Dai libri ai colloqui, 41-bis uniforme di Giovanni Negri Il Sole 24 ore, 3 ottobre 2017 Dagli alimenti alle sigarette, passando per riviste e giornali. Il ministero della Giustizia riordina le misure applicative del "carcere duro", il 41 bis, rendendole omogenee in tutti i penitenziari e con un elevatissimo grado di dettaglio. Per il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, "si tratta di un provvedimento frutto di un’interlocuzione con la procura Antimafia, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e il Garante per i detenuti che dà omogeneità all’applicazione del 41 bis, evitandone ogni forma di arbitrio e di misure impropriamente afflittive. Dopo venticinque anni era tempo di dare un assetto definitivo a questa importante leva nel contrasto alla criminalità organizzata, inquadrandola però in modo più chiaro nella cornice dello stato di diritto". Ne sottolinea l’importanza anche Roberto Piscitello, direttore generale dei detenuti e del trattamento: "Era importante fornire un punto di riferimento perché sinora la disciplina poteva anche essere diversa da istituto a istituto, prestando il fianco anche a possibili prove di forza da parte dei detenuti, dove differenze anche minime rischiano di passare per riconoscimento di privilegi". Attraverso 37 norme e un nutritissimo stock di allegati, si dipanano le misure da applicare a 740 detenuti (record storico) per reati legati a criminalità organizzata e terrorismo. Dalle dimensioni delle pentole al numero delle foto da tenere in cella, dai colloqui con i familiari alla corrispondenza e ai libri che è possibile ricevere, uno spaccato del regime carcerario più severo trova posto nella circolare. Vediamo. Si toccano aspetti di vita quotidiana, per cui la camera del detenuto e dotata degli arredi essenziali: letto, tavolo, armadio, sedia o sgabello, specchio in plexiglass e televisore agganciato a muro, puntualizza il provvedimento. Le pentole devono avere dimensioni prestabilite e non si possono ricevere dall’esterno generi alimentari che prevedono cottura. Il limite di spesa è fissato in 500 euro mensili e 150 settimanali. È permesso inviare ai propri familiari un massimo 350 euro al mese. Ma sono poi disciplinate le misure più aderenti allo scopo del 41 bis, evitare contatti a rischio sia all’interno sia all’esterno. Così i colloqui visivi con i familiari sono previsti nel numero di uno al mese, della durata di un’ora ciascuno. Tra le novità, la possibilità di incontri senza vetro divisorio con i figli e i nipoti al di sotto dei 12 anni. Nessun limite per i difensori. Due i pacchi che è possibile ricevere ogni mese. Ammessi quattro libri al massimo al mese, da prendere a prestito dalla biblioteca e da non sottolineare, mentre la visione dei programmi televisivi sarà limitata ai principali canali. Acquistabili i giornali nazionali, ma non quelli locali visto che "è emerso che i detenuti/internati manifestano interesse per tali testate giornalistiche allo scopo di tenersi informati sulle vicende connesse al clan criminale ovvero per verificare l’avvenuta esecuzione dei propri ordini veicolati all’esterno". No a personal computer, mentre, su autorizzazione, sarà possibile la lettura di atti giudiziari digitali. Ecco il decalogo sul trattamento dei detenuti al 41 bis di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 ottobre 2017 A 25 anni dalla introduzione del regime carcerario duro per i boss arriva la Circolare del Dap. Linee guida che uniformano il regime del 41 bis per tutti gli istituti che lo ospitano. Come già anticipato da Il Dubbio, la circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria punta a uniformare l’applicazione del 41 bis per tutti i 13 istituti penitenziari che ospitano la detenzione dura. Finora la vita dei boss in regime di detenzione speciale era disciplinata genericamente dalla norma che nel tempo, proprio perché generica, ha richiesto l’intervento dei tribunali di sorveglianza per una specificazione. Tale circolare, inoltre, si prefigge di raggiungere una piena funzionalità del regime nel corretto bilanciamento degli interessi connessi alla sicurezza penitenziaria ed alla dignità del detenuto, titolare di diritti soggettivi che non devono venire meno per effetto della sottoposizione al regime speciale, con l’esclusione di ogni disposizione che possa essere interpretata come inutilmente afflittiva. Detto, fatto. A 25 anni dalla sua introduzione per i boss mafiosi, il decalogo sul come devono essere trattati i detenuti è stato sottoscritto dal direttore generale dei detenuti e del dipartimento, Roberto Piscitello, vistato dal capo del dipartimento Santi Consolo e condiviso sia con il Procuratore nazionale antimafia ed antiterrorismo che con il Garante nazionale dei diritti dei detenuti. "Si tratta di un provvedimento - commenta il ministro della Giustizia Andrea Orlando - che dà omogeneità all’applicazione del 41 bis, evitandone ogni forma di arbitrio e di misure impropriamente afflittive". Critica invece l’esponente del Partito Radicale - da sempre per il superamento del carcere duro - Rita Bernardini: "Positivo che si siano uniformate le norme, ma il 41 bis continua ad essere un regime di vera e propria tortura nel quale chiediamo al livello politico il suo superamento". Le principali linee guida - Nero su bianco tutte le regole da far rispettare, sia per quanto riguarda la sicurezza dovuta dall’esigenza restrittiva, sia per quanto riguarda il rispetto della dignità del detenuto. In sintesi vengono ribadite tutte le costrizioni del 41 bis, accentuando le garanzie già esistenti. Per quanto riguarda la formazione dei gruppi di socialità per l’ora d’aria, vengono ribadite tutte le limitazioni previste: solo due ore al giorno, evitare gli incontri tra i vertici delle medesime famiglie, di gruppi alleati e di gruppi o clan contrapposti, oppure verificare le corrispondenze epistolari con l’ausilio degli addetti all’ufficio posta e censura, al fine di verificare i contatti attuali che il detenuto ha con altri soggetti, anche ristretti al regime 41 bis. Nello stesso tempo, al detenuto verrà assicurato, sempre durante l’ora di socialità, l’utilizzo dei giochi di società e mazzi di carte avendo ovviamente cura di controllare la presenza di eventuali segni, annotazioni e simboli apposti sugli stessi. Il detenuto potrà svolgere attività fisica attraverso attrezzi ginnici e potrà portare solo oggetti consentiti dal regolamento. Nella cella il detenuto potrà tenere un massimo di 30 fotografie per sicurezza appoggiate sul mobilio e non affisse sulle pareti - e simboli della propria confessione religiosa. Potrà acquistare o sottoscrivere abbonamenti ai quotidiani a più ampia diffusione nazionale per il tramite della Direzione. Sempre in cella verrà consentita la fornitura delle lenzuola e della federa per il cuscino, per cui è previsto il cambio settimanale nel giorno prestabilito dalla Direzione per ogni sezione. La fornitura risponde ad esigenze di parità di trattamento finalizzate ad evitare situazioni di potere e prevaricazione. Al detenuto verrà assicurata la fornitura dei generi per la pulizia della stanza una volta al mese nel limite della disponibilità. Il detenuto potrà tenere in camera i generi alimentari acquistabili al sopravvitto, purché non eccedenti il fabbisogno settimanale. Potrà utilizzare il fornello a gas, ma seguendo delle regole ben precise. Al detenuto non è consentito di possedere un personal computer, ma per esigenze di studio potrà fruire, previa richiesta, di computer fissi messi a disposizione in apposite sale separate dalla Direzione che ne disciplinerà giorni, orari di accesso e modalità, al fine di scongiurare che siano sovvertite le caratteristiche e le finalità del regime. Verrà garantita l’assistenza spirituale e quindi la partecipazione alla messa, ma sempre in gruppi di socialità. Per quanto riguarda i colloqui con i familiari, le regole sono quelle classiche: vetro divisore, massimo 3 persone, solo un’ora e ogni 30 giorni. Per coniugare la tutela del diritto del detenuto di mantenere rapporti affettivi con i figli e i nipoti e quello di garantire l’ordine e la sicurezza pubblica, il detenuto potrà chiedere che i colloqui con i figli e con i nipoti minori di anni 12, avvengano senza vetro divisorio per tutta la durata, assicurando la presenza del minore nello spazio riservato al detenuto e la contestuale presenza degli altri familiari dall’altra parte del vetro. La novità, importante, riguarda il colloquio riservato con il garante nazionale dei detenuti: può avvenire senza limite di tempo e senza incidere sulla determinazione del numero dei colloqui cui il detenuto ha diritto. L’assistenza sanitaria - Il detenuto potrà ottenere copia della sua cartella clinica, avrà la possibilità - tramite richiesta valutata da una certificazione che attesti la sua eventuale patologia - di essere visitato giornalmente dal sanitario di sezione. Le visite con medici della Asl avverranno presso l’ambulatorio della sezione o nell’infermeria centrale, in ipotesi di visite che richiedono l’utilizzo di strumenti o particolari presidi sanitari. La vigilanza dovrà essere attuata dal personale di polizia penitenziaria, garantendo discrezione e riservatezza. Inoltre, il detenuto, può chiedere di essere visitato dal medico di fiducia a proprie spese. Non sarà consentito il pagamento delle spese sanitarie da parte di altro detenuto poiché ciò può non essere motivato da ragioni di solidarietà quanto piuttosto essere espressione di precise dinamiche e modalità operative proprie delle associazioni criminali. Telecomando piombato, niente vetro per figli e nipoti: come cambia il "carcere duro" di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 3 ottobre 2017 Le nuove regole del "41 bis": figli e nipoti potranno partecipare ai colloqui stando accanto stando accanto ai detenuti, mentre gli altri partecipanti rimarranno dall’altra parte del vetro divisorio. Telecomando sigillato per evitare manomissioni. I figli e i nipoti dei detenuti al "carcere duro" potranno partecipare ai colloqui con il padre o il nonno standogli accanto per tutta l’ora dell’incontro, mentre gli altri partecipanti (al massimo tre) rimarranno dall’altra parte del vetro divisorio; una concessione introdotta per "bilanciare interessi di pari rilevanza, tra tutela del diritto del detenuto a mantenere rapporti affettivi e quello di garantire la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica", che rappresenta la principale novità del nuovo regolamento sul regime del "41 bis". Da quando fu introdotto venticinque anni fa per i capi delle organizzazioni criminali, all’indomani delle stragi di mafia del 1992, è la prima volta che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria interviene in maniera organica per uniformare i trattamenti tra un carcere e l’altro, entrando nei minimi dettagli di ciò che boss e gregari possono e non possono fare. "Era tempo di dare un assetto definitivo a questa importante leva nel contrasto alla criminalità organizzata, inquadrandola in modo più chiaro nella cornice dello stato di diritto, perché lo Stato è tenuto a rispettare le regole anche quando è chiamato a contrastare i suoi peggiori nemici", commenta il ministro della Giustizia Andrea Orlando. E il direttore dell’Ufficio detenuti e trattamenti del Dap Roberto Piscitello, che ha redatto la circolare sottoscritta anche dal capo del Dipartimento Santi Consolo, spiega: "Era necessario rendere omogenea l’applicazione del 41 bis, evitando sia atteggiamenti troppo permissivi che restrizioni troppo afflittive; il regime di detenzione speciale serve a impedire l’ideazione, la pianificazione e la commissione di nuovi reati, ma non può e non deve trasformarsi in una pena aggiuntiva rispetto a quella stabilita dai giudici nei processi". Le nuove regole arrivano insieme alle riflessioni sollecitate dal Dap alla Procura nazionale antimafia e alle Procure distrettuale sul numero record raggiunto dai ristretti al "carcere duro": siamo a quota 729, la capienza massima dei 12 istituti che possono accoglierli. Attualmente ce ne sono una decina in "lista d’attesa", destinati alla meno severa "alta sorveglianza" finché non si libereranno i posti necessari (ne erano stati previsti 90 in più, che però mancano per responsabilità della ditta che doveva costruirli nella prigione di Cagliari). Chi invece è già inserito in quel circuito, da Totò Riina in giù, dovrà attenersi ai 37 articoli varati ieri, completi di prescrizioni apparentemente poco significative, ma utili a dirimere questioni che, in passato, hanno creato problemi e tensioni. Il telecomando del televisore della cella in cui si possono vedere solo le reti nazionali, "dovrà essere sigillato e piombato al fine di evitarne la manomissione, e frequentemente controllato" dalla polizia penitenziaria; questo perché qualcuno è riuscito a collegarsi con una tv locale campana dove scorrevano messaggi inviati dal pubblico, possibile canale di comunicazione con l’esterno. Lo stesso pericolo può nascondersi nelle cronache dei giornali locali, vietati per impedire che i boss si informino "sulle vicende connesse al clan criminale ovvero per verificare l’avvenuta esecuzione dei propri ordine veicolati all’esterno". I libri non possono essere acquistati perché andrebbero controllati riga per riga dal personale, e si potranno leggere solo quelli della biblioteca del carcere; via libera alle fotografie da tenere in cella, fino a trenta e "di dimensione non superiore a 20x30 centimetri"; il barbiere è previsto una volta al mese con precise prescrizioni e perquisizioni ogni volta che entra e esce. Amentato il numero dei colori che può tenere con sé chi disegna o dipinge; le ciabatte ai piedi sono consentite solo in cella o per andare alle docce, ma sono vietate quelle con la suola alta che "si presta a manomissioni o occultamenti di vario genere". Si possono comprare vestiti, purché "di modico valore, in quanto il vestiario lussuoso potrebbe manifestare una condizione di superiorità su altri detenuti". Come l’acquisto di cibo in più rispetto a quello passato dall’amministrazione, consentito "sempre che non si tratti di beni di carattere voluttuario e/o tali da manifestare una posizione di potere e supremazia del detenuto". 60 bambini che vivono in galera: casi irrisolti di ingiustizia italiana di Claudia Torrisi valigiablu.it, 3 ottobre 2017 I primi di settembre, un bambino nigeriano di meno di un anno è rimasto intossicato dopo aver ingerito del veleno per topi nel reparto femminile del carcere Gazzi di Messina, dove vive insieme alla madre detenuta. Il bambino è stato ricoverato d’urgenza in gravi condizioni al Policlinico di Messina e poi dimesso dopo qualche giorno. Il caso ha riportato alla luce il tema dei minori che vivono reclusi in carcere con le madri: un fenomeno che ancora persiste nonostante abbia numeri relativamente ridotti e sia stato oggetto nel tempo di diversi interventi legislativi, che però non hanno centrato il punto o sono rimasti disattesi. Secondo le associazioni impegnate sul tema, "i bambini crescono in carcere a causa dell’assenza di una politica nazionale realmente funzionale alla risoluzione di questo problema". Il caso del bambino avvelenato nel carcere di Messina In una puntata di Radio Carcere su Radio Radicale, Massimiliano Coccia ha ricostruito la vicenda accaduta al Gazzi Messina, riportando le informazioni ottenute da una fonte interna. Il garante dei detenuti in Sicilia, Giovanni Fiandaca, da noi contattato, ha spiegato la dinamica di quanto accaduto: mentre la madre si era recata a telefonare al marito (anche lui detenuto, in un altro carcere) in una cabina telefonica al piano terra dell’istituto penitenziario, il bambino, rimasto fuori, aveva trovato per terra una bustina di topicida ingerendo parte del contenuto. Come ha precisato Coccia, durante la trasmissione, nonostante sia stato subito soccorso, prima di risalire alla causa del malore "è passato parecchio tempo perché non tutte le guardie sapevano di queste bustine di topicida. Il veleno presente nella struttura è stato apposto da una guardia penitenziaria perché il carcere Gazzi è invaso dai topi". La zona dove si trova la donna nigeriana, tra l’altro, "secondo le nostre fonti interne è proprio una delle più esposte all’ingresso e uscita" dei roditori, a causa della presenza di sbocchi fognari vicini. Prima di approdare a Radio Radicale, il caso è rimasto per diversi giorni confinato in articoli marginali della cronaca locale. Secondo Coccia questo dipende anche dal fatto che la donna nigeriana "parla a stento l’italiano" e "l’assenza di interpreti e mediatori culturali" all’interno del carcere ha reso più difficile ricostruire l’accaduto: "Questa vicenda porta alla luce il fatto che a pagare in queste situazioni sono i bambini e quelle detenute che sono ignote, non eccellenti (...). Basti pensare che la madre è ristretta per reati relativi all’immigrazione clandestina". Successivamente anche Roberto Saviano con un post su Facebook si è occupato del caso, denunciando come la guardia penitenziaria sia stata "l’unica ad aver pagato" per quanto accaduto, essendo stata sottoposta a un procedimento disciplinare. 60 bambini detenuti con le madri A luglio del 2015 il ministro della Giustizia Andrea Orlando aveva annunciato che entro l’anno nessun bambino sarebbe più stato detenuto, promettendo "la fine di questa vergogna contro il senso di umanità": Non possiamo privare un bambino della libertà, è innocente ma allo stesso tempo ha diritto di vedere sua madre. Stando alle cifre diffuse dal Ministero della Giustizia, però, al 31 agosto 2017 negli istituti di detenzione risultavano reclusi 60 bambini. Erano 37 al 31 dicembre 2016, e su un totale di 33 madri, 23 (ossia più di due terzi) erano cittadine straniere. La legge 354 del 1975 consente alle donne di portare con sé in carcere i figli da 0 a 3 anni, in modo da ritardarne il distacco. Inizialmente solo le detenute con pena anche residua inferiore a 4 anni e figli di età non superiore a 10 anni potevano accedere alla detenzione domiciliare; per tutte le altre e per i loro figli si aprivano le porte del carcere. Con la cosiddetta "legge 8 marzo", la 40 del 2001, sono state introdotte alcune modifiche e favorito l’accesso delle donne con figli piccoli alle misure cautelari alternative. Tra queste, la detenzione speciale domiciliare, che permette alle detenute madri di bambini con meno di dieci anni che hanno espiato un terzo della pena di poter scontare il resto a casa o in altro luogo di cura o accoglienza. Come si legge nell’ultimo rapporto dell’Associazione Antigone, però, il provvedimento introduceva "anche delle condizioni di ammissione alle misure alternative": potevano essere ammesse ai benefici le donne che non presentavano rischio di recidiva e potevano dimostrare la concreta possibilità di ripristinare la convivenza con i figli. "Condizioni - prosegue il report - che hanno finito inevitabilmente per tagliar fuori le donne appartenenti alle frange più marginali della popolazione, magari detenute tossicodipendenti, incarcerate per reati relativi alla legge sulle droghe (di fatto, gran parte delle detenute)". Escluse anche "le donne straniere che spesso prive di fissa dimora non potevano accedere agli arresti domiciliari" e il cui destino è quindi il carcere. Un’ulteriore modifica è intervenuta con la legge 62 del 2011, che ha previsto la detenzione in Istituti di Custodia Attenuata per detenute Madri (Icam) con bambini fino a sei anni e la possibilità di scontare gli arresti domiciliari in una "Casa famiglia protetta". La legge è sostanzialmente rimasta inapplicata e al momento esiste solo una Casa famiglia, di recente inaugurazione. Il risultato è che negli ultimi anni il numero dei bambini detenuti insieme alle madri ha avuto un andamento altalenante, ma non si è mai esaurito. Le "sezioni nido" in carcere e gli Icam Le donne recluse con i propri figli si trovano nelle 13 sezioni nido delle carceri o negli Icam. Secondo il rapporto di Antigone, dal 1993 a oggi si oscilla "da un minimo di 13 strutture a un massimo di 18 a livello nazionale, in parte non funzionanti". I luoghi di possibile detenzione per le donne madri con figli a seguito sono dunque pochissimi, "con il risultato di amplificare ulteriormente il problema della lontananza tra il luogo di residenza e quello di detenzione di queste donne; e quindi, a volte, anche della lontananza con gli altri figli fuori dal carcere, magari troppo grandi per seguirle in custodia attenuata". L’ultima relazione del Garante dei detenuti al Parlamento rispetto alle sezioni nido delle carceri ha rilevato come "a fronte di reparti attrezzati, accoglienti e ben collegati con il territorio, sussistono ancora situazioni del tutto inidonee". La sezione della Casa circondariale di Avellino, per esempio, "è tale solo di nome poiché la cosiddetta ‘cella nidò per le madri con bambini è di fatto semplicemente una stanza detentiva a due, nella sezione comune femminile, priva di qualsiasi attrezzatura necessaria per ospitare bambini così piccoli". L’istituto, inoltre, "non ha mai attivato una collaborazione con l’asilo nido del territorio" e di fatto "i bambini vivono nella sezione detentiva comune, in celle prive delle dotazioni necessarie, in un contesto difficile anche per gli adulti, senza rapporti con le scuole o le organizzazioni locali, mentre le madri sono escluse dalla possibilità di condividere con i propri figli l’unico locale adatto a un minore e l’area verde attrezzata con giochi". Per quanto riguarda gli Icam, si tratta di strutture che fanno capo all’amministrazione penitenziaria, istituite in via sperimentale nel 2007 e poi sistematizzate con la legge 62 del 2011. Lo scopo è quello di permettere alle donne, che non possono beneficiare di alternative al carcere, di tenere con sé i figli in un luogo diverso dalla casa circondariale. Sono concepiti in modo da non somigliare a una prigione: il rapporto di Antigone li definisce "carceri colorate, senza sbarre, né armi, né uniformi, nei quali i figli delle detenute possono rimanere fino ai sei anni, non più i tre previsti dalla precedente normativa". La legge del 2011 prevede lo stanziamento di 11,7 milioni di euro per la realizzazione di queste strutture, ma al momento ne esistono solo cinque: a Milano, Torino, Venezia, Cagliari e Lauro (in provincia di Avellino). Il primo Icam a essere istituito è stato quello di Milano, in uno stabile in via Melloni. "Nel giardino dall’aria spoglia c’è un’infilata di seggioline colorate che rende difficile capire se stiamo entrando in un asilo un po’ trascurato oppure no. Basta poco per accorgersi che tutt’intorno sopra il muro c’è un pannello in plexiglass. Ecco le sbarre nascoste agli occhi dei più piccoli. Nella prima stanza si viene controllati con il metal detector. Alle pareti ci sono i monitor della sorveglianza: controllano il perimetro e i corridoi interni della struttura", si legge nel report dell’ultima visita dell’Associazione Antigone alla struttura. Al di là dell’aspetto esteriore, infatti, gli Icam sono comunque strutture di contenimento, non misure alternative. Secondo il Rapporto del Garante dei detenuti, tra l’altro, spesso "sono posizionati in zone distanti o mal collegate o ospitano solo poche donne con bambini. Il rischio, in questo caso, è che il prezzo sia l’isolamento delle donne stesse e la separazione dalla famiglia e il difficile inserimento dei bambini in un contesto con altri coetanei". L’istituto di custodia attenuata di Venezia, ad esempio, si trova accanto al carcere femminile della Giudecca, seppur con un ingresso separato. "L’Icam rimane un carcere con alcune caratteristiche ineludibili. La vita è dentro un piccolo appartamento ma chiuso da sbarre. E questo immagino sia di grande impatto per chiunque, anche per un bambino. Inoltre è una vita molto costretta, legata sempre alle stesse persone, sempre agli stessi agenti e ai pochi altri bambini", spiegava qualche tempo fa Alessio Scandurra, ricercatore di Antigone. Pur rappresentando una sistemazione migliore rispetto agli istituti di pena veri e propri, gli Icam dunque non sono una soluzione. Secondo Gioia Passarelli, presidente dell’associazione "A Roma Insieme", che da anni si occupa dei bambini del nido di Rebibbia, "sono un palliativo, perché di fatto sono un carcere. Poniamo che durante la notte un bambino si senta male e debba essere trasferito in ospedale, la mamma non può seguirlo. Diverso il discorso per la case famiglia protetta". Le Case famiglia protette: una legge inapplicata Una reale alternativa alla reclusione in carcere è rappresentata dalle Case famiglia protette, previste dalla legge del 2011. Secondo la normativa, salvo i casi di eccezionali esigenze cautelari dovute a gravi reati o pericolo di fuga, le donne senza dimora o altro domicilio possono scontare la pena in queste strutture, portando con loro i bambini fino a 10 anni. Proprio per la funzione di misura alternativa alla detenzione, le Case famiglia protette sono pensate con caratteristiche più simili ad appartamenti e lontane da quelle del carcere: non ci sono sbarre, sono inserite nel tessuto urbano e collegate con i servizi, devono avere un massimo di sei nuclei di genitori ospiti, garantire spazi di riservatezza e per i giochi anche all’aperto, locali per istruzione, visite mediche e incontri con operatori o altri familiari. A chi vive in Casa famiglia è permesso "accompagnare i figli a scuola o giocare insieme in giardino", ha spiegato Passarelli. "Niente sbarre, niente lucchetti - ha aggiunto. Le condizioni sono quelle dell’arresto domiciliare, pertanto è per chi ha commesso reati meno gravi, poi tocca al magistrato decidere a chi concedere questa opportunità sulla base del percorso che ogni donna sta facendo". A usufruire di questo tipo di strutture dovrebbero essere tutte coloro che non hanno la possibilità di trascorrere la detenzione domiciliare, e in particolare donne senza dimora, rom, straniere o in condizione di marginalità. La legge del 2011, però, non prevede finanziamenti per le Case famiglia protette, che a differenza degli Icam non sono sotto il dipartimento di amministrazione penitenziaria e devono essere gestite dagli enti locali. All’articolo 4, infatti, è previsto che il ministero della Giustizia possa "stipulare convenzioni con enti locali per l’individuazione delle case famiglia, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica", spostando sostanzialmente i costi su Regioni e Comuni. Così per anni tutto è stato fermo e si è accumulato un fortissimo ritardo. Secondo il senatore Luigi Manconi, finora è mancata la volontà politica: la questione si sarebbe potuta risolvere "subito dopo la riforma, perché nel più pessimista dei casi il fabbisogno è di cinque o sei appartamenti in tutta Italia (...) Stiamo parlando di cifre irrisorie". Ad oggi, esiste una sola Casa famiglia protetta, inaugurata lo scorso luglio nel quartiere Eur di Roma in seguito a un accordo tra Comune, tribunale e Dipartimento d’amministrazione penitenziaria che risale al 2015. La struttura - un edificio confiscato alla criminalità - è gestita da quattro associazioni e finanziata per tre anni dalla Fondazione Poste Insieme Onlus con 150 mila euro. Un altro protocollo è stato recentemente firmato dal Comune di Milano. Processo penale, meno appelli di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 3 ottobre 2017 Si riduce l’area dei provvedimenti impugnabili. Sia per il pubblico ministero sia per gli imputati. Il Consiglio dei ministri, come anticipato sul Sole 24 Ore del 28 settembre, ha approvato i primi decreti legislativi di attuazione delle deleghe penali contenute nella legge in vigore dal 4 agosto scorso. Il decreto legislativo sulle impugnazioni, che si fonda sui lavori della Commissione ministeriale istituita dal ministro Orlando e presieduta da Domenico Carcano, punta a deflazionare il numero dei procedimenti che gravano sugli uffici giudiziari e a semplificarne i procedimenti sia in appello sia in Cassazione, in attuazione del principio della ragionevole durata del processo. La razionalizzazione del sistema delle impugnazioni, sottolinea il ministero della Giustizia, insieme alla rimodulazione della prescrizione contenuta nella stessa legge, rende concreta la prospettiva che il processo possa concludersi con un accertamento definitivo di colpevolezza o di innocenza entro i 18 mesi di sospensione della prescrizione previsti per ciascuna fase di impugnazione. Nel provvedimento viene, inoltre, ridotta la legittimazione all’impugnazione di merito: al pubblico ministero sarà precluso l’appello delle sentenze di condanna, ossia delle sentenze che hanno riconosciuto la fondatezza della pretesa punitiva, salvo in alcuni specifici casi (ad esempio, sentenza di condanna che modifica il titolo del reato o che esclude l’esistenza di aggravanti a effetto speciale); al tempo stesso all’imputato sarà precluso l’appello delle sentenze di proscioglimento pronunciate con le più ampie formule liberatorie. Nel dettaglio, sono specificati i casi nei quali è ammesso l’appello del pubblico ministero contro le sentenze di condanna: se hanno, per esempio, modificato il titolo di reato o escluso l’esistenza di una circostanza a effetto speciale o stabilito una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato. Per l’imputato, invece, trattandosi di condanne, nessun limite; limite che invece scatta quanto ai proscioglimenti rendendo non più impugnabili quelli con le formule perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso. Intenzione del decreto è di circoscrivere il potere d’impugnazione nei limiti in cui le pretese delle parti, legate all’esercizio dell’azione penale per il pubblico ministero e al diritto di difesa per l’imputato, sono soddisfatte. Viene estesa l’inappellabilità, già stabilita per le sentenze di condanna alla sola ammenda, anche alle sentenze di proscioglimento o di non luogo a procedere relative a contravvenzioni punite con la sola pena dell’ammenda o con una pena alternativa. Previsione giudicata opportuna non solo per finalità di riduzione dei carichi di lavoro ma anche per restituire coerenza complessiva al sistema. Stabilita anche l’inappellabilità delle sentenze di non luogo a procedere relative a contravvenzioni punite con la sola pena dell’ammenda o con pena alternativa. Con la riforma si legittima il procuratore generale ad appellare esclusivamente in caso di inerzia del pubblico ministero di primo grado. Inerzia verificatasi già nella fase delle indagini preliminari, con conseguente avocazione da parte del procuratore generale, o successivamente, quando il pubblico ministero trascura di impugnare nei termini, così manifestando acquiescenza. Dell’appello incidentale sarà poi titolare il solo imputato e non il Pm. Basta ricorsi dei pm sulle sentenze di condanna di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 3 ottobre 2017 Via libera in Cdm al Decreto legislativo sulle impugnazioni. Via libera ieri pomeriggio dal Consiglio dei ministri, in attuazione di una delle deleghe contenute nella riforma del processo penale approvata nello scorso giugno, al decreto legislativo sulle impugnazioni. Il testo passa ora all’esame delle Commissioni parlamentari. Obiettivo principale della riforma, fortemente voluta dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, è quello di "deflazionare" il numero dei procedimenti, semplificandone l’iter sia in appello che in Cassazione nella speranza di ridurre il carico. Il testo riprende i lavori della Commissione ministeriale, istituita a dicembre del 2015 proprio da Orlando e presieduta dall’ex capo dell’ufficio legislativo di via Arenula Domenico Carcano, che aveva lo scopo di trovare soluzioni che permettessero di velocizzare i processi in modo da garantire l’attuazione del principio costituzionale della ragionevole durata degli stessi. "Una profonda trasformazione del processo, finalizzata a garantire efficienza, tempi più celeri e maggiori garanzie", come si legge nella nota diramata al termine del Consiglio dei ministri. In particolare, è stato profondamente riscritto l’articolo 593 del codice di procedura penale relativo ai casi di appello. Nello specifico, per quanto riguarda l’accusa, il pm non potrà più impugnare le sentenze di condanna che hanno riconosciuto le tesi accusatorie, a meno che la sentenza non abbia modificato il titolo del reato oppure escluso l’esistenza di aggravanti ad effetto speciale o stabilito una pena diversa da quella ordinaria del reato. Viene inoltre stabilita l’inappellabilità delle sentenze di non luogo a procedere relative a contravvenzioni punite con la sola pena dell’ammenda o con pena alternativa. Sempre allo scopo di razionalizzare l’esercizio del potere di impugnazione del- il decreto inserisce nel codice di procedura penale il nuovo articolo 593 bis, e indica le sentenze (del Gip, della Corte d’assise e del Tribunale) che possono essere appellate dal procuratore della Repubblica presso il tribunale, specificando inoltre che il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello può appellare solo in caso di avocazione e di acquiescenza del procuratore della Repubblica. L’imputato, invece, potrà proporre appello contro le pronunce di condanna nonché contro le sentenze di proscioglimento, emesse all’esito del dibattimento, salvo che si tratti di assoluzione perché il fatto non sussiste o perché non lo ha commesso. Un ulteriore significativo elemento della volontà di ridurre il ricorso delle impugnazioni è costituito dall’inasprimento (doppio o triplo) delle entità della condanna alle spese del procedimento ed a quello di una somma da versare alla cassa delle ammende in caso di richiesta di rimessione e di ricorso per cassazione, di "reclamo" avverso il provvedimento di archiviazione, rigettati o dichiarati inammissibili. Ma l’intervento sulle impugnazioni non è limitato ai procedimenti del tribunale e della Corte d’Appello. L’azione del governo è a tutto campo fino a coprire anche le sentenze emesse dal giudice di pace. Si è infatti stabilito che nei procedimenti di competenza del giudice di pace il ricorso per Cassazione è consentito solo per violazione di legge delle sentenze emesse in grado di appello. Quello approvato ieri dal Cdm è, indubbiamente, uno nuovo significativo intervento sul codice di procedura penale del 1989. Sarà necessario, a questo punto, attendere il funzionamento a livello operativo delle nuove norme per verificare la reale incidenza sulla durata dei processi. Nel Codice penale trova posto la tutela dei valori essenziali di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 3 ottobre 2017 Al traguardo, con la prima approvazione da parte del Consiglio dei ministri, anche il decreto sulla riserva di Codice. Il provvedimento anche in questo caso nasce dai lavori di una Commissione ministeriale e rappresenta nelle intenzioni del ministero "l’indispensabile presupposto per una migliore conoscenza dei precetti e delle sanzioni da parte dei cittadini, conoscenza che consente di dare piena attuazione al principio di legalità anche nei riflessi relativi alla funzione della pena". Da qui, una norma di principio che riserva al Codice la tutela penale dei beni essenziali della vita e di protezione della comunità civile. In questo modo si permette "di dare avvio ad un processo virtuoso che freni la proliferazione della legislazione penale, rimetta al centro del sistema il codice penale e ponga le basi per una futura riduzione dell’area dell’intervento punitivo dello Stato, secondo un più ragionevole rapporto fra il rilievo del bene tutelato e la corrispettiva sanzione penale". In questo modo vengono collocati nel Codice penale il delitto di indebito utilizzo di carte di credito o di pagamento o la loro falsificazione, che tutela l’ordine pubblico economico e la fede pubblica; il delitto di trasferimento fraudolento di valori, la cosiddetta intestazione fittizia di beni, reato questo volto alla repressione delle condotte elusive della normativa antimafia di prevenzione. Intervento anche sull’ordine pubblico, con l’inserimento nel Codice delle circostanze aggravanti dei delitti commessi avvalendosi delle modalità mafiose ovvero di delitti con finalità di terrorismo; delle attenuanti collegate alla dissociazione; dell’aggravante del reato transnazionale destinata a operare tutte le volte che un determinato reato, punito con pena superiore a quattro anni di reclusione, è caratterizzato dal contributo offerto nella fase di organizzazione o nella sua esecuzione da un gruppo criminale attivo in più paesi. Nel testo del decreto legislativo che ora passa al Parlamento per l’espressione dei pareri trova posto anche la collocazione all’interno del Codice penale di tutte le misure che disciplinano una delle misure cautelari patrimoniali più incisive, la confisca allargata. E sempre nel Codice penale troveranno posto il delitto di sequestro di persona a scopo di coazione; le norme sanzionatorie stabilite per la violazione di misure previste nel codice civile a tutela delle donne e dei bambini vittime di violenza familiare; le sanzioni per il mancato pagamento dell’assegno di divorzio e delle somme stabilite in sede di separazione dei coniugi. Cooperazione giudiziaria fra Stati, il riordino arriva al traguardo di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 3 ottobre 2017 Cooperazione giudiziaria rafforzata. Anche al di fuori dell’Unione europea e di trattati. Il Consiglio dei ministri di ieri ha approvato definitivamente, dopo i pareri parlamentari, la riforma del libro XI del codice di procedura penale, dedicato ai rapporti giurisdizionali con le autorità straniere e il cui complesso di norme è destinato a operare in via residuale, solo cioè dove non è prevista una diversa regolamentazione per effetto dell’applicazione di accordi internazionali. Il decreto legislativo modifica la normativa in materia di assistenza giudiziaria, quella parte della cooperazione penale internazionale indirizzata a disciplinare la raccolta della prova, in modo da superare i limiti dell’attuale sistema normativo e fronteggiare le nuove forme di criminalità, specie di quella organizzata, che hanno esteso il proprio raggio di azione oltre i confini dei singoli Stati. In questa direzione, in chiave di semplificazione, parallelamente alla regolamentazione dei rapporti con i Paesi membri dell’Unione Europea, vengono introdotte regole speciali per la cooperazione tra le autorità degli Stati che non fanno parte della Ue. Sul fronte delle rogatorie, per esempio, quando, nei rapporti di assistenza giudiziaria con Stati diversi da quelli membri dell’Unione europea, le convenzioni internazionali prevedono la trasmissione diretta delle domande di assistenza, l’autorità giudiziaria provvede alla trasmissione diretta passati 10 giorni dalla ricezione della copia della stessa da parte del ministro della Giustizia. Nei casi previsti dagli accordi internazionali, l’audizione e la partecipazione all’udienza davanti all’autorità giudiziaria straniera della persona sottoposta ad indagini, dell’imputato, del testimone, del consulente tecnico o del perito che si trovi nello Stato può essere eseguita mediante videoconferenza o altra forma di collegamento audiovisivo a distanza. In materia di estradizione, quando le convenzioni internazionali o le condizioni poste prevedono che un fatto anteriore alla consegna non possa essere giudicato, il giudice dispone con ordinanza la sospensione del processo se l’azione penale è stata esercitata, sempre che non debba essere pronunciata sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere. La sospensione del processo non impedisce il compimento degli atti urgenti, l’assunzione delle prove non rinviabili, e di quelle che possono determinare il proscioglimento per fatti anteriori alla consegna. Cantone: un neo del Codice parificare corrotti e mafiosi di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 3 ottobre 2017 L’equiparazione tra corrotti e mafiosi ai fini dell’applicazione delle misure di prevenzione è l’unico neo di una norma che va nella giusta direzione. Il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone, intervenuto ieri a 24 Mattino su Radio24, "promuove" il nuovo Codice antimafia, pur non nascondendo le sue perplessità sull’estensione della confisca dei beni, anche per equivalente e in forma allargata, agli indiziati di reati contro la Pubblica amministrazione, in assenza di una condanna. Una previsione poco garantista criticata da molti, dai penalisti ai costituzionalisti che la considerano non in linea con la Carta. "Condivido le perplessità - ha precisato Cantone - l’ho detto fin dal primo momento. Credo che non era opportuno, né necessario, né utile estendere le misure di prevenzione ai soggetti indiziati di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione, alla concussione e anche al peculato, perché non è necessario per il contrasto alla corruzione, perché le misure di prevenzione potevano essere già optate in casi eccezionali, perché esistono forme di sequestro e di confisca collegate alla sentenza di condanna". L’equiparazione tra mafia e corruzione è considerata, ancora una volta soprattutto dai giuristi, una forzatura che non tiene conto delle peculiarità del metodo mafioso: dalla forza intimidatrice al controllo del territorio. Anche per Raffaele Cantone dei distinguo sono opportuni. "Condivido la posizione di chi dice che le misure antimafia hanno avuto un senso perché l’oggetto di interesse era la mafia, sistema di vita, di accumulazione di ricchezza non paragonabile a quello della corruzione". Cantone prende le distanze anche dalle conclusioni semplicistiche: "Tra l’altro molti dicono che la corruzione è l’anticamera della mafia, affermazione che non va da nessuna parte, perché quando la corruzione viene utilizzata dai mafiosi si può utilizzare l’armamentario dell’antimafia". Detto questo però il presidente dell’Anticorruzione salva l’impianto della norma. "Ho sentito delle affermazioni un po’ pesanti sul Codice anti mafia. Questo è un piccolissimo comma di una normativa particolarmente lunga, che invece è molto importante e utile. È una normativa che consentirà il funzionamento dell’agenzia dei beni confiscati, maggiore trasparenza nella nomina degli amministratori, maggiore velocità nei sequestri". Medici, barellieri e marescialli a riposo: "così tappiamo i buchi nei Tribunali" di Franco Vanni La Repubblica, 3 ottobre 2017 Dopo vent’anni di tagli mancano almeno novemila lavoratori. E negli uffici di tutta Italia aumentano gli ausiliari. Quando lavorava per la Provincia, Sandro pattugliava la campagna in cerca di cacciatori di frodo da multare. Ora archivia faldoni al secondo piano del palazzo di giustizia di Milano. "Mi considero ancora una guardia ecologica, ma le cose cambiano - racconta. Sono passato dalla mimetica ai timbri, i colleghi mi hanno insegnato a muovermi fra atti e notifiche". Sandro, come migliaia di lavoratori presi in prestito da altre amministrazioni, in tribunale è un tappabuchi. Lo sa e non se ne vergogna. "Eravamo medici, barellieri, contabili al ministero degli Interni. Siamo qui per fare funzionare in qualche modo le cose", dice. Cgil stima che nel sistema della giustizia, dopo vent’anni di tagli e assunzioni bloccate, manchino 9mila lavoratori. Un dato che il ministero non contesta. Un’enormità, visto che in Italia ci sono in tutto 32mila fra cancellieri, collaboratori e ausiliari di giustizia. Una carenza di personale che spiega in parte la durata abnorme dei processi. Secondo i dati della corte di Cassazione, la durata media di una causa civile in appello nel 2016 è stata di 828 giorni. Un dato peggiore rispetto al 2015. Per il primo grado, nel civile si è fermi a 376 giorni. In Europa, secondo l’Eu Justice Scoreborard della Commissione Europea, fanno peggio solo Cipro, Portogallo e Malta. E il penale non va molto meglio. "In Lombardia manca il 35 per cento del personale. Al nord va peggio che al sud. Le corti d’appello di Brescia e Milano lavorano con metà dei cancellieri. Significa sportelli chiusi, udienze fissate dopo mesi e pratiche che si accumulano. Nei tribunali del nordest lavorano i volontari", dice Felicia Russo, coordinatrice di Fp - Cgil Lombardia. Per riempire le scrivanie, in attesa che si esaurisca il piano di assunzioni avviato dal governo, gli uffici giudiziari si attrezzano come possono. A Bari gli ausiliari sono coordinati dal capitano Ferdinando Celotto, veterano in Iraq e Afghanistan assegnato suo malgrado alla fotocopiatrice. Una conseguenza della legge Delrio del 2014, che ha deciso il ricollocamento di tutto il personale della Croce rossa italiana. "Ci hanno deportati - attacca Celotto - lavora in cancelleria con me anche il mio tecnico che in guerra garantiva i ponti radio". In tribunale a Vicenza mancano quattro lavoratori su dieci. Il trasloco dei fascicoli nella nuova sede di via Gallo lo hanno fatto gli alpini. A Trieste aiutano in cancelleria finanzieri, carabinieri e militari a riposo. Quando nel 2014 arrivarono in via Foro Ulpiano i primi pensionati, il presidente del tribunale Matteo Trotta precisò che era "un modo di arrangiarsi, non certo una soluzione". Da allora negli uffici giudiziari tutta Italia l’impiego di volontari non ha fatto che aumentare. Se i marescialli in pensione offrono il loro tempo gratis, è diversa la situazione dei cassintegrati arruolati nei tribunali all’apice della crisi economica. Il caso più noto è quello di Bologna dove, grazie a un bando regionale da 100mila euro, nel 2010 fu fatto un contratto di 12 mesi a 16 lavoratori in mobilità. Il primo passo verso la giungla degli stage fra procure e cancellerie. Eleonora Voltolina, fondatrice del sito Repubblica degli Stagisti, stima che siano almeno 2.600 i lavoratori in mobilità inseriti nel settore giustizia con rapporti di stage. Secondo quello che Voltolina definisce "un balletto penoso", nel tempo i lavoratori in servizio in cancelleria hanno cambiato inquadramento, senza mai uscire dal precariato. Prima in "tirocinio formativo", poi in "completamento di tirocinio", quindi in "fase di perfezionamento". Di fatto, molti sono in stage da sette anni. In mancanza di formazione, il mestiere lo hanno imparato dai colleghi di ruolo, che per questo non vengono pagati. Dal 2015 il ministero della Giustizia, in deroga al blocco del turnover per la pubblica amministrazione, ha investito 300 milioni per assumere 5.100 lavoratori entro fine 2019. Un programma che ha coinciso con il passaggio della gestione degli uffici giudiziari dai Comuni allo stesso ministero. E con il varo del processo civile telematico, costato oltre 100 milioni e partito con difficoltà. Oltre al bando che ha trasferito 1.031 lavoratori dalle ex Province, le cancellerie hanno imbarcato 1.850 vincitori di concorso in attesa di un posto in altre amministrazioni. Dall’Istituto del commercio estero al ministero dell’Interno, dall’Inps alla Corte dei conti, fino al ministero della Coesione sociale. Ma la vera novità è il concorso per nuove assunzioni, che si attendeva dal 1997. Per 800 posti di assistente giudiziario, banditi con la legge 117/2016 e poi portati a 1400, hanno sono arrivate 308mila domande. In 5.948 sono stati ammessi agli orali, che termineranno il 18 ottobre. Nei primi mesi del 2018 i nuovi assunti dovrebbero prendere servizio. "Entro il 2019 ci saranno molti pensionamenti - mette in guardia Felicia Russo di Cgil - L’età media nelle cancellerie è vicina ai 56 anni. Apprezziamo gli sforzi del governo, ma la coperta resta corta". Circolazione stradale, lesioni perseguibili d’ufficio fino alla riforma penale di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 3 ottobre 2017 Corte di cassazione - Sentenza 42346/2017. Il nuovo reato di lesioni stradali è procedibile d’ufficio e non a querela di parte. Lo ha chiarito la sentenza n. 42346/17 della Cassazione, depositata il 15 settembre. Quindi occorrerà cambiare la norme (articolo 590-bis del Codice penale, introdotto dalla legge 41/2016), se si vorranno superare le criticità legate all’obbligo di procedere comunque, denunciate anche dalla Polizia stradale, occorrerà attendere l’attuazione della riforma penale, prevista per la prossima estate (si veda Il Sole 24 Ore del 18 settembre). E viene smentita un’interpretazione data nel maggio scorso dal Gip di Milano. A favore delle procedibilità d’ufficio, spiega la Cassazione, depongono diversi fattori. Prima di tutto l’intestazione della legge 41/2016: "Introduzione del reato di omicidio stradale e del reato di lesioni stradali". Essa è "chiaramente indicativa della volontà del legislatore di introdurre due nuove figure di reato che, pur descrivendo condotte specifiche e individualizzanti rispetto alle fattispecie base...di omicidio colposo e lesioni colpose, assumono caratteristiche a sé stanti, che le... rendono meritevoli di una disciplina autonoma". Inoltre, la ratio della legge 41 è "operare un efficace contrasto al crescente numero di vittime causate da condotte di guida colpose o sotto l’effetto di alcol e di sostanze stupefacenti" con "un assetto normativo idoneo a regolamentare specificamente - in maniera autonoma e indipendente dalle generali figure colpose di omicidio e lesioni - i reati che conseguono alle indicate condotte". È altrettanto "significativo che la disciplina in esame sia stata inserita in articoli autonomi del Codice penale, rubricati con il titolo del relativo reato e con previsione di specifiche e distinte pene": il reato ha "specifiche circostanze aggravanti e attenuanti", cosa che ne conferma la natura di fattispecie autonoma. La Cassazione osserva, infine, che l’articolo 222 del Codice della strada (sulle sanzioni amministrative accessorie all’accertamento dei reati) è stato appositamente modificato dalla legge 41 qualificando come reati, e non come aggravanti, le fattispecie criminose in questione. Di avviso diverso un decreto di archiviazione del Gip di Milano dello scorso maggio, secondo cui l’articolo 590-bis contiene un "catalogo di circostanze aggravanti ad effetto speciale" rispetto al reato di lesioni colpose (articolo 590), per cui la procedibilità è a querela di parte. Il cuore di tale ragionamento è che "se si ammettesse la procedibilità di ufficio, si avrebbe un’evidente discrasia tra i casi di lesioni semplici e lesioni gravi e gravissime, essendo le prime ancora ricomprese" nell’articolo 590. In pratica, un reato bagattellare si distingue da uno per cui si rischia di andare in carcere solo per "lo scarto di pochi giorni di prognosi". Alcol alla guida, si patteggia con 1.400 euro di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 3 ottobre 2017 La Procura della Repubblica di Torino mette online i propri criteri per la definizione con patteggiamento e decreto penale di condanna i processi per i reati stradali più comuni. Sono contenuti in una "griglia", di cui pubblichiamo nella tabella in questa pagina e che è composta da 72 voci. Tra esse, tutte le ipotesi (aggravate o meno) di guida in stato di ebbrezza (articolo 186 del Codice della strada) o alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti (articolo 187), rifiuto di sottoporsi all’accertamento dello stato di ebbrezza o di alterazione da droghe (articolo 186, comma 7), inottemperanza all’obbligo di fermarsi in caso di incidente con danno alle persone (articolo 189, comma 6) e di prestare assistenza ai feriti (articolo 189, comma 7). Rimangono fuori - almeno per il momento - i reati stradali più gravi, quelli introdotti l’anno scorso con la legge 41: omicidio e lesioni stradali gravi e gravissime. L’obiettivo della Procura è "assicurare la trattazione omogenea" dei procedimenti, incentivandone la definizione con il patteggiamento. Tanto che viene riservato un trattamento più severo a i patteggiamenti chiesti dopo la notifica della citazione a giudizio, e più mite per quelli avanzati prima. È il caso della guida in stato di ebbrezza con tasso alcolemico tra 0,8 e 1,5 grammi/litro: se il patteggiamento è chiesto prima della notifica della citazione, la Procura propone 10 giorni di arresto, 1.400 euro di ammenda e sei mesi di sospensione della patente. Se invece la richiesta è successiva alla notifica, la proposta si alza a 20 giorni, 2.000 euro e nove mesi di sospensione. Le attenuanti generiche sono prevalenti alle aggravanti "solo in caso di imputati incensurati o con precedenti penali trascurabili (sanzioni pecuniarie, fatti risalenti nel tempo, reati non più previsti come tali)", ed equivalenti "in caso di imputati con precedenti penali recenti". No alle attenuanti generiche, invece, "ogni qual volta i pretendenti siano gravi o plurimi e ravvicinati nel tempo o riguardino reati commessi con violazione alle norme del Codice della strada". Si tratta di un’iniziativa certamente positiva, sulla quale si possono esprimere solo poche riserve. La più importante è che la griglia non spiega quale sia l’orientamento della Procura di Torino sulla sospensione condizionale della pena e sulla gestione di altre modalità di definizione favorevoli al reo per i procedimenti penali su reati stradali. Sono la sostituzione della pena con lavori di pubblica utilità - il cui buon esito estingue il reato, revoca la confisca del veicolo e dimezza il periodo di sospensione della patente - e la sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato, che, se dà esito positivo, analogamente cancella il reato. Non è poi del tutto chiara la scelta di escludere il decreto penale di condanna (che comporta uno sconto di pena maggiore rispetto al patteggiamento) nei casi di guida sotto effetto di droghe da parte di conducenti sotto i 21 anni di età che vengono accertati di giorno, prevedendo invece tale opzione se lo stesso fatto avviene di notte. Sinistri stradali: utilizzabilità probatoria del prelievo ematico senza consenso Il Sole 24 Ore, 3 ottobre 2017 Sinistro stradale - Accertamenti medico-sanitari - Prelievo ematico - Mancanza di consenso dell’interessato - Utilizzabilità ai fini dell’affermazione di responsabilità. In relazione a un sinistro stradale, è pacificamente ritenuto in giurisprudenza che il prelievo ematico effettuato dai sanitari, su richiesta della Polizia Giudiziaria, per la verifica del tasso alcolemico, sia utilizzabile anche in assenza di consenso verbalmente espresso dall’interessato purché quest’ultimo non abbia opposto un esplicito rifiuto. È tuttavia necessario che il prelievo ematico sia stato eseguito dal personale sanitario nell’ambito di un protocollo medico di pronto soccorso; a tal fine, ovviamente, la valutazione se si debba o meno sottoporre il medesimo a cure mediche e procedere anche al prelievo ematico, onde predisporre adeguate cure farmacologiche, è rimessa agli stessi sanitari ma gli organi di P.G. sono legittimati a richiedere l’accertamento del tasso alcolemico, i cui risultati possono essere utilizzati ai fini penali, indipendentemente dal consenso prestato o meno in tal senso dal guidatore. • Corte cassazione, sezione IV penale, sentenza 7 settembre 2017 n. 40709. Circolazione stradale (nuovo codice) - Norme di comportamento - Circolazione - Guida in stato di ebbrezza - Da alcool - Accertamento dell’alterazione - Modalità - Consenso - Rilevanza - Fattispecie. I risultati del prelievo ematico effettuato per le terapie di pronto soccorso successive a incidente stradale e non preordinato a fini di prova della responsabilità penale sono utilizzabili per l’accertamento del reato di guida in stato di ebbrezza, senza che rilevi l’assenza di consenso dell’interessato. (In applicazione di tale principio la S.C. ha affermato che, per il suo carattere invasivo, il conducente può opporre un rifiuto al prelievo ematico se sia finalizzato esclusivamente all’accertamento della presenza di alcol nel sangue). • Corte cassazione, sezione IV penale, sentenza 5 luglio 2012 n. 26108. Guida in stato di ebbrezza - Accertamento - Prelievo ematico - Documentazione medica - Mancanza di consenso - Irrilevanza. Per l’accertamento del reato di guida in stato di ebbrezza sono sempre utilizzabili i risultati del prelievo ematico effettuato, secondo i criteri e gli ordinari protocolli del pronto soccorso, durante il ricovero presso una struttura ospedaliera pubblica a seguito di incidente stradale. In tal caso, si tratta di elementi di prova acquisiti mediante attraverso la documentazione medica, con conseguente irrilevanza, a questi fini, della (eventuale) mancanza di consenso. Dunque, è diritto del soggetto opporre rifiuto al prelievo ematico solo se questo è finalizzato unicamente all’accertamento di eventuale presenza di sostanze alcoliche nel sangue, trattandosi di un esame invasivo, con violazione dei diritti della persona. • Corte cassazione, sezione IV penale, sentenza 5 luglio 2012 n. 26108. Sinistro stradale - Guida in stato di ebbrezza alcolica - Accertamenti ematochimici - Assenza di consenso espresso dell’interessato - Utilizzabilità ai fini dell’affermazione di responsabilità. Per i conducenti coinvolti in incidenti stradali e sottoposti alle cure mediche, l’accertamento del tasso alcolemico su richiesta degli organi della polizia stradale viene effettuato da parte delle strutture sanitarie, che rilasciano successivamente ai predetti organi la relativa certificazione estesa alla prognosi delle lesioni accertate. Dunque, in presenza di taluni presupposti (coinvolgimento del conducente in un incidente stradale e sua sottoposizione a cure mediche da parte della struttura sanitaria), l’accertamento del tasso alcolemico richiesto ai sanitari dagli organi della polizia giudiziaria, è utilizzabile ai fini dell’affermazione della responsabilità dell’interessato, indipendentemente dal consenso che costui abbia o meno prestato all’effettuazione dell’accertamento stesso. • Corte cassazione, sezione IV penale, sentenza 12 febbraio 2014 n. 6786. Brescia: islamismo in cella, i rischi e i rimedi di Marco Toresini Corriere della Sera, 3 ottobre 2017 In queste settimane, le notizie che arrivano dalle carceri bresciane, non sono belle notizie: parlano di tensioni quotidiane, atti di autolesionismo, risse e scontri fra bande rivali. Fra individui che vorrebbero ricreare nelle sezioni di Canton Mombello le leggi e le geografie della strada, con i suoi capi e i suoi gregari, le influenze e le servitù. Eppure fra queste mura si continuano a fare piccoli e grandi miracoli quotidiani; a costruire, con l’impegno di tutti, dalla polizia penitenziaria al personale dell’area trattamentale, una convivenza possibile; a tracciare una strada percorribile verso l’aspetto rieducativo della pena. Brescia ci ha abituato a questi sforzi che sono capaci di fare scuola. È il caso del progetto lanciato dal ministero (ne ha parlato domenica un’inchiesta del Corriere di Goffredo Buccini) che prevede l’ingresso in carcere di inviati dei centri islamici incaricati di assistere i detenuti musulmani nella preghiera. Un servizio che ha lo scopo di prevenire un culto fai da te che rischia di radicalizzarsi. Canton Mombello è uno delle otto case circondariali dove è iniziata la sperimentazione e dove, da tempo, per ragioni di sicurezza vengono tenuti sotto osservazione alcuni soggetti a rischio (uno, tempo fa, è stato espulso subito dopo aver scontato la pena, proprio per aver manifestato compiacimento per alcuni attentati terroristici di stampo islamista). Ora in collaborazione con il centro islamico che aderisce all’Ucoii, organizzazione moderata, cinque emissari della moschea di via Corsica entrano non solo a Canton Mombello, ma anche a Verziano per aiutare i musulmani nella preghiera, per predicare un Islam "sano" evitando che isolamento e ignoranza finiscano per oscurare le coscienze dei detenuti. Presto ci sarà anche una donna che si occuperà delle detenute della sezione femminile per completare l’assistenza al culto che è anche una preziosa arma di prevenzione e di aiuto. Ma Brescia non si è solo fatta parte diligente in quest’opera, aprendo la strada ad altre carceri, ma vuole fare di più. Vuole, attraverso progetti mirati, diffondere l’interculturalità fra gli ospiti delle strutture perché quello che conosci non lo temi e perché la religione da elemento di dialogo non può mai diventare ragione di odio. Poco meno di una decina di carceri italiane (comprese quella di Rossano Calabro, che ospita gli arrestati per terrorismo internazionale) poi sono diventati oggetto di studio da parte dell’Università di Brescia sui temi della radicalizzazione. Rispondendo ad un questionario centinaia di detenuti stranieri hanno riflettuto sui rischi dell’islamismo e sulla percezione di questo fenomeno nelle anguste celle italiane. Cosenza: Consolo (Dap) risponde ai Radicali sulle criticità della Casa circondariale cn24tv.it, 3 ottobre 2017 Quintieri: "soddisfatti parzialmente, restano da risolvere altri problemi". A seguito di una interlocuzione avviata con l’Azienda Sanitaria Provinciale di Cosenza, è stata risolta la problematica relativa alla carente assistenza psichiatrica presso l’Istituto Penitenziario di Cosenza. Infatti, con la delibera n. 72 del 5 maggio 2017, sono state incrementate le presenze dello specialista psichiatra a 25 ore settimanali, nonché gli specialisti in otorinolaringoiatria. Preciso, altresì, che l’incremento dell’assistenza specialistica ha riguardato anche la Casa Circondariale di Castrovillari e la Casa di Reclusione di Rossano, Istituti Penitenziari del distretto di competenza dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Cosenza. Successivamente alla sottoscrizione del Protocollo regionale sulla prevenzione degli atti suicidari è stato costituito, presso il Provveditorato di Catanzaro, un gruppo di lavoro deputato a compiere tutte le necessarie attività di impulso, verifica e raccordo rivolte agli Istituti, nonché di analisi degli eventi suicidari o autolesivi che si verificano. Rispetto a questa delicata e importante tematica, si è pervenuti alla sottoscrizione di cinque Protocolli in sede locale e si è in attesa che le rimanenti strutture completino le procedure. Lo afferma Santi Consolo, il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, in risposta alla relazione dei Radicali Italiani a seguito della visita compiuta da una delegazione guidata da Emilio Enzo Quintieri e composta da Valentina Anna Moretti e Roberto Blasi Nevone presso la Casa Circondariale di Cosenza "Sergio Cosmai" con la quale erano state rappresentate diverse criticità, tra cui quella afferente al servizio di assistenza psichiatrica per i detenuti. Quintieri, inoltre, aveva lamentato la mancanza di un Regolamento d’Istituto per la Casa Circondariale di Cosenza, come previsto dall’Ordinamento Penitenziario, invitando l’Amministrazione centrale e periferica ad attivarsi per quanto di competenza. Ed il Capo del Dipartimento, anche su questo, ha voluto rassicurare l’esponente radicale. L’iter per la redazione del Regolamento interno, prosegue Consolo, è stato avviato e si è in attesa dell’approvazione della Commissione relativa alla predisposizione delle modifiche alla bozza di Regolamento, così come formulate dal locale Provveditorato Regionale. Per quanto concerne, invece, i colloqui a distanza tramite collegamento Skype, servizio già attivo in 17 Istituti del territorio nazionale, l’Amministrazione Penitenziaria ha rappresentato quali siano le ragioni ostative per l’attivazione del servizio anche presso il Carcere di Cosenza, come richiesto dai Radicali Italiani. In modo particolare, vengono indicate: l’assenza di spazi idonei, la mancanza di richieste da parte delle famiglie, la mancanza di personale con adeguate competenze informatiche, l’assenza di una linea di trasmissione adeguata in quanto insufficiente o sovraccarica, l’esigenza di adeguamenti tecnici per il cablaggio dei locali, la mancanza di strumentazioni per le postazioni e la mancanza di fondi per la copertura delle spese di installazione e gestione. Infine, per quel che concerne le problematiche segnalate in ordine al ritardo nell’avvio dei lavori relativi alla realizzazione di due campi di calcetto e di una pista di atletica leggera, la Direzione dell’Istituto in argomento, conclude il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Santi Consolo, ha assicurato di spendere il massimo impegno per la preparazione degli adempimenti amministrativo-burocratici propedeutici all’avvio dei lavori, riferendo, al tempo stesso, in ordine a obiettive difficoltà legate agli atti di gara; a tal riguardo, allo scopo di evitare ulteriori involontari ritardi e favorire il buon esito della progettualità, la medesima Direzione ha intrapreso mirate interlocuzioni con il locale Provveditorato al fine di approfondire la questione e raggiungere in tempi brevi la risoluzione delle criticità prospettate. Le risposte fornite dal Capo Dipartimento ci soddisfano parzialmente tiene comunque a precisare il capo della delegazione radicale Emilio Enzo Quintieri, non essendo state evase altre importanti richieste che abbiamo rappresentato, come ad esempio sugli inaccettabili ritardi nei lavori per la sistemazione dell’area verde per i colloqui all’aperto dei detenuti, progetto anche questo da tempo approvato e finanziato dalla Cassa delle Ammende nonché sulla revisione dell’organizzazione custodiale della Casa Circondariale di Cosenza poiché, allo stato, in tutte le Sezioni detentive, contrariamente a quanto avviene nel resto d’Italia, viene mantenuta la "custodia chiusa" nonostante sia realisticamente realizzabile la "custodia aperta" con piccoli interventi, finanziabili con il fondo patrimoniale a disposizione della Cassa delle Ammende. Va assolutamente superato, anche a Cosenza, il criterio di perimetrazione della vita penitenziaria all’interno della camera di pernottamento, obiettivo peraltro auspicato dalla stessa Amministrazione Penitenziaria. Trento: nomina del Garante dei detenuti, c’è l’intesa, oggi la decisione del Consiglio di Andrea Rossi Tonon Corriere del Trentino, 3 ottobre 2017 La professoressa Antonia Menghini, dovrebbe essere lei il Garante dei detenuti. È il giorno del garante dei diritti dei detenuti. Nella seduta del consiglio provinciale di oggi sarà infatti nominata l’autorità di garanzia. L’intesa in maggioranza pare essere arrivata sul nome di Antonia Menghini, docente di Diritto penale dell’università di Trento, trentina, autrice di testi sullo spazio detentivo, il recupero dei detenuti, la dignità e l’umanità della pena. Un profilo apprezzato tanto tra i banchi delle forze di governo quanto tra quelli della minoranza, orientata ad approvare la soluzione. Più acceso si annuncia il dibattito sulla riforma della cultura. Oggi si aprirà infatti anche la discussione sul disegno di legge proposto dall’assessore Mellarini. Un testo che ha conosciuto diverse riformulazioni, in particolare degli articoli sulla riorganizzazione della governance: il documento sottoposto alla valutazione dei consiglieri prevede la costituzione di un cda unico per tutti gli enti museali, soluzione fortemente contestata dalla minoranza che ha depositato oltre duemila emendamenti al testo licenziato dalla Quinta commissione. Mille circa sono firmati dal consigliere Rodolfo Borga, altri ottocento dai membri di Progetto trentino e infine 130 da Nerio Giovanazzi. La sanità è invece uno dei temi maggiormente toccati dalle interrogazioni presentate dai consiglieri in questa convocazione. Delle venti depositate, tre - dei consiglieri Cia, Zanon e Fasanelli - hanno per argomento la carenza di medici, un’altra i tempi di attesa per le visite specialistiche (Fasanelli), un’altra le possibili misure per incrementare la mobilità attiva e ridurre quella passiva (Passamani) e infine una relativa alla riapertura del punto nascita dell’ospedale di Fiemme e Fassa (De Godenz). È invece avanzato dal capogruppo di Civica trentina Borga il tema della sicurezza dei controllori dei mezzi pubblici, che attraverso una proposta di mozione chiede alla Provincia di sostenere nelle spese legali i dipendenti che nei mesi scorsi sarebbero stati aggrediti a bordo degli autobus. Con un’altra proposta di mozione, il capogruppo democratico Alessio Manica punta i riflettori sulle tecnologie che consentono di eseguire e memorizzare transazioni anche non monetarie, bitcoin e blockchain, sul cui tema Rovereto vede un’altra concentrazione di startup e ricercatori. Il consigliere del Pd chiede dunque alla giunta di "creare un gruppo di lavoro, coinvolgendo Trentino Sviluppo e le start-up con sede in Trentino che si occupano di blockchain e bitcoin, per focalizzare ed approfondire le possibilità applicative di questa tecnologia per il sistema territoriale trentino", "organizzare, d’accordo con il suddetto gruppo di lavoro, un seminario sul tema coinvolgendo i soggetti rappresentativi della filiera dell’alta formazione, ricerca, innovazione, imprese e dei soggetti operanti nell’ambito delle politiche per il turismo" e infine "individuare uno o più campi di applicazione e avviare una sperimentazione di utilizzo di bitcoin". Sulmona (Aq): in cella senza acqua calda. I giudici "condizioni detentive accettabili" La Stampa, 3 ottobre 2017 Respinte le proteste di un detenuto rinchiuso nella Casa circondariale. Nessun dubbio sulla carenza lamentata, ma per i giudici bastano le docce ad assicurare un adeguato livello di igiene personale. Solo acqua fredda nel bagno in cella. Legittime le proteste, ma, secondo i giudici, non si può parlare di condizione detentiva degradante. Decisiva la presenza delle docce che con uso quotidiano - e con l’acqua calda - garantiscono un congruo livello di igiene personale (Cassazione, sentenza n. 44866 del 28 settembre 2017). Igiene personale sufficiente. Riflettori puntati sulla casa circondariale di Sulmona. I malumori di un detenuto sono provocati dallo "spazio in cella" e dalla "mancanza di acqua calda nel bagno". A suo parere si può parlare di "condizione degradante". Di parere opposto i giudici, che, calcolatrice alla mano, ritengono innanzitutto sufficiente la superficie disponibile in cella. Resta aperto il fronte della "igiene personale". Ma anche in questo caso i giudici respingono le obiezioni mosse dal detenuto. In particolare, i magistrati della Cassazione condividono la visione tracciata dal Tribunale di sorveglianza di L’Aquila, laddove si è sostenuto che, nonostante "l’assenza dell’acqua corrente calda nel bagno della camera detentiva", è comunque "assicurato ai detenuti un congruo livello di igiene personale, anche attraverso l’uso quotidiano delle docce, ovviamente con acqua calda, collocate in ciascuna sezione". Di conseguenza, fermo restando che "l’uso dell’acqua corrente calda nel locale bagno annesso a ciascuna camera costituisce elemento del servizio igienico prescritto dall’ordinamento", i giudici ritengono che la mancanza lamentata dall’uomo non è sufficiente a determinare "una condizione detentiva degradante". Milano: andare al nido in un carcere, a Bollate si sperimenta la vera integrazione di Teresa Valiani Redattore Sociale, 3 ottobre 2017 Nato come asilo per i bambini del personale, il nido "Biobab" ha aperto le porte alle famiglie del territorio e, da dicembre, anche ai figli delle madri detenute. Il direttore Massimo Parisi: "Esperienza sperimentale unica, esempio di integrazione e partecipazione del territorio". Stanze luminose, mini arredi colorati, giochi e cuscini ovunque. Plastica bandita da ogni ambiente, legno che domina su tutto, toni caldi che riportano alla terra. E fuori, un ampio spazio di verde attrezzato e un orto didattico per toccarla davvero, quella terra, giocare con i cavalli e crescere mantenendo il contatto e i ritmi della natura. Blubaobab è un asilo nido per bimbi dai 5 mesi ai 3 anni ma anche un "luogo di sperimentazione educativa, di incontro e crescita per bambini e famiglie", all’interno del centro per l’infanzia Biobab. Un’esperienza unica in Italia perché si trova in un carcere, perché è stato uno dei primi nidi aziendali concepiti per i bambini del personale di un istituto di pena, perché ha aperto le porte ai bimbi delle famiglie del territorio e perché da qualche mese ospita anche i piccoli al seguito delle madri detenute: 24 bambini, 24 storie che si intrecciano ogni giorno e raccontano che si può fare. Ottimi risultati e un bilancio positivo nel primo anno di attività per una sfida vinta a pieni voti e che accorcia tutte le distanze a dispetto dei muri, sempre più alti, oltre i cancelli. Bollate, il "carcere modello", lancia di nuovo i dadi, in una storia che parla una sola lingua: quella dell’integrazione. La racconta il direttore, Massimo Parisi, che ha aperto le porte dell’istituto a stampa e associazioni in un open day organizzato per presentare il nido e l’avvio delle attività del nuovo anno. "La nostra - spiega il direttore - è un’esperienza sperimentale unica, soprattutto per la forma che ha assunto. Il progetto nasce come nido aziendale nell’ambito del polo per il benessere del personale, di cui fanno parte anche una palestra e il campo sportivo, ed è stato realizzato grazie al contributo del comune di Milano, della Provincia, dell’Asl e della nostra Amministrazione. Il nido è stato attivato da qualche anno ma all’inizio è rimasto semi vuoto perché il nostro personale non portava i bambini. Forse per una questione di abitudini o per il carattere di novità. Fatto sta che con la cooperativa "Stripes", a cui avevamo affidato il servizio e che aveva già esperienza sul territorio di Rho, ad un certo punto abbiamo pensato di offrire un ritorno al territorio: lo stesso territorio che in qualche modo aveva investito sull’esperienza". "È così - racconta Massimo Parisi - che abbiamo aperto il nido alle famiglie esterne e questi genitori hanno iniziato a portare i bambini. Credo sia stato quello il primo passaggio importante: le famiglie esterne hanno cominciato a portare i bambini in carcere per farli andare al nido e il carcere è diventato un servizio per il territorio. È un passaggio significativo e rappresenta di per sé una novità, anche in termini di abbattimento dei pregiudizi rispetto al carcere e in termini di cultura dell’esecuzione penale. Ed è stata proprio questa esperienza del territorio a trainare il nostro personale perché piano piano anche i nostri dipendenti hanno cominciato a portare al nido i loro figli". E mentre la piccola comunità cresceva, si è aggiunto il tassello che ha completato l’opera. "Sì - sottolinea il direttore - perché nel frattempo, nel dicembre scorso, è stata aperta la sezione per le detenute madri con bimbi fino a 3 anni al seguito. È stato allora che abbiamo scelto di ospitare quei bambini nello stesso nido. Oggi l’asilo ospita 24 piccoli ed è al completo: ci sono 14 bimbi delle famiglie del territorio, 8 bambini dei nostri dipendenti e 2 bimbi di altrettante detenute madri. Penso che la straordinarietà dell’esperienza stia anche in questa integrazione, soprattutto in un periodo in cui, fuori, si erigono muri. Al di là del servizio, importante, per il personale, l’aspetto significativo del progetto riguarda l’integrazione e il contributo arrivato dal territorio, che è stato la chiave di volta. La cooperativa "Stripes" è riuscita ad attrarre le famiglie esterne e il carcere a fornire una sorta di controprestazione. Qui si è creato un servizio e anche il territorio ha contribuito fattivamente". Nato nel 2015, il progetto sperimentale realizzato dalla cooperativa sociale Onlus Stripes in collaborazione con il ministero della Giustizia, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, è diventato oggi un servizio stabile, con una forte attenzione verso le tematiche ecologiche. Il centro per l’infanzia e le famiglie ospita laboratori, incontri tematici e conviviali, corsi e opportunità di formazione, campus estivi e invernali, tutti legati dal filo comune della sostenibilità ambientale. "Ma il cuore del Biobab - spiega una nota della Onlus -, attorno al quale è nato e si è sviluppato il progetto ed il cui avvio ha rappresentato la realizzazione di un’ambiziosa scommessa, è l’asilo nido. Pensato inizialmente come servizio per i figli dei dipendenti dell’istituto penitenziario, ha poi accolto anche le famiglie del territorio e, infine, i figli di alcune donne detenute nella struttura. Ad oggi l’asilo nido del Biobab è un caso unico nel suo genere sia per l’esperienza di integrazione che concretamente si propone alla cittadinanza sia per l’offerta pedagogica innovativa all’insegna dell’educazione e sensibilizzazione alla sostenibilità ambientale". In primo piano l’offerta formativa, grazie anche alla collaborazione con le altre realtà già presenti e attive nell’istituto penitenziario. "Tra queste - spiega la nota, la collaborazione con l’associazione "Salto Oltre il Muro", presente nella struttura con un maneggio, che ha permesso la realizzazione di attività di pet-education con i cavalli dedicate ai bambini. Inoltre, la presenza di un ampio giardino all’esterno ha portato alla creazione di un orto didattico nato anche grazie all’impegno dei piccoli ospiti del Biobab che hanno potuto sperimentare in prima persona il contatto con la terra, elemento fondamentale per scoprire l’importanza del contatto tra uomo e natura. Questo è il Biobab, una sfida quotidiana che intende creare un collegamento del territorio con l’istituto penitenziario, un’esperienza sperimentale dedicata ai bambini zero-3 anni, ma anche alle famiglie: uno spazio comunicativo e relazionale orientato a superare barriere fisiche e culturali per crescere insieme". Verona: Fatma, la donna che insegna l’Islam in carcere di Angiola Petronio Corriere di Verona, 3 ottobre 2017 Da sei mesi va a Montorio, in un progetto pilota. È una donna, è islamica e da sei mesi nel carcere di Montorio fa "assistenza spirituale" ai carcerati musulmani per evitare che si radicalizzino. "Quando qualcuno ha bisogno mi avvisano. E io vado a parlargli". Lei è una donna. E non è una cosa poi così scontata, per quello che sta facendo. Loro sono i detenuti del carcere di Montorio. E i dialoghi tra quella donna e quei carcerati raccontano dell’Islam. Lei si chiama Fatna Ajiz. È nata in Marocco, ed è musulmana. A Verona ci vive da 19 anni. E come suo marito e i suoi due figli, Fatna è cittadina italiana. "Tutta la famiglia", dice con orgoglio. L’Ucoii, l’unione delle comunità islamiche in Italia, ha scelto questa donna che da anni lavora come mediatrice culturale, per un progetto sperimentale siglato con il Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Un progetto che ha, nel suo piccolo, del rivoluzionario. Perché a predicare il Corano in otto carceri italiane, tra cui Montorio, sono state mandate otto donne. Se è nelle celle che nasce il radicalismo, allora - è stato il pensiero da cui è scaturito il progetto - si può insegnare che non solo quello non è l’Islam e lo si può fare scardinando uno dei principi del fondamentalismo, vale a dire quello che vuole le donne relegate ai margini della società. Fatna era già la prima donna musulmana ad essere entrata in un carcere come mediatrice culturale, grazie alla cooperativa con cui lavora. Ma adesso può non solo occuparsi dei problemi materiali dei suoi interlocutori, ma anche di quelli spirituali. E questo è da sei mesi nel carcere veronese, Fatna: una "guida spirituale". "Quando sono arrivata al carcere di Montorio come mediatrice - racconta - ho spiegato alla direzione, alla polizia penitenziaria e a chi lavora nella struttura quali sono le esigenze e le cose fondamentali per chi segue la fede musulmana. Cosa prevede e cos’è il Ramadan, ad esempio. O altre festività. O cosa è permesso mangiare. Così un po’ alla volta anche la struttura penitenziaria ha accolto i detenuti islamici". Ma da mediatrice a "guida spirituale" Fatna è passata grazie a un master seguito all’università di Padova, che analizzava la vita dei detenuti musulmani nelle carceri italiane e il rischio di radicalizzazione all’interno delle celle. "Quando l’Ucoii e il Dap hanno dato vita al progetto - racconta - hanno chiesto una serie di nominativi. E grazie a quel master è spuntato il mio nome". Fatna ai carcerati racconta di un Islam che molti di loro faticano a ricordare. "Io gli parlo di un Islam di pace, di accoglienza e di convivenza". Quello in cui lei, per prima, crede. Fatna che port il velo per scelta e non per imposizione. "Il Corano non obbliga la donna in nulla. Il velo per me è una scelta". Anche se, ammette, che "soprattutto in carcere preferisco portarlo. Se devo parlare di religione e la religione in cui credo e di cui parlo lo prevede, mi sembra giusto farlo. Altrimenti più di qualcuno potrebbe mettermi in dubbio". Non pensa - neanche lontanamente - ad essere paragonata a un "imam donna", Fatna. "Sia chiaro che io non conduco la preghiera. Per quella del venerdì e per le feste sacre dell’Islam quella viene condotta da imam della comunità islamica veronese. Io faccio altro. Io, se qualcuno di questi uomini esprime il desiderio di parlare della propria fede, vado e insieme discutiamo, cerchiamo quelle risposte che loro cercano e che l’Islam sa dare". Quell’Islam "moderato", o "aperto", come lo chiama chi ha della fede nel Corano una conoscenza basata su un radicalismo che non appartiene alla religione musulmana. E neanche a Fatna. Che con i "pregiudizi" degli integralisti si scontra anche in carcere. "Quando arrivo, sono in pochi a meravigliarsi o a contrariarsi del fatto che io sia una donna. Anzi. Per qualcuno diventa un elemento quasi rassicurante. Ma dipende molto dai Paesi e dalle tradizione di origine. I marocchini, i tunisini e gli egiziani non hanno nessun problema. Le difficoltà le ho con i pakistani, o gli afgani. Con chi arriva da zone in cui l’Islam mette la donna ai margini, coprendola anche fisicamente. Ma alla fine riesco a dialogare anche con loro". Perché Fatna, con il suo essere donna e parlare di Corano, altro non è se non questo. Il primo avamposto contro l’integralismo. E a Montorio ci sta riuscendo alquanto bene. Roma: Padre Vittorio Trani "i detenuti oggi? come i lebbrosi ai tempi di San Francesco" di Giuliano Cattabriga frammentidipace.it, 3 ottobre 2017 "Che la sentenza sia temporanea o meno, il detenuto viene bollato dalla società". A Roma vicino al Tevere, sopra ciò che resta di un convento, oggi sorge il carcere di prima accoglienza Regina Coeli dove arrivano ogni giorno le persone arrestate sul territorio di competenza del Tribunale di Roma. Tra le circa 1000 persone che abitano questo penitenziario, vi sono soprattutto detenuti in attesa di giudizio, per i quali è un luogo di passaggio, mentre per circa 150 di loro la sentenza è definitiva. Che la sentenza sia temporanea o meno, il detenuto viene "bollato" dalla società, rischia di perdere la sua identità custodita in ogni storia di vita e la dignità è l’unica via d’uscita da un carcere, che è fatto di pregiudizi. Lo sa bene padre Vittorio Trani, che dal 1972 è impegnato come cappellano nelle carceri romane: i primi tre anni a Rebibbia, poi dal 1978 ha la cura pastorale del penitenziario trasteverino. Con Frammenti di Pace ha voluto fare un bilancio di questa sua esperienza e aprire quelle porte del carcere che spesso l’indifferenza tende a chiudere. Padre Vittorio, sa quanti anni è cappellano a Regina Coeli? In che cosa consiste la sua assistenza e quali tipi di persone ha incontrato? Svolgo servizio come cappellano della Casa Circondariale di Regina Coeli dall’1 settembre 1978. Sono il "parroco" di un contesto particolare dove circa la metà dei parrocchiani sono soggetti privi di libertà, mentre l’altra metà si "occupa di loro", svolgendo diverse mansioni: direttori agenti, medici, operatori di vario tipo. Complessivamente è una parrocchia con circa 2.000 fedeli. Pensando alle persone che ho incontrato, forse è più facile dire chi non ho incontrato. Se mettiamo in fila trentotto anni e, per ognuno di questi anni, immaginiamo di vedere sfilare intorno a 5000 detenuti, si potrebbe vedere una città medio-grande. Ho visto di tutto, anche se la maggioranza di coloro che approdano al carcere sono giovani tra i 18 e i 35 anni. Dalla fine degli anni novanta, qui a Regina Coeli, si ha una presenza straniera che raggiunge anche il 60-65% dei ristretti. Seguire il cammino tracciato da san Francesco, come la aiuta nel servizio? Dire San Francesco, è dire il santo che ha incarnato al massimo grado l’impegno di carità e di attenzione verso i fratelli in difficoltà. L’incontro con il lebbroso è l’evento che orienta la sua nuova esistenza, dove i fratelli più emarginati divennero i suoi prediletti. Scelse di vivere a Rivotorto per poter servire i fratelli che erano nel vicino lebbrosario. Il servizio ai detenuti, oggi, si nutre anche di queste profonde motivazioni che sono alla base della spiritualità francescana. Nel quadro della cultura attuale, i detenuti sono un po’ come i lebbrosi del tempo di San Francesco, da avvicinare così come Francesco avvicinava i lebbrosi presso Rivotorto. Sotto le piaghe fisiche e anche morali del lebbroso, vedeva e serviva sempre Cristo. Credo che sia questo il punto di partenza anche per chi opera in un carcere, dove le miserie che si incontrano sono tantissime. Lo sguardo deve essere lo stesso di Francesco: ogni detenuto è un fratello scomodo con il quale Cristo si identifica: "Ero in carcere e tu ti sei occupato di me…". Incontrando gli "imperdonabili", si impara a perdonare? Gli "imperdonabili" si trovano solo nel vocabolario di chi si muove in un quadro di vita dove il messaggio di Gesù rimane fuori. Per un credente le cose stanno in modo diverso. Il metro di un credente si trova nel dialogo tra il buon ladrone e Cristo, da cui esce la novità del perdono totale e dell’ingresso nella vita. Ci sono storie che l’hanno colpita più di altre? Ogni incontro è importante, prescindendo dalla storia che è alle spalle della persona che si ha di fronte. I fatti riguardano i magistrati, la polizia. Al sacerdote interessa la persona: che sia un ladro di polli o un mascalzone matricolato, per il sacerdote è indifferente. Quello che importa è che quest’uomo "si ritrovi", riprenda in mano la sua vita, metta ordine nel cuore, nella testa, nei rapporti. Su questo versante penso alle "storie", quelle vere, dove l’esperienza detentiva, spesso, dà il "là" a nuovi percorsi di vita. Quando comincia questo ravvedimento, allora cominciano le "vere storie", interessanti e piene di speranza. E sono tante, più di quante uno possa pensare. Grazie a Dio, non è solo in questo servizio… Negli anni è cresciuto il numero dei volontari che affiancano i cappellani nel lavoro pastorale. Il mio gruppo è il Vo.Re.Co (Volontari Regina Coeli), fondato nel 1978. Attualmente sono più di 110. In carcere la collaborazione dei volontari è preziosissima. Senza di loro sarebbe impossibile pensare di portare avanti un impegno pastorale che abbraccia tantissimi aspetti: religioso, culturale, di sostegno. Il carcere è come una parrocchia e qui offriamo, sostegno morale e materiale ai detenuti indigenti e privi di riferimenti esterni fuori dal carcere, organizziamo iniziative per sensibilizzare la società civile sulle problematiche della giustizia. Inoltre accogliamo nel "Centro Vo.Re.Co" (A Roma, in via della Lungara, 141/a) persone disagiate ed ex detenuti e aiutiamo anche le famiglie bisognose del territorio. Infine, oltre a piccoli progetti di formazione, realizziamo ogni anno un corso di formazione di tre mesi per chi vuole fare il volontario in carcere col giusto approccio. Quanto è importante che i laici cristiani, ma in generale tutta la società, si aprano all’incontro con questo tipo di realtà spesso dimenticata o criticata? I pregiudizi da superare sono anche nelle teste dei cristiani. Cristo si è identificato anche con chi si trova a vivere l’esperienza detentiva. È uno dei "picchi" della novità della buona novella. È scomodo occuparsi di chi ti ha derubato o fatto del male, ma la sua logica punta al "cuore" non alla povertà della persona o alla sua miseria. Dinanzi al ladrone pentito, Gesù apre le porte del Paradiso. Quando si rivolge l’attenzione a queste sacche della "povertà", allora si comincia a ragionare secondo il Vangelo; non da buonisti, la legge deve fare il suo corso; ma da persone attente ad aiutare il fratello a risalire la china. E questo è possibile, avvicinandosi a lui e guardarlo con la novità che Cristo ci mette nel cuore. Portare speranza a chi è disperato, può aiutare a recuperare chi è considerato irrecuperabile? Credo che la speranza sia uno dei semi più preziosi da spandere all’interno di una realtà come il carcere. Ritrovare la forza di guardare avanti con fiducia, anche quando il percorso è pesante perché si è privi di libertà, di affetti, di dignità e quando si è dentro una quotidianità conflittuale, per mille ragioni, è come celebrare il superamento dello stato detentivo. E l’operatore pastorale (sacerdote o volontario) ha infinite risorse per far sentire il messaggio che rinnova e dà fiducia. Quale consiglio o indicazione darebbe ai politici e agli amministratori locali per migliorare il recupero dei carcerati? Non mi sento di dare consigli a nessuno. Solo un appello fraterno: ognuno, nel proprio ruolo, si impegni a fare il massimo affinché queste realtà sociali migliorino sotto ogni punto di vista. I politici, gli amministratori possono fare molto per migliorare le leggi e le condizioni di vita dei detenuti. Hanno un compito delicatissimo e impegnativo. Non dovrebbero dimenticarlo mai. Genova: progetto a tutela dei bambini con genitori detenuti primocanale.it, 3 ottobre 2017 Partirà a Genova "La barchetta rossa e la zebra", progetto che intende tutelare i diritti dei bambini con genitori detenuti nel carcere di Genova Marassi o di Pontedecimo. Il progetto, promosso dalla Fondazione Rava in collaborazione con le principali istituzioni liguri, punta al sostegno di questi bambini e delle loro famiglie in situazione di grave vulnerabilità. Il progetto nasce grazie all’intesa delle Fondazioni di origine bancaria rappresentate da Acri, Forum Nazionale del Terzo Settore e Governo destinato al contrasto alla povertà educativa. Il progetto, che si rivolge al supporto sociale di circa 240 bambini, avrà durata triennale e si concretizzerà attraverso il restyling di alcuni luoghi già esistenti all’interno delle case circondariali genovesi, che saranno ripristinati e trasformati in accoglienti, confortevoli e colorati spazi a misura di bambino. Dopo sei mesi di cantiere, dedicati alla ristrutturazione degli ambienti e circa 24 mesi tra operatività e formazione dei team, i bambini potranno essere finalmente accolti nei nuovi spazi a loro dedicati. "Creando spazi protetti - ha detto Maria Chiara Roti, vice presidente della Fondazione Francesca Rava - sarà possibile sostenere e tutelare i bambini, evitando loro lunghissime attese prima di poter accedere all’interno delle strutture penitenziarie e offrendo attività formative e ludiche che favoriscano l’incontro e la relazione con il genitore". Roma: risarcimento per ingiusta detenzione, manifestazione-presidio davanti il Parlamento osservatoriorepressione.info, 3 ottobre 2017 Mercoledì 25 ottobre prossimo, alle ore 10, manifestazione-presidio davanti il Parlamento a piazza Montecitorio. Manifestazione davanti il parlamento, per rilanciare la battaglia sul diritto ad avere il risarcimento per ingiusta detenzione. Non possiamo sottometterci a chi ha la forza ma non la ragione. Manifestazione davanti il Parlamento, per denunciare il fatto che in Italia, può accadere che una persona sia detenuta ingiustamente per tanti anni e non venga mai risarcita. Sei anni di carcere speciale da giovane, all’età di venti anni, per poi essere assolto in appello e definitivamente in cassazione dall’accusa di "partecipazione a banda armata (Prima Linea) con funzioni organizzative", ma mai risarcito per questo errore giudiziario. Non solo io, ogni anno cinquemila persone si vedono rigettare una legittima istanza, per risarcimento da ingiusta detenzione, con motivazioni da "santa inquisizione". Sono trenta anni che ci battiamo invano per questa giusta causa. Ma le istanze sono sempre state respinte nelle sedi giudiziarie, con la motivazione delle "cattive frequentazioni", che avrebbero tratto in inganno gli inquirenti. Giuridicamente è chiaramente un comma anticostituzionale, per questo organizziamo una manifestazione-presidio davanti il parlamento, per cercare di trovare una soluzione a una giusta rivendicazione, non solo mia ma di tantissime altre persone. Su settemila domande annue presentate per risarcimento da ingiusta detenzione, ne vengono accolte al massimo mille e cinquecento. La altre, come la mia istanza, bocciate per il giudizio morale di aver avuto cattive frequentazioni, giudizio che non ha nessuna rilevanza penale. Oltretutto andrebbe anche estesa la retroattività per un diritto così importante. L’inviolabilità della libertà personale è un diritto inalienabile. Se lesa va risarcita. Basta trovare scuse ed escamotage da parte dello Stato italiano e degli organi giudiziari. I politici e i parlamentari in particolare non hanno mai fatto nulla per questo. Potrebbero abolire questo comma. Ma non lo fanno e non fanno nessuna battaglia di questo genere, pensando solo a mantenere i loro privilegi fatti di immensi stipendi e vitalizi, per cui al bilancio vanno viste le loro esigenze. I soldi servono per loro e per i manager pubblici ecc., non per i diritti sociali e per chi andrebbe risarcito perché privato ingiustamente della libertà personale, che è un fatto gravissimo. Andrebbe abolito il comma che vieta il risarcimento per ingiusta detenzione per un giudizio comportamentale e non penale. E speriamo che qualcuno denunci questo anche alla Consulta per incostituzionalità. È doveroso riprendere la lotta, organizzando una manifestazione davanti il parlamento. Non possiamo sottometterci a chi ha la forza ma non la ragione. Giulio Petrilli (comitato per il diritto al risarcimento per ingiusta detenzione a tutti/e) Giovanni Russo Spena (giurista ed ex senatore, attuale responsabile giustizia Prc) Marcello Pesarini (responsabile associazione Antigone Marche) Italo Di Sabato (Osservatorio Repressione) Milano: Freedom Rugby, fare meta oltre le sbarre mitomorrow.it, 3 ottobre 2017 Quando dici Beccaria, se sei di Milano hai in mente due realtà - un liceo classico e un istituto penale per minori, certo impegnate in sfide educative molto diverse, ma destinate a ragazzi più o meno coetanei il cui destino ha preso strade differenti. Per capire chi sono i ragazzi di "questo" Beccaria abbiamo parlato con Giovanni, allenatore responsabile del progetto Freedom Rugby che, nel pieno spirito di una disciplina sportiva che non lascia indietro mai nessuno, è impegnato da ormai dieci anni a portare la palla ovale dietro le sbarre. Giovanni, cosa succede ogni sabato mattina? "Mi reco all’istituto minorile Beccaria per fare un ora e mezza di rugby insieme ai detenuti. E ogni sabato mattina spero che chi ha partecipato il sabato precedente continui con il progetto per tutto il tempo della sua pena". Spiegaci meglio il progetto. "È come una grande nave che potrebbe riaccompagnare i passeggeri nella società meglio rispetto a come erano partiti. Ma per farlo c’è bisogno di un equipaggio forte e preparato che possa sostenere la guida del suo capitano". Perché proprio il rugby? "L’essenza del rugby è rispetto e sostegno: rispetto delle regole, dei compagni, degli avversari, dell’arbitro. Sostegno al compagno in difficoltà per andare verso una meta comune. È uno sport dove imparare a stare in un gruppo e lavorare come squadra è fondamentale: nella vita di tutti i giorni non è molto diverso". Che tipo di ragazzi incontri? "Giovani dai 15 ai 25 anni di diverse nazionalità, principalmente nordafricani e sudamericani, oltre a qualche italiano. Chi ha imparato a rubare dal padre, chi a spacciare dallo zio perché un padre non ce l’aveva, chi è scappato da una guerra, chi è lì perché semplicemente ha sbagliato e ha preso una scelta troppo comoda". Come approcci con loro? "Ogni volta mi danno la consapevolezza di essere stato fortunato ad aver avuto una famiglia e ad essere cresciuto in un contesto capace di trasmettermi valori sani e un discreto senso del "giusto"". Se ne potessi sfatare un pregiudizio? "Se fossi entrato a far parte di questo progetto con dei pregiudizi sui detenuti, probabilmente avrei avuto vita breve (ride, ndr). Scherzi a parte, forse il più comune è credere che le persone che sono lì lo siano perché nate cattive: spesso non hanno mai avuto semplicemente una buona guida nella vita". L’appuntamento di domani Domani alle 11.00 presso il Bogàs Space di via Giordano Rota si terrà la conferenza di celebrazione dei dieci anni del progetto Freedom Rugby, creato dall’ASR Milano. Interverranno, tra gli altri, Elvira Narducci, responsabile area educativa IPM Beccaria; don Gino Rigoldi, cappellano IPM Beccaria; Pierfrancesco Majorino, assessore alle Politiche Sociali del Comune di Milano; Roberta Guaineri, assessore al Turismo, Sport e qualità della vita del Comune; Antonio Rossi, assessore allo Sport e Politiche per i giovani della Regione Lombardia; Sergio Carnovali, presidente AS Rugby Milano. Ius soli, insegnanti e parlamentari digiunano per la legge di Carlo Lania Il Manifesto, 3 ottobre 2017 Parte oggi la staffetta di 800 docenti per l’approvazione del ddl sulla cittadinanza. Il presidente del Senato:"Si può fare". "Per lo ius soli i giochi non sono finiti, c’è ancora la possibilità di approvare la legge". A dirsi convinto che non tutto sia perduto per la riforma della cittadinanza sono il presidente del Senato Pietro Grasso e un nutrito gruppo di senatori e deputati che sperano in questo modo di riuscire a far sì che il provvedimento possa vedere la luce entro il mese di ottobre. "Certamente ci sono due priorità come la legge di stabilità e la legge elettorale", ha spiegato ieri Grasso da Lampedusa, dove si trova per le celebrazioni del quarto anniversario della strage che il 3 ottobre del 2013 costò la vita a 368 migranti. "Nel contempo però - ha proseguito - possiamo trovare delle finestre nell’ambito dei calendari per poter affrontare questo problema". È una corsa contro il tempo, e non solo. Sono molti infatti i senatori contrari alla legge e i dubbi serpeggiano in abbondanza anche nelle file del Pd. Nel caso palazzo Chigi dovesse rompere gli indugi e porre finalmente la fiducia sul provvedimento, vista la dichiarata opposizione di Ap i voti necessari per superarla andrebbero cercati uno per uno. Per provare a smuovere la situazione sperando così di spingere anche molti senatori a un atto di coraggio e di civiltà, oggi 800 insegnanti entreranno in classe con una coccarda tricolore sulla giacca e annunceranno ai proprio studenti l’inizio di uno sciopero della fame a staffetta per chiedere l’approvazione di una legge che consentirebbe a circa 800 mila ragazzi nati nel nostro paese da genitori immigranti di diventare cittadini italiani. Ragazzi con i quali gli insegnanti hanno a che fare tutti giorni, avendoli in classe, e che vedono nel mancato riconoscimento della cittadinanza un’ingiustizia nei loro confronti. L’idea dello sciopero della fame - al quale ieri ha aderito anche l’Arci - è nata due settimane fa con un appello sottoscritto da insegnanti ed educatori. "Abbiamo in classe cittadini che non saranno mai cittadini, ed è arrivato il momento di schierarsi", ha spiegato il maestro Franco Lorenzoni presentando l’iniziativa a Senato insieme al presidente della Commissione Diritti umani Luigi Manconi. Proprio a Manconi e al senatore del Mdp si deve l’idea di chiedere ai parlamentari di unirsi agli insegnanti partecipando alla staffetta di digiuno. Anche in questo caso dietro l’iniziativa c’è la consapevolezza di non poter restare fermi a guardare mentre un diritto viene calpesto per puri interessi elettorali. Sono più di venti i parlamentari che finora hanno aderito all’appello lanciato da Manconi e Corsini, tra i quali i senatori dem Tocci, Ferrara e Lo Giudice, Palermo delle Autonomie e i deputati Piras di Mdp, Zampa e Monaco del Pd e Marazziti di Scelta civica. La possibile "finestra" di cui parla il presidente del Senato Grasso per i parlamentari potrebbe aprirsi già a partire da domani, dopo il voto sulla nota di variazione di bilancio Def, per prolungarsi fino al 20, forse 25 ottobre, giorni nei quali è previsto l’arrivo al Senato della legge di stabilità. Il che significa che ci sono due settimane di tempo per trovare i voti necessari ad approvare la legge, sempre che da palazzo Chigi arrivi la decisione di porre al fiducia. Allo sciopero della fame a staffetta aderiscono anche i Radicali italiani. che proprio entro ottobre concluderanno al campagna "Ero straniero" con la relativa raccolta di firme per una proposta di legge di iniziativa popolare finalizzata al superamento della Bossi-Fini. Intanto anche i diretti interessati si mobilitano. Per il 13 ottobre, giorno in cui saranno passati due anni dall’approvazione alla Camera del ddl sulla cittadinanza, i ragazzi aderenti al cartello "Italiani senza cittadinanza" hanno indetto un "Cittadinanza day" sotto Montecitorio sfidando i parlamentari contrari alla legge a confrontarsi con loro. Bisognerà vedere chi accetterà il confronto. Intanto però la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni si prepara a dare battaglia nel caso la legge venisse approvata. "Secondo me non hanno i numeri, ma ci proveranno fino alla fine", ha detto ieri Meloni. "Io comunque sto raccogliendo le firme, e quindi nel caso presenteremo un referendum abrogativo". Rotte migratorie e torture nei lager libici, le testimonianze dei migranti La Repubblica, 3 ottobre 2017 Quali sono le conseguenze dell’accordo italo-libico sui flussi migratori ? Quale il suo costo umano? Cosa avviene nei centri di detenzione in Libia e sulle piste del deserto in Niger e in Sudan? "Esodi" racconta la tragedia umana che più sta segnando il nostro tempo. Giovedi 5 Ottobre alla Sala Stampa Estera a Roma, le testimonianze raccolte da Medu (Medici per i Diritti Umani). "Sono stato in una prigione vicino Tripoli per 6 mesi ai lavori forzati. Non dimenticherò mai la morte del mio amico. Era troppo stanco per lavorare. Ha detto alle guardie che non riusciva ad alzarsi. Uno dei libici ha detto "Se non vieni ti sparo". Io pensavo che scherzasse. L’ha pensato anche il mio amico. L’uomo libico l’ha ucciso con un colpo in testa. Poi si è girato verso di me. "Tu che fai, lavori o no?". È la testimonianza di M, 27 anni, dal Gambia: 29 settembre 2017, rilasciata all’Hotspot di Pozzallo. I campi di tortura in Libia. Tripoli, Sabha, Gharyan, Beni Walid, Zawia, Sabratha. I migranti raccontano l’orrore dei campi di tortura e dei centri di detenzione libici, dove nessuna organizzazione internazionale e nessun giornalista ha accesso. Duemilaseicento testimonianze raccolte in quasi quattro anni di cui oltre la metà nel solo 2017. Attraverso i racconti e le video testimonianze dei migranti, i dati e le statistiche, la mappa web interattiva ESODI descrive le rotte migratorie dall’Africa occidentale e dal Corno d’Africa verso l’Italia e l’Europa. La nuova mappa delle migrazioni. Quali sono le conseguenze dell’accordo italo-libico sui flussi migratori ? Quale il suo costo umano? Cosa avviene in questo momento nei centri di detenzione in Libia e sulle piste del deserto in Niger e in Sudan? Da che cosa fuggono centinaia di migliaia di persone? Attraverso la voce di chi è sopravvissuto, "Esodi" racconta il fenomeno umano che più sta segnando il nostro tempo. Giovedi 5 Ottobre alle 11, presso la Sala Stampa Estera, in via dell’Umiltà 83/c a Roma, verrà presentata la mappa, interamente aggiornata, i team di Medu (Medici per i Diritti Umani) che hanno assistito i migranti e raccolto le testimonianze in Italia e Nord Africa assieme ad alcuni protagonisti diretti del viaggio. Stati Uniti. Il terrorismo delle armi di Guido Moltedo Il Manifesto, 3 ottobre 2017 Aggiungere un’etichetta "ideologica" all’ennesima strage non cambia il problema di fondo, che non è costituito dal terrorismo internazionale. È costituito da un terrorismo diffuso e incontrollato che è l’accesso illimitato - anzi promosso con fondi ricchissimi dalla lobby dei produttori di armi - a fucili d’ogni genere, proiettili, mitragliatrici e bazooka. Google News Italia "apriva ieri", per alcune ore, con la notizia secondo cui lo stragista di Las Vegas era un affiliato dell’Isis. Eppure lo stesso Fbi aveva già smentito una simile connessione. Tant’è che il medesimo aggregatore di notizie, nella versione americana, nelle stesse ore non menzionava neppure nel suo menu la possibile matrice terroristica. Perfino il presidente Donald Trump non vi ha fatto cenno nella sua dichiarazione dopo l’eccidio. Collegare ogni strage al terrorismo islamista è una sorta di tic, perfino comprensibile di questi tempi, in Italia, e può darsi anche che un qualche nesso con l’Isis verrà fuori. Sì, si può capire questo tentativo, per quanto scontato, di dare un senso a una "tragedia insensata" come l’ha definita papa Bergoglio o "senseless tragedy", per usare le parole dei coniugi Obama. In realtà, la tragedia di domenica notte ha un senso, eccome, e il senso non bisogna cercarlo in remote piste mediorientali, come fanno i media nostrani, con irresponsabile leggerezza ed evidente scarsa conoscenza dell’America. Bill Clinton dice che sparatorie del genere "dovrebbero essere inimmaginabili" negli Stati uniti. Già, il punto è questo. Dovrebbero esserlo, ma non lo sono né possono esserlo in un paese dove girano trecento milioni di armi da fuoco. Un paese dove, dal 1970 in poi, sono morti più americani per colpi di armi da fuoco di quanti ne siano morti in tutte le guerre, andando indietro fino alla Rivoluzione americana. La strage è quotidiana: muoiono ogni giorno in America 92 persone colpite da armi da fuoco. È l’opinionista Nicholas Kristoff a ricordarlo sul New York Times, citando lo studio di David Hemeway di Harvard. Aggiungere un’etichetta "ideologica" all’ennesima strage, dovesse anche trovare alla fine fondamento, non cambia il problema di fondo, che non è costituito dal terrorismo internazionale. È costituito da un terrorismo diffuso e incontrollato che è l’accesso illimitato - anzi promosso con fondi ricchissimi dalla lobby dei produttori di armi - a fucili d’ogni genere, proiettili, perfino ordigni e mitragliatrici e bazooka. Senza muoverci da Las Vegas, l’"horror show", come l’ha definito una superstite, è preceduto da un episodio del 26 marzo scorso, quando un uomo su un bus a due piani sulla Las Vegas Strip uccise una persona, ferendone un’altra, dalla vicenda del dicembre 2015, di una donna che si lanciò "volontariamente" a bordo della sua auto contro la folla a Las Vegas uccidendo una persona e ferendone almeno 37, da una sparatoria, l’anno prima, con cinque persone uccise tra cui due poliziotti. Senza contare la catena delle sparatorie quotidiane. È di questi giorni la discussione alla camera dei rappresentanti di un disegno di legge - fortemente sostenuta dalla Nfr, la lobby delle armi - per agevolare la vendita dei silenziatori per le armi da fuoco. E, tanto per capire subito una delle conseguenze della liberalizzazione della vendita dei silenziatori, è stato fatto notare che Stephen Paddock, li avesse applicati alle sue armi omicide, non sarebbe stato neppure individuato dopo la sparatoria. D’altra parte in quella stessa camera dei deputati, è stato accolto da applausi commossi il rientro del congressman Scalise, finito sul ciglio della morte dopo essere stato preso a fucilate mentre giocava a baseball. Scalise ha avuto un A+ dalla National Rifle Association, il voto già alto che la lobby delle armi dà ai politici che la sostengono al congresso. Come stupirsi che lo stesso Scalise non abbia detto una sol parola sul meccanismo mostruoso di cui lui stesso è stato vittima? E che dopo l’accoglienza calorosa dei colleghi al suo ritorno si sia passati subito al disegno di legge sui silenziatori? L’America che si ribella al far west è consistente ma resta minoritaria. Durante la presidenza Obama ci sono state stragi a Dallas, Columbia e Newtown e, un anno fa, a Orlando, morivano 49 persone, trucidate nel Pulse, un locale frequentato da gay, ed è stata la prima sparatoria di massa dell’era Trump, la seconda per numero di vittime nella storia americana. Dopo quella di Las Vegas. Finiti nel nulla i tentativi di regolare un minimo il commercio e la diffusione di fucili e pistole portati avanti da Obama, con Trump l’escalation s’intensifica. Tanto che la stessa pretesa dell’Isis d’intestarsi stragi che non ha organizzato ha perfino un senso in un paese che non ha nulla da invidiare al Medio Oriente in guerra, in termini di caduti per colpi d’arma da fuoco. Stati Uniti. Il culto delle armi e il suo peso elettorale di Marco Valsania Il Sole 24 Ore, 3 ottobre 2017 Un altro massacro. Di proporzioni difficilmente immaginabili. Un altro, terribile tributo di sangue sull’altare del culto delle armi negli Stati Uniti. Con il bilancio delle vittime - e il conto dei fucili in possesso del folle assassino - crescerà di nuovo adesso anche il dibattito nel Paese sulla necessità di leggi e normative più restrittive che aiutino a prevenire simili eccidi. Ma ben difficilmente, come già avvenuto in anni recenti dopo la strage nella scuola elementare di Newtown in Connecticut o dopo quella nella sala da ballo di Orlando, scatteranno cambiamenti radicali. La combinazione dell’influenza della grande lobby delle armi e d’una cultura politica intrisa dagli omaggi al Secondo emendamento della Costituzione - quello che per i suoi fautori garantirebbe il facile diritto individuale a ogni genere di armi - rendono riforme profonde una strada tuttora in salita in America. Massacro dopo massacro, finora è rimasta inascoltata la voce di chi crede che quell’emendamento sia obsoleto e male interpretato (molti storici concordano che sia uno dei più maldestri capitoli della Costituzione e che intendesse riferirsi in realtà a milizie statali). Mentre ha continuato a prelevare la voce della Nra, la lobby della National Rifle Association guidata da Wayne LaPierre, che da decenni si è affermata come potente macchina politica conservatrice in urne locali e nazionali al di là dei cinque milioni di suoi iscritti. Basta ricordare che il presidente Donald Trump ha fatto della difesa assoluta del Secondo emendamento un leitmotiv della campagna elettorale. E che solo pochi giorni or sono, in un’elezione primaria repubblicana in Alabama per la corsa al seggio senatoriale reso vacante dal Segretario alla Giustizia Jeff Sessions, il vincitore, l’ex magistrato 70enne Roy Moore, ha chiuso l’ultimo comizio sfoderando una pistola a dimostrazione della sua fede. Dall’opposizione democratica - compreso l’ex rivale di Trump alle presidenziali Hillary Clinton - ieri si sono levati forti appelli a legislazioni per rendere più severi i controlli sulle armi e a resistere alle pressioni della Nra. La presa di posizione assieme più tersa e impotente è arrivata dal senatore Chris Murphy del Connecticut: "Solo in America questi terribili massacri avvengono con tanta regolarità, devono cessare". Stati Uniti. L’immaginario stragista dell’"americano tranquillo" di Luca Celada Il Manifesto, 3 ottobre 2017 Trump ha elogiato la polizia e compianto l’atto di "pura malvagità". Non una parola sul "gun control". Gli ultimi casinò sulla strip, prima che Las Vegas boulevard diventi l’autostrada per Los Angeles, sono il Mandalay e il Luxor con la sua piramide di vetro brunito e la sfinge di gesso. Di fronte a quest’ultimo albergo a tema antico egizio c’è lo spiazzo scelto dall’ultimo cecchino per compiere la sua strage. I primi bollettini della polizia sono rimbalzati poco dopo mezzanotte, ora del Pacifico, e sono continuati nella notte fino a registrare "la peggior strage nella moderna storia degli Stati uniti". Il lugubre record sorpassa quello precedente, appena dello scorso giugno, quando sono state ammazzate 49 persone in un locale notturno gay a Orlando, in Florida. Uno stillicidio luttuoso di statistiche che torna a sottolineare come i mass shooting ricorrano con un’agghiacciante regolarità che torna a porre l’esasperante questione delle cause di una autoctona psicopatologia sociale. Nella fenomenologia degli omicidi di massa il cui catalogo ogni anno si arricchisce di tetre statistiche, nel mirino finiscono vittime innocenti colpite in scuole, locali pubblici, mezzi di trasporto, chiese. L’assurda tassonomia delle mortifere violenze di massa prevede di solito il nichilismo di un "lupo solitario" che armato fino ai denti spara metodicamente sulla moltitudine indifesa. Nella classifica rientrano i "semplici" omicidi plurimi e le stragi di massa che ricalcano ogni volta modalità prevedibili: una delle prime stragi moderne avveniva quando 5 anni fa un cecchino si asserragliava in un campanile sul campus dell’università del Texas ad Austin uccidendo 15 passanti sottostanti, la stessa dinamica di domenica. In quasi ogni caso l’autore (sempre maschio) non offre spunti che segnalino in precedenza i suoi propositi. Un altro elemento canonico delle stragi americane sono le interviste del giorno dopo ad amici e vicini che esprimono lo stupore e sottolineano la consueta normalità dell’assassino. Anche Stephen Paddock, 64 anni, era il solito "uomo tranquillo". Ma in ultimo questo film dal tragico epilogo sul Vegas Strip c’è qualcosa di più - scene di altri immaginari americani. Dillinger: il padre di Paddock era un rapinatore seriale di banche, condannato a vent’anni e finito sulla lista dei most wanted Fbi in seguito ad una fuga dal penitenziario. E c’è un pizzico di Truman Show: Paddock ritiratosi a vita privata dopo una carriera da ragioniere alla Lockheed Martin, abitava a Mesquite, sul confine fra Nevada e Arizona. Si tratta di una retirement community come ce ne sono a migliaia sparse negli hinterland brulli del sudovest americano. "Comunità pianificate" per pensionati vietate agli under 55 e ai bambini, grappoli di villini prefabbricati e climatizzati circondati da surreali aiuole verdi lambite dal deserto con doppio garage e accesso al campo da golf d’ordinanza Paddock rientra quindi apparentemente nella "categoria di normale strage suburbana" come ha precisato lo sceriffo di Las Vegas annunciando che l’evento non aveva "matrici terroriste" (leggi: l’autore non era musulmano). Un distinzione di discutibile interesse per le vittime e i loro famigliari ma di grande importanza per alcuni, compreso l’attuale presidente americano. Per Trump che ha costruito la propria ascesa anche sulla denuncia del "terrorismo radicale islamico" e l’uso rituale della frase come grimaldello contro il "buonismo" degli avversari la distinzione è cruciale. Il suo briefing del mattino dopo è stato lapidario e lontano dalla bellicosità esibita in modo consueto dopo casi di attentati islamici anche lontani (Londra, Nizza) quando suole tuonare su pugno di ferro e scontro di civiltà. Su Las Vegas ha solo invocato col tono sobrio del predicatore, la solidarietà con le vittime, elogiato le forze dell’ordine e compianto l’atto di "pura malvagità". Molti altri politici hanno addotto il lutto per evitare commenti specifici ma è certo che gli uffici stampa della National Rifle Association stiano già lavorando per anticipare ogni possibile appello per limitare la marea di armi da fuoco in cui è sommerso il paese che detiene l’assoluto primato mondiale delle violenze. Oltre che efficientissima lobby per l’industria delle armi, la Nra è partito politico ombra allineato su posizioni trumpiste (come la polemica contro la contestazione degli atleti: il sito ufficiale attualmente apre con un appello a "stare in piedi per la bandiera"). In otto anni Barack Obama venne ripetutamente chiamato a esprimere il cordoglio post-stragi. Il culmine fu la sparatoria alla scuola elementare di Sandy Hook a Newtown Connecticut. L’uccisione di venti bambini spinse Obama e il congresso a tentare di passare norme lievemente più severe. Non servì a nulla e per molti quel fallimento è conferma che nulla potrà mai cambiare, tantomeno con l’attuale governo. Rimane solo inevitabile l’ultima, solita considerazione in questo paese che registra ad oggi, solo nel 2017, 11.572 morti per arma da fuoco (il 10% di questi per mano della polizia). Come diceva Michael Moore in Bowling for Columbine - parafrasando proprio un slogan della Nra: "Non sono le pistole ad uccidere ma gli americani che le impugnano". Francia. Il terrore nelle banlieue e in prigione, così lo Stato sta perdendo la sua guerra di Pietro Del Re La Repubblica, 3 ottobre 2017 È ancora presto per dire se alle 239 persone uccise dai terroristi in Francia dal gennaio 2015 si dovranno aggiungere le due giovani cugine, Laura e Marianne, massacrate a coltellate domenica pomeriggio alla stazione Saint Charles di Marsiglia. Tutti sanno quanto questo Paese sia stato negli ultimi anni funestato dagli islamisti. Ma perché la jihad s’accanisce qui più che altrove? Lo fa forse perché Parigi rivendica la laicità con più fermezza che altri, vietando per esempio il burqa nei luoghi pubblici. O perché è un attore particolarmente attivo nella lotta al terrorismo internazionale, con i suoi caccia nei cieli iracheni e siriani e le sue truppe nel Mali. Senza contare che Oltralpe si conta la più nutrita popolazione musulmana d’Europa, più di 6 milioni di persone, ossia il 10% della popolazione francese. Ma può questa lunga litania di attentati far pensare a una sconfitta dello Stato? Secondo l’islamologo Gilles Kepel all’origine della débâcle della sicurezza francese ci sono le banlieues a maggioranza magrebina: ghetti poverissimi dove si registra un’altissima disoccupazione giovanile, pari a tre volte quella che colpisce il resto della Francia, e trascurati troppo a lungo dalle autorità che non hanno mai investito abbastanza nell’integrazione. Negli immigrati di terza generazione che vivono in queste degradate periferie, in prossimità di un mondo ricco e inaccessibile, ma potenzialmente vulnerabile, può nascere un sentimento di rivalsa che si manifesta con l’incendio delle auto, con i furti, le rapine o i pestaggi, per finire magari, dopo un soggiorno in carcere, con un attacco jihadista. L’altra grave emergenza francese sono infatti le prigioni sovraffollate, dove gli imam più pericolosi entrano in contatto con legioni di musulmani da radicalizzare. Una promiscuità contro la quale gli ultimi presidenti hanno tutti promesso di intervenire con determinazione, senza però riuscire a risolvere il problema, perché l’unica soluzione valida consisterebbe nella costosa costruzione di nuovi centri penitenziari. La situazione francese non dovrebbe migliorare con la nuova legge sulla sicurezza che il prossimo 1 novembre sostituirà lo stato di emergenza, decretato quasi tre anni fa. Il nuovo apparato voluto dal presidente Emmanuel Macron consentirà anche di seguire più da vicino i sospetti jihadisti, quelli che da un giorno all’altro potrebbero passare all’azione. Ma è impossibile controllarli tutti, perché secondo i servizi sono più di 2500. Senza contare che oggi, per sferrare un attacco, può bastare un "cane sciolto", magari conosciuto dalle forze di sicurezza solo per reati minori, come l’aggressore di Marsiglia, Ahmed Hanachi, il quale era stato rilasciato il giorno prima dalla polizia che lo aveva fermato a Lione per furto. Trent’anni, tunisino, era uscito da un negozio del centro commerciale della stazione lionese di Part-Dieu senza pagare una giacca. Ora, una delle due cugine era appena sbarcata a Marsiglia proprio da Lione, perciò gli inquirenti stanno cercando possibili legami tra i due. Infatti, sebbene domenica sera lo Stato islamico abbia rivendicato l’attacco alla stazione, la polizia ancora non si dice certa della matrice terroristica del duplice omicidio. Spagna. A Barcellona forza sproporzionata ed eccessiva da parte della polizia di Riccardo Noury Corriere della Sera, 3 ottobre 2017 Il numero dei votanti e manifestanti feriti domenica a Barcellona dagli agenti della Guardia civil e del Cuerpo Nacional de Policia è vicino al migliaio (alle 12 di oggi il totale era di 893, di cui due gravi); 33 quelli tra le forze di polizia. Circolano in rete filmati impressionanti, dai quali emerge in tutta evidenza che le forze di polizia spagnole hanno più volte usato, in termini strettamente giuridici, una forza eccessiva tale da spingere l’Alto commissario Onu per i diritti umani a esprimere forti preoccupazioni e a sollecitare il governo di Madrid ad avviare indagini su quanto accaduto ieri. Da un lato gli agenti sono stati chiaramente ostacolati nello svolgimento del compito che era stato loro assegnato, ossia presidiare i seggi elettorali per impedirne l’accesso. Ma, dall’altro, la loro risposta è stata del tutto sproporzionata, ricorrendo anche ai proiettili di gomma, considerato che avevano di fronte persone in gran numero ma spesso prive di oggetti contundenti e che non stavano mettendo in pericolo vite altrui. Una violenza in alcuni gratuita, come quando sono state colpite persone con disabilità o anziani. O quando sono state fatte sgomberare altre prendendole per i capelli o a calci. Infine, il particolare inquietante denunciato dalla sindaca di Barcellona: agenti della Guardia Civil e del Cuerpo Nacional de Policia si sarebbero resi responsabili di molestie sessuali nei confronti di manifestanti. Amnesty International ha a sua volta espresso preoccupazione per le violenze della polizia spagnola: i suoi osservatori a Barcellona hanno appena reso pubbliche le loro prime conclusioni. Azerbaijan. Arrestati ottanta omosessuali e transessuali per "motivi di ordine pubblico" di Rosalba Castelletti La Repubblica, 3 ottobre 2017 Cinquantasei su 83 sono stati condannati al carcere. Secondo gli avvocati sarebbe invece in atto una "persecuzione delle minoranze sessuali". Da giorni, attivisti e Ong in difesa dei diritti umani, da Amnesty International a Human Rights Watch, denunciano i raid massicci delle autorità locali contro la comunità Lgbt del Paese. Oltre ottanta omosessuali e transessuali sono stati arrestati nella seconda metà di settembre in Azerbaijan con l’accusa di prostituzione, ha annunciato il ministero degli Interni con un comunicato. Cinquantasei su 83, ha specificato, sono stati condannati al carcere. Secondo l’avvocato Samed Rahimli, sarebbe invece in atto una "persecuzione delle minoranze sessuali". Da giorni attivisti e Ong in difesa dei diritti umani, da Amnesty International a Human Rights Watch, denunciano i raid massicci delle autorità locali contro la comunità Lgbt del Paese. E domenica scorsa, il Consiglio d’Europa ha invitato il Paese a garantire i diritti della comunità Lgbt. Pestaggi e abusi verbali. Secondo le testimonianze raccolte dall’Ong Difensori dei diritti civili, "i detenuti sono stati vittima di pestaggi e abusi verbali e sono stati costretti a sottoporsi a esami medici, mentre le teste delle donne transessuali sono state rasate con la forza". "Molti - prosegue l’ong svedese - sono stati rilasciati solo dopo aver fornito gli indirizzi di altri membri della comunità Lgbt che sono stati a loro volta arrestati e sottoposti allo stesso trattamento". Testimonianze che ricordano le persecuzioni anti-gay in Cecenia denunciate dal giornale russo "Novaja Gazeta". Per il governo sono solo misure di ordine pubblico. Il governo azero continua ad assicurare che "le operazioni prendono di mira solo le violazioni dell’ordine pubblico". Nei giorni scorsi Ehsan Zahidov, un portavoce del ministero dell’Interno, aveva specificato che a essere arrestate erano state persone che avevano "dimostrato mancanza di rispetto per le persone intorno a loro, infastidendo i cittadini con i loro comportamenti" o "portatori di malattie infettive". "La gente si lamenta del fatto che queste persone camminino attorno a loro e siedano nei loro caffè dicendoci che non sono degne del nostro Paese", aveva detto intervistato da EurasiaNet.org. Una retorica condannata dall’ong Human Rights Watch che ha domandato che un’inchiesta indipendente e imparziale faccia luce sulle denunce di raid ingiustificati. Gli arresti nelle case. "Il Paese non è mai stato un posto sicuro per la comunità Lgbt. Puoi vederti rifiutare un lavoro, essere umiliato da familiari, vicini e compagni di classe. E la polizia non ti protegge", ha raccontato in un op-ed sul "Guardian" Samad Ismayilov, attivista Lgbt azero che lasciò il Paese tre anni fa e ora vive negli Stati Uniti. Ismayilov, che è anche direttore del primo magazine Lgbtq in Azerbaijan, ha avuto le prime informazioni sulle retate già il 15 settembre scorso. "Molti sono stati arrestati nei loro appartamenti. I detenuti hanno denunciato di essere stati malmenati e umiliati". L’omosessualità non è reato dal 2.000, eppure.... In Azerbaijan, Paese laico a maggioranza musulmana, l’omosessualità non è più un reato dal 2000, ma è tuttora considerato un tabù. Secondo l’indice 2016 di Iilga-Europe Rainbow che si basa sul numero di aggressioni omofobiche e di dichiarazioni discriminatorie da parte dei rappresentanti di governo, l’Azerbaijan è il peggior Paese nel continente europeo dove vivere per un gay. Nel 2014 un attivista Lgbt azero ventenne, Isa Shakhmarli, s’impiccò con una bandiera arcobaleno lasciando scritto: "Il mondo non è in grado di sopportare i miei colori".