Orlando invia al Garante dei detenuti i decreti attuativi della riforma penitenziaria di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 31 ottobre 2017 Le Commissioni hanno concluso il lavoro prima della scadenza prevista per il 31 dicembre. Siamo ad un passo dall’attuazione della riforma dell’ordinamento penitenziario. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha annunciato di aver trasmesso i decreti attuativi al Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma. Toccherà a quest’ultimo esaminarli e fare eventuali osservazioni, dopodiché i decreti passeranno al vaglio del Consiglio dei ministri per dare l’ok e trasmetterli alle commissioni Giustizia del Senato e della Camera dei deputati. Poi saranno loro a dare un ulteriore parere e ritrasmetterlo al Consiglio che non dovrà altro che dare l’approvazione definitiva. Una corsa, quindi, contro il tempo visto siamo quasi a fine legislatura e agli inizi di una campagna elettorale che farà leva soprattutto sul tema sicurezza. Le tre Commissioni, istituite il 20 luglio scorso dal Guardasigilli per redigere i decreti, hanno lavorato incessantemente e hanno finito prima del tempo previsto per il 31 dicembre. Importante è stata la pressione, su iniziativa del Partito Radicale, del Satyagraha. Parliamo dell’iniziativa violenta indetta il 16 agosto scorso e che sta vedendo protagonisti oltre 10.000 detenuti. Continua lo sciopero della fame - al 16esimo giorno - intrapreso da Rita Bernardini della presidenza del Partito radicale e da Deborah Cianfanelli, presidente del comitato Radicale per la Giustizia “Pietro Calamandrei” per sollecitare la fine dell’iter dei decreti. Quindi, se tutto andrà avanti senza intoppi, si attuerà una radicale modifica dell’ordinamento penitenziario. Il provvedimento definitivamente approvato il 14 giugno dalla Camera, e intitolato “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario”, contiene un’ampia delega al governo per la riforma dell’ordinamento penitenziario. Un primo obiettivo che traspare dalla lettura dei criteri direttivi è quello dell’ampliamento dell’ambito di operatività delle misure alternative alla detenzione, anche attraverso la semplificazione delle procedure di accesso. Ci sarà la semplificazione delle procedure, anche con la previsione del contraddittorio differito ed eventuale, per le decisioni di competenza del magistrato e del tribunale di sorveglianza, fatta eccezione per quelle relative alla revoca delle misure alternative alla detenzione; la revisione delle modalità e dei presupposti di accesso alle misure alternative, sia con riferimento ai presupposti soggettivi sia con riferimento ai limiti di pena, al fine di facilitare il ricorso alle stesse, salvo che per i casi di eccezionale gravità e pericolosità e in particolare per le condanne per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale; la revisione della disciplina concernente le procedure di accesso alle misure alternative, prevedendo che il limite di pena che impone la sospensione dell’ordine di esecuzione sia fissato in ogni caso a quattro anni e che il procedimento di sorveglianza garantisca il diritto alla presenza dell’interessato e la pubblicità dell’udienza; la previsione di una necessaria osservazione scientifica della personalità da condurre in libertà, stabilendone tempi, modalità e soggetti chiamati a intervenire; integrazione delle previsioni sugli interventi degli uffici dell’esecuzione penale esterna; previsione di misure per rendere più efficace il sistema dei controlli, anche mediante il coinvolgimento della polizia penitenziaria. Sempre nel senso di un utilizzo della pena detentiva come extrema ratio, si prevede il superamento degli automatismi che precludono o limitano l’accesso alle forme extra-murarie di esecuzione della pena detentiva a categorie di detenuti che si presumono pericolosi, anche in relazione ai casi dell’ergastolo ostativo. Un secondo obiettivo perseguito dal legislatore è una profonda riforma dell’esecuzione intramuraria della pena detentiva. A questo fine, il provvedimento contiene un lungo elenco di criteri relativi all’incremento delle opportunità di lavoro, alla valorizzazione del volontariato, al mantenimento delle relazioni familiari anche attraverso l’utilizzo di collegamenti via Skype, al riordino della medicina penitenziaria, al riconoscimento del diritto all’affettività, all’agevolazione dell’integrazione dei detenuti stranieri, alla tutela delle donne e, nello specifico, delle detenute madri, al rafforzamento della libertà di culto. Tra questi merita un’attenzione la previsione di attività di giustizia riparativa e delle relative procedure, quali momenti qualificanti del percorso di recupero sociale sia in ambito intramurario sia nell’esecuzione delle misure alternative. Una vera e propria rivoluzione dell’ordinamento penitenziario. Tutti punti che sono stati elaborati dalle commissioni e messi nero su bianco nei decreti che il garante nazionale dei detenuti Mauro Palma potrà visionare. La separazione delle carriere arriva in Parlamento di Beniamino Migliucci* Il Tempo, 31 ottobre 2017 Oggi la consegna delle firme raccolte dall’Unione Camere Penali per una riforma che la politica non può più ignorare. Oggi, alle 17 il Comitato promotore per la proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare per la separazione delle carriere dei magistrati, consegnerà alla Camera dei Deputati le firme, raccolte in tutta Italia, dall’Unione delle Camere Penali Italiane. La consegna sarà preceduta da un breve incontro in piazza di Montecitorio, con gli amici del Partito Radicale Transazionale Transpartito e della Fondazione Luigi Einaudi, che hanno collaborato all’iniziativa. In più occasioni l’Unione delle Camere Penali ha sottolineato come questa riforma sia ineludibile, per dare attuazione al giusto processo e all’aricolo. 111 della Costituzione che prevede la terzietà del giudice al fine di garantire l’imparzialità della decisione. La proposta prevede la modifica anche di altri articoli della Costituzione, perché l’articolo 111 è stato riformato solo ne11999 alfine di dare copertura costituzionale ai principi del giusto processo e del codice a tendenza accusatoria di matrice liberale, introdotto nel 1989. Temi di assoluto interesse, come la crisi dell’attuale sistema di governo autonomo della magistratura, vengono trattati nella proposta per evitare le evidenti disfunzioni di tale organismo che, nel tempo, non solo non è riuscito a porre rimedio ai più visibili squilibri, determinati da logiche correntizie, ma non ha potuto considerare la necessità che un giudice non venga mai valutato da un pubblico ministero, e viceversa, sia in ambito disciplinare che dei rispettivi avanzamenti di carriera. La disanima della proposta non può essere che sintetica ed affidata alla riflessione di tutti, l’importante era riportare al centro del dibattito politico un tema che era scomparso dall’agenda della politica, per timidezza e per timore di scontentare la magistratura. Va subito rilevato che la proposta non è stata immaginata contro qualcuno, e men che meno contro la magistratura, che deve coltivare al proprio interno anche l’autonomia di ogni magistrato da un altro magistrato. In merito abbiamo riscontrato finalmente un cambiamento di prospettiva anche nella magistratura che, pur contrastando la proposta, ha ammesso che il dibattito sull’argomento è ormai ineludibile anche per il numero di firme raccolte dagli avvocati penalisti. D’altro canto, il problema sollevato e di così grandi rilievo, se si pone mente al fatto che nel 2000 andarono a votare, per la separazione delle carriere, circa 13 milioni di persone che, con una percentuale che si avvicinava al 70%, avevano chiesto di modificare l’ordinamento giudiziario in tal senso. Si preferì poi accantonare l’argomento, ma ora crediamo davvero che sia arrivato il momento, nell’interesse del nostro paese, di esprimere una idea sul processo che si vuole in un paese liberale e democratico, finalmente prendendo atto che la riforma non riguarda la magistratura o l’avvocatura, ma tutti i cittadini. Le forze politiche hanno tutte l’occasione di inserire, nei propri programmi, il tema relativo alla terzietà del giudice, facendo sì che questo sforzo non rimanga nei cassetti di una politica timorosa, discutendo la riforma. A riguardo l’Unione ha raccolto già l’adesione trasversale di alcuni partiti, ma auspica che la volontà di dibattere appartenga a tutti. *Presidente dell’Unione delle Camere Penali Il j’accuse di Cassese contro procure e giornalisti di Giulia Merlo Il Dubbio, 31 ottobre 2017 "I pm cercano visibilità e agiscono come giustizieri", è l’accusa del professore e giudice emerito della Corte Costituzionale, Sabino Cassese. "Anche se corpo giudiziario è nel suo insieme di prim’ordine, al suo interno tutti si sentono prime donne, nessuno tollera rapporti cooperativi e l’individualismo predomina" chiarisce Cassese, che però ripartisce le colpe: non solo alla magistratura ma anche "all’opinione pubblica e a chi la forma, cioè i giornali". "L’ordine giudiziario dovrebbe interrogarsi di più sulla propria funzione e sui modi in cui viene svolta". Sabino Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale, ex ministro del governo Ciampi e già professore di diritto amministrativo in numerosi atenei italiani, analizza la situazione della giustizia in Italia, a partire dal rapporto tra politica e magistratura. Professore, viviamo in un tempo di conflitto tra politica e giustizia? Più che un conflitto continuo, mi pare che vi sia un ripetersi di tensioni. Ma occorre distinguere. Le tensioni sono provocate nella maggior parte dei casi dalle procure, quindi non dalla giustizia, ma dall’accusa. E sono aumentate dalla lentezza con la quale la giustizia segue. È purtroppo normale che le procure registrino tra gli indagati persone che, dopo 710 anni, riescono a veder riconosciuto che non hanno commesso il fatto. Il secondo motivo di tensione è costituito da decisioni giudiziarie che si espandono in opposizione ad amministrazioni pubbliche, negandone l’expertise. Il terzo è più generale e riguarda la tensione tra giustizia e società, a causa della lentezza della giusti- zia. Dunque, distinguiamo bene i diversi motivi, fattori ed elementi di tensione. Come spiega questo cortocircuito tra poteri dello Stato? In molti Paesi moderni c’è una espansione del sistema giudiziario. In Italia la peculiarità è data dalla circostanza che magistrati e accusa e giustizia fanno parte dello stesso ordine. Su questa base si è inserita una corsa dei magistrati - specialmente dei procuratori - verso la politica. Quindi, un loro desiderio di “farsi vedere”, agire come “giustizieri”. Tutto questo, avvalorato da una narrazione del Paese come una nazione corrotta, mafiosa, dominata dall’illegalità. Quindi, le responsabilità non sono solo del corpo giudiziario, ma anche di tutti noi. Bisogna distinguere bene. Innanzitutto il corpo giudiziario è nel suo insieme di prim’ordine, anche se al suo interno tutti si sentono prime donne, nessuno tollera rapporti cooperativi e l’individualismo predomina. Poi, vi sono gravi responsabilità dell’opinione pubblica e di chi la forma, principalmente dei giornali. Le faccio qualche esempio: perché non si cerca di sfatare questa idea che l’Italia è un Paese fondamentalmente corrotto? Perché non si cerca di analizzare bene quali sono i limiti geografici e di influenza della mafia? É ancora vera la storia del familismo amorale? Esiste, in questo conflitto, un rischio di crisi per il nostro sistema democratico? Non penso che ci siano motivi di preoccuparsi per una crisi sistemica. Penso che dobbiamo preoccuparci dei tempi, piuttosto che dei conflitti. I conflitti possono anche essere benefici, ma non possono protrarsi a lungo. Insomma, le tensioni troverebbero un alveo fisiologico se le indagini delle procure si chiudessero sollecitamente e la gente potesse contare, come in molti Paesi, sul fatto che un processo, in tutti i suoi gradi, si chiude in un anno. Come si può abbassare la tensione? Innanzitutto con tempi brevi. Poi, mettendo una separazione netta tra ordine giudiziario e corpo politico. L’ordine giudiziario ha finito per confondersi con la politica, e questo non è un bene. L’ordinamento giudiziario, al pari del sistema politico, sta vivendo un periodo di crisi. Da anni ormai si parla di necessità di riforma: lei condivide e, soprattutto, ritiene che la politica abbia la forza per metterla in atto? Penso che l’ordine giudiziario dovrebbe interrogarsi di più sulla propria funzione e sui modi in cui viene svolta. Poi, dovrebbe aprirsi all’esterno, ascoltare ed essere meno endogamico. L’esempio della Scuola della magistratura è interessante: persino lì ci sono le cordate dei magistrati, le scelte accurate dei docenti “vicini”, mentre quella potrebbe diventare la palestra per avviare un dialogo tra interno ed esterno dell’ordine giudiziario. Quali individua come priorità di riforma per il nostro ordinamento? Farei tacere le leggi, per qualche tempo e spingerei il Csm e il Ministero della giustizia a garantire tempi brevi per la giustizia. Un grande sforzo in tal senso ridarebbe all’ordine giudiziario quel prestigio che ha perduto, considerato anche che la magistratura è andata progressivamen-te scendendo nei sondaggi di opinione pubblica. Lei ritiene che sia necessario un cambiamento all’interno della magistratura? Si dibatte ancora oggi dell’annoso tema della separazione delle carriere. La separazione ha assunto un valore simbolico. Invece, come tale, rappresenterebbe nella sostanza solo un limite di carriera per gli appartenenti al corpo, perché non consente di passare dall’una all’altra funzione, guadagnando sedi più comode o vicine a casa. L’argomento contrario principale è quello della sottoposizione dell’accusa a direttive esterne, quindi non riguarda la separazione in sé, quanto quel che potrebbe seguire. Da giudice costituzionale, tra il 2005 e il 2014, è stato chiamato a pronunciarsi su temi che hanno infuocato l’opinione pubblica, a partire dalla costituzionalità del Porcellum. La appassiona il dibattito odierno in materia di legge elettorale? Non mi appassiona e mi preoccupa la durata delle soluzioni. Se non ci mettiamo d’accordo su una formula elettorale, finiremo per fare una legge prima di ogni elezione, cambiando le regole del gioco ogni volta che inizia il gioco. Per esempio, nessuno di quelli che ho interrogato è disposto ad affermare che la legge Rosato è stata fatta per durare. Lei è stato ministro per la Funzione Pubblica del governo Ciampi, come ricorda quel periodo storico così drammatico? La meraviglierò: ero così concentrato sul mio compito - assicurare qualche piccolo passo sulla strada di una amministrazione più funzionante - che le circostanze di quei giorni le ho vissute quasi da lontano, consigliando Ciampi quando necessario e facendo il mio dovere. La stessa pena per il giudice corrotto e per chi ha rubato una bottiglia di vino di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 31 ottobre 2017 Un noto avvocato, che ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro, grazie a vari sconti di pena ha concordato 4 anni in Appello. Quasi la stessa pena, 3 anni e 8 mesi, patteggiata in Tribunale per un reato da 8 euro. Il problema è quando la combinazione dell’algebra giudiziaria, del tutto aderente alle regole, stride al momento di tirare la riga e, come risultato, fa patteggiare 3 anni e 8 mesi a chi ha rubato al supermercato una bottiglia di vino da 8 euro, mentre chi ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro esce dalla Corte d’Appello condannato a poco più: e cioè a pena concordata di 4 anni, ridotta rispetto ai 6 anni e 10 mesi del primo grado, che grazie allo sconto del rito abbreviato aveva già ridimensionato i teorici 10 anni iniziali. Luigi Vassallo è l’avvocato cassazionista che, nelle vesti di giudice tributario di secondo grado, alla vigilia di Natale 2015 fu fermato in flagranza di reato a Milano mentre intascava i primi 5.000 dei 30.000 euro chiesti ai legali di una multinazionale per intervenire su una collega di primo grado e “aggiustare” un contenzioso da milioni di euro. Due “corruzioni in atti giudiziari” nel giudizio immediato, e una “corruzione” e una “induzione indebita” nel successivo giudizio ordinario, lo avevano indotto ad accordarsi con il Fisco per 140.00 euro e a scegliere il rito abbreviato, il cui automatico sconto di un terzo gli aveva abbassato la prima sentenza a 4 anni e 8 mesi, e la seconda a 2 anni e 2 mesi. Per un totale, cioè un cumulo materiale, di 6 anni e 10 mesi. Ora in Appello arriva - come contemplato dalla recente legge in cambio del risparmio di tempo e risorse in teoria legato alla rinuncia difensiva a far celebrare il dibattimento di secondo grado - un altro sconto di un terzo, e si aggiunge già alla limatura di pena dovuta alla “continuazione” tra le 4 imputazioni delle due sentenze di primo grado riunite in secondo grado. Alla vigilia dell’udienza, dunque, l’avvocato Fabio Giarda rinuncia ai motivi d’appello diversi dal trattamento sanzionatorio, a fronte del sì del pg Massimo Gaballo all’accordo su una pena di 4 anni, ratificato dalla II Corte d’Appello presieduta da Giuseppe Ondei. Undici mesi Vassallo li fece in custodia cautelare (fra carcere e domiciliari), sicché non appare irrealistico l’agognato tetto dei 3 anni di pena da eseguire, sotto i quali potrà chiedere di scontarla in affidamento ai servizi sociali senza ripassare dal carcere. In Tribunale, invece, da detenuto arriva e da detenuto va via (senza sospensione condizionale della pena e senza attenuanti generiche) un altro imputato che nello stesso momento patteggia 3 anni e 8 mesi - quasi la stessa pena del giudice tributario - per aver rubato da un supermercato una bottiglia di vino da 8 euro e mezzo: il fatto però che avesse dato una spinta al vigilantes privato che all’uscita gli si era parato davanti, minacciandolo confusamente (“non vedi i tuoi figli stasera”) e agitando un taglierino, ha determinato il passaggio dell’accusa da “furto” a “rapina impropria”, la cui pena-base è stata inasprita dai vari decreti-sicurezza, tanto più per chi come lui risulta “recidivo” a causa di due vecchi furti. Per ridurre i danni, il patteggiamento non scende a meno di 3 anni e 8 mesi. Quasi un anno di carcere per ogni 2 euro di vino. Cyber crime, si corre ai ripari di Roxy Tomasicchio Italia Oggi, 31 ottobre 2017 La sicurezza informatica sta vivendo i suoi anni più bui: il 2016 era stato definito “l’annus horribilis”, primato strappato al 2011, ora l’amaro testimone è passato al primo semestre 2017. Sono stati, infatti, 571 gli attacchi gravi di dominio pubblico, ossia quelli che hanno avuto un impatto significativo per vittime, danni economici, reputazione e diffusione di dati sensibili, al netto, quindi di moltissimi “incidenti minori”, che avrebbero inciso sulla omogeneità del confronto. Si registra così una crescita dell’8,35% rispetto al secondo semestre 2016, come riportato dal Rapporto Clusit (Associazione italiana per la sicurezza informatica), presentato a Verona nel corso di Security Summit. Ma è la reazione delle imprese a far ben sperare, oltre all’attenzione che i paesi sviluppati stanno dando al tema: durante il G7 Finance meeting è stata concordata l’adozione di un set di principi non vincolanti ai quale le giurisdizioni nazionali e le imprese del settore finanziario potranno ispirarsi per prevenire il fenomeno. Da una indagine di Idc sul mercato italiano, che ha coinvolto più di 100 imprese sopra i 50 addetti, appartenenti a diversi settori (dal manifatturiero ai servizi, dal commercio alla pubblica amministrazione, dalle utility fino ai trasporti e alle comunicazioni), emerge che per 7 aziende su 10 la sicurezza informatica va messa al primo posto. Questo vuol dire non solo garantire una elevata qualità dei servizi It, ma anche gestire le business application, sia in termini di innovazione sia di aggiornamento. Ma lo sforzo non sembra ancora essere sufficiente. Infatti, quanto sono disposte a investire le imprese? “Quello che possiamo dire è che nel 2016 stimiamo 972 milioni di euro di spesa in sicurezza informatica da parte delle imprese italiane, di cui solo il 26% da parte delle Pmi. Sono cifre bassissime, considerando la spesa globale in Ict in Italia, che mostrano un ritardo negli investimenti in questo campo”, spiega a ItaliaOggi Sette Gabriele Faggioli, responsabile scientifico dell’Osservatorio Information Security & Privacy del Politecnico di Milano e presidente del Clusit, aggiungendo che è difficile quantificare i costi per mettere in sicurezza i dati. “Sicuramente occorre investire in tecnologia, in formazione e servizi gestiti”, risponde Faggioli, “ma non si può pensare di essere al sicuro solo intervenendo sul piano tecnologico. Come diciamo da diverso tempo con l’Osservatorio Information Security & Privacy le nuove sfide impongono alle aziende un approccio di lungo periodo alla gestione della sicurezza e della privacy, con una chiara struttura di governo e con figure manageriali codificate per la gestione della sicurezza informatica”. Gli fa eco Andrea Zapparoli Manzoni, membro del Comitato direttivo Clusit e tra gli autori del Rapporto 2017: “Nel primo semestre 2017 la cyber insicurezza ha effettuato un “salto quantico” a livello globale, raggiungendo livelli in precedenza inimmaginabili. Questo a fronte di investimenti in Sicurezza Ict ancora del tutto insufficienti rispetto al valore del mercato di beni e servizi Ict, nonché alla percentuale di pil generato tramite l’applicazione dell’Ict da parte di organizzazioni pubbliche e private e dai privati cittadini”. Secondo Zapparoli Manzoni, quindi, è “necessario mettere a punto un nuovo modello di investimenti in cyber security, commisurandoli adeguatamente alle minacce attuali. Pena una crescente e significativa erosione dei benefici attesi dal processo oggi in atto di digitalizzazione della società”. A frenare le imprese c’è sempre la congiuntura economica, tanto che il controllo dei costi è una spia sempre accesa per circa il 60% delle imprese. Tuttavia, almeno nella testa degli It manager, la sicurezza non entra in conflitto con nessun’altra priorità del dipartimento di Information technology, anzi, è forse l’unica garanzia per consolidare qualsiasi altro progetto. Invece, confrontando la sicurezza informatica con le principali priorità di business emergono alcune differenze: in particolare lo sviluppo di nuovi prodotti e servizi (indicato dall’80,5% nel gruppo orientato alla Sicurezza It contro un 68,9% nel campione) e l’ingresso in nuovi mercati (78,5% contro 68,7%), mentre il rapporto si inverte quando la priorità è il cambiamento organizzativo (dove la sicurezza assume un peso inferiore rispetto al campione). A una interpretazione preliminare sarebbe possibile sostenere una qualche forma di associazione tra la Sicurezza It e gli obiettivi di innovazione delle imprese. “Sicurezza It e business sono in stretta correlazione”, conferma il presidente di Clusit. “Senza sicurezza qualunque business è destinato a fallire. Oggi quasi tutti i business sono pesantemente digitalizzati e quindi, per definizione, a rischio di attacco”. Sulla quantificazione dei danni, Faggioli conclude dicendo che: “alcuni studi dicono che in Italia i danni nel 2016 per attacchi informatici sono ammontati a circa 9 miliardi. Cioè 10 volte quanto si è speso. Che questi studi siano precisi o meno è irrilevante: quel che certo è evidente che i danni sono molto più alti degli investimenti. E sarà sempre peggio, perché il trend indica minacce crescenti, da cui è necessario difendersi”. Infine un cenno agli obiettivi e tecniche di attacco. Stando al rapporto, la crescita percentuale maggiore di attacchi gravi si osserva verso la categoria dei cosiddetti “Multiple Targets” (+253%), cioè quegli attacchi compiuti in parallelo dallo stesso attaccante contro numerose organizzazioni appartenenti a categorie differenti. Nello spazio minimo della cella di 3 mq non rientra anche l’area riservata ai letti di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 31 ottobre 2017 Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 30 ottobre 2017 n. 49793. Detenuti e condizioni carcerarie. La Cassazione ha affrontato la delicata questione e con la sentenza n. 49793/17 e ha accolto la richiesta del detenuto di essere stato recluso in una cella inferiore ai 3 metri quadrati, condizione questa espressamente vietata dall’articolo 3 della Cedu. La soglia dei 3 mq - Il conteggio il reo l’aveva fatto decurtando dai 3 mq minimi previsti, gli spazi legati alla presenza degli arredi fissi e del letto. A conti fatti, quindi, lo spazio vitale era ridotto a soli 2,42 mq. La Corte a tal proposito ha fornito due chiarimenti di fondamentale importanza in materia. È stato sottolineato come per spazio minimo individuale in cella debba essere intesa la superficie della camera detentiva fruibile dal singolo detenuto occupante la cella e idonea al movimento con conseguente necessità di detrarre dalla complessiva superficie non solo lo spazio destinato ai servizi igienici e quello occupato dagli arredi fissi ma anche quello occupato dal letto. La seconda importante puntualizzazione riguarda la grandezza oggettiva della cella in rapporto al tempo trascorso in strutture più ampie. Contano le condizioni igieniche e servizi forniti - Quindi nel caso di sussistenza di forte presunzione di trattamento degradante del detenuto, costituito dall’essere stato costui ristretto in stanza di detenzione in cui lo spazio per il suo movimento sia stato inferiore ai 3 mq, per il superamento di tale presunzione occorre considerare, unitamente, la brevità della permanenza in cella in tale condizione, l’esistenza di sufficiente libertà di circolazione fuori dalla cella, l’esistenza di adeguata offerta di attività da svolgersi fuori della cella, le buone condizioni complessive dell’istituto di detenzione, l’assenza di altri aspetti negativi del trattamento penitenziario quanto a condizioni igieniche e servizi forniti. Reformatio in peius, divieto anche con riferimento all’appello di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 31 ottobre 2017 Corte di cassazione, Sesta sezione penale sentenza 30 ottobre 2017 n. 49717. Nel caso in cui la sentenza d’appello sia stata annullata per ragioni diverse da quelle di tipo esclusivamente processuale, il divieto di reformatio in peius, che opera anche nel giudizio di rinvio, non va rapportato alla sentenza di primo grado, ma a quella annullata. È questo il principio di diritto affermato dalla sentenza n. 49717 della Sesta sezione penale della Cassazione, depositata ieri. La Corte ricorda innanzitutto il principio consolidato in base al quale il divieto di reformatio in peius trova applicazione anche al giudizio di rinvio. Con la puntualizzazione però che, se la sentenza di secondo grado è stata annullata per ragioni esclusivamente processuali, il parametro cui bisogna fare riferimento è costituito dalle decisioni contenute nella pronuncia del giudice di primo grado. In questa ipotesi infatti, sottolinea la Cassazione, non c’è stato il consolidamento di posizioni di carattere sostanziale in capo all’imputato e, pertanto, il divieto di peggioramento deve essere riferito a quanto deciso nell’ambito della sentenza di primo grado. Tuttavia nel caso esaminato dalla Cassazione, ci si trova davanti a una sequenza di atti che non è possibile contestare sul piano della forma: il vizio che ha condotto all’annullamento della pronuncia di appello infatti è di natura sostanziale visto che ha impedito la ricostruzione dell’iter attraverso il quale il giudice è arrivato alla decisione e dunque incide sulle ragioni della deliberazione stessa. È così accolto uno dei motivi di ricorso presentati dalla difesa di uno dei boss della ‘ndrangheta in Lombardia. Dovrà cioè scontare 12 anni e non 14, cioè quanto stabilito in sede di giudizio di secondo grado dalla Corte d’appello e non la pena decisa dal tribunale in primo grado. La Corte di cassazione, tra l’altro, in una delle prime applicazioni della riforma del processo penale dell’agosto scorso procede direttamente alla rideterminazione della pena sulla base del nuovo articolo 620 lettera l) del Codice di procedura penale. Infatti, avverta la Cassazione nel dettaglio, “il limite derivante dalla pur immotivata riduzione di pena disposta nei confronti dell’odierno ricorrente deve ritenersi operante, onde la disposta conferma non può che essere rapportata, per ciò che attiene al trattamento sanzionatorio, alla meno gravosa pena irrogata con la sentenza della Corte d’appello di Milano annullata con la ricordata pronuncia n. 34147 del 21 aprile 2015, in tale senso potendo procedere alla rideterminazione della pena questa Corte, ai sensi dell’articolo 620 lettera l) del codice di rito”. Antiriciclaggio: maxi multa al direttore di banca che non segnala le operazioni sospette di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 31 ottobre 2017 Corte di cassazione - Sezione II - Sentenza 30 ottobre 2017 n. 25735. Maxi-multa al direttore della filiale di banca che non segnala le operazioni “sospette” della società che emette assegni sistematicamente sotto la soglia di “allerta” dei 20mila euro. E non importa se il cliente era conosciuto, se il denaro era considerato di provenienza lecita perché frutto di aiuti di stato, né che il cassiere non avesse informato il direttore di un andamento anomalo delle operazioni. Deve, infatti, attirare l’ “attenzione” la movimentazione di grosse cifre, per importi frazionati che restino sempre sotto la soglia fissata dalla normativa antiriciclaggio. La Cassazione (sentenza 25735) conferma la sanzione amministrativa, poco meno di un miliardo di vecchie lire, per la mancata segnalazione prevista dal Dl antiriciclaggio (143/1991, articolo 3). Nel mirino dei giudici erano finiti i movimenti relativi ad un conto corrente intestato da una cooperativa ortofrutticola siciliana. L’emissione di numerosi assegni, inferiori ai 20 milioni di lire, con la dicitura “a me stesso”, avrebbe dovuto, secondo i giudici, allertare il ricorrente. Secondo la Corte la banca avrebbe dovuto informare le autorità competenti “in presenza di un comportamento evasivo così evidente e sistematico che denotava la conoscenza da parte del cliente della normativa in questione e la precisa finalità di evitare la segnalazione prevista”. Inutile per il direttore, ricordare che il cliente era conosciuto che non c’era motivo di sospettare che il denaro fosse frutto di riciclaggio (articolo 648-bis del Codice penale) o di provenienza illecita (articolo 648-ter del Codice penale) e che i movimenti erano in compatibili con il profilo del correntista. Non passa neppure la tesi della mancata comunicazione da parte degli addetti allo sportello. Secondo la difesa, infatti, il direttore dell’agenzia locale non rispondeva dell’operato dei cassieri e non poteva quindi essere considerato “colpevole”, non avendo ricevuto lui stesso alcun “avvertimento” da parte del responsabile operativo. La Cassazione sottolinea che il il potere di valutare le segnalazioni e, nel caso le ritenga fondate, di trasmetterle al questore spetta solo al “titolare dell’attività” e dunque all’organo direttivo della banca, mentre il “responsabile della dipendenza” deve segnalare al suo superiore ogni operazione che possa avere alla base proventi di reati attinenti al riciclaggio. I direttori della banca, oltre che una colpa per omesso controllo sui dipendenti - chiarisce la Cassazione - hanno anche una responsabilità diretta. Per questo, nel caso in cui sia stata omessa la segnalazione di spostamenti ingenti di somme di denaro, anche se le operazioni non sono particolarmente sospette, i vertici della filiale dovranno pagare la sanzione amministrativa in proprio e in solido con l’istituto di credito. La motivazione apparente della sentenza quale motivo di ricorso per Cassazione Il Sole 24 Ore, 31 ottobre 2017 Impugnazioni penali - Ricorso in Cassazione - Motivazione apparente - Riesame delle risultanze probatorie - Testimonianza assistita ex articolo 197-bis c.p.p.- Inammissibilità. La nozione di motivazione apparente e, dunque, inesistente è configurabile solo quando tale motivazione sia del tutto avulsa dalle risultanze processuali o si avvalga di argomentazioni di puro genere o di asserzioni apodittiche o di proposizioni prive di efficacia dimostrativa: si tratti di casi, quindi, in cui il ragionamento espresso dal giudicante a sostegno della propria decisione sia soltanto fittizio e perciò sostanzialmente inesistente. Pertanto, a fronte di un percorso argomentativo sufficientemente puntuale da parte del giudice di merito, il motivo di ricorso in cassazione teso alla denuncia di una motivazione apparente si risolve innegabilmente nella richiesta di una rivalutazione contenutistica del materiale probatorio raccolto nel giudizio a quo incompatibile con i limiti propri del sindacato sulla motivazione in sede di legittimità. • Corte di cassazione, sezione feriale, sentenza 9 settembre 2017 n. 40075. Impugnazioni penali - Ricorso per cassazione - Giudice di legittimità - Disposizione di legge sostanziale e processuale - inosservanza - Motivazione apparente - Linee argomentative del provvedimento. Il controllo affidato al giudice di legittimità è esteso, oltre che all’inosservanza di disposizioni di legge sostanziale e processuale, alla mancanza di motivazione, dovendo in tale vizio essere ricondotti tutti i casi nei quali la motivazione stessa risulti del tutto priva dei requisiti minimi di coerenza, completezza e di logicità, al punto da risultare meramente apparente o assolutamente inidonea a rendere comprensibile il filo logico seguito dal giudice di merito, ovvero quando le linee argomentative del provvedimento siano talmente scoordinate e carenti dei necessari passaggi logici da fare rimanere oscure le ragioni che hanno giustificato la decisione. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 23 maggio 2016 n. 21191. Misure cautelari - Reali - Sequestro penale - Impugnazioni - Ricorso per cassazione - Motivi di censura - Difetto di motivazione - Esclusione. In materia di misure cautelari reali, il ricorso per cassazione ex articolo 325 c.p.p. può essere proposto soltanto per “violazione di legge”, nella cui nozione rientrano la “mancanza assoluta” di motivazione o la presenza di una “motivazione meramente apparente”, in quanto correlate alla inosservanza di precise norme processuali, ma non rientra l’illogicità manifesta della motivazione, la quale può denunciarsi nel giudizio di legittimità soltanto tramite lo specifico e autonomo motivo di ricorso di cui alla lettera e) dell’articolo 606 c.p.p. A tal riguardo, dovendosi precisare che “motivazione assente” è quella che manca fisicamente o che è graficamente indecifrabile; mentre “motivazione apparente” è solo quella che non risponde ai requisiti minimi di esistenza, completezza e logicità del discorso argomentativo su cui è fondata la decisione, mancando di specifici momenti esplicativi anche in relazione alle critiche pertinenti dedotte dalle parti, come, per esempio, nel caso di utilizzo di timbri o moduli a stampa, o di ricorso a clausole di stile e, più in generale, quando la motivazione dissimuli la totale mancanza di un vero e proprio esame critico degli elementi di fatto e di diritto su cui si fonda la decisione, o sia priva dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi risulti inidonea a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 2 novembre 2015 n. 44012. Misure cautelari - Personali - Impugnazioni - Cassazione - Motivi - Ricorso “ex” articolo 311 c.p.p. - Vizio di motivazione - Deducibilità - Limiti. La motivazione del provvedimento che dispone una misura coercitiva è censurabile in sede di legittimità solo quando sia priva dei requisiti minimi di coerenza, completezza e logicità al punto da risultare meramente apparente o assolutamente inidonea a rendere comprensibile il filo logico seguito dal giudice di merito o talmente priva di coordinazione e carente dei necessari passaggi logici da far risultare incomprensibili le ragioni che hanno giustificato l’applicazione della misura. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 11 dicembre 2015 n. 49153. Impugnazioni - Cassazione - Motivi di ricorso - Mancanza della motivazione - Indicazione della sola fonte di prova - Motivazione apparente - Sussistenza. In tema di vizio della motivazione della sentenza, è ravvisabile una motivazione apparente allorché il provvedimento si limiti ad indicare le fonti di prova della colpevolezza dell’imputato, senza contenere la valutazione critica ed argomentata compiuta dal giudice in merito agli elementi probatori acquisiti al processo. Corte di cassazione, sezione III, sentenza 14 dicembre 2015 n. 49168. Piemonte: troppo pochi i soldi per i pasti dei detenuti, il Tar sospende la gara d’appalto di Massimiliano Peggio La Stampa, 31 ottobre 2017 Tre euro e 90 centesimi il budget per ogni carcerato per colazione, pranzo e cena. Troppi pochi i soldi per preparare i pasti ai detenuti. Il Tar del Piemonte ha sospeso la gara suddivisa in lotti indetta dal Ministero della Giustizia per la “fornitura di prodotti alimentari con quote minime obbligatorie” derivanti da processi di produzione a ridotto impatto ambientale (d.o.c., i.g.p., s.g.t., biologici), da destinare alla preparazione dei pasti per i detenuti degli istituti penitenziari del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, avendo ritenuto che la diaria giornaliera (tre euro e 90 a detenuto per tre pasti quotidiani) indicata a base d’asta “non fosse sufficiente a garantire una offerta di qualità, competitiva e remunerativa”. Puglia: il sovraffollamento delle carceri sfiora il 150 per cento Corriere del Mezzogiorno, 31 ottobre 2017 In Puglia nei dieci istituti di pena, a maggio 2017, l’affollamento sfiorava il 150% (detenuti previsti 2.284, presenti 3.342), mentre l’organico di polizia penitenziaria è all’86% (poliziotti previsti 2.448, presenti 2.118), con la situazione di affollamento più grave che si registra a Brindisi (164%). Lo ha riferito il segretario generale del Sindacato polizia penitenziaria (Spp), Aldo Di Giacomo - che ha cominciato dal 20 ottobre scorso lo sciopero della fame ed avviato un tour attraverso gli istituti penitenziari - oggi a Bari in una conferenza stampa all’ingresso del carcere Francesco Rucci. Secondo quanto riferito da Di Giacomo, gli stranieri detenuti negli istituti di pena pugliesi sono circa il 15% del totale, mentre nell’organico i sovrintendenti registrano la carenza maggiore con una copertura pari al 40% di quella prevista. “Ho deciso lo sciopero della fame - ha spiegato Di Giacomo - perché il carcere è lo specchio fedele dell’emergenza-sicurezza che coinvolge tutti gli italiani e perché nel nostro Paese, per responsabilità della politica, non c’è più alcuna distinzione tra vittima e carnefice. Proprio così: se nel carcere non c’è sicurezza con il personale quotidianamente a rischio di aggressioni, minacce e continuamente offeso, con la `legge dei detenuti´ che è più forte della legalità, al punto che evadere, come dimostrano i numerosi episodi di questa estate, è un gioco da ragazzi, figuriamoci se possiamo pretendere sicurezza nelle città e nelle case dei cittadini”. Il segretario del Sindacato polizia penitenziaria ha accusato il ministro Orlando, il governo e il Parlamento di fare “come le tre scimmiette: non vedono, non sentono e non parlano. Anzi - ha aggiunto - se parlano, si limitano a dichiarazioni formali miste ad annunci di programmi, progetti e provvedimenti puntualmente disattesi e rinviati, sottovalutando i problemi veri”. Di Giacomo ha quindi ricordato che in tutto il Paese sono state raccolte due milioni di firme “a sostegno di una proposta di legge di iniziativa popolare sulla legittima difesa, da due anni affossata in Parlamento”. Milano: mancano i giudici, i detenuti non possono lasciare il carcere affaritaliani.it, 31 ottobre 2017 Mancano i giudici della Sorveglianza a Milano e i detenuti che hanno diritto a misure alternative al carcere non possono uscire anche se ne avrebbero diritto. Nei giorni scorsi, il Presidente Giovanna Di Rosa ha dovuto sopprimere numerose udienze già in calendario. Per questo, la Camera di Penale di Milano scrive al Ministro Andrea Orlando chiedendogli di “adottare ogni intervento utile quantomeno a contenere la condizione di grave disagio e disservizio”. E dalla missiva si viene anche a sapere che nelle settimane scorse “il Presidente Di Rosa si è rivolta agli avvocati chiedendo di sostenere gli oneri assicurativi di volontari che potrebbero prestare la loro opera a supporto della cancelleria”. In sostanza, si chiede ai legali milanesi di occuparsi delle spese di assicurazione e di viaggio per i “volontari” della giustizia che già in altri Tribunali suppliscono al deficit di personale nelle cancellerie. Una richiesta, questa, “che sarà valutata ma che anche nell’ipotesi di un esito positivo non risulterà risolutiva del problema la cui dimensione nella sola Milano considerando due case di reclusione e una circondariale sta conducendo di nuovo a un livello di sovraffollamento analogo a quello precedente la nota sentenza Torreggiani (che portò la Corte europea a condannare l’Italia per la violazione dei diritti umani nelle celle troppo strette)”. Attualmente il saldo a Milano è di meno 4 magistrati ma arriverà presto a meno cinque quando il 2 novembre uno di quelli in servizio andrà in Corte d’Appello. Gli avvocati fanno presente al Guardasigilli, come già emerso sulla stampa nei giorni scorsi, che “migliaia di fascicoli giacenti precludono la fuoriuscita dal circuito inframurario di condannati ritenuti meritevoli di reinserimento nel tessuto sociale” e considerano che “il problema non è solo il Csm” che non rimpiazza chi se ne va “ma è più vasto e ha anche natura politica laddove si parla di carenza di risorse umane ed economiche, oltre che di poteri di indirizzo e concerto tra il Ministro, il Dipartimento dell’Organizzazione giudiziaria e il Consiglio Superiore”. Foggia: i detenuti riparano carrozzine per disabili, il progetto convince la Regione immediato.net, 31 ottobre 2017 La Puglia guarda con interesse al progetto, sperimentato a Foggia, che coinvolge i detenuti per la riparazione di carrozzine. Il “modello” di gestione è stato approvato dall’Asl e verrà assegnato attraverso una gara predisposta con l’Asl Bat. Secondo Marco Sbarra, presidente dell’impresa sociale “Innova”, l’azienda guidata da Vito Piazzolla avrebbe già risparmiato 240mila euro in un anno, cifra ricavata dalla differenza di costo a nuovo degli ausili tecnici riconsegnati e il costo del servizio alla società. “I numeri sono destinati ad aumentare - ha chiosato il responsabile del servizio -, Foggia resterà la sede principale di un servizio che è stato allargato alla sesta provincia. In un anno abbiamo ritirato 1451 ausili e ne abbiamo riconsegnati 1354”. “Le innovazioni si possono fare anche qui in Capitanata - ha chiosato Piazzolla -, non possiamo sentirci marginali. La Regione ha apprezzato la nostra sperimentazione dell’Atelier dell’ausilio. C’erano delle difficoltà burocratiche che abbiamo superato. Ora abbiamo un valore aggiunto, riusciremo a governare gli sprechi evitando di alimentare la filiera di prodotti che vanno smaltiti con costi altissimi. Sempre per la burocrazia, dovremo fare una gara nonostante ci sia un solo operatore. All’orizzonte, c’è il vantaggio enorme per le famiglie nel ritiro e nella consegna dei presidi. Ora, attraverso la legge regionale, bisognerà puntare con decisione sulla chiave di volta del comodato d’uso per snellire tutte le procedure”. Il processo produttivo del servizio, è imperniato su un sistema gestionale delle attività di presa in carico, recupero, ricondizionamento e riconsegna degli ausili, che consente di gestire tutte le fasi, dal ritiro dell’usato fino alla consegna del prodotto ricondizionato a domicilio dell’utente, secondo le indicazioni della Asl competente. L’idea è nata nel 2014, attraverso la sperimentazione di un modello di inclusione socio lavorativa di persone in esecuzione penale negli ambiti territoriali di Cerignola e dell’Appennino Dauno Settentrionale, attraverso la costituzione di una start up e lo sviluppo di una impresa sociale per il ritiro, la riparazione e il ricondizionamento di ausili protesici per persone non autosufficienti negli elenchi 1, 2 e 3 del D.M. 332/99. Il primo passo è stato l’adeguamento funzionale dei locali della Casa circondariale di Lucera per la realizzazione della “Bottega dell’Ausilio” al terzo piano dell’istituto, dove è stata realizzata la prima unità produttiva. La seconda, invece, è stata l’“Officina dell’Ausilio”, realizzata nella zona industriale di Cerignola. Quest’ultima si occupa delle operazioni di tutta la filiera di riutilizzo di attrezzature di supporto ai disabili. Dopo una fase di formazione d’aula ed una di formazione on the job, dal primo ottobre 2015 sono stati assunti 3 detenuti del carcere di Lucera e 4 persone in esecuzione penale esterna per l’officina di Cerignola. “Abbiamo dimostrato, ancora una volta, di essere all’avanguardia - ha commentato il presidente di Confcooperative, Giorgio Mercuri -. Tra i nostri iscritti ci sono molte realtà che fanno scuola in Puglia. La marginalità della provincia di Foggia, più volte citata, viene annullata quando si è promotori di attività innovative. Questo è un caso scuola - conclude -, con un progetto valido che passa da sperimentale a strutturale dell’Asl e, magari, dell’intera Regione”. Firenze: un ponte (a due sensi) per riportare Sollicciano al centro di Vincenzo Russo* e Massimo Lensi** Corriere Fiorentino, 31 ottobre 2017 Nei giorni scorsi, insieme al consigliere Tommaso Grassi abbiamo deciso di mettere per iscritto una lista di “urgenze” del carcere di Sollicciano su cui, a nostro parere, la città di Firenze e la sua amministrazione potrebbero e dovrebbero intervenire. Lo abbiamo volutamente intitolato “Un vero ponte per Sollicciano” per evidenziare la necessità di stabilire un ponte, percorribile con fiducia nei due sensi di marcia, per restituire dignità a chi nel carcere lavora o vi è ristretto, per risvegliare l’umanità pragmatica che ha sempre contraddistinto Firenze e i fiorentini. Da anni ci occupiamo di problemi legati al carcere e scriviamo appelli per sollecitare l’attenzione di istituzioni e cittadinanza. Ora però c’è un’occasione che la città non deve perdere: un Consiglio comunale di prossima convocazione si svolgerà all’interno del carcere di Sollicciano. Con questo documento intendiamo offrire a Giunta e Consiglio la possibilità di discutere con concretezza, affrontando i problemi veri del carcere fiorentino, allontanando il rischio di ridurre questa importante iniziativa del Consiglio a una passerella natalizia a uso e consumo dei professionisti della politica. Quando si parla di problemi carcerari, il rischio di dimenarsi a vuoto tra compassioni buoniste e ottusità securitarie è molto alto. Una città come Firenze può però ambire a far meglio, riappropriandosi di quella capacità di affrontare i problemi e tendere mani operose a chi è in difficoltà. E di difficoltà il carcere di Sollicciano ne ha talmente tante da divenire ostacoli insormontabili se la città lo espelle: da quelle di un’area educativa che deve fare un salto di qualità adeguandosi alla complessità dei percorsi di reinserimento sociale del detenuto, a quelle dell’area sanitaria, carente sotto molti aspetti. E poi ci sono i problemi legati al sovraffollamento, al caldo torrido e al freddo insopportabile, alle cucine, o le docce, che non funzionano, ai muri di cinta inagibili, ai passeggi in attesa di ristrutturazione, alle carenze di organico e alla annosa mancanza di una Direzione stabile. Questi problemi devono essere per noi la base di discussione del Consiglio comunale in carcere. Per modificare la situazione attuale, perché Sollicciano oggi è una discarica sociale abbandonata a sentimenti di vendetta sociale, o di ignavia, instillati e alimentati da chi di questi sentimenti e paure si serve per soffocare la parte migliore della polis, corrompendone il sentimento di giustizia e rendendola complice nel trasformare l’esecuzione della pena in tortura e scuola del crimine, a discapito, oltretutto, della sicurezza della città. Il carcere di Sollicciano deve tornare parte integrante della città, promuovendo il reintegro di chi ha espiato la pena e scongiurando il rischio che “smarrendo il senso di appartenenza al mondo che li circonda” - come ha ricordato al Corriere Fiorentino l’imam Hamdan Al-Zeqri, guida spirituale islamica nel carcere fiorentino - costoro siano invece irretiti da fondamentalismi di ogni sorta. *Cappellano di Sollicciano **Associazione radicale “Andrea Tamburi” Padova: il Sindaco Giordani chiede militari in strada con la stessa retorica di Bitonci di Giuseppe Mosconi* Il Mattino di Padova, 31 ottobre 2017 Quando in prima pagina del Mattino del 18 ottobre ho letto, a titoli di scatola “Città presidiata dai militari” ho pensato, prima di leggere il sottotitolo, che fosse un rigurgito polemico di qualche fedele bitonciano. Sono rimasto letteralmente basito e amareggiato quando mi sono reso conto che si trattava di parole del neosindaco Giordani: Camionette dell’esercito nei luoghi sensibili, contrasto della criminalità predatoria in crescita, rassicurazione delle paure dei cittadini, addirittura galoppanti, degrado urbano, aumento drastico e diffusivo della videosorveglianza in città, con un incredibile investimento di due milioni e mezzo di euro, intervento di sicurezza “integrata”, come coordinamento serrato tra i diversi settori delle forze dell’ordine. Ci sono davvero tutti gli ingredienti delle più viete retoriche sicuritarie: quelle di cui si è nutrito il successo elettorale del precedente sindaco, ma forse neppure da lui mai espresse in modo così organico e impositivo. Qui dunque il discorso si fa più pesante e inaccettabile, per almeno tre “aggravanti”. Non è dato sapere su che tipo di rilevazioni si basino affermazioni relative alla crescita della criminalità (è troppo noto che la crescita delle denunce non è un indicatore affidabile), e alla crescita della percezione di insicurezza; si tratta di materie complesse e delicate, che necessitano di verifiche e metodologie rigorose, sul piano della ricerca scientifica. In secondo luogo questi accenti bitonciani vengono ripresi e rafforzati da un’amministrazione che è stata eletta proprio per contrastare la povertà di quelle retoriche e dischiudere in città un clima diverso, di solidarietà, socialità e partecipazione, in senso opposto alle spinte militarizzanti in tema di sicurezza, così dimostrando orientamenti contrari, o comunque atti a rivelare insofferenza verso il carattere logoro e saturo di quella narrazione. Infine non ci vuole molto a capire che gli obbiettivi della nuova crociata sicuritaria, in base alle zone indicate, come giustamente ha denunciato l’avvocato Ficarra, in uno scambio di mail, sono sempre gli stessi: gli immigrati, per antonomasia irregolari, i mendicanti, i poveri, i senza fissa dimora, la cui presenza viene drammatizzata dall’ombra lunga del pericolo terrorista. Non può sfuggire la distorsione enfatizzante, sul piano simbolico, connessa alla retorica della militarizzazione. Non la semplice sorveglianza del territorio, ma l’uso delle armi in un clima di crescente allarme sociale, se non di guerra. È il tipo di intervento che rappresenta e materializza la gravità del problema, non viceversa. La comprensibile reazione da parte dei sindacati di polizia atta a denunciare la gravità di questa distorsione, a parte i necessari approfondimenti sul tipo di competenze ed interventi deputati alle forze dell’ordine, costituisce un indicatore pregnante della gravità delle questioni, anche costituzionali, in gioco. Immigrazione clandestina, criminalità sempre in crescita, paure sempre più elevate, operazioni di rastrellamento sicuritario in determinate zone, crescita degli arresti, ripresa (nota ed evidente) del processo di sovraffollamento delle carceri, necessità di controlli sempre più pressanti e capillari. Fino a quando dovremo nutrirci degli elementi distorsivi e opprimenti di questa rappresentazione? Non ci vuole molto a svegliarsi da questo brutto sogno. Basti considerare che la crescita dei processi di criminalizzazione e tassi di detenzione aumenta la recidiva, e quindi l’insicurezza oggettiva; che la fomentazione dell’allarme sociale, connessa alle rappresentazioni sicuritarie, disgrega il legame sociale, incrementando individualismi, pregiudizi, luoghi comuni, razzismi, isolamento, ritiro dalla scena sociale; che tutto ciò allontana da quella partecipazione e solidarietà che costituiscono il terreno naturale della sicurezza condivisa, aumentando marginalizzazione dei soggetti deboli e incremento delle aree di marginalità; proprio quelle che dovrebbero andare superate da un’adeguata rete di interventi sociali, nell’ambito delle note politiche di prevenzione sociale, di cui tanto si è discusso e si discute. È da chiedersi che bisogno abbia Giordani di correre sotto le ali del ministro Minniti, quando lo stesso, con i suoi decreti, ha provveduto i sindaci di ampi poteri di intervento in materia di sicurezza, pur in un quadro assai ambiguo, nutrito, insieme a indicazioni esplicitamente repressive, di richiami al legame sociale e di interventi preventivi sui terreni sociali delle situazioni criminogene. Che il nuovo sindaco si assuma le sue responsabilità, ma lo faccia nel rispetto del mandato e degli auspici prevalenti degli elettori. Non vorrei mai che i colori che il vicesindaco Lorenzoni (da cui ci aspettiamo una presa di posizione) ha auspicato per una nuova Padova, finissero col ridursi a confondersi con il miscuglio confusivo dei colori delle tute mimetiche. *Docente di Sociologia del diritto Livorno: sull’isola di Gorgona i vini Frescobaldi, in vigna lavorano i detenuti italiaatavola.net, 31 ottobre 2017 La convocazione di Lamberto Frescobaldi è di quelle che mettono curiosità e rassicurano chi, come chi scrive, affronterebbe con apprensione le venti miglia marine che separano l’Isola di Gorgona (Li) dal porto di Livorno. Esperienza per pochi quella rappresentata dalla degustazione delle prime cinque annate di “Gorgona”, il bianco nato dalla collaborazione tra Marchesi Frescobaldi e l’Istituto di Pena dell’Isola. Lamberto Frescobaldi ripercorre la genesi di questo progetto, nato raccogliendo un sos lanciato dal direttore della locale Colonia Penale. “Frescobaldi per il Sociale” prende forma nell’agosto 2012. Una minuscola vigna di vermentino ed ansonica abbisogna di cure, dunque perché non assecondare la possibilità di un’esperienza attiva nel campo della viticoltura da parte dei detenuti della Casa di reclusione (regolarmente assunti e stipendiati) con la supervisione degli agronomi e degli enologi di Frescobaldi? La prima vendemmia viene conclusa, altri partner si aggiungono in questa avventura (Argotractors destina un trattore Landini per le attività in vigna, Simonetta Doni dello Studio Doni & Associati crea l’etichetta, Giorgio Pinchiorri promuove il patrimonio enogastronomico dell’Isola con la cucina esclusiva dell’Enoteca Pinchiorri). È poi la volta di Andrea Bocelli che firma l’etichetta della vendemmia 2013. Data 2015 l’impianto di un nuovo ettaro di vigneto cui si affianca un ulteriore quarto di ettaro messo a dimora proprio quest’anno. I bicchieri raccontano di un bianco inafferrabile e cangiante, ora più maturo (2012), salino (2013), verdeggiante (2014), fruttato (2015), speziato (2016). Ogni annata sembra avere qualcosa di peculiare ed irripetibile, come se il vino, per una curiosa legge del contrappasso, rifiutasse di farsi imprigionare negli stereotipi convenzionali. Lamberto Frescobaldi dispensa aneddoti legati agli incontri di questi anni, mettendo in rima detenzione con redenzione e regalandoci un’ultima anteprima. Il debutto di “Gorgona” in rosso (650 bottiglie, frutto della raccolta 2015) che fonde sangiovese e vermentino nero mediante vinificazione in orci di terracotta. Sorso che spiazza, manco a dirlo, tra slanci di amarena e contrappunti affumicati. Che strano posto, dev’essere la Gorgona. Brescia: gli studenti a Canton Mombello, per capire come funziona un carcere Corriere della Sera, 31 ottobre 2017 Ad una prima occhiata, il carcere può sembrare il luogo meno adatto dove inserire dei ragazzi per i progetti di alternanza scuola-lavoro. E invece anche qui, tra le mura della casa circondariale di Canton Mombello, c’è spazio per imparare. “Sì - conferma la direttrice, Francesca Gioieni - gli studenti hanno capito cosa significa rispettare le regole nel mondo del lavoro, sottostare a un capo e risolvere diversi problemi di carattere amministrativo”. Già, perché è negli uffici del carcere che gli studenti hanno trascorso le loro giornate. Le attività amministrative non mancano. A Canton Mombello ogni detenuto possiede un conto corrente, sul quale vengono caricati i compensi delle attività lavorative che svolge, all’esterno o all’interno del carcere. Ci sono poi tutte le bollette di elettricità e gas dell’istituto che bisogna gestire; i fascicoli delle singole persone e pure degli agenti di polizia; le richieste dei carcerati, che vanno dal libro della biblioteca alle necessità di confronto con figure professionali. “Si impara anche osservando il lavoro degli altri” ricorda la direttrice, che nella casa circondariale di Canton Mombello gestisce oggi circa 350 detenuti. La complessità dei problemi di carattere amministrativo, organizzativo e umano è tale che il carcere diventa come una grande lezione: solo che tutto si svolge fuori da scuola. Ci sono le limitazioni imposte dalla legge, sulle quali non si transige. Bisogna rispettare la sicurezza degli agenti e dei detenuti senza eliminare il diritto del carcerato ad avere relazioni e spazi (dalla palestra alla biblioteca) dove muoversi. C’è una quotidianità fatta di carte bollate, fascicoli e moduli da riempire che sono essenziali alla “governance” di un istituto complesso: per gli studenti del Tartaglia e del Fortuny, osservare l’amministrazione quotidiana di Canton Mombello è stata un’esperienza di certo molto utile. Perugia: in carcere da 25 anni, diventa dottore in Legge con una tesi sul 41bis di Luca Fazzo Il Giornale, 31 ottobre 2017 Degli ultimi venticinque anni, ventitré li ha trascorsi al 41 bis, il regime di sorveglianza speciale riservato ai detenuti di alta pericolosità. Ci sono detenuti che dalla deprivazione costante vengono polverizzati. Lui, Franco Coco, sul 41 bis ci ha fatto la sua tesi di laurea. Il 20 ottobre è diventato dottore in Giurisprudenza, illustrando ai docenti - collegati con lui in videoconferenza dall’università di Perugia - la sua tesi in diritto penitenziario, tutta centrata sulle norme che da trentacinque anni sospendono una serie di diritti ai detenuti considerati una minaccia per la sicurezza dello Stato. Come lui. Quando venne arrestato, nell’agosto 1992, il “41 bis” era entrato in vigore da appena due mesi: e da allora Franco Coco se lo è visto applicare, di proroga in proroga, quasi senza interruzioni, tolta una beve distrazione del ministero. Era accusato, e le sentenze lo hanno confermato, di fare parte del triumvirato della ‘ndrangheta in Lombardia, che a partire dal 1990 aveva varato il piano di sterminio dei clan legati alla camorra: dopo che proprio lui, Coco, era stato vittima di un agguato, in cui erano rimasti invece uccisi due poveri passanti. Incastrato dalle indagini e dalle accuse dei pentiti, che lo indicavano come il più determinato nel decidere le esecuzioni dei rivali, è stato sommerso dagli ergastoli. Come uno nelle sue condizioni trovi la voglia di mettersi a studiare, di prendersi prima il diploma e poi la laurea, è un po’ un mistero dell’animo umano. É ben vero che il vecchio boss in questi anni ha avuto molto tempo libero, ma è altrettanto certo che per affrontare i ventiquattro esami che lo hanno portato a diventare il “dottor Coco” ha dovuto affrontare ostacoli che fanno sembrare inezie le sofferenze degli universitari qualunque. Basti pensare che il suo “contatto” con la facoltà erano i parenti, che può incontrare solo un’ora al mese: se saltava il colloquio, saltava anche l’iscrizione all’esame, il libro di testo non arrivava, la richiesta di dispense non partiva. Tutti i suoi esami, li ha sostenuti in videoconferenza: prima dal reparto “Alta Sicurezza” di Terni, poi da quello di Rebibbia, in cui ha anche discusso la tesi. E tutto sfidando la connessione che andava e veniva, i professori che un po’ capivano e un po’ no, e che pare che qualche volta abbiano tagliato corto l’esame davanti alle difficoltà del dialogo via monitor. Lui si è districato, costante e cocciuto, nei meandri del diritto privato e del codice canonico, della procedura penale e della filosofia del diritto. Chi glielo ha fatto fare? “Di sicuro non lo ha fatto per ingannare il tempo”, dice l’avvocato Marcello Perilli, che ogni tanto gli parla al telefono (ma per chiamarlo in carcere deve andare in un altro carcere: anche questo è previsto dalla massima sicurezza). “Credo - dice Perilli - che il vero obiettivo fosse capire meglio la situazione in cui si trova”, soprattutto per quell’articolo, “41bis”, che lo accompagna da ventitré anni, e di cui l’anno scorso ha chiesto alla Corte europea dei diritti dell’uomo di dichiarare la inumanità: soprattutto quando, come nel suo caso, viene applicato praticamente in eterno. Roma: “Camorriste” alla Festa del Cinema diventa scontro, giornaliste lasciano la sala La Repubblica, 31 ottobre 2017 La protesta delle croniste antimafia invitate al dibattito con Cristina Pinto, ex camorrista dissociata ma non pentita. Si è trasformato in uno scontro, stamattina alla Festa del Cinema di Roma, l’incontro fra una ex camorrista, dissociata ma non pentita, Cristina Pinto e alcune giornaliste antimafia, in occasione della presentazione in anteprima per “Alice nella città” della prima puntata della seconda stagione di “Camorriste”, al via su Crime + Investigation, la docu-serie su donne che sono state figure di spicco della camorra. Cristina Pinto, detta Nikita, era stata raccontata nella prima stagione: “Ho scontato già 20 anni di pena per i miei crimini, ora vivo facendo la pescatora” ha esordito, parlando a una platea di ragazzi. Non mi sono pentita (non è diventata collaboratrice di giustizia, ndr), mi sono dissociata per poter ricominciare la mia vita. Non ragiono con il senno di poi, è inutile chiedersi se oggi farei cose diverse, il pentimento per il passato e il debito da pagare sono personali”. Una posizione giudicata troppo ambigua e per questo contestata delle giornaliste invitate dal dibattito, di cui molte sotto scorta, per essere in prima fila contro la criminalità organizzata. “La vita non è fatta di grigio, ma di bianco e nero - ha detto Marilena Natale, detta anche Madre Coraggio, sotto scorta per i suoi servizi d’inchiesta sui clan camorristici. Non posso restare qui seduta ad ascoltare questa signora, tornerò quando avrà smesso di parlare” ha aggiunto uscendo dalla sala. Le colleghe Federica Angeli (sotto scorta dal 2013, per aver contribuito a scoperchiare la mafia ad Ostia), Ester Castano (che racconta le infiltrazioni mafiose nel nord Italia), Marilù Mastrogiovanni (autrice di articoli sulla Sacra Corona Unita) e Angela Corica che scrive di ‘ndrangheta, per protesta sono uscite con lei o si sono sedute in platea. “Posso capire che in loro la mia presenza possa suscitare qualcosa, mi dispiace siano uscite” ha commentato Cristina Pinto, che ha poi risposto alle domande dei ragazzi: “Io sto qua, ma sto tremando davanti a voi, non sono calma, non sto bene, parlare di camorra non è una cosa leggera”. Il modo per portare il peso del suo passato è “andare avanti portando la parola tra giovani, dicendo di non fare mai questa scelta”. Comunque per lei un collaboratore di giustizia è “un ‘fallò, fa un errore. Io poi sono stata accusata da cinque capi pentiti”. Federica Angeli è rimasta in sala ad ascoltare “perché è giusto che mi confronti con la realtà - ha detto a fine incontro rivolgendosi a Cristina Pinto -. La riesco a guardare negli occhi perché sono serena rispetto alla mia professionalità” ha detto tra gli applausi. “Camorriste” riparte dalla storia di Patrizia Franzese, che è stata moglie maltrattata, compagna di un boss e sua più stretta collaboratrice, fino a decidere di diventare collaboratrice di giustizia. “Noi sappiamo benissimo da che parte stiamo, quella di chi lotta contro il crimine - ha detto Sherin Salvetti, direttore generale di A+E Networks Italia -. Ringrazio tutte le donne che hanno avuto il coraggio di raccontare la loro storia. Lavoriamo con molta cura, tutti i fatti sono verificati. Sappiamo tutti cosa stiamo facendo”. Il teatro in carcere, l’evoluzione di un fenomeno di Vito Minoia* frontierenews.it, 31 ottobre 2017 Sono trascorsi 60 anni dalla nascita della prima Compagnia teatrale composta da detenuti, il San Quentin Drama Workshop dopo la memorabile rappresentazione dell’Aspettando Godot del San Francisco Actor’s Workshop realizzato il 19 novembre del 1957. Uno spettacolo prodotto espressamente per i 1400 prigionieri del carcere di massima sicurezza. “I detenuti apprezzarono la recita e sembrarono capire subito lo spirito che animava Godot” ricorda Rick Cluchey, allora detenuto nel carcere, poi graziato per meriti artistici e allievo dello stesso Beckett che lo riconobbe come proprio attore ideale (in seguito Cluckey è stato impegnato in progetti di formazione di nuovi operatori teatrali penitenziari in giro per il mondo). “I detenuti sono fisicamente e naturalmente in grado di identificarsi con il tema dell’attesa e l’assurdità di una vita spesa fra quattro mura, senza speranza o prospettiva futura”. Il prolungarsi nel tempo di esperienze teatrali nelle carceri in Europa ed America Latina, oltre che negli Stati Uniti, con la nascita di nuove compagnie teatrali penitenziarie, ha sviluppato un tessuto di esperienze diversificate fra loro; si è trattato di esperienze condotte da uomini e donne del teatro professionista che sono andati a lavorare nelle carceri e non solo. In particolare in Italia è nato un vero e proprio Coordinamento Nazionale del Teatro in Carcere che oggi riunisce 44 esperienze, attive in 14 Regioni differenti (teatrocarcere.it). Questi percorsi hanno consentito una progressiva creazione di metodi d’intervento, stili, linguaggi inediti. È nato così qualcosa di nuovo, di completamente originale: un tipo di teatro fondato sull’ascolto dei luoghi in cui opera, sulle biografie delle persone coinvolte, sulla reinvenzione continua dei linguaggi della scena secondo i limiti dati dalle strutture e dalle condizioni eccezionali di questa particolare forma di lavoro teatrale. Spesso i limiti sono diventati armi vincenti. Spesso abbiamo visto forme teatrali fortemente intrecciate fra sperimentazione e tradizione scenica. Un teatro che privilegia la scrittura scenica sia quando affronta testi o autori classici della cultura europea (da Don Chisciotte a Pinocchio, da Shakespeare a Genet) sia quando procede attraverso forme di auto-drammaturgia. È nato un teatro di scrittura scenica in forme fra loro differenziate: dalle case circondariali (dove si scontano pene brevi ed è più difficile garantire continuità all’esperienza) alle case di reclusione, dalle carceri femminili agli istituti minorili fino alle strutture psichiatrico giudiziarie (oggi Rems Residenze per le Misure di Sicurezza), si è cercato di coniugare l’utilità per i detenuti di queste esperienze laboratoriali e produttive con la creazione di un teatro di evidente valenza artistica e comunicativa. La “diversità” di queste esperienze rispetto al teatro istituzionalizzato non appare come una moda teatrale quanto come una condizione genetica che ci consente di delineare un ambito di lavoro teatrale ed educativo, una zona pratica della scena contemporanea, ricca di implicazioni sociali e civili. Si tratta di un lavoro artistico - fatto di metodi artigianali e laboratoriali - che è, inevitabilmente ricco di ricadute sociali: nella dinamica fra il “dentro” e il “fuori” del carcere nel senso di ospitare spettatori nelle strutture carcerarie in occasione delle repliche, di andare a rappresentare nei teatri ufficiali gli spettacoli prodotti in carcere ma anche - sia pure per una minoranza di ex-detenuti - di continuare a fare anche fuori dal carcere i mestieri del teatro (come attori e come tecnici). In questo senso il teatro in carcere getta un ponte fra il “dentro” e il “fuori” degli istituti di pena e si colloca, nella logica originaria del teatro pubblico europeo quando ipotizzava e praticava l’idea di un teatro d’arte al servizio delle comunità, un servizio pubblico da svolgere con autonomia e libertà creativa. Non a caso il teatro in carcere adotta abitualmente tecniche e riferimenti artistici che guardano alle avanguardie artistiche del Novecento esprimendo una creazione teatrale che - attraverso l’invenzione della regia - usa lo spazio, il movimento, l’improvvisazione, il gesto vocale e corporeo. Un teatro che va oltre la prosa e che utilizza linguaggi nei quali le culture e le lingue possono incrociarsi, creando nuove alchimie sceniche. Il teatro in carcere appare come un’esperienza teatrale, insieme, popolare e di elevata qualità artistica. Si tratta comunque di esperienze molto fragili e soggette a processi sociali e scelte culturali a rischio per mancanza di sostegni strutturali. I problemi sono i più vari: sovraffollamento del carcere; conseguente carenza di personale; orientamenti e decisioni che spingono verso il rischio di un ritorno ad un carcere non rieducativo ma prettamente esecutivo della pena; presenza di detenuti con evidenti problemi di povertà, difficoltà comunicative, spesso vittime di fenomeni migratori; presenza sempre maggiore di giovani che per piccoli reati (ad esempio detenzione o piccolo spaccio di stupefacenti) riempiono le galere e, purtroppo, spesso imparano il mestiere proprio in questo contesto. *Dottore di Ricerca in Pedagogia della Cognizione all’Università di Urbino Piazze, governi e manette: c’era una volta la democrazia di Piero Sansonetti Il Dubbio, 31 ottobre 2017 Sta finendo malissimo la vicenda catalana. Ciascuno può dare il giudizio che vuole su come si è svolta la battaglia dell’autonomia e sul braccio di ferro con Madrid. Può dividere le ragioni e i torti. Difendere o accusare l’arroganza messa in mostra da tutti i contendenti. Però che una battaglia politica, per quanto aspra e intricata come quella catalana, si risolva con l’incriminazione per reati gravissimi dei capi di una delle due parti in lotta (reati che possono portare all’arresto e alla condanna a decine di anni di carcere), è una cosa molto grave. Ed è molto inquietante che una enorme folla scenda in piazza non semplicemente per parteggiare per uno o per l’altro schieramento, ma per chiedere l’incarcerazione degli avversari. Non fa una gran figura Puigdemont a fuggire in Belgio. D’accordo. Ma non credo che faccia una figura migliore chi lo ho costretto all’esilio. Da quanto tempo, nell’ Europa occidentale, non si assisteva alla decisione di risolvere un problema politico con l’arresto degli avversari? Direi da una quarantina d’anni, da quando caddero gli ultimi regimi più o meno fascisti, in Portogallo, in Grecia e - appunto - in Spagna. Sentire che la Procura vuol fare arrestare il presidente della Catalogna, e mezzo governo, fa venire i brividi. Ho visto in televisione le immagini del corteo, gigantesco, degli unionisti di domenica scorsa a Barcellona. Sventolavano manette di metallo. E gridavano a gran voce uno slogan francamente orribile: “Arrestateli, arrestateli”. Intendevano, come al solito, incitare la magistratura a usare il suo potere. E a risolvere lei, con le maniere forti, le questioni che la politica fatica a risolvere. Noi qui in Italia abbiamo vissuto qualcosa di simile. Per esempio ai tempi di Tangentopoli. Anche allora un leader politico di prima grandezza, come Bettino Craxi, fu costretto a riparare all’estero per evitare di essere imprigionato. E tuttavia non si arrivò mai al punto estremo di concepire verso un avversario politico l’idea di farlo arrestare con una accusa assolutamente ed esclusivamente politica come è l’accusa di sedizione. Il problema non è solo spagnolo. Certo, in Spagna si è toccato il culmine di una idea culturale che considera le manette e la prigione come attrezzi essenziali della lotta politica. Però il germe di questa cultura, ormai, è ovunque. In Francia meno di un anno fa è stato liquidato il candidato socialista all’Eliseo con una operazione giudiziaria. In Italia si è agito tante volte in questo modo, facendo cadere governi, giunte regionali, Comuni, e arrivando a cacciare dal parlamento il capo del centrodestra. Negli Stati Uniti abbiamo assistito a una scena analoga: i democratici, inaspettatamente battuti alle elezioni da un imprevisto Donald Trump, hanno messo a punto la strategia di risposta pensando a una cosa sola: l’impeachment. Cioè la caduta per vie giudiziarie del nemico. Per ora non ci sono riusciti, ma l’amministrazione Usa è stata martoriata dalle dimissioni originate dalle inchieste della magistratura. E nelle ultime ore la posizione del Presidente si è complicata. Del resto quella dei democratici non è una idea nuova. I loro avversari repubblicani, una ventina d’anni fa, fecero esattamente la stessa cosa dopo essere stati sconfitti da Clinton alle elezioni. Provarono a farlo cadere con una inchiesta sessuale del gran giurì. E, a proposito di sesso, pare che anche il governo di Teresa May stia rischiando parecchio per questa ragione. Finché non prenderà la parola una intellettualità liberale, capace di denunciare l’ideologia giustizialista, non c’è nessuna speranza che questa deriva si fermi. L’ideologia giustizialista è una cosa molto seria, perché inverte i valori e i metodi dello stato di diritto. Assume la legalità come valore astratto e assoluto, superiore a qualunque altro valore, e in questo modo sottomette l’idea stessa di democrazia, degradandola a variabile dipendente della legalità. La democrazia non può vivere se diventa subalterna ad altri valori e ad altri interessi. La democrazia vive e cresce solo se è assoluta, se non è condizionata da niente. Però la democrazia ha bisogno degli intellettuali, dei giornalisti, dei professionisti, non solo dei politici, e quando invece questi intellettuali si sostituiscono ai politici - non per spronarli, per aiutarli a pensare, a guardare al futuro - ma solo per sventolare le manette e chiedere il pugno duro, non siamo alla vigilia di una nuova stagione democratica: siamo di fronte al rischio evidente della tentazione totalitaria. “Liberi dalle atomiche”: il Papa e l’assenza colpevole dei governi di Lisa Clark* e Francesco Vignarca** Il Manifesto, 31 ottobre 2017 Il 2017 sarà ricordato come l’anno in cui si è concretizzato il percorso per la messa al bando delle armi nucleari? Forse. Grazie a due avvenimenti di respiro internazionale entrambi ottenuti su spinta determinante della società civile. Cioè il raggiungimento di un Trattato di messa al bando e il Premio Nobel per la Pace assegnato alla campagna Ican il tema del disarmo nucleare è divenuto ormai centrale nel palcoscenico politico globale. Ma mentre la politica italiana si accapiglia su questioni di corto respiro e il nostro Paese si accoda alla visione ormai superata di un disarmo raggiungibile solo “a piccoli passi” (nel momento stesso in cui Trump non solo ammoderna, ma intende aumentare gli arsenali nucleari statunitensi) è il Vaticano che ha deciso di assumere un ruolo di leadership in questo ambito. Cercando di ricomporre le situazioni critiche di conflitto (pur se non risultano confermati voci giornalistiche di “vertici” a Roma…) e facendo ripartire anche al livello delle diplomazie internazionali i passi verso un disarmo nucleare ormai non più rimandabile, pena arrivare davvero alla distruzione dell’umanità a causa delle oltre 15.000 testate ancora presenti nel mondo. “L’umanità rischia il suicidio”: sono questi i termini chiari utilizzati da Papa Francesco, riferendosi alla minaccia delle armi nucleari, riportati da chi ha assistito alla sua visita di ieri presso gli uffici Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale. È proprio questa la struttura vaticana che, da qualche mese, si sta impegnando nell’organizzazione di un Convegno internazionale di alto livello previsto a Roma a metà novembre, con un tempismo fortunato e forse insperato. Un momento di riflessione ed analisi sui grandi risultati raggiunti nel 2017 e su tutto il percorso di “Iniziativa Umanitaria” che ha portato all’adozione del Trattato sulla Proibizione delle Armi Nucleari il 7 luglio scorso a New York. Un percorso pienamente caratterizzato dal protagonismo della società civile, che ha fortemente voluto riportare anche il consesso dell’Onu agli obiettivi delle sue origini: i popoli che si uniscono per costruire un mondo in pace, promuovendo il disarmo. Aspetti ben presenti nell’impianto della conferenza “Prospettive per un mondo libero dalle armi nucleari e per un disarmo integrale” con ruoli di primo piano per esponenti della società civile come in particolare gli Hibakusha, i sopravvissuti ai bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, che da decenni offrono la propria testimonianza per far sì che nessun altro debba mai subire ciò che loro hanno sopportato. O il Comitato Internazionale della Croce Rossa, che si è fatto da subito portavoce, insieme a un’altra organizzazione Premio Nobel per la Pace la IppNw (Internazionale dei Medici per la Prevenzione della Guerra Nucleare), di questa Iniziativa per poi radunare associazioni e movimenti e convincendo un numero sempre crescente di Stati ad appoggiare il percorso. È stato inoltre invitato il Segretario generale Guterres ed è confermata la presenza della Sottosegretaria generale e Alta rappresentante Onu per le questioni di Disarmo, la giapponese Izumi Nakamitsu. Gli interventi di Beatrice Fihn e Susi Snyder, rispettivamente Direttrice e Presidente del Direttivo di Ican - la Campagna internazionale per la messa al bando delle armi nucleari, Premio Nobel per la Pace 2017 - sottolineeranno con l’esperienza di Ican come i grandi cambiamenti possano essere costruiti dal basso: quando grandi movimenti si impegnano per un obiettivo alto è possibile indirizzare le scelte degli Stati, facendo rispettare la volontà dei cittadini. Un ruolo cui ha dato un forte contributo anche la società civile italiana con Rete Italiana per il Disarmo e Senzatomica, la cui mostra sul tema del disarmo nucleare sarà ospitata in Vaticano negli stessi giorni del Convegno. Presente alla conferenza anche Jody Williams che vinse il Nobel per la Pace proprio 20 anni fa per un’azione di successo condotta con le stesse modalità di Ican: la Campagna per la Messa al Bando delle Mine anti-persona. Nel programma anche significativi dibattiti tra diplomatici di diversi Stati e rappresentanti della Nato, importanti in particolare per capire in che modo aprire un varco nell’opposizione dei membri dell’Alleanza Atlantica all’approvazione del Trattato. Sperando che questo serva anche a svegliare dal torpore il governo italiano, sollecitato in tal senso da 240 parlamentari che hanno deciso di sottoscrivere il “Pledge” di Ican, richiedendo azioni concrete verso la ratifica del Trattato. *Co-presidente dell’International Peace Bureau e Beati i Costruttori di Pace **Coordinatore della Rete Italiana per il Disarmo Ius soli, la svolta di Gentiloni: pronto a mettere la fiducia di Fabio Martini La Stampa, 31 ottobre 2017 Il piano: se ci sono le condizioni voteremo dopo la manovra. Nei mesi scorsi, non appena l’odissea dei marò si era placata, Paolo Gentiloni aveva insistito per organizzare in India una missione politica, che da ieri si è materializzata, segnando così il ritorno dell’Italia in questo grande Paese, dieci anni dopo la visita di Romano Prodi. Oggi il presidente del Consiglio incontrerà le autorità indiane, ma ieri il premier non ha perso i fili con l’Italia. In particolare si è informato sull’intervento di Matteo Renzi alla Conferenza Pd di Portici, sui toni usati verso il governo e sulle parole calibrate per “riesumare” un’alleanza elettorale con le forze a sinistra del Partito democratico. Dopo il trittico imposto da Matteo Renzi - otto fiducie-sfiducia a Visco-forfait dei ministri renziani in Cdm - Paolo Gentiloni si è ritrovato “spostato” dal suo stesso partito a giocare in prima persona una partita e a farlo su un campo che, di sua iniziativa, non avrebbe mai scelto: quello della competizione per la premiership. Certo, tutto è mediato da un argomentare indiretto, mai polemico. Nel suo intervento alla Conferenza di Portici, Gentiloni è stato attento a non recriminare sulla plateale dissociazione del Pd dalla scelta del Governatore Ignazio Visco, ma nelle proposte si è espresso con un lessico esplicito, inusuale per un personaggio prudente come lui. Ha detto che il Pd è un partito di sinistra e per vincere e diventare il perno possibile di un futuro governo, è ora di aprire sul fianco sinistro. Fino all’ Mdp di Bersani e D’Alema? Il capo del governo non l’ha detto così chiaramente, ma il senso dell’apertura è stato subito chiaro: sono io il “garante” di un’alleanza più larga. Alla luce di quel è accaduto nelle ore successive, è come se Gentiloni avesse dettato la linea e Renzi l’avesse sposata. Il leader del Pd infatti ha chiuso la Conferenza di Portici con una brusca apertura a sinistra. Certo, i tanti chiosatori del Renzi-pensiero si sono esercitati nella dietrologia - lo fa ora, per non farlo dopo la batosta siciliana - ma l’apertura è agli atti e ora il cerino torna nelle mani di Mdp. Renzi ha aggiunto un’altra suggestione: se il governo metterà la fiducia sullo Ius soli, i senatori del Pd la voteranno. In questo sposando il rilancio che il ministro dell’Interno Marco Minniti aveva fatto sempre a Portici due giorni fa, dicendo: “Lo Ius soli è una legge di principi e un grande partito di fronte a una legge di principi, si batte, decide e convince. L’unica cosa che un grande partito non fa è rinunciare e noi non rinunceremo”. E così, in una volta sola Renzi ha sposato - e provato ad assorbire - due candidati premier oramai in competizione, sia di tra loro che con lui. Ma nel sì alla fiducia sullo Ius soli, Gentiloni dall’India non ha fatto una grinza: “Se dopo il passaggio della legge di Stabilità al Senato, ci saranno le condizioni politiche, il governo è pronto a mettere la fiducia”. Una road map che a palazzo Chigi avevano programmato: a partire dal 23 novembre, il Senato si sarà quasi certamente liberato della legge di Stabilità e a quel punto, se le condizioni lo consentiranno, Gentiloni potrebbe mettere la fiducia sullo ius soli. E approvarlo. Perché quel testo è stato già approvato dalla Camera. Ma a fine novembre tutto potrebbe essere di nuovo cambiato: Renzi potrebbe aver cambiato idea sull’apertura a sinistra e quel punto potrebbe suggerire ad Alfano di fare il “lavoro sporco”, sbarrando la strada alla legge. Di mezzo ci sono le elezioni siciliane del 5 novembre, oramai elette a discrimine epocale tra “prima” e “dopo”. Un personaggio di frontiera come l’ex ministro del Pd Giuseppe Fioroni non condivide la linea del “golpe” per rovesciare Renzi: “A pochi mesi dalle elezioni sarebbe anche controproducente per il Pd. Serve un’alleanza più larga, ma non con quelli che fecero fallire l’Unione di Prodi: gli italiani se li ricordano”. Migranti. La “giungla” nel cuore di Bruxelles di Gabriele Annicchiarico Il Manifesto, 31 ottobre 2017 Ecco la piccola Calais, centinaia di migranti allo sbando vicino alle istituzioni dell’Ue. Sulla crisi umanitaria solo l’azione spontanea dei cittadini. Nella città di Bruxelles è in corso una piccola crisi umanitaria, arginata solo dall’azione spontanea di alcuni cittadini che si sono organizzati nel tentativo di dare assistenza ai migranti del parco Maximilien. “Offriamo tre pasti al giorno e da pochi mesi riusciamo a dare ospitalità” racconta Adriana, fra i fondatori della piattaforma cittadina. Siamo nel quartiere Nord della città, non lontano dalle Istituzioni europee, dove centinaia di migranti (sopra) vivono fra l’indifferenza dei passanti e gli abusi delle forze dell’ordine. Il parco Maximilien, nel cuore della capitale europea, è la piccola Calais del Belgio. In questo parco urbano alcune centinaia di migranti (sopra) vivono fra l’indifferenza dei passanti, a poca distanza dalle istitutzioni della Comunità europea. Una situazione che potrebbe essere anche peggiore se non fosse per l’attivismo di alcune decine di cittadini auto-organizzati per dare sostegno, cibo ed alloggio, ai tanti migranti che orbitano nel parco da almeno due anni. Siamo nel quartiere Nord della città, a ridosso del centro cittadino. Un intero quartiere, dal carattere sinistro, concepito come polo direzionale di una città nel pieno del boom del terziario e poi abbandonato a sé stesso. É qui che nel 2015, sulla spinta di una crisi umanitaria a cui la politica doveva imperativamente dare una risposta, viene attrezzato un campo d’accoglienza per i migranti in fuga dalla guerra. Quando il campo viene smantellato, la maggior parte dei migranti si muove verso Calais, in Francia, dove l’approdo per la Gran Bretagna (la destinazione finale di quasi tutti i migranti) sembra essere più facile. Ma quando nell’ottobre del 2016 la cosiddetta giungla di Calais viene smantellata dalle autorità francesi, in molti tornano alla casella di partenza. Il 2017 è l’anno del ripopolamento del parco Maximilien, nell’indifferenza collettiva e fra gli abusi (presunti) delle forze dell’ordine, che secondo la stampa locale, sarebbero state protagoniste di furti ed aggressioni nei confronti dei migranti del parco. Fra questi, sono in pochi a voler chiedere l’asilo politico poiché, un po’ come avviene per l’Italia, il Belgio è solo una tappa di transito verso la Gran Bretagna, dove in molti hanno parenti ed amici. Sono per la maggior parte sudanesi ed eritrei, anche se non mancano egiziani, afgani e siriani. Giovani (e molti i minorenni) che orbitano fra il parco Maximilien e l’adiacente stazione Nord, nell’attesa del giusto momento per salire in sordina su di un treno o di un bus per Londra. Una ricerca che puo durare mesi, ma anche anni. Il rischio è d’essere fermati e spediti in un centro d’identificazione, la porta per il rimpatrio, e mettere fine ad un viaggio che per molti dura oramai da molti anni. in questo contesto che opera la Piattaforma cittadina, un gruppo di cittadini auto-organizzati per dare assistenza in questa piccola Calais nel cuore della capitale europea. Il gruppo di volontari arriva nel parco intorno alle ore 20 per il pasto serale. I migranti si radunano alla spicciolata ed in pochi minuti possono diventare diverse centinaia, mentre i pasti vengono serviti ed i volontari raccolgono i nominativi per l’ospitalità nelle case private. Fra questi incontro Saddam, giovane sudanese di 26 anni. “Sono scappato da una guerra” mi racconta in inglese, “nella traversata del deserto ho perso un fratello ed una sorella; in Libia ci sono voluti due anni per riuscire ad imbarcarmi; le traversate sono gestite da una mafia, gli uomini sono armati e la benzina non basta; ti lasciano in mezzo al mare e tu devi solo sperare che ti vengano a salvare”. Saddam è passato da Lampedusa e poi in un centro d’accoglienza non lontano da Bari, prima di raggiungere Ventimiglia da dove è riuscito a svalicare in Francia. É stato a Calais prima che la giungla venisse smantellata ed ora spera di raggiungere l’Inghilterra. “Vorrei lavorare ed avere una vita normale” mi confessa con aria determinata, accennando un sorriso. “Offriamo tre pasti al giorno e da pochi mesi riusciamo a dare ospitalità” racconta Adriana, fra i fondatori della piattaforma cittadina. “Attraverso la rete riusciamo ad avere i contatti di quanti mettono a disposizione, giorno per giorno, dei posti letto nella propria abitazione, ma c’è chi si propone come semplice accompagnatore verso la casa d’accoglienza a volte anche solo per offrire una doccia calda”. L’iniziativa messa in piedi per dare ospitalità occasionale a donne e bambini è oggi una delle poche opportunità per i migranti per non dormire in strada. “Veniamo qui tutti i giorni dopo il lavoro e riusciamo ad ospitare fra le 200 e le 400 persone al giorno” precisa Adriana. Intorno alla mezza notte il lavoro dei volontari volge al termine ed anche Saddam ha trovato, almeno per oggi, un posto dove dormire. Fra poche settimane inizierà quello che a Bruxelles chiamano il “piano inverno”, una campagna sostenuta dalle istituzioni pubbliche che offre assistenza ed accoglienza (in strutture pubbliche) a chi vive in strada, ma solo per l’inverno. Il parco Maximilien inizierà lentamente (ma non del tutto) a svuotarsi in attesa della prossima stagione. Intanto, domani, volontari e migranti si troveranno di nuovo insieme nel tentativo di dare maggiore dignità non solo a chi fugge dalla guerra, ma forse e soprattutto a chi avrebbe il dovere (quanto meno morale) dell’accoglienza. Iran. Chi ha condannato a morte Djalali non può essere definito giudice di Guido Salvini* Il Dubbio, 31 ottobre 2017 Ci sono paesi da cui arrivano quasi solo notizie da cronaca nera. I giudici di Teheran, uso questo appellativo con un certo fastidio perché quello di giudice è anche il mio mestiere e non voglio certo considerare colleghi quelli iraniani, hanno decretato la condanna a morte per impiccagione di Ahmadreza Djalali. Djalali è un ricercatore che si occupa dei rapporti tra medicina e disastri ambientali. È accusato di spionaggio e collaborazione con governi nemici. Tra le sue “colpe” quella di aver partecipato ai lavori di un master cui erano presenti anche colleghi israeliani. Ma non c’è da stupirsi. Quella di spionaggio è l’accusa più frequente che il regime utilizza come pretesto per mostrare all’interno e all’esterno la sua arroganza e spaventare ogni genere di opposizione. Si trova detenuto nel famigerato carcere di Evin dove sono stati torturati e uccisi centinaia di oppositori al regime degli Ayatollah. Djalali ha condotto in carcere un lungo periodo di sciopero della fame anche perché per molto tempo non gli è stato nemmeno concesso di incontrare il suo avvocato difensore. A dispetto dei frettolosi accordi con gli Usa e con i paesi occidentali sul nucleare il governo dell’Iran resta un regime liberticida e pericoloso per la convivenza tra i popoli. Nei suoi atti fondamentali vi è tuttora proclamato l’obiettivo di distruggere Israele e farlo scomparire dalle carte geografiche, la persecuzione delle minoranze religiose e dei laici è quotidiana, allunga la sua influenza militare su buona parte della Siria, ormai ridotta a brandelli, espandendo così la sua presenza in Medio oriente sino ai confini di Israele. Non possiamo disinteressarci della sorte di Djalali anche perché egli ha solidi legami con l’Italia ed è stato per quattro anni ricercatore presso l’Università Orientale del Piemonte nel campo della medicina dei disastri e delle emergenze ed è molto stimato dai suoi colleghi che sono stati i primi a mobilitarsi per salvarlo. È stato arrestato più di un anno fa quando era tornato a Teheran proprio per partecipare ad un convegno medico. Il ministro degli Esteri Alfano ha assicurato che l’Italia si sta impegnando in favore del condannato. Speriamo che l’impegno non si limiti a qualche sterile protesta verbale. Compiacere l’Iran e altri paesi islamici dove i diritti dell’uomo sono costantemente violati è purtroppo un’abitudine, si bada sempre a non offendere la loro suscettibilità. Non dimentichiamo le antiche statue romane ricoperte durante la visita lo scorso anno del presidente iraniano Rouhani. Servirebbe invece qualche passo serio, convocare l’Ambasciatore iraniano in Italia per chiedere spiegazioni prospettandogli che può diventare persona non gradita e lasciare l’Italia. Sempre che, e il timore è giustificato, non si ritenga che qualche contratto internazionale sia più importante della salvaguardia della vita di un uomo. E questo sarebbe davvero una vergogna. Per firmare le petizioni in favore della salvezza di AhmadrezaDjalali e dare un contributo alle campagne in suo favore si può collegarsi al sito di Amnesty International e al sito change.org. *Magistrato Venezuela. Quando la repressione entra nelle case di Riccardo Noury Corriere della Sera, 31 ottobre 2017 Secondo un rapporto diffuso oggi da Amnesty International, negli ultimi mesi le forze di sicurezza venezuelane e gruppi armati civili legati al governo hanno fatto violentemente irruzione nelle abitazioni private per intimidire i residenti e dissuaderli dal prendere parte alle proteste. Le organizzazioni venezuelane hanno segnalato almeno 47 casi di raid illegali in 11 stati del Venezuela tra aprile e luglio 2017, proprio al culmine dell’ultima ondata di manifestazioni. I ricercatori di Amnesty International hanno visitato le abitazioni, e intervistato le vittime dei raid, in quattro stati venezuelani: Caracas, Miranda, Carabobo e Lara. La modalità è stata sempre la stessa: membri delle forze di sicurezza e civili armati appartenenti ai gruppi illegali legati al governo hanno fatto violentemente irruzione negli appartamenti senza esibire alcun mandato né fornire alcuna spiegazione circa la loro presenza. Le irruzioni sono state spesso accompagnate da minacce, da violenza fisica e verbale, dall’impiego di armature anti-sommossa e dal lancio di gas lacrimogeni. Le forze di sicurezza hanno sfondato le porte, frantumato finestre e, in alcuni casi, rubato oggetti dalle abitazioni. In un palazzo dello stato di Miranda le telecamere a circuito chiuso hanno ripreso gli uomini della sicurezza allontanarsi portando con sé pesanti sacchi, probabilmente pieni di oggetti rubati. I raid sono durati ore e, in alcuni casi, l’intera notte. Una volta all’interno delle case, gli uomini della sicurezza hanno chiesto informazioni sui “ragazzi che stanno prendendo parte alle proteste”. Molti giovani sono stati arrestati in questo modo. Molte vittime hanno riferito ad Amnesty International di temere nuovi raid in ogni momento e di avere problemi a dormire. A causa della cronica scarsità di materiali, in alcune abitazioni non è stato possibile riparare i danni causati dalle irruzioni e gli abitanti vivono ora in condizioni di estrema insicurezza senza la porta di casa. Dalle strade, la repressione è arrivata dunque nelle case, col risultato che in Venezuela nessun luogo è più sicuro.