere in ritirata. Così il pill testing era diventato un argomento per dibattiti nei convegni, qualche volta di conflitto fra servizi istituzionali e attivisti, più spesso uno dei mille argomenti che, nei discorsi fra operatori davanti ad una birra, rafforzano la frustrazione di lavorare in Italia e l’invidia per i lussureggianti giardini del vicinato europeo. Nel tempo però, i setting cambiano, si evolvono e la combinazione fra innovazioni tecnologiche e mutamenti culturali apre brecce in muri considerati invalicabili. Questa almeno è stata la sorprendente esperienza del progetto Baonps (Be Aware on Night Pleasure Safety) che celebrerà il suo convegno finale il prossimo 11 ottobre a Roma. Tutto è partito tre anni fa, con un progetto europeo cui hanno aderito con convinzione partner istituzionali come il Serd di Ivrea e il Centro Regionale Antidoping (Cad) "Alessandro Bertinaria" di Orbassano, con il proprio laboratorio regionale di Tossicologia: proponendo una tecnologia basata sulla spettroscopia Raman, che permette agli operatori di non entrare in contatto diretto con le sostanze e di fare test veloci. Grazie al Cnca (Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza) e ai servizi outreach della rete, è stato possibile portare questa esperienza in vari eventi in sei regioni italiane e in tutti i casi i feedback sono stati molto positivi. Ma è il quadro nazionale complessivo di oggi che ci sorprende di più: in Piemonte, nel bando di rinnovo del progetto Neutravel (di intervento di riduzione del danno nei luoghi di divertimento), la Regione richiede espressamente la fornitura del drug checking fra le azioni previste; la Lombardia sta finanziando attività di drug checking e l’Istituto Superiore di Sanità, incaricato di ridisegnare e gestire il sistema nazionale di allarme rapido, considera auspicabile l’inclusione del drug checking nel sistema di monitoraggio e allerta per le nuove sostanze psicoattive. Il fatto che il sistema sia affidato all’Istituto Superiore di Sanità, insieme alle dichiarazioni dei suoi funzionari e al coinvolgimento degli operatori di Baonps, accredita l’impressione che il sistema di allerta rapido possa funzionare non più solo per finalità di controllo penale delle nuove sostanze, ma per costruire strategie di salute pubblica nella declinazione della Riduzione del Danno. Inoltre si sta lavorando affinché il tema sia incluso nelle linee guida nazionali sui Livelli Essenziali di Assistenza (Lea), come già sta accadendo in alcune regioni per i Lea regionali. Di difficoltà burocratiche e giuridiche da superare ne rimangono molte, ma le resistenze culturali si sono rivelate finora decisamente meno consistenti di quanto temuto. Alcune istituzioni e la stessa opinione pubblica si dimostrano più coraggiose di quanto noi stessi dei servizi di riduzione del danno ci aspettavamo. Chi l’avrebbe mai detto? Troppi droni nei cieli, Bruxelles decide di intervenire di Franco Venturini Corriere della Sera, 4 ottobre 2017 Nel solo 2016 nei cieli europei si sono verificati 1.200 "eventi rilevanti per la sicurezza". In altre parole, mancate collisioni tra droni e aerei pieni di passeggeri. Sempre più droni, droni di guerra e droni di pace. Negli Stati Uniti il capo dell’Fbi ha lanciato l’allarme nei giorni scorsi: anche l’Isis è ormai in grado di utilizzare i droni d’attacco, ha detto al Congresso, e noi americani dobbiamo prepararci all’eventualità di un attacco condotto con questo mezzo. Del resto è noto, ha aggiunto Christopher Wray, che i droni sono facili da gestire e difficili da monitorare. Lo sanno bene i militari statunitensi, che sono i primi a profittare di queste caratteristiche e colpiscono obbiettivi lontani con droni guidati dal territorio Usa oppure da basi amiche come Sigonella. Ma se i droni di guerra sono ormai diventati l’arma indispensabile di ogni offesa, in Europa cresce l’attenzione verso i droni di pace, diventati in questi anni strumenti preziosi nella tutela dei centri urbani, nella raccolta di dati per l’industria, nelle ispezioni delle infrastrutture, nello studio dei terreni per l’agricoltura. La Commissione di Bruxelles vuole che la Ue diventi leader nello sviluppo e nella produzione di droni civili, ma un recentissimo e serissimo rapporto ha mutato l’ordine delle sue priorità: nel solo 2016 nei cieli europei si sono verificati 1.200 "eventi rilevanti per la sicurezza". In altre parole, mancate collisioni tra droni e aerei pieni di passeggeri in decollo o in atterraggio. Il problema non è nuovo ma è destinato ad aggravarsi a causa della continua moltiplicazione dei droni "da lavoro", e Bruxelles appare decisa a rendere operativo il suo progetto di geofencing: i droni civili non potranno più volare in spazi "geograficamente recintati" con l’aiuto dei satelliti e di nuove tecnologie di navigazione. In pratica i droni non potranno più avvicinarsi agli aeroporti, o a zone dove esistano pericoli di collisione di qualunque genere alle quote medio-basse. I soldi ci sono, l’urgenza pure, Juncker aspetta il consenso di tutti i membri della Ue. Anche per evitare, visti i tempi, che un drone di pace possa avvicinarsi troppo a un drone di guerra. Stati Uniti. Las Vegas, una normale strage americana di Fabrizio Tonello Il Manifesto, 4 ottobre 2017 Stavolta non si trattava di fanatici delle armi, come Adam Lanza, il responsabile del massacro nella scuola elementare di Sandy Hook, in Connecticut, nel 2012 e Dylann Roof, l’autore della strage in una chiesa di Charleston nel 2015. Non c’entra la paranoia di due studenti mentalmente disturbati, come accadde a Columbine, nel 1999. E, nonostante la rivendicazione, neppure si può dare la colpa allo Stato Islamico e alle guerre in medio oriente, come nel caso degli attacchi di San Bernardino, in California nel 2015, e di Orlando, in Florida, nel 2016. No, domenica a Las Vegas l’autore della strage è un pensionato, per di più milionario, due categorie finora mai incontrate nel quadro degli atti di terrorismo. Stephen Paddock, 64 anni, era un giocatore, apparentemente fortunato, che passava gran parte del suo tempo a Las Vegas al casinò, oppure partecipava ai tornei di poker on line da casa sua, in un quartiere residenziale di Mesquite, sempre in Nevada. Della sua vita lavorativa si sa solo che era finita molti anni fa, da decenni si occupava solo delle sue proprietà immobiliari, anche in questo caso con successo. Al contrario di altri terroristi americani non era un cacciatore, non aveva una passione per le armi da fuoco, non era un reduce dal servizio militare, com’era stato, per esempio, Timothy McVeigh, l’autore dell’attentato di Oklahoma City nel 1995. Paddock non era un emarginato o un lupo solitario: aveva due fratelli, una madre ancora viva con la quale era in contatto, una compagna che al momento della sparatoria era all’estero. Non aveva mai dato segni di squilibrio mentale o manifestato desideri di vendetta, non era in contatto con organizzazioni criminali o gruppi neonazisti anche se, per la gioia dei giornali, suo padre era stato un rapinatore di banche tra i dieci più ricercati dall’Fbi negli anni Settanta. No, Stephen Paddock era un normale americano agiato, di quelli che fanno le crociere nei Caraibi o nel Mediterraneo, vengono in Italia per vedere Firenze e Venezia, affollano i parchi di Yellowstone e Yosemite e, naturalmente, vanno a Las Vegas per provare il brivido della roulette, dei dadi, delle slot-machine. Paddock, dopo aver fatto tutte queste cose, ha deciso di farne un’altra più emozionante e spettacolare: sparare sulla folla di un concerto. Ha affittato una suite al 32° piano in un albergo che dominava l’area del festival, l’ha riempita di armi semiautomatiche, ha sfondato i vetri delle finestre e ha iniziato la strage, che avrebbe potuto essere anche peggiore di quello che è stata, come testimonia l’incredibile numero di feriti, 527, che si aggiungono ai 59 morti confermati. Com’era prevedibile, il presidente Donald Trump e i repubblicani in Congresso si sono limitati a delle frasi di circostanza, deputati e senatori rimangono ostaggi della potente National Rifle Association, che con i suoi cinque milioni di iscritti costituisce uno dei pilastri del blocco di potere oggi dominante. La Nra, nata come club di appassionati di tiro a segno a fine Ottocento, ha cambiato pelle nella seconda metà degli anni Settanta, riuscendo a imporre un allargamento progressivo del diritto di portare armi, fino ad ottenere una storica vittoria nel 2008 con la sentenza della Corte suprema District of Columbia versus Heller, che sostanzialmente apriva la via a una deregolamentazione totale basata su una lettura fino ad allora ultraminoritaria del II° Emendamento della costituzione. Nell’interpretazione di Antonin Scalia a nome della maggioranza dei giudici, quello di armarsi è un diritto individuale di ogni cittadino americano, legato all’autodifesa, non connesso al servizio militare in una milizia o una riserva dell’esercito. Naturalmente, i cinque giudici repubblicani non affrontarono il problema della difesa dei normali cittadini da chi volesse acquistare armi da guerra (Paddock aveva 23 armi da fuoco nella sua stanza, tra i quali vari AR-15, i fucili d’assalto in dotazione alle forze armate americane). Il fatto che le stragi sostanzialmente immotivate siano diventate, insieme agli omicidi, il problema di salute pubblica n. 1 negli Stati Uniti è evidente a tutti ma il sistema politico sembra totalmente paralizzato e incapace di affrontarlo. Neppure proposte parziali e modeste, come vietare l’acquisto di armi ai potenziali terroristi o alle persone mentalmente instabili, sono state approvate negli ultimi anni, nonostante un’escalation di violenza impensabile in qualsiasi altro paese. Nel 2014 c’erano stati 12.571 omicidi con armi da fuoco, nel 2015 ce n’erano stati 13.500, nel 2016 il totale è balzato a oltre 15.000. A questi, occorre aggiungere i circa 22.000 suicidi l’anno, sempre con armi da fuoco. Per avere un’idea migliore di cosa significhino queste cifre basterà ricordare che gli Stati Uniti hanno un tasso di omicidi per 100.000 abitanti che è circa 4 mentre in tutti i paesi europei tranne l’Ungheria questo tasso è inferiore a 2, e nei paesi industrializzati come Germania, Francia, e Gran Bretagna è inferiore a 1. L’Italia, nonostante mafia e camorra, ha circa 450 omicidi l’anno, cioè un tasso di 0,81 ogni 100.000 abitanti. In Giappone, il tasso è 0,3, cioè ci sono meno di 400 omicidi l’anno nonostante sia un paese di 120 milioni di abitanti. Ci sono speranze per gli Stati Uniti? Nonostante il dibattito sulle armi da fuoco venga puntualmente riaperto ad ogni nuova strage, l’emozione sembra durare pochi giorni o settimane e, soprattutto, sembra incapace di scalfire l’indifferenza del sistema politico. In otto anni di presidenza, neppure Barack Obama, un coraggioso e carismatico sostenitore di maggiori restrizioni e controlli, riuscì a far approvare a Congresso un qualsiasi modesto provvedimento utile a limitare i danni. Dopo Las Vegas non c’è che da aspettare il prossimo massacro.