Guida in stato d’ebbrezza: meglio mettere alla prova che incarcerare Il Mattino di Padova, 30 ottobre 2017 Dal 2010, grazie a una riforma del Codice della strada che prevede la possibilità, per la guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di stupefacenti, di beneficiare del lavoro di pubblica utilità quale sanzione sostitutiva della pena detentiva e pecuniaria, l’applicazione del lavoro di pubblica utilità comincia a diventare sempre più diffusa. “L’aspetto interessante”, dice Marco Bouchard, magistrato esperto in materia, “è che questa misura non ha colpito dei “candidati al carcere”, la tipologia delle persone che più spesso vanno in carcere, ma ha colpito la gente come noi, che un tempo era abituata a uscire dal ristorante il sabato sera magari con qualche bicchiere di troppo. Ma l’aspetto interessante è che proprio in questa tipologia di utenza è emersa la consapevolezza che anche le persone integrate mancano di qualcosa, nel doppio significato del termine della mancanza, cioè hanno mancato, hanno infranto la legge dopo magari un iniziale atteggiamento di grande banalizzazione dell’irregolarità commessa. Ecco: l’esperienza lavorativa ha fatto loro capire che in realtà non si trattava di una condotta del tutto banale. Ma c’è un secondo aspetto interessante, cioè che questa esperienza dei lavori di pubblica utilità ha fatto riflettere sul fatto che queste persone probabilmente mancavano di qualcosa. Perché,nella maggior parte dei casi chi ha svolto questa attività, soprattutto presso associazioni di volontariato, ha mantenuto la fidelizzazione con queste associazioni, cioè sono diventati poi successivamente, a pena espiata, dei volontari. Dal 2014 poi è stato messo a punto uno strumento in più per non ricorrere sempre al carcere: la sospensione del procedimento penale con la messa alla prova dell’imputato. Questo strumento permette di utilizzare diversi tipi di attività riparative anche per reati di una certa entità (con pena fino a 4 anni di reclusione). Il giudice, se ritiene di accogliere la richiesta, sospende il processo fino a massimo di due anni. Molte sono le attività proposte, da associazioni e cooperative, per far svolgere a queste persone condannate per reati del Codice della strada o “messe alla prova” i lavori di pubblica utilità, invece che mandarle in carcere, a scontare pene spesso inutili. L’esperienza che segue, ad opera di una giornalista volontaria, insegna alle persone a portare la propria testimonianza ma anche a crescere rispetto alla responsabilità dei propri comportamenti. Fogli bianchi per dare senso alle vite difficili Parlare di giustizia, dando voce alle persone e corpo alle loro storie. Per condividere riflessioni, difficoltà e percorsi complessi. Per offrire un servizio ai lettori, per permettere loro di ascoltare e comprendere le testimonianze di chi ha commesso reati, che non significa affatto giustificare: questo è il cuore dell’attività a cui giornalisti impegnati nelle carceri o nell’ambito più ampio e meno visibile delle “misure di comunità” come la messa alla prova e i lavori di pubblica utilità dedicano tempo, professionalità e anche fatica. Allargare i confini della conoscenza senza manipolare la realtà, senza distorcere o ampliare, tenendo un tono corretto e rispettoso di tutti: qui sta il compito di noi giornalisti, che sappiamo bene quanto sia fondante nella nostra professione l’impegno deontologico nei confronti delle “fonti” e dei lettori. E per quanti di noi hanno a cuore questo impegno - non importa se lo esercitano nella più importante testata nazionale o nel giornale di quartiere - la ricerca della verità dei fatti e dell’autenticità del cuore non è fatica da poco. Lo stesso concetto di “dar voce” necessita qualche precisazione: non si tratta di trascrivere pedestremente parole, di raccogliere sfoghi emotivi così come accade nei talk show che tanto influsso negativo hanno portato nel mondo della comunicazione. O meglio, quello può essere un primo tempo, ma subito dopo parte un lavoro di analisi critica, di discussione, di elaborazione. Con l’uso di un linguaggio che sia il più possibile allineato con quello che le persone realmente usano. Questo accade in tutti i seri gruppi di redazione nelle carceri, ma anche nel gruppo di redazione che settimanalmente conduco con le persone “messe alla prova”. Dove “dar voce” spesso significa mettere davanti a ciascuno un foglio bianco e chiedere un impegno di scrittura a chi normalmente scrive sms o tutt’al più messaggi su whatsapp. Una sfida a cui inizialmente le persone tentano di sottrarsi per quel sacro e sciagurato timore che la scuola spesso provoca nei confronti della pratica della scrittura. Umile e preziosa, la scrittura - se e dove ben stimolata - scava e lavora fino a trovare le ragioni più profonde dei nostri comportamenti. Scrive, appunto, un giovane immigrato di 22 anni: da bambino dovevo andare bene a scuola per dimostrare che un Macedone non è ignorante, non dovevo essere maleducato per evitare che la gente dicesse “Guarda quel figlio del Macedone!” e persino mentre portavo i sacchi dell’umido dovevo stare attento a non far sgocciolare per evitare che qualcuno potesse dire “Guarda il Macedone cosa fa!”. Dunque sono cresciuto con la paura che i miei sbagli potessero essere ricondotti alle mie origini, come se poi il peso degli errori non fosse già di per sé sufficiente. “Il Macedone”, ecco quando sbaglio non vengo mai chiamato per nome, mai! Leggendo i giornali oggi mi rendo conto di quanto mio padre avesse paura di quello che oggi sta succedendo. Leggere una nazionalità, invece di un nome, seguita da un fatto di cronaca negativo rende una nazione intera colpevole per l’errore di un singolo, con nome e cognome. Di quel bambino è rimasto il ricordo di quando siamo partiti verso un altro Paese, senza sapere nulla, aspettando solo di tornare indietro per vedere i nonni, gli amici ed avere la libertà di prima. Questo ragazzo era messo alla prova per un’esplosione di rabbia, per una rissa. Quando è arrivato da noi il mercoledì sera era ancora in guerra con il mondo e il suo inserimento nel gruppo per un lungo periodo è stato piuttosto complesso. Poi, dopo diversi mesi, è andato in una stanzetta per conto suo ed è tornato con il compito, con questo pezzetto scritto a mano, su foglio di carta riciclata. Proprio così come lo avete letto. A partire da lì, ha trovato ascolto e si è finalmente ritagliato uno spazio suo; in quella piccola stanza che - per un quarto d’ora - ha potuto avere “tutta per sé”. Ma non è facile, i tempi della consapevolezza sono lunghi e il lavoro di scavo faticoso. Molte sono le volte in cui dobbiamo constatare che le parole sono bloccate e la scrittura frenata, incarcerata dalle paure, si schianta contro il bianco del foglio e resta lì, timida, impaurita, forse inutile. Capita spesso e allora ti arrovelli perché intuisci un mondo nascosto, una sorgente che non riesce a fluire. Ma poi ti fermi anche tu e cedi a un rispetto profondo e autentico. Tutto questo credo sia la comunicazione dal mondo della giustizia incarnata e sofferta dalle persone. Non solo teoria, articoli e commi ma storie, contesti sociali, culture, debolezze, vizi, frustrazioni. A chi mi dice che - soprattutto in carcere - bisognerebbe “distrarre” le persone, parlare loro di temi come l’ecologia, la politica, l’attualità, vorrei rispondere che per tutto questo c’è già la televisione che ogni giorno porta nelle celle la vita di fuori, a volte amplificata e distorta, ma sempre ossessivamente presente. A noi credo spetti un compito nuovo, più faticoso ma più alto, oserei dire senza falsa modestia: quello di fermare per un po’ il flusso disordinato delle notizie e dei pensieri per chiedere alle persone: “Ma tu chi sei? Da quale storia arrivi? Di cosa hai paura? Cosa desideri? Qual è la tua zona d’ombra?”. Rispondere a queste domande e poi condividere con altre persone - siano esse lettori sconosciuti o studenti incontrati - significa contribuire alla comprensione del mondo e restituire senso e dignità anche alle vite più difficili. Per questo, con la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, insieme all’Ordine dei Giornalisti, continueremo a lavorare per far conoscere esperienze di informazione e comunicazione dal mondo della giustizia. Con serietà e rispetto, onorando il patto di fiducia con le “fonti” e i lettori. Carla Chiappini, giornalista e volontaria in carcere Più risorse all’esecuzione penale esterna di Marzia Paolucci Italia Oggi, 30 ottobre 2017 Orlando promette fondi. Il guardasigilli ha risposto a un’interrogazione alla Camera. Un potenziamento dell’organico del servizio sociale in forza all’esecuzione penale esterna e un sensibile aumento degli stanziamenti di bilancio per migliorare l’attività degli uffici. È questo quanto ha prospettato il 25 ottobre scorso dal ministro della giustizia Andrea Orlando intervenendo alla camera in sede di risposta all’interrogazione di 20 deputati avente come oggetto il potenziamento di personale in dotazione agli uffici dell’esecuzione penale da tre anni sotto la direzione e il coordinamento del dipartimento di giustizia minorile e di comunità. La normativa - Divenuti dal 2015 con decreto della presidenza del consiglio articolazioni territoriali del dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, questi uffici così modificati rientrano oggi nel complessivo percorso di riforma del ministero ancora in corso di attuazione. In particolare gli articoli 9 e 10 del decreto ministeriale del 17 novembre 2015, individuano rispettivamente gli uffici distrettuali di esecuzione penale esterna e gli uffici interdistrettuali di esecuzione penale esterna. Il loro principale campo di intervento è quello relativo all’esecuzione delle sanzioni penali non detentive e delle misure alternative alla detenzione a cui si è aggiunto l’ulteriore carico di lavoro derivante dall’istituto per la messa in prova degli adulti. L’interrogazione - Nell’interrogazione presentata alla camera la scorsa settimana il cofirmatario Walter Verini dei Ds ha chiesto al ministro Orlando “quali iniziative intenda adottare per verificare la reale necessità di incremento degli organici degli assistenti sociali degli uffici di esecuzione penale esterna per consentire un miglior funzionamento del sistema delle pene che si basi anche sulle misure alternative”. In premessa dell’interrogazione, una serie di punti imprescindibili: il mutato assetto organizzativo, l’esigenza di proporre un programma di potenziamento che consenta di gestire il flusso dei procedimenti molto aumentati dalla riforma del 1975 che oggi rivela un inadeguato impianto organizzativo per via della trasformazione del fenomeno e la necessaria azione di integrazione e potenziamento degli organici del personale della giustizia. Pronta la risposta del ministro Orlando intervenuto al question time della camera: “L’organica revisione dell’esecuzione della pena continua a rappresentare uno dei primari obiettivi dell’impegno di questi anni. A partire dalle riflessione innescata dalla crisi del modello tradizionale di repressione penale, si è inteso costituire un modello di esecuzione penale fondato su misure che siano limitative ma non privative della libertà personale e che si svolgano nel territorio riconoscendo come estrema ratio la detenzione inframuraria”. Orlando ha poi inquadrato l’istituto nel contesto normativo di riferimento riportando il dato di una delle misure di esecuzione esterna più diffuse: “Con la riforma che ha interessato l’apparato ministeriale, è stato istituito il dipartimento della giustizia minorile e di comunità a cui sono stati demandati la direzione e il coordinamento degli uffici di esecuzione penale esterna operanti sul territorio. Il processo di rafforzamento del dipartimento appare poi tanto più essenziale in vista della legge delega 103 del 2017 che intende tra l’altro valorizzare di più il sistema dell’esecuzione penale esterna. L’esame dei dati statistici della popolazione in esecuzione penale esterna mostra già a legislazione vigente una notevole crescita delle sanzioni di l’affidamento in comunità passate da 31.000 a 45.587 al 15 ottobre 2017”. Un trend di crescita che rappresenta un chiaro indice della “necessità di rafforzare le strutture degli uffici attraverso l’incremento degli organici attualmente previsti. “A tal fine”, ha concluso Orlando, “nell’ambito dell’istruttoria del disegno di legge di bilancio in corso, il ministero della giustizia ha proposto l’ampliamento degli organici degli uffici di servizio sociale preposti all’esecuzione penale esterna dei minori e degli adulti, con un sensibile aumento degli stanziamenti di bilancio, indispensabile per la piena realizzazione degli obiettivi di riforma”. Risarcimento per l’ingiusta detenzione, la perseveranza apre nuove vie alla Giustizia di Marcello Pesarini* Ristretti Orizzonti, 30 ottobre 2017 Giungono buone notizie dal Presidio del 25 ottobre 2017, in piazza Montecitorio, a Roma, davanti alla Camera dei deputati, per tornare a chiedere il risarcimento per ingiusta detenzione. Al sit-in, promosso dall’aquilano Giulio Petrilli, riconosciuto innocente dalla Cassazione dopo aver trascorso sei anni in carcere con l’accusa di partecipazione a banda armata, hanno partecipato, tra gli altri, la radicale Rita Bernardini, già firmataria di una Pdl sull’estensione del risarcimento alla ingiusta detenzione e candidata Garante dei detenuti in Abruzzo, il giornalista Piero Sansonetti, il giurista ed ex senatore Giovanni Russo Spena, la senatrice del Partito democratico Stefania Pezzopane, il segretario nazionale di Rifondazione comunista Maurizio Acerbo, il deputato di Articolo 1-Mdp Gianni Melilla, firmatario della Pdl n.2187 per la cancellazione degli articoli relativi alla condotta dolosa, che impedisce ogni anno il risarcimento il risarcimento in Italia di 6000 domande su 7000. Al presidio ha aderito, pur senza partecipare fisicamente, anche l’ex senatrice Francesca Scopelliti, compagna di Enzo Tortora, vittima di uno dei più clamorosi casi di malagiustizia. “In Italia”, si legge nel manifesto della mobilitazione, “può accadere che una persona sia detenuta ingiustamente per tanti anni e non venga mai risarcita!”. “La ex segretaria radicale Rita Bernardini ha preso l’impegno di fare una denuncia alla commissione diritti umani dell’Onu, la senatrice Pezzopane di scrivere una lettera al presidente della Repubblica Sergio Mattarella”, fa sapere Petrilli in una nota. Nel riportare le scarne notizie, il comitato intende mantenere l’informazione a tutti i firmatari/firmatarie degli appelli, a partire dal 2010, e ringraziare chi lo ha sostenuto e lo sostiene tutt’ora. Nessuna battaglia per la Giustizia è antitetica ad un’altra, ci sentiamo di riaffermare. La lunga, lenta ma efficace campagna per le pene alternative, per le misure alternative, per l’applicazione dell’articolo 27 della Costituzione, viaggiano assieme alla campagna per l’abolizione della clausola di condotta dolosa e con l’introduzione del reato di tortura. Informando tutti i firmatari e le firmatarie, li invitiamo a diffondere l’informazione. *Comitato per il diritto al risarcimento per l’ingiusta detenzione Il Paese della giustizia differenziata di Luigi Labruna La Repubblica, 30 ottobre 2017 Ma che ve ne fate dell’autonomia “differenziata” che otterrà l’Emilia. O di quella che sarà concessa a Lombardia e Veneto. Quel privilegio è reso possibile dalla Costituzione (articolo 116). Agli abitanti di Napoli, invece, è stata rifilata da qualche giorno, aummaumma, una ben più delicata e anomala “differenziata”. Riguarda addirittura la Giustizia. E con la Costituzione fa a pugni. Viola, infatti, il sacro principio, scritto pure sulle pareti dei tribunali, secondo cui “la legge è uguale per tutti” aggiungendovi l’exceptio: “tranne che per i residenti a Napoli”. Quando ho letto l’Ansa con la notizia non volevo crederci. Così ho chiesto al difensore degli indagati, avvocato Riccardo Ferone, di farmi avere copia del provvedimento. E ho verificato che davvero la motivazione con cui la gip di Firenze Paola Belsito ha disposto la custodia cautelare in carcere di tre cingalesi, “incensurati” ma “gravati da precedenti di polizia”, accusati di aver usato in quella città carte di credito e documenti falsi per “acquistare” telefonini e iPad, inizia così: “La misura degli arresti domiciliari non appare idonea a soddisfare le esigenze cautelari, considerato che i prevenuti sono residenti a Napoli, città ad alta densità criminale, nella quale il carattere saltuario dei controlli di Polizia non sarebbe idoneo ad evitare il concreto pericolo di evasione, considerata altresì l’elevata abilità degli indagati di celare la propria identità”. Dopo “la giustizia ridotta a ciondolo” appeso a un braccialetto elettronico in mancanza del quale i condannati ai domiciliari continuano a essere tenuti in carcere (ricordate?), ancora una volta si fa pagare incivilmente ad alcuni imputati (“residenti a Napoli”) carenze e disfunzioni proprie dello Stato e della Polizia. Spero solo che, così, la gip Belsito abbia voluto soccorrere il nostro povero questore inducendo i delinquenti nostrani a trasferirsi altrove. Ad esempio a Udine. Dove, dopo meno di due mesi di carcere, ha ottenuto i domiciliari un assassino conclamato, Francesco Mazzega reo di aver strangolato la fidanzata Nadia. Poi dicono! Povera giustizia, povera Italia (e povera Napoli). Procedimenti penali: al via una revisione a 360° della cooperazione giudiziaria di Eugenio Selvaggi Il Sole 24 Ore, 30 ottobre 2017 Con il decreto legislativo 3 ottobre 2017 n. 149 (pubblicato sulla “Gazzetta Ufficiale” n. 242 del 16 ottobre 2017) è stata completata la rivisitazione del libro XI del codice di procedura penale, dedicato ai rapporti con le autorità giurisdizionali straniere. Una revisione normativa della cooperazione giudiziaria internazionale - Si tratta di una complessiva revisione normativa della cooperazione giudiziaria internazionale da molti auspicata e finalmente portata a termine dal ministro Orlando che va raccordata con altri atti che hanno colmato il gap delle “inadempienze” italiane quanto agli impegni presi nell’Unione europea. Si tratta del decreto legislativo 52/2017 recante norme di attuazione della Convenzione di assistenza giudiziaria penale tra gli Stati membri dell’Unione europea (Bruxelles il 29 maggio 2000, cosiddetto Map); di quello (Dlgs 149/2017) che ha dato attuazione alla Direttiva Ue n. 41/2014 sull’ordine europeo di indagine penale (European Investigation Order-Eio); di quelli che hanno implementato una serie di decisioni quadro dell’Unione particolarmente rilevanti in tema di cooperazione giudiziaria (tra cui quello sulla prevenzione e risoluzione dei conflitti tra giurisdizioni, Dlgs 29/2016; quella sulle squadre investigative comuni, Dlgs 34/2016; quello sul blocco dei beni e di sequestro probatorio, Dlgs 357/2016). La necessità di un adeguamento e la legge delega - I provvedimenti che hanno modificato il libro XI del codice sono riconducibili alla legge delega n. 149 del 21 luglio 2016 che costituisce, appunto, il quadro normativo di riferimento per l’adeguamento della cooperazione giudiziaria internazionale alle nuove sfide poste dalla criminalità nonché per la puntuale attuazione di specifici atti di diritto comunitario; quella legge delega contiene anche la ratifica alla Convenzione Map. Un’analisi si trova in “Guida al Diritto”, Dossier n. 5 settembre-ottobre 2016. Il valore di questo plurimo e articolato intervento normativo trova conferma nel fatto che il nostro codice di procedura penale del 1988 (appunto il libro XI) prevedeva l’applicabilità prioritaria degli strumenti internazionali in materia (convenzioni, trattati, accordi) e, in via residuale e in mancanza, il ricorso alle norme codicistiche. Nel frattempo, tuttavia, sono state poste dalle Comunità europee prima e dall’Unione europea poi una serie di norme regolanti la materia (come la Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen del 1985, la Convenzione di mutua assistenza del 2000, la decisione quadro sul mandato d’arresto europeo) che hanno da una parte reso non agevole l’opera degli operatori giudiziari e, dall’altra parte, fornito un quadro non omogeneo. Il quadro che ne risulta dopo questo intervento legislativo a 360° è una struttura multilivello di cooperazione diversamente disegnata a seconda che la cooperazione sia con gli Stati membri dell’Unione, con Paesi aderenti a convenzioni internazionali di cui anche l’Italia sia parte e, infine, con Paesi Terzi, con i quali nessuna convenzione esista e la cooperazione si svolge ordinariamente sulla base della cortesia internazionale e a condizione di reciprocità. Il consistente incremento di volume della cooperazione internazionale, il crescere del numero dei Paesi coinvolti nella cooperazione, frutto della globalizzazione, della maggiore facilità di movimento delle persone e dei beni (compreso il denaro sporco) e il carattere della transnazionalità rinvenibile in numerosi fenomeni criminosi, specie quelli più pericolosi (terrorismo, criminalità organizzata, traffico di persone, pedopornografia e criminalità informatica in genere, droga) hanno imposto questa ri-organizzazione della cooperazione giudiziaria internazionale. Ri-organizzazione che, come è evidente, non richiede solamente la conoscenza delle nuove norme ma anche un radicale mutamento della cultura e delle abitudini degli operatori, adusi a concetti, nozioni e istituti riferiti a una cooperazione tradizionale. Cooperazione giudiziaria. Introdotto il principio cardine del mutuo riconoscimento di Eugenio Selvaggi Il Sole 24 ore, 30 ottobre 2017 L’opera di ammodernamento dell’apparato di intervento ha seguito alcune direttrici facilmente identificabili. 1. Innanzitutto quella dell’adeguamento di strumenti alle nuove forme di criminalità (come il cybercrime) o alle nuove forme di acquisizione delle prove (ad esempio la videoconferenza). 2. Poi quella del perseguimento di una maggiore efficacia dell’azione di giustizia non disgiunta però dal riconoscimento dei diritti fondamentali della persona, specie di quelli della difesa. 3. La terza direttrice è rappresentata dall’esigenza di imprimere una speditezza alla esecuzione della richiesta di assistenza (inclusa, tra l’altro, anche la materia dell’estradizione, dove viene in gioco la privazione della libertà personale). 4. Infine va evidenziata anche una direttrice meno importante: quella dell’adeguamento terminologico, di cui la sostituzione dell’espressione “ministro della giustizia” anziché quella di “ministro di grazia e giustizia” costituisce l’esempio più appariscente anche se meno significativo. La prima direttrice può essere definita “contenutistica”, la seconda può essere descritta come “finalistica e di garanzia”, la terza è la direttrice di “economia processuale”, l’ultima, infine, è quella “terminologica”. Insomma, l’aggiornamento lessicale accompagna una rivisitazione che conduce a una maggiore efficacia della cooperazione in termini di speditezza, a una piena effettività delle ragioni della cooperazione e a un rispetto dei diritti individuali nel quadro di una adeguatezza della cooperazione rispetto alle nuove forme della criminalità e al rinnovato modus operandi. La legge delega n. 149, poi, non ha pretermesso alcun aspetto della cooperazione: tutte le forme di cooperazione sono state prese in considerazione e per ciascuna di esse il legislatore ha indicato precise direttive e puntuali criteri. Vale, al riguardo, rammentare che l’eventuale discostamento rispetto a quei principi e criteri direttivi potrebbe integrare un’ipotesi di norma viziata per violazione mediata della costituzione (articolo 76 della Costituzione). Prevalgono diritto euro-unitario e mutuo riconoscimento - Un aspetto ulteriore va segnalato: il legislatore ha inteso introdurre nel corpo del codice il principio del mutuo riconoscimento vigente nel diritto dell’Unione. La scelta non è priva di conseguenze rilevanti in quanto detto principio diventa un principio cardine del sistema e non una regola puntuale di singoli atti europei applicabili. Proprio questo punto viene esaltato dalla modifica apportata all’articolo 696 del codice che, nel codice del 1988 fissava la disciplina dei rapporti con l’estero: si applicano le norme internazionali e, se queste mancano, quelle del codice. Il legislatore ha ora introdotto il principio della prevalenza del diritto dell’Unione europea, che viene ad aggiungersi a quelli degli strumenti internazionali e del diritto internazionale generalmente riconosciuto. Il riferimento al diritto chiamato (con espressione non felice lessicalmente) “euro-unitario” comporta infatti non solo che il diritto dell’Unione, appunto, prevale ma che esso prevale così come viene interpretato dalla Corte di giustizia Ue; questo vuol dire che il giudice interno appunto a quella giurisprudenza, oltre che al testo positivo, deve fare riferimento quando si trova ad applicare la disposizione rilevante (ad esempio, per individuare esattamente contenuti e ambiti di nozioni come “residente”, “ne bis in idem”, “giusto processo” ecc.). Insomma, il giudice nazionale diventa anche “giudice comune” cioè giudice europeo. Il principio del mutuo riconoscimento è stato positivizzato nell’articolo 696-bis: vuol dire che si tratta di un principio generale che può quindi prescindere dagli atti europei nei quali eventualmente sia richiamato; anche qui la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea diventa una bussola essenziale per l’interprete. Ed è significativo che l’introduzione del mutuo riconoscimento, cioè l’obbligo per il giudice nazionale di riconoscere ed eseguire la decisione di altro Stato membro trova un limite nel rispetto e nella tutela dei diritti fondamentali della persona (articolo 696-ter): il mutuo riconoscimento, quindi, si applica secondo le norme europee, la giurisprudenza specifica della Corte di giustizia e i principi desumibili dalla Carta dei diritti (oltre che dalla Cedu). Al riguardo è importante tenere presente quanto stabilito dall’articolo 696-quinquies: nel riconoscere e nell’eseguire la decisione dell’autorità estera, il giudice nazionale procede senza sindacarne il merito. Altra innovazione di rilievo è quella rappresentata dalla indicazione del principio di reciprocità quale condizione e limite della cooperazione giudiziaria in generale (articolo 696, comma 4). Non che tale principio fosse sconosciuto al nostro ordinamento: in materia estradizionale, ad esempio, è richiamato all’articolo 702e in materia di rogatorie all’articolo 723, comma 4; tuttavia non risultava posto in termini generali. Si tratta di novità perché, pur essendo più volte riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità (si veda, ad esempio, Cassazione, sezione VI, 1° luglio 2003 n. 36550 che ha affermato essere un principio che attiene alla dimensione politica degli Stati) in dottrina (Mantovani) è stato negato potesse essere criterio integrativo della legge interna (non essendo riconducibile alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute (articolo 10, comma 1, della Costituzione). Le modifiche relative alle disposizioni generali (che hanno aggiunto ben dieci articoli all’articolo 696) si concludono con la previsione dell’applicabilità del mutuo riconoscimento anche ai procedimenti per responsabilità degli enti, con la previsione di impugnazioni sulle decisioni di mutuo riconoscimento con i mezzi previsti dalla legge nazionale, con esclusione dei motivi di merito e con ammissione del ricorso per cassazione, limitatamente alla violazione di legge, avverso le sentenze e i provvedimenti de libertate e, infine, con una garanzia specifica a tutela dei terzi in buona fede (ad esempio nel mutuo riconoscimento di sequestri e confische). Sospeso l’ordine di carcerazione se la pena residua non supera il limite dei tre anni di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 30 ottobre 2017 Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 10 ottobre 2017 n. 46562. A norma dell’articolo 656, comma 10, del Cpp, il pubblico ministero che cura l’esecuzione delle pene detentive, è tenuto a sospendere l’esecuzione dell’ordine di carcerazione, trasmettendo gli atti al tribunale di sorveglianza, se la residua pena da espiare, determinata ai sensi dell’articolo 656, comma 4-bis, del Cpp, non supera i limiti indicati dal comma 5 dello stesso articolo. Lo dice la Cassazione con la sentenza n. 46562 del 10 ottobre scorso. A tal riguardo - proseguono i giudici penali della prima sezione - il pubblico ministero deve provvedere alla determinazione della pena da espiare computando le detrazioni previste dall’articolo 54 dell’ordinamento penitenziario e il periodo di custodia cautelare o di pena dichiarata fungibile, ed è tenuto alla sospensione se la pena così determinata non risulta superare il limite dei tre anni, ovvero quello di quattro anni nei casi previsti dall’articolo 47- ter, comma 1, dell’ordinamento penitenziario, o quello di sei anni nei casi di cui agli articoli 90 e 94 del Dpr n. 309 del 1990. In tema di limiti di pena residua rilevanti per far scattare l’obbligo di sospensione dell’ordine di carcerazione, la Corte prende espressamente le distanze dalla recente decisione della stessa Cassazione (sezione I, 31 maggio 2016, Fanini), laddove, adottandosi una interpretazione evolutiva del disposto dell’articolo 656, comma 5, del Cpp, e pur in assenza di alcun dato formale a supporto, si era sostenuto che, nel caso di richiesta di sospensione correlata a un’istanza di affidamento in prova, il limite di pena edittale dovesse considerarsi quello di quattro anni, e non già quello di tre, sul rilievo, appunto, dell’applicazione estensiva a tutti i casi di affidamento di cui all’articolo 47 dell’ordinamento penitenziario della specifica disciplina dettata nel comma 3 bis dello stesso articolo 47. Qui la Corte ricusa la possibilità di adottare in materia penale il canone dell’interpretazione evolutiva, perché in contrasto sia con il principio costituzionale della riserva di legge, sia con quello della separazione dei poteri. Confisca solo con prova contraria. L’inciso deve poter smontare la presunzione di Dario Ferrara Italia Oggi, 30 ottobre 2017 Una sentenza della Cassazione sulla prevenzione del rischio mafia. Confisca sì, ma solo con prova contraria. Sì alla misura di prevenzione sul capitale e il patrimonio dell’impresa a rischio mafia laddove si ricorre a presunzioni per individuare l’origine illecita dei beni: l’ablazione, tuttavia, è valida unicamente quando si consente al soggetto inciso dal provvedimento la prova contraria sulla provenienza legittima, che rende quella presunzione meramente relativa. E via libera alla misura soltanto nel caso in cui la sproporzione fra investimenti iniziali e redditi non risulta smentita da un’adeguata allegazione in senso opposto. È quanto emerge dalla sentenza 48610/17, pubblicata il 23 ottobre dalla sesta sezione penale della Cassazione. Compie “un’operazione non consentita” la Corte d’appello quando conferma la confisca di una delle compagini in odore di ‘ndrangheta senza eseguire alcuna valutazione sulla proporzione e l’origine lecita degli investimenti iniziali effettuati dal proposto per la misura, che risultano invece allegate in modo specifico e concreto dall’interessato. È vero: il ricorso a presunzioni sulla provenienza illecita viene riconosciuto come legittimo dalla Corte di Strasburgo e dalla stessa direttiva 2014/42/Ue. Ma è la prova contraria che rende il procedimento conforme alla Costituzione e alle norme sovranazionali. E non può trattarsi di una probatio diabolica: basta prospettare fatti e situazioni riscontrabili che consentono di ipotizzare in modo ragionevole la provenienza legittima dei beni in contestazione. Parola al giudice del rinvio. Sicilia: il Garante Fiandaca “carceri al collasso, troppi detenuti e pochi agenti” di Carlo Spadaro centonove.it, 30 ottobre 2017 Infrastrutture fatiscenti, personale senza un’adeguata formazione, sanità balbettante, assistenza psichiatrica inadeguata, denunce di abusi assenti per paura di ritorsioni. Sono solo alcune delle piaghe delle carceri siciliane, emerse dalla relazione di Giovanni Fiandaca, garante dei detenuti. Un ruolo rimasto vacante per tre anni ma a cui, dal prossimo novembre, il docente di giurisprudenza ha scelto di dedicarsi anima e corpo. La speranza di Fiandaca è che il prossimo presidente della Regione dimostri una maggiore sensibilità verso la questione. Il governo uscente, nella persona dell’ex assessore alla Famiglia, Gianluca Micciché, non ha mai risposto alle numerose richieste d’incontro. È evidente che la situazione delle carceri, alla politica interessi poco o nulla. La relazione è un punto di partenza che ha lasciato parecchie perplessità: secondo il comitato “Esistono i diritti” il documento si è rivelato insufficiente, “una barzelletta, una poesiola”, che ha tralasciato i veri problemi delle carceri. Molti dati infatti, ricalcherebbero quelli già forniti dal Ministero di Giustizia. Fiandaca, per sua stessa ammissione, nonostante avesse a disposizione un anno di tempo ed un budget di 100mila euro, non è riuscito a visitare tutte le strutture penitenziarie isolane. I 23 istituti penitenziari della Sicilia “ospitano” ben 6184 detenuti, circa il 10% della popolazione carceraria italiana. Quasi tutte presentano carenze sia logistiche che strutturali, più volte segnalate alle autorità istituzionali. Ad oggi però, non risulta alcuno stanziamento per gli interventi necessari a far cessare le varie emergenze. Ciascun detenuto gode in media di uno spazio minimo di 3 mq: siamo al limite. Uno spazio inferiore costituirebbe un trattamento inumano e degradante. Il personale di polizia penitenziaria è notevolmente inferiore rispetto a quanto richiesto dal numero dei reclusi. E le discrasie tra le piante organiche e il personale effettivamente operante sono ben lungi dall’essere risolte. Una situazione che rischia di diventare esplosiva: è stato dimostrato che l’eccessivo carico di lavoro ed il conseguente stress degli agenti sono alla base degli abusi sui detenuti. Fortissime carenze di personale si registrano anche sul fronte degli educatori penitenziari: i concorsi sono bloccati e anzi sono previste delle decurtazioni nelle case circondariali più grandi. Inutile parlare di mediatori culturali, fondamentali per interagire con i 1216 detenuti stranieri. L’assenza di queste figure è un veicolo per il proliferare del terrorismo islamico. Più della metà delle carceri siciliane non svolge alcuna attività formativa e ciò inficia l’obiettivo finale della detenzione: il recupero sociale e la riabilitazione del detenuto. L’istruzione scolastica sia di livello primario che secondario è ai minimi storici. La possibilità di ricevere un’istruzione universitaria non è contemplata: non è stato ancora indetto l’incontro con i rettori degli atenei dell’Isola per fissarne le linee guida. Infine il capitolo della sanità. I detenuti siciliani godono di un livello di assistenza sanitaria inferiore rispetto a quello dei normali cittadini. Non è un compito facile: la situazione detentiva del paziente, da un lato, accresce le aspettative di cura; dall’altro, richiede un’esperienza professionale per comprendere se il soggetto simuli o aggravi la sua condizione per ottenere un tornaconto. A tal proposito Fiandaca si auspica che vengano organizzati dei corsi sulla sanità penitenziaria, in modo che avvenga un passaggio di competenze tra medici esperti e nuovi arrivati. Un accorgimento necessario anche alla luce dell’aumento dei disturbi psichiatrici dovuti allo stato di detenzione che spesso sfociano nel suicidio. Nelle carceri siciliane, dall’inizio dell’anno, si sono verificati 2 suicidi, 21 tentativi di suicidio e 128 atti di autolesionismo. Di fronte a questi dati - sempre secondo la relazione del Garante - è assolutamente necessario ed urgente migliorare le condizioni di vita, le relazioni umane e la capacità di ascolto psicologico all’interno dei vari istituti di pena. Servirebbe inoltre una modifica delle previsioni iniziali delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) in Sicilia: oggi ne esistono soltanto due, a Caltagirone e a Naso, con 20 posti ciascuna. E non bastano. Salerno: muore a 36 anni in carcere, due medici rischiano il processo vocedinapoli.it, 30 ottobre 2017 “Alessandro poteva essere salvato”. Stava malissimo e dopo essere stato visitato dai medici anziché essere trasferito in ospedale è stato invitato a tornare nella sua cella. È morto dopo poche ore Alessandro Landi, detenuto 36enne presso il carcere di Fuorni a Salerno. Era la notte di Santo Stefano dello scorso anno. La vittima da giorni lamentava dolori al torace ma per i due medici finiti ora sotto accusa, era tutto nella norme. Adesso sono invece accusati di omicidio colposo perché “pur in presenza di una sintomatologia anche pregressa, quale dolore toracico intenso e persistente, e costrinzione mandibolare, indicativa di una possibile cardiopatia, omisero di disporre il ricovero del paziente in ospedale, rimandandolo, invece, in cella”. Toccherà al giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Salerno decidere il prossimo 8 novembre se mandare a processo i due medici, G.B. 33 anni di Battipaglia e N.C. 33 anni di Pagani. Il pm che ha formulato l’accusa parla di “condotte omissive” dei due professionisti che con un esame degli enzimi si sarebbero accorti di quello che stava accadendo. Dopo averlo visitato nonostante le sue condizioni i due medici rimandarono Landi in cella invece di farlo ricoverare in un ospedale dove sarebbe potuto essere salvato. L’uomo era stato arrestato nell’ambito del blitz Italo con 62 arresti per rapine e spaccio di droga tra Salerno e la piana del Sele. Ancona: detenuti per le manutenzioni della città, Prosperi (M5S) interroga il Comune anconatoday.it, 30 ottobre 2017 In Consiglio comunale sarà discussa l’interrogazione del consigliere del Movimento 5 Stelle Francesco Prosperi, tra coloro che avevano partecipato alla visita negli istituti penitenziari dorici. Detenuti ed ex detenuti delle carceri anconetane contribuiranno alla manutenzione della città per un primo passo verso il loro inserimento lavorativo nella società. È quanto stabiliva un protocollo di intesa firmato da un serie di attori politici e istituzionali presentato dal Comune di Ancona nel maggio del 2014. Ora però, alla luce della recente visita ispettiva nelle carceri anconetane da parte dei Radicali e 3 consiglieri comunali anconetani, è emerso come tra le criticità di Montacuto e Barcaglione ci sia proprio l’assenza di possibilità di inserimento socio-lavorativo per detenuti durante e al termine della loro pena. Ed è proprio su questo che oggi in consiglio comunale sarà discussa l’interrogazione del consigliere del Movimento 5 Stelle Francesco Prosperi, tra coloro che avevano partecipato alla visita negli istituti penitenziari dorici. “Nei giorni scorsi alcuni consiglieri comunali hanno avuto l’opportunità di effettuare una visita ispettiva presso le strutture carcerarie di Montacuto e Barcaglione - recita l’interrogazione al sindaco Valeria Mancinelli e l’assessore ai Servizi Sociali Emma Capogrossi - approfondendo alcuni aspetti con gli operatori, si é parlato anche dei progetti previsti dal protocollo d’intesa tra Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria a il comune. Con questa interrogazione urgente vorrei avere delle informazioni sui risultati di questi progetti, eventuali criticità riscontrate e se sono previste nuove iniziative simili”. Trento: al carcere di Spini di Gardolo agenti dimezzati e detenuti raddoppiati trentotoday.it, 30 ottobre 2017 In carcere 400 detenuti anziché 240, e 140 agenti di polizia penitenziaria anziché 350. Visita del segretario della Cgil trentina Franco Ianeselli e del segretario Cgil Fp Giampaolo Mastrogiuseppe al carcere di Spini, dove da anni gli agenti della Polizia Penitenziaria, attraverso i sindacati di categoria, lamentano una situazione di organico sottodimensionato, ed hanno più volte chiesto alla Provincia di prendersi in carico la gestione del carcere. “La struttura che fu inaugurata in pompa magna con la presenza del ministro Alfano, garantiva di introdurre nuove forme di miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita. Il carcere avrebbe dovuto contenere 240 detenuti e, per garantire un trattamento all’avanguardia, avrebbe dovuto occupare 350 agenti. Nel tempo le cose sono cambiate e il personale di polizia penitenziaria è stato ridotto a 140, mentre la popolazione dei detenuti è salita oltre le 400 unità. Sono circa 160 i detenuti che vengono impiegati, a rotazione, in attività lavorative e, nel complesso, abbiamo potuto apprezzare l’ottimo ruolo svolto dalle cooperative sociali che lavorano in struttura”. All’interno della struttura vi sono infatti laboratori lavorativi per i detenuti, che vanno dall’imbottigliamento dei detersivi alla birra, ma la carenza di organico non permette lo sviluppo di questo tipo di attività. “Con un ripristino dell’organico di polizia penitenziaria, si potrebbe investire con maggiore forza anche sull’attività lavorativa dei detenuti, in modo da farne avere un beneficio ai detenuti stessi e pure alle istituzioni e alla comunità” spiega Mastrogiuseppe. Bologna: “all’Ipm del Pratello risse fra detenuti”, l’allarme dei sindacati di Alessandro Cori La Repubblica, 30 ottobre 2017 Hanno cominciato in due, prima gli insulti durante il pasto in mensa, poi le botte. In un attimo la situazione è degenerata e anche gli altri detenuti, un gruppetto di tre o quattro minorenni, si sono uniti alla scazzottata, terminata solo grazie all’intervento degli agenti della Penitenziaria. La rissa è andata in scena giovedì sera all’Istituto minorile di via del Pratello e il risultato della “violenta colluttazione, con tanto di lancio di sedie”, come denuncia il sindacato Sinappe, è stato il ferimento di tre poliziotti che hanno riportato prognosi fino a cinque giorni. “Al Pratello c’è una carenza di personale atavica - attacca Gianluca Giliberti, segretario regionale del Sinappe - mancano almeno una decina di agenti e questo si riflette inevitabilmente sull’ordine e la serenità nell’istituto”. Il sindacato ha scritto ai vertici del centro di giustizia minorile e al direttore dell’Istituto, Alfonso Paggiarino, chiedendo il trasferimento dei detenuti responsabili della rissa in quanto “soggetti particolarmente esagitati e non avvezzi al rispetto delle regole penitenziarie”. A far scattare il parapiglia sarebbero stati un ragazzo albanese e un tunisino, ma prima che i poliziotti riuscissero a calmarli anche gli altri si sono messi in mezzo: oltre a pugni e calci, in mensa sono volati vassoi e sedie. Ad oggi sono 22 i ragazzi reclusi nella struttura, a fronte di una quarantina di agenti in servizio tra il centro di prima accoglienza (Cpa) e l’istituto penitenziario minorile (Ipm). “I detenuti svolgono tante attività rieducative per il reinserimento - continua Giliberti - e c’è bisogno di personale congruo per la vigilanza. Poi c’è il problema dei lavori di ristrutturazione, finalmente in conclusione, che hanno creato enormi disagi”. I rappresentanti del Sinappe giorni fa hanno incontrato il Garante dei detenuti del Comune, Antonio Ianniello, affrontando anche la situazione del Pratello. In una nota Ianniello conferma che “sarebbero auspicabili politiche di adeguamento dell’organico tanto della polizia Penitenziaria, con particolare riferimento all’annosa problematica del Cpa ove spesso vengono impiegate unità dell’Ipm sguarnendone il contingente, quanto delle aree educative e amministrative”. Barcellona Pozzo di Gotto (Me): due detenuti fuggono dal carcere, presi dopo un’ora di Manuela Modica La Repubblica, 30 ottobre 2017 Giovani extracomunitari, sono evasi dall’ex ospedale psichiatrico scavalcando il mura di cinta: rintracciati in serata. È il secondo caso nel giro di pochi giorni dopo quello di Favignana. L’allarme del sindacato di polizia. Sono fuggiti scavalcando semplicemente il muro che recinta il carcere. È stata agevole la fuga di due detenuti del carcere di Barcellona Pozzo di Gotto, la seconda in Sicilia in pochi giorni, quest’ultima avvenuta nel tardo pomeriggio di domenica. Agevole e breve: i due fuggitivi sono stati rintracciati poco dopo dalla polizia e dai carabinieri mentre vagavano senza meta. Una fuga lampo, un’ora circa, quella di un tunisino di 29 anni e di un ghanese di 20, detenuti per reati minori, nell’ottavo reparto, quello un tempo destinato alla libertà attenuata degli internati. I due erano in osservazione psichiatrica. È la seconda fuga dalla struttura di Barcellona nel giro di pochi mesi, l’ultima era stata lo scorso 13 luglio, quando tre ragazzi poco più che ventenni avevano segato le sbarre della cella, riuscendo a fuggire: i tre erano poi stati rintracciati meno di 48 ore dopo tra Milazzo e Messina. “Sono gravi due evasioni, e cinque detenuti scappati - tre a Favignana e due a Barcellona Pozzo di Gotto - in poche ore. Gli allarmi lanciati dal Sappe sono stati completamente disattesi. Avrebbero dovuto fare seriamente riflettere il ciclico ripetersi di eventi critici in carcere che vede coinvolti detenuti stranieri, come da tempo denunciamo”, commenta Lillo Navarra, segretario nazionale per la Sicilia del Sindacato autonomo polizia penitenziaria. La struttura di Barcellona, una volta ospedale psichiatrico giudiziario, è adesso interamente destinata a detenuti. Palermo: il boss ordina l’omicidio della figlia “ha una relazione con un carabiniere” di Salvo Palazzolo La Repubblica, 30 ottobre 2017 La figlia di un mafioso ha messo in crisi un intero clan, uno di quelli che ancora conta nel cuore della provincia di Palermo. Lei voleva solo vivere la sua vita, al bar aveva conosciuto un giovane maresciallo dei carabinieri, era nata una storia. Un affronto per il padre capomafia, Pino Scaduto, signore di Bagheria e componente della Cupola per volere di Totò Riina e Bernardo Provenzano. Un affronto per il codice mafioso, che doveva essere punito col massimo della pena, l’uccisione della figlia. Così aveva deciso Scaduto in carcere. “Tua sorella si è fatta sbirra”, diceva al figlio. “Questo regalo quando è il momento glielo farò - scriveva a una parente - tempo a tempo che tutto arriva”. Pino Scaduto aveva deciso. Anche perché sospettava di essere stato arrestato dai carabinieri proprio per colpa della figlia, nel momento in cui stava gestendo un affare importantissimo per le sorti di Cosa nostra, la ricostituzione della commissione provinciale, la Cupola. Questa notte, Scaduto è tornato in carcere, dopo sei mesi di libertà. Aveva finito di scontare il suo debito con la giustizia, ma puntava già a riorganizzare Cosa nostra. I carabinieri del comando provinciale diretto dal colonnello Antonio Di Stasio hanno arrestato 16 persone, l’ordinanza di custodia cautelare è firmata dal giudice Nicola Aiello. Le indagini della Dda di Palermo diretta dal procuratore Francesco Lo Voi e dall’aggiunto Salvatore De Luca hanno individuato il nuovo gruppo dirigente del mandamento mafioso di Bagheria, che continuava a imporre estorsioni a commercianti e imprenditori. Pino Scaduto meditava altri omicidi. Voleva colpire pure il maresciallo dei carabinieri. Puntava su un sicario fidato, suo figlio. Ma anche il figlio l’ha lasciato solo. Diceva a un amico, con cui si era confidato: “Io non lo faccio, il padre sei tu e lo fai tu… io non faccio niente… mi devo consumare io? Consumati tu, io ho trent’anni, non mi consumo”. Il padrino insisteva, riteneva di dover ristabilire quel concetto di onore mafioso che già tanti morti ha fatto. Nel 1983, Il boss dell’Acquasanta Antonino Pipitone fece uccidere la figlia Lia per il sospetto di una relazione extraconiugale, i sicari finsero una rapina. Un anno prima, un altro mafioso vicinissimo a Totò Riina, Giuseppe Lucchese, aveva fatto uccidere la sorella, il marito e l’amante per il sospetto di un triangolo amoroso. Cinque anni dopo, Lucchese uccise la cognata. “Si diceva che erano donne troppo libere”, ha raccontato il pentito Gaspare Mutolo. La testa dei mafiosi non cambia, anche perché al governo dell’organizzazione sono tornati gli anziani boss, che ragionano alla vecchia maniera. Firenze: presentato in Comune il documento “Un vero ponte per Sollicciano” nove.firenze.it, 30 ottobre 2017 Le carceri italiane tornano a essere sovraffollate più di quanto un fisiologico soprannumero di ristretti consentirebbe. Il carcere fiorentino di Sollicciano è uno tra gli istituti penitenziari italiani più difficili e di nuovo ospita molti più detenuti di quanti struttura e organizzazione possono reggere (30% in più al 30 settembre 2017). Nato nel 1983 nell’omonimo quartiere nella parte sud-ovest di Firenze è da allora in crisi permanente. Concepito con l’ambizione di incarnare il modello del carcere moderno già al momento dell’inaugurazione Sollicciano si palesò pieno di difetti strutturali, architettonici e sociali. Unica eccezione l’inutilizzato giardino degli incontri, voluto e ideato dall’architetto Michelucci, che al più è usato come spazio per rari convegni. Tutto a Sollicciano è sproporzionato. Venerdì don Vincenzo Russo, cappellano del carcere di Sollicciano ed a Massimo Lensi dell’associazione per l’iniziativa radicale Andrea Tamburi i consiglieri del gruppo Firenze riparte a sinistra Tommaso Grassi, Donella Verdi e Giacomo Trombi hanno presentato il documento “Un vero ponte per Sollicciano”, sottoscritto anche dall’attore Paolo Hendel, in vista del Consiglio comunale straordinario che sarà convocato, presumibilmente entro la fine del 2017, all’interno dell’istituto penitenziario fiorentino. “È indispensabile, per chi vuole amministrare questa città, recuperare quel rapporto con il carcere che ospita ad oggi 684 persone, di cui oltre il 70% stranieri e in gran parte per reati minori legati a droghe o all’immigrazione, e per cui ci corre l’obbligo di garantire le migliori condizioni possibili” dichiarano Massimo Lensi e don Vincenzo Russo insieme al Capogruppo Tommaso Grassi. “Nello scorso mandato - aggiunge Tommaso Grassi - fu organizzato un Consiglio comunale a Sollicciano. Sette anni fa ci fu chiesto di dare delle risposte alle domande poste dai carcerati che portavano alla luce questioni che riguardavano i problemi quotidiani. Nella gran parte dei casi non sono state date risposte alle richieste poste e ai problemi irrisolti si sommano le nuove emergenze: dalla cucina pronta da anni ma mai messa in funzione, ai problemi delle infiltrazioni d’acqua dai tetti, un muro crollato, la situazione dei bagni e delle docce, la riqualificazione degli spazi di rieducazione come la chiesa ed il teatro, l’acquisto dei ventilatori per il caldo quando poi si sono accorti che l’impianto non regge un numero elevato di apparecchi”. “Inoltre - aggiunge il capogruppo di Firenze riparte a sinistra insieme a Lensi e Russo - chiediamo continuità perché Sollicciano ha avuto cinque direttori in due anni e questo non ci ha permesso di avere un interlocutore per confrontarci e per fissare il Consiglio comunale straordinario. È necessario che le istituzioni ci siano e che portino una risposta tempestiva alle questioni poste dai carcerati”. “Chiediamo, infine, maggiore trasparenza: vorremmo sapere come si spendono i soldi per il carcere: dove vengono spese, a chi vengono dati, chiediamo anche di concepire in maniera nuova e diversa il concetto di carcere da parte delle istituzioni: Comune e Regione. Mettere mano all’aspetto della responsabilità civile - spiega il capogruppo di Firenze riparte a sinistra insieme a Lensi e Russo - e porsi il problema del sovraffollamento carcerario. Ci troviamo di fronte ad una richiesta di pseudo sicurezza. I reati non stanno aumentando ma si chiede maggiore sicurezza perché la sicurezza porta voti. Le carceri sono oggi piene di persone rinchiuse per reati legati alla tossicodipendenza o per reati legati allo status di clandestinità. In una società che si dichiara civile le istituzioni devono rispondere a dei percorsi di rieducazione. Come una scuola, come un ospedale, anche il carcere è parte integrante della nostra vita”. Palermo: una mattina all’Ipm “Malaspina”, immaginando la libertà di Salvo Toscano livesicilia.it, 30 ottobre 2017 Coi ragazzi dell’istituto di pena minorile palermitano per parlare di libri. La libertà può avere la forma e la consistenza di un cucchiaio. O di una forchetta. Anche se fa quasi sorridere a dirla così. Eppure di divertente non c’è davvero nulla quando un ragazzo di sedici anni ti dice che gli mancano le posate, nel senso che ne ha nostalgia. Perché in un carcere minorile, le posate di casa non entrano, si usano solo quelle di plastica. “Quando uscirò, la forchetta e il coltello mi sembreranno pesantissimi”, dice con un sorriso furbo uno degli ospiti del Malaspina. Qui, nel carcere minorile di Palermo, sono reclusi 23 ragazzi. Non sono tutti minorenni, ormai negli istituti penitenziari minorili si trovano giovani fino ai 25 anni, se hanno commesso il delitto da minorenni. Più della metà degli ospiti sono italiani, non mancano gli stranieri. Ci sono anche i giovani reclusi spediti qui da altre province, anche dal Nord Italia, dove gli istituti non hanno più posto. Dentro, i muri potrebbero sembrare quelli di una scuola. Ci sono cartelli variopinti, disegni, schede che riassumono argomenti didattici, come la storia del pianeta Terra o l’educazione civica. Ma poi ci sono le sbarre, a ricordarti che questa una scuola non è. Quelle porte e quelle finestre senza maniglie, che non puoi aprire liberamente. La vita dei ragazzi qui dovrebbe puntare alla loro rieducazione, a un reinserimento nella società che li tenga lontani dagli errori, anche gravi, che li hanno portati tra queste mura. Anche se, con un certo stupore, apprendiamo che non esiste una statistica precisa sul grado di recidiva degli ex ospiti del carcere. Michelangelo Capitano, direttore del Malaspina, ci accoglie nel suo ufficio per un’occasione particolare. Insieme ad altri tre co-autori, Alli Traina, Eleonora Lombardo e Paolo Siena (curatore del volume), entriamo nell’istituto per incontrare i ragazzi e parlare con loro di libri. In particolare della raccolta di racconti “Palermo fuori dai vetri”, 28 storie di altrettanti scrittori palermitani che raccontano un pezzo di città, quello che vedono dalla loro finestra. Qui dalla finestra, al massimo si vede l’orto, che i ragazzi coltivano, e il parco giochi per quei reclusi che hanno figli che vanno a trovarli. C’è anche una bella palestra, piena di attrezzi. E una biblioteca colma di libri, racconta il direttore. È già qualcosa. “Abbiamo una piscina, stiamo cercando di renderla fruibile anche nei mesi invernali e aprirla al pubblico per permettere ai ragazzi di lavorare come bagnini”, spiega Capitano. Insegnare un mestiere ai ragazzi è una delle cose che si possono fare per alimentare la speranza che la permanenza in carcere per loro non sia la prima di una serie. Con questo spirito ha preso corpo proprio in questi locali un biscottificio. Il nome è tutto un programma, “Cotti in fragranza”. Il progetto tra pubblico e privato è portato avanti da una cooperativa sociale, Rigenerazioni, insieme all’istituto. Alcuni dei ragazzi sono impiegati in questa attività e c’è chi una volta uscito è rimasto a lavorare, due ragazzi per la precisione, producendo biscottini allo zenzero, al mandarino e al cioccolato. Si chiamano “Buonicore”, “Coccitacca”, “Parrapicca”. Molto buoni, per la verità. Li vendono nella grande distribuzione in Sicilia e arrivano anche degli ordini da soggetti istituzionali. È una delle attività messe su nell’istituto. I ragazzi qui vanno a scuola, fanno anche teatro (l’anno scorso hanno portato in scena un recital scritto dagli stessi detenuti, che hanno curato luci e suoni), imparano un mestiere. Soprattutto quelli che si fermano più a lungo. “È difficile trovare lavoro, se poi hai precedenti non ne parliamo”, osserva Capitano. Che con amarezza annota come i corsi di formazione per i giovani reclusi abbiano patito i ritardi e lo stallo in cui il sistema formativo regionale, l’Avviso 8 in particolare, è piombato negli ultimi anni. Ci sono i corsi professionalizzanti realizzati coi fondi del dipartimento della Giustizia minorile, dove i ragazzi imparano il mestiere di giardiniere, muratore, fabbro e falegname. E non è raro che i ragazzi chiamino l’istruttore “zio”, racconta il direttore. L’incontro con i ragazzi avviene in un’aula didattica, insieme a insegnanti ed educatori. L’iniziativa si chiama “Ora tu cuntu”, arrivata al suo sesto anno, che ha visto varcare la soglia del Malaspina diversi scrittori. I sorrisi complici tra vicini di posto, i bisbigli divertiti, le sopracciglia ad ali di gabbiano, le scarpe da tennis e i jeans strappati, tutto fa pensare a una classe di un istituto superiore che partecipa a un’iniziativa organizzata dalla scuola. Ma non è così. Qui non si organizza l’uscita del sabato sera. Non si passano ore a guardare i video di Youtube. Non si messaggia col cellulare, che non può entrare al di là della porta pesante che separa il mondo di fuori dai corridoi dei reclusi. Qui la vita passa piano, pensando a quello che è rimasto fuori. “Alla famiglia”, prima di ogni cosa, concordano tutti i ragazzi. Una certa aria tesa iniziale, dovuta a un momento di tensione tra detenuti risalente al giorno prima, si scioglie. Affiora qualche sorriso. E così si finisce a parlare per un’ora di immaginazione, di “evasione”, ma senza lenzuola calate dalla finestra, e di ricordi. Di quella finestra lasciata a casa e di ciò che si vedeva da lì: una scuola, una strada, le montagne di un Paese lontano. E al di qua delle sbarre per un attimo si risentono i rumori di una piazza, gli odori del cibo di casa. È il mondo “di fuori”. Quello che puoi inseguire con la fantasia immergendoti nelle pagine di un libro, per riempire un tempo che scorre lento. Quello delle finestre con le maniglie. Quello in cui le posate non sono solo di plastica. Trieste: incontro in carcere con Maurizio Miglia, autore del libro “Io continuo in te” di Elisabetta Burla* Ristretti Orizzonti, 30 ottobre 2017 Sabato 28 ottobre Maurizio Miglia ha presentato, presso la Casa Circondariale di Trieste, il libro “Io continuo in te”. Il dialogo tra l’Autore e l’avv. Natascia Marzinotto ha messo in luce molti aspetti della dolorosa esperienza vissuta in prima persona da Maurizio e Sonia: la gioia della vita assieme; la paura per la diagnosi della malattia; l’euforia distorta per la guarigione chirurgica; la lunga e impegnativa (emotivamente, fisicamente ed economicamente) battaglia contro la malattia; il dolore straziante per il distacco; il ritrovato entusiasmo nel perseguire nuovi e importanti progetti: la realizzazione de “Il sogno di Sonia” per supportare le difficoltà economiche e sociali dei bambini in difficoltà. L’incontro, che nulla ha avuto di diverso da una qualsiasi altra presentazione organizzata in altri contesti, ha visto la partecipazione di una trentina di persone private della libertà e una decina di persone libere il cui comune interesse era quello di ascoltare l’Autore, approfondire la conoscenza di un libro molto commovente e con moltissimi spunti di riflessione: l’Amore per sé e per gli altri; il rispetto del proprio partner; l’impegno a favore di persone meno fortunate; la scala dei valori veri dove i soldi, la macchina, e le altre cose materiali non dovrebbero essere collocate nei gradini più alti; comprendere che le esperienze, anche quelle più dolorose, devono insegnare qualcosa. L’attenzione del pubblico è stata catturata dall’entusiasmo e dalla spontaneità del racconto dell’Autore che non ha avuto timori nel raccontare le proprie paure e difficoltà, si è messo in discussione - ancora una volta - cercando di capire i sentimenti e le esigenze della propria compagna nei momenti di maggior difficoltà e per questo non è diventato più debole o meno importante. Anzi! Sicuramente le parole hanno colpito e commosso tanti dei presenti, molti gli occhi lucidi in sala, alcune domande pertinenti e molti ringraziamenti da parte del pubblico per aver voluto condividere questa esperienza. Da parte dell’Ufficio del Garante comunale dei diritti dei detenuti - che ha promosso l’iniziativa e ha curato l’organizzazione per quanto di competenza - molti i ringraziamenti: alla direzione della Casa Circondariale e al personale dell’Area Pedagogica Giuridica per aver accolto la proposta e aver contribuito alla realizzazione dell’incontro; alla Magistratura di Sorveglianza per aver concesso le necessarie autorizzazioni, anche a favore di persone libere interessate alla presentazione del libro ma che non avrebbero potuto partecipare nell’altra occasione programmata sempre a Trieste per il 3 novembre; al personale, tutto, del Corpo della Polizia Penitenziaria che - pur nella cronica carenza d’organico - ha permesso che l’evento si realizzasse con serenità. Naturalmente un grazie a tutto il pubblico che con la propria importante presenza, le reazioni commosse, le domande e ringraziamenti all’Autore hanno reso molto interessante e costruttivo l’evento. L’Autore ha apposto una propria dedica su due copie del libro che sono state immediatamente messe a disposizione di coloro che hanno manifestato interesse sincero per la lettura dello stesso e che andranno a integrare il patrimonio delle due biblioteche presenti nell’Istituto. *Garante comunale dei diritti dei detenuti di Trieste Foggia: investe e uccide volontariamente un cane, condannato a sei mesi di carcere di Fulvio Cerutti La Stampa, 30 ottobre 2017 Un operatore ecologico guida il suo furgoncino. Sulla sua strada trova un cane randagio. Non rallenta, non tenta di evitarlo. Anzi, tira dritto a tutta velocità e lo investe lasciandolo agonizzante a terra. Spillo, così si chiamava il cane, morirà, tra atroci sofferenze, fra le braccia disperate del suo proprietario che si era allontanato per poco tempo. Era il 10 luglio 2014 a San Severo, in provincia di Foggia. A incastrare il gesto crudele dell’uomo le telecamere di una telecamera di sicurezza. A tre anni di distanza arriva la sentenza: l’uomo è stato condannato in primo grado a mesi 6 di reclusione (pena sospesa) per uccisione dell’animale, al rimborso delle spese legali e la risarcimento della parte civile OIPA, costituitasi parte civile dopo aver sporto denuncia nel 2014, quando avvenne il fatto. “È un precedente importantissimo e raro da un punto di vista legale - commenta l’avvocato Claudia Taccani, responsabile Sportello Legale OIPA - in quanto la condanna, anche se di primo grado, è per uccisione di animale e non per la violazione del Codice della strada, quindi è stata riconosciuta la responsabilità penale. Una grande vittoria che vede riconosciuta la gravità della condotta di un uomo che ha volutamente causato la morte di un essere vivente”. Siena: a Pediatria Neonatale inaugura mostro di opere d’arte realizzate dai detenuti sienanews.it, 30 ottobre 2017 Opere d’arte realizzate dai detenuti della Casa Circondariale di Siena con la collaborazione della Croce Rossa Italiana. L’impegno e la sensibilità dei detenuti del carcere Santo Spirito di Siena rendono più confortevole e accogliente il reparto di Pediatria Neonatale dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Senese, diretto dal professor Giuseppe Buonocore. È il risultato del progetto della Casa Circondariale di Siena e del policlinico Santa Maria alle Scotte, in collaborazione con Croce Rossa Italiana, denominato “Accoglienza colorata-dipingo la Pin”, grazie al quale sono stati donati al reparto dipinti realizzati dai detenuti sul tema della maternità e paesaggi toscani. All’inaugurazione dei quadri hanno partecipato il direttore generale dell’AOU Senese, Valtere Giovannini, che ha ringraziato la Casa Circondariale per la grande sensibilità e generosità dimostrata, l’assessore alla Salute del Comune di Siena, Anna Ferretti, il direttore della Casa Circondariale di Siena Sergio La Montagna, l’educatrice del carcere Maria Josè Massafra e l’insegnante d’arte per i detenuti Monica Minucci. Nel marzo del 2016 il progetto “Arte in carcere” aveva già portato ad una prima donazione di 17 quadri, rappresentanti le Contrade. “Siamo molto grati ai detenuti del carcere senese - afferma il professor Buonocore - che abbelliscono notevolmente il reparto con vere opere d’arte. Questo progetto rappresenta una bella opportunità per i detenuti e permette di rendere il reparto sempre più accogliente”. “Anche l’arte può essere uno strumento di rieducazione - ha detto il dottor Sergio La Montagna - Ringrazio tutto lo staff che ha portato alla realizzazione e installazione dei quadri e, in particolare, ringrazio la Polizia Penitenziaria che svolge un ruolo delicato e ci aiuta a portare avanti queste iniziative”. “L’idea del progetto - ha concluso la dottoressa Lucia Rappuoli, assistente sociale referente del gruppo ascolto in Pediatria Neonatale - è quella di rendere sempre più ospitali questi spazi offrendo immagini piacevoli sia ai genitori, sia ai professionisti della nostra azienda. Con il nostro gruppo di ascolto abbiamo raccolto i suggerimenti delle mamme dei piccoli ricoverati, e la collaborazione con la Casa Circondariale di Siena è stata proficua e ricca di soddisfazioni reciproche”. Verona: Fieracavalli con “Reverse In” per il reinserimento sociale dei detenuti fieracavalli.it, 30 ottobre 2017 Realizzati a mano dai detenuti tutti i 57 premi consegnati nelle gare sportive di questa 119esima edizione. Lavoro come opportunità e rinascita, come libertà e riscatto personale. È questo lo scopo dell’iniziativa “Reverse In” della Casa Circondariale di Montorio: dare un vero valore alla parola reinserimento sociale. Per questo Fieracavalli ha deciso di ospitare alcuni detenuti del carcere di Verona che, nei giorni antecedenti alla manifestazione, hanno contribuito alla costruzione dei recinti per i cavalli all’interno della quartiere fieristico. Grazie a un laboratorio di falegnameria, inoltre, i detenuti hanno anche realizzato 57 premi in legno per tutte le competizioni sportive della rassegna. “Un sodalizio straordinario che ha grande valore educativo e trattamentale per i detenuti. È veramente importante per noi sapere che una manifestazione di livello internazionale come questa riesca a dare spazio anche a iniziative sociali” è stato il commento del direttore dell’Istituto Penitenziario di Verona, Maria Grazia Bregoli. Il cavallo, quindi, ancora una volta si dimostra un mondo poliedrico e accogliente che aiuta - grazie a tutte le sue sfaccettature - a migliorare la vita delle persone che gli si avvicinano. All’interno della Casa Circondariale di Montorio, infatti, è sempre presente un maneggio con tre cavalli che permette a tutti i detenuti di partecipare a un corso sull’addestramento e la gestione di questo animale meraviglioso, imparando quindi - attivamente - un lavoro che può diventare un’occasione di rinascita. Libro. “Chi sono i terroristi suicidi”, di Marco Belpoliti di Massimo Recalcati La Repubblica, 30 ottobre 2017 In questa raccolta di brevi articoli dal titolo “Chi sono i terroristi suicidi” (Guanda), Marco Belpoliti scava nel campo osceno e inquietante del fenomeno del terrorismo islamico. La domanda di fondo che lo guida non è affatto scontata. In essa risuona drammaticamente l’interrogazione posta di fronte all’atrocità della barbarie totalitaria della Shoah: come è stato possibile? Perché lo hanno fatto? E, soprattutto, questi assassini crudeli, spietati, privi appunto di ogni forma di pietas, sono ancora uomini? Fanno ancora parte della razza umana? È questa una delle chiavi di lettura che unifica più in generale il lavoro intellettuale di Belpoliti, studioso di letteratura, con quello dell’osservatore critico dei fenomeni della violenza estremista come si realizza in almeno altri due suoi contributi importanti; prima fra tutte la monumentale biografia dedicata a Primo Levi (“Primo Levi di fronte e di profilo”, Guanda 2015) e, in secondo luogo, la sua riflessione sulla stagione del terrorismo in Italia (“L’età dell’estremismo”, Guanda 2013). Un primo snodo cruciale di questo libro riguarda il rapporto tra la vocazione sacrificale e omicida dei terroristi e la loro giovinezza. Sì perché non dovremmo mai dimenticare che sono ragazzi, giovani, talvolta bambini, vite che non hanno ancora raggiunto l’età adulta, che non hanno ancora costituito una famiglia, quelle che si martirizzano uccidendo e uccidendosi nel nome della Causa. Non si tratta di un semplice cliché sociologico che dovrebbe acquietare le nostre coscienze del tipo: “Sono giovani e non sanno quello che fanno”. Tutt’altro: Belpoliti non rinuncia a porre questo tema scabroso perché sa bene che esso riguarda da vicino le nostre vite. Per un verso la giovinezza è sempre spaesata, smarrita, in cerca di sicurezze che non trova. Per questa ragione il miraggio offerto dalla radicalizzazione riconduce, come mostra bene lo psicoanalista francese di origini mussulmane Beslama, alla necessità di radicarsi, di trovare un’identità solida. Belpoliti sa bene che la nostalgia dell’identità, del suolo, della radice ha animato i fantasmi più terrificanti del totalitarismo novecentesco che il suo Primo Levi ha descritto con lucida disperazione. Ma - insiste la domanda - i giovani cercano la libertà o la sicurezza che li esenti dal suo rischio? Vanno verso la libertà o fuggono dalla libertà? Ripeto, non è affatto una domanda scontata. La libertà contiene sempre delle insidie. Lo spirito del terrorismo si fonda sulla rinuncia delle insidie della libertà e su di una piena sottomissione. Nondimeno in questa sottomissione cieca alla Causa si manifesterebbe la loro suprema libertà. È il punto che accomuna il giovane terrorista all’anoressica: l’assoggettamento ad un Ideale inflessibile è la forma più alta della libertà. Ma, ragiona Belpoliti, non è proprio di questo Ideale assoluto - dell’Ideale assoluto della Causa - ciò di cui avvertiamo in Occidente la mancanza? Lo spirito del terrorista trova nel tra tran ordinario e senza desiderio delle nostre vite il suo contrario o il rovescio di una stessa medaglia? Non è forse solo la passione per un ideale che può renderci “sanamente eccessivi” e svegliarci dal sonno del conformismo? Una seconda traccia proposta dal libro è quella del rapporto con la morte proprio dei giovani terroristi. Qui si gioca una terribile astuzia che Belpoliti evoca attraverso Camus: sacrificare la vita per una Causa comporta il diritto alla propria salvezza. È un fantasma tremendo che appartiene ad ogni forma patologica della religiosità sacrificale. Il rimborso che attende chi sacrifica la propria vita è sempre sovrabbondante: se questa vita non è nulla, l’altra, quella ottenuta nell’aldilà, dovrebbe finalmente realizzarla pienamente. La volontà di uccidere di questi giovani, nota Belpoliti, si mescola alla loro volontà di morire. È la dinamica del martirio che però, in questo caso, implica sempre la morte di vittime innocenti. Ma uccidere vittime innocenti mentre ci si uccide è la manifestazione di una insufficienza narcisistica o è una sua folle amplificazione? Davvero il terrorista è servo della sua Causa o non piuttosto colui che si serve della Causa per trasformare la propria vita da una nullità insignificante in quella di un eroico giustiziere inviato da Dio? I terroristi islamici sono degli sradicati o figure che coltivano un “ideale incrollabile di superiorità?”. La santificazione islamica del martirio, diversamente da quella cristiana, esige la lotta attiva e militante contro l’infedele. Non si limita alla consegna passiva di se stessi al sacrificio. Per Belpoliti la spinta suicidaria non può essere compresa se non all’interno di un “paradigma vittimario”: diventare una vittima, sacrificarsi alla Causa, nobilita la propria vita di fronte agli occhi della propria comunità di appartenenza. La morte non è più ciò che limita la nostra vita ricordandoci la nostra estrema insufficienza e vulnerabilità, ma diventa l’occasione per la sua massima esaltazione. La morte diventa, paradossalmente, una “prova di amore di sé”, un “rapporto diretto con Dio” che “realizza una sorta di godimento assoluto”. Cinema. “Benvenuto in carcere, Papa Francesco”, di Janusz Mrozowski di Michelangelo Nasca La Stampa, 30 ottobre 2017 Un film-documentario, realizzato dal regista polacco Janusz Mrozowski, racconta il dramma della detenzione in Burkina Faso. La vita è vita, anche se è la prigione a raccontarla. È questo l’intreccio cinematografico portante che - ormai da diversi anni - Janusz Mrozowski, produttore e regista cinematografico franco-polacco scrive per i suoi film, per narrare le difficoltà quotidiane, la solitudine e le speranze vissute dietro le sbarre di un carcere. L’ultima delle sue produzioni, “Benvenuto in carcere, Papa Francesco”, racconta le prigioni di Ouagadougou, in Burkina Faso, e il dramma di chi è costretto ad abitarle. “Quando sono entrato in questa prigione - spiega il regista a Radio Vaticana - mi hanno colpito le condizioni in cui vivono i prigionieri africani. Il Burkina Faso mi ha aperto le sue carceri in un modo incredibile, che non si può immaginare in molti Paesi. Quello che salva in queste condizioni inumane è proprio l’umanità, le relazioni tra le guardie e i prigionieri e anche le relazioni tra i prigionieri tra di loro perché c’è molta fraternità”. Il documentario realizzato dal regista polacco Janusz Mrozowski e stato presentato in questi giorni in “Filmoteca Vaticana”. Nel film, i detenuti e il personale della prigione africana di “Maco” immaginano di essere visitati da papa Francesco, perché possano raccontargli qualcosa della loro vita. “Papa Francesco - afferma uno dei detenuti - ti mostrerò dal fondo della mia cella, come vivo qui”. C’è chi sottolinea le condizioni di estremo degrado vissute dentro la prigione, chi ha perduto tutto nella vita e mostra l’amarezza per non essere riuscito a fare di meglio, ma c’è anche chi riesce a vedere altro: quella vissuta in prigione - si dice nel film - “è una vita dura ma, grazie alla nostra fede e grazie al buon Dio, non ci lamentiamo”; e un altro detenuto dichiara: “La pena non cambia l’uomo, la sola persona che cambia il cuore dell’uomo è Gesù Cristo”. Janusz Mrozowski immagina papa Francesco accanto a sé, come l’autorevole aiuto regista di questa sua recente avventura cinematografica. “Quello che ho visto - afferma Mrozowski - è che la Parola del Papa che ho portato in questa prigione ha pesato, è stata una cosa importantissima per questi detenuti. Ho portato la speranza, ho portato l’amore umano del Papa, ho portato Dio in questa prigione” (Radio Vaticana). “Qui è solo il mio corpo a essere imprigionato - dicono al Papa i detenuti - ma il mio spirito non è in prigione”. “Che Dio ti guidi. Papa Francesco”. Significativo poi un breve “rap” dedicato al Pontefice, dove i giovani detenuti cantano: “Tu vuoi che noi veniamo celebrati e amati, noi ladri, banditi, noi meno di niente. Noi non meritiamo tutto questo. Noi non meritiamo niente, papa Francesco”. Le immagini riprese da Mrozowski raccontano - senza alcun filtro romantico e demagogico - il dramma umano della reclusione e la speranza custodita nel cuore di tanti detenuti. Non dimentichiamolo - diceva papa Francesco nel videomessaggio inviato al Complesso penitenziario federale di Ezeiza, in Argentina - “la pena, per essere feconda, deve avere un orizzonte di speranza, altrimenti resta rinchiusa in se stessa ed è soltanto uno strumento di tortura, non è feconda”. Il film verrà proiettato nel carcere romano di Rebibbia, il 6 novembre prossimo, ricordando il Giubileo della Misericordia per i carcerati che venne celebrato proprio il 6 novembre del 2016. “Sciopero della fame per lo ius soli”, la protesta di pm, giudici e avvocati di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 30 ottobre 2017 Decine di adesioni all’iniziativa promossa dal senatore Manconi: una iniziativa che “vuole dare visibilità e sostegno all’allargamento del diritto di cittadinanza”. L’ultimo boccone l’ha mandato giù domenica sera, poi più nulla. Non mangerà fino alle 21 di oggi il giudice Ilio Mannucci Pacini che con una quarantina di altri giuristi di Milano e Monza ha aderito, in una delle rare occasioni che vede magistrati e avvocati uniti sulle stesse posizioni, al digiuno a staffetta promosso dal senatore del Pd Luigi Manconi per sollecitare l’approvazione della legge sullo ius soli. Oggi digiuneranno in 18 e altri lo faranno domani alla quinta giornata dell’iniziativa, ma l’elenco iniziale dei nomi si allunga di ora in ora man mano che il passaparola si diffonde negli uffici giudiziari di Milano e di Monza. Pubblici ministeri, giudici e avvocati che si sono confrontati o che si stanno confrontando in inchieste e processi nelle aule di giustizia si ritrovano insieme in una iniziativa che “vuole dare visibilità e sostegno all’allargamento del diritto di cittadinanza, in linea con il diritto alla pari dignità sociale sancito dalla nostra Costituzione”, si legge in una nota firmata da Mannucci Pacini e dall’avvocato Valentina Alberta che con lui ha promosso l’iniziativa parallelamente a un appello lanciato da più di 120 avvocati. All’inevitabile obiezione sul rischio che una presa di posizione di un giudice così forte, come può esserlo un digiuno, per quanto simbolico e limitato nel tempo, possa essere interpretata come un’azione politica inopportuna da chi contesta l’introduzione di una legge per la cittadinanza ai figli nati in Italia da immigrati stranieri, la voce di Ilio Mannucci Pacini ha un improvviso balzo di tono verso l’alto. “Pensiamo che queste non siano questioni di parte. Hanno riflessi necessariamente politici, ma coinvolgono tutti i cittadini, e un magistrato, come chiunque altro, deve poter dire la sua. Quella del magistrato che deve stare fuori della società è una visione antica”, afferma deciso il presidente della terza sezione penale del Tribunale di Milano ripetendo quanto deve avere già detto ai colleghi che hanno sollevato dubbi. “L’obiettivo è la tutela dei diritti dando forza con la nostra testimonianza a chi vuole ampliarli”, gli fa eco l’avvocato Alberta che precisa che “chi aderisce lo fa a livello personale, senza targhe politiche di nessun tipo, ma solo per unire le forze contro una legislazione sulla cittadinanza che evidentemente non è idonea alla realtà di questo Paese” perché “siamo tutti d’accordo che per chi è nato in Italia da genitori stranieri, ha seguito un percorso di studi, è sostanzialmente italiano, deve essere garantita la cittadinanza”. “Non vogliamo interloquire sulle norme, discutere se una legge è buona o è migliorabile”, puntualizza Mannucci Pacini, “chiediamo una soluzione, qualunque essa sia, che permetta a migliaia di giovani che hanno vissuto in Italia, che hanno interiorizzato la cultura italiana di diventare italiani”. Migranti in Libia, 20 Ong italiane entreranno presto nei Centri di detenzione Corriere della Sera, 30 ottobre 2017 Ebbene sì: “In Libia, continuiamo a puntare sulle Ong”. Le polemiche sui taxi del mare non sono alle spalle e le inchieste neppure. Ma l’emergenza è ancora tutta lì. E se da Sabratha o al-Zawiya sembrano diminuire i barconi, il decreto Minniti che quest’estate spaccò il governo (ricordate il dissenso di Delrio?) deve ora risolvere un altro problema umanitario: come evitare che i respinti dall’Italia finiscano a marcire nei lager libici. Da novembre, è l’annuncio di Mario Giro, il viceministro degli Esteri che in questi giorni ha firmato un finanziamento di due milioni di euro, l’Italia entrerà nell’inferno dei centri di detenzione. Quella trentina di depositi di scorie umane, madri sole, donne incinte, bambini malnutriti, vecchi abbandonati, che hanno bisogno perfino dell’essenziale: acqua, igiene, medicine, cibo. Non tutti i centri, perché quelli gestiti dalle milizie sono spesso fuori controllo: si comincerà dalle prigioni di Tripoli e da alcuni aiuti nel Fezzan. “Abbiamo ottenuto la garanzia che l’Unhcr, dopo tre anni d’assenza, torni nel Paese - spiega Giro. E non è stato facile, perché la Libia non ha mai firmato le convenzioni internazionali e questi reclusi non sono nemmeno considerati profughi”. Accoglienza, è una parola grossa. Assistenza, inesistente. I centri libici sono una vergogna che per anni s’è finto d’ignorare. Ma ora che tocca al nostro governo occuparsene, perché nessun altro lo fa, a qualcuno di fidato bisogna pur affidarsi. Il bando della Farnesina include una ventina di Ong, dal Cesvi a Terre des Hommes, da Gvc a Ccs, da Cefa a Cir, coinvolgendo anche la Croce rossa italiana. Non tutto l’associazionismo è d’accordo: qualcuno per ragioni “ideologiche”, altri per timori sulla sicurezza (all’inizio, non è previsto personale italiano). Medici senza frontiere, per esempio, rifiuta il finanziamento governativo. “Ma l’obbiettivo dell’intervento è superare l’idea del centro di detenzione - dice Giro -. Perché tutto si può dire, ma non che si vada dentro campi profughi. Queste sono carceri. E al di là di tutte le polemiche di quest’estate, migliaia di poveretti vanno tirati fuori da lì”. Libia. Alì che sognava l’Italia, prigioniero nel carcere per migranti a Tripoli di Francesco Semprini La Stampa, 30 ottobre 2017 Storie dal Sud del mondo: il viaggio de La Stampa per dentro un centro di detenzione libico, dove giovani vittime di trafficanti e donne schiave del sesso. “Aiutateci, aiutateci a vivere meglio a casa nostra”. L’appello è di Alì, 24 enne nigeriano da settimane recluso in un campo di detenzione per migranti in Libia. Fermato e arrestato mentre stava cercando di imbarcarsi clandestinamente alla volta dell’Italia dopo aver attraversato deserti e montagne, in fuga dalla miseria del suo Paese. Alì è uno dei volti della peste del nostro tempo, il traffico di esseri umani. Un intreccio di vite e di storie il cui epilogo è scritto con frequenza, e violenza inaudita, nelle immagini dei naufragi delle carrette del mare inghiottite dalle onde del Mediterraneo. Alì è internato in attesa di rimpatrio a Bou Slim, centro di migranti nell’omonimo quartiere popolare alla periferia di Tripoli, uno dei pochi in cui ammettono i giornalisti, che ospita sino a 150 migranti. Sono per lo più uomini, ma ci sono anche donne e una decina di bambini, che vivono assieme alle loro mamme, per chi ha la fortuna di averle avute vicine nei viaggi della speranza. Provengono nella stragrande maggioranza dei casi dall’Africa occidentale e subsahariana, il “serbatoio” di migranti. Mali, Niger, Nigeria, Costa d’Avorio, Burkina Faso, Gambia, Guinea, Senegal, ma anche da Sudan e Ciad, e in numero minore fuggiaschi del Corno d’Africa. Una volta arrivati vengono schedati in base alla nazionalità, divisi tra uomini, donne e bambini, quindi sottoposti a controlli medici e in caso di condizioni precarie si danno loro cure e nutrizione. Si inizia a cooperare con organizzazioni come Iom (Organizzazione internazionale per le migrazioni) per il rimpatrio. Il tempo di permanenza è dai due ai tre mesi, a volte però a rendere i rimpatri più macchinosi è la mancanza di rappresentanze diplomatiche dei Paesi di provenienza in territorio libico: troppi rischi. Le condizioni della struttura non sono drammatiche. C’è un ambulatorio, una cucina e i dormitori, hangar dove vengono sistemati a terra materassi e coperte. Da una lato ci sono spazi riservati alla preghiera, la maggior parte di loro è musulmana, ma c’è anche qualche cristiano o animista. L’aver avuto accesso alla struttura, grazie all’aiuto di “Agenfor International”, Ong operativa nella sicurezza partecipata, ci induce a pensare che forse si tratta di uno dei centri “migliori” tra quelli presenti in territorio libico. In altri le cose sono ben diverse. È in uno dei momenti di libera uscita nel cortile che abbiamo l’opportunità di parlare con Alì, il 24 enne nigeriano che assieme al fratello Mokhtar ha lasciato il suo Paese alla volta di Agades in Niger, l’hub della migrazione clandestina. Poi a Tripoli attraversando montagne e deserti per 1000 dinari, circa 300 euro al cambio ufficiale. Altri mille servono per imbarcarsi alla volta dell’Italia, da Garabouli ad Est della capitale, dopo una tappa a Misurata. Ancora prima di mettere piede sul gommone, Ali e gli altri compagni di sventura vengono arrestati dalle milizie locali, e portati a Bou Slim. Ci riproveresti? “No, assolutamente no. Anzi voglio chiedere all’Italia e a tutti quelli che vogliono darci una mano, di aiutarci sì, ma di aiutarci a vivere una vita migliore nel nostro Paese, con i nostri cari e la nostra gente”. Chi invece è riuscito a varcare i cancelli di Bou Slim da uomo libero (o quasi), è alle prese con altri sfide alla sopravvivenza in attesa di una vita migliore. Nouri è nato in Mali e ha 28 anni, è in Libia da due e lavora come addetto alle pulizie in un negozio di Tripoli. È stato sequestrato da una banda specializzata in estorsioni a danno di migranti africani. I suoi amici hanno pagato 1300 dinari per la liberazione, il suo stipendio di tre mesi. Jada è una signora nigeriana che alcuni mesi fa ha salvato una connazionale ridotta a schiava del sesso dai trafficanti di esseri umani. L’ha assistita sino a quando non è stata rimpatriata. Come lei - racconta - ce ne sono decine che vengono abbandonate in fin di vita per la strada. Marlene e il marito sono profughi del Rwanda, l’anno scorso dopo l’ennesima irruzione delle milizie nella loro casa di Tripoli hanno deciso di attraversare il mare assieme alle due figlie. Volevano chiedere asilo in Italia, ma la loro storia non la possono più raccontare perché sono stati tutti inghiottiti dal Mediterraneo. Tre storie di ordinaria tragedia, come quelle delle centinaia di migliaia che si sfidano tra deserti, montagne e mari, disperati. Numeri dinanzi ai quali l’Italia si è attivata attraverso le intese con la Libia, sulla cui attuazione pesano però ancora variabili e incognite, a partire dall’impegno dell’Europ Turchia. Giornalisti in marcia per i colleghi in carcere di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 30 ottobre 2017 Hanno marciato questo pomeriggio sulla sponda asiatica di Istanbul in segno di solidarietà con i giornalisti turchi in carcere. La marcia, organizzata nel giorno della “Festa della Repubblica” chiamata “Libertà per i giornalisti” (“Gazetecilere Ozgurluk”), ha visto la partecipazione dei capigruppo dei partiti di opposizione, i repubblicani del Chp e i filo curdi dell’Hdp. Alla fine della marcia la giornalista Gulsah Karadag ha letto un comunicato: “Siamo al loro fianco. Le nostre azioni vogliono dare sostegno ai nostri amici, in carcere per le loro opinioni. Nessuno di noi può sentirsi libero mentre decine di colleghi si trovano in carcere. Tutto ciò avviene per impedire che si sappia la verità e le falsità vengano a galla. Èuna questione di diritti, legge, giustizia”. La marcia arriva a quattro giorni dalla quarta udienza che vede imputati 17 tra giornalisti e dipendenti del quotidiano Cumhuriyet, accusati di legami con la rete golpista di Fetullah Gulen e con i terroristi separatisti curdi del Pkk. Nel corso delle prime udienze sono stati scarcerati 7 imputati, mentre sono ancora in carcere il direttore Murat Sabuncu e i giornalisti Emre Iper, Ahmet Sik e Akin atalay. Si stima che siano attualmente circa 160 i giornalisti in carcere in Turchia. Tra questi i due reporter turchi-tedeschi Deniz Yucel e Mesale Tolu, il primo, corrispondente del quotidiano Die Welt, è accusato di spionaggio; la seconda è invece accusata di legami con un’organizzazione di estrema sinistra. Mauritania. Con l’esercito del Sahel contro jihadisti e trafficanti di Francesco Semprini La Stampa, 30 ottobre 2017 Sotto mandato Onu costituito un contingente di cinquemila uomini. Nella missione coinvolti Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad. “Dobbiamo aiutarvi ad aiutarci”. Con queste parole il presidente della Mauritania, Mohamed Ould Abdel Aziz, si è rivolto all’Europa e alla comunità internazionale, in merito al progetto del “Gruppo dei cinque” Paesi del Sahel. Gli Stati africani sono protagonisti della forza militare di contrasto al dilagante fenomeno jihadista e dei traffici illeciti nella regione. A partire da quello degli esseri umani. “Dobbiamo da qui fare qualcosa per aiutarvi e permettere a voi di aiutarci”, ha ribadito Aziz rivolgendosi proprio all’Italia. È proprio da Nouakchott, capitale del Paese dell’Africa occidentale, che ha preso le mosse la missione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nella regione del Sahel per rilanciare il progetto del G5, “l’esercito del Sahel”, che vede come protagonisti Mauritania (pioniere del progetto), Burkina Faso, Mali, Niger e Ciad. Uno sforzo voluto con forza dalla Francia, per i noti interessi che il Paese vanta nella regione, e sostenuto con vigore dall’Italia in Cds, specie perché inquadrato nel fenomeno della lotta al traffico di essere umani che dal “serbatoio saheliano” trova il suo sbocco naturale nella sponda sud del Mediterraneo. La missione in Sahel del Cds (che ha toccato Mali e Burkina Faso) è stata realizzata sotto la regia di Etiopia, Francia e Italia (con l’ambasciatore Sebastiano Cardi, rappresentante permanente presso l’Onu), sia per dare un senso di continuità, sia per conferire una dimensione al contempo europea ed africana. Il precipitare degli eventi seguiti all’inizio della crisi libica del 2011 e di quella maliana del 2012 hanno agevolato la proliferazione dei traffici illeciti in tutta la regione del Sahel. Oltre al dilagare della jihad, come confermano i tantissimi attentati che si sono succeduti negli ultimi cinque anni. Con la caduta del Califfato e la “jihadiaspora”, il rischio è che vi sia una convergenza di gruppi vecchi e nuovi proprio nel Sahel. Il tutto con una sovrapposizione di traffici di armi, droga, esseri umani e uranio che favorirebbe la creazione di vere holding del crimine a 360 gradi. E con un punto di criticità strategica fondamentale, ovvero il Mali, forse l’anello più debole della catena subsahariana: “In questo Paese un accordo per la pace per ora non si trova”, confermano fonti vicine alla delegazione del Cds. Dinanzi a tali scenari ha preso forma il G5, il cui impiego sul terreno è stato legittimato dalla risoluzione Onu 2359 del giugno 2017. Un progetto voluto con forza dalla Francia, che in quel territorio è presente con la missione Barkhane, 4 mila uomini di base a N’Djamena in Ciad, che dal 2014 (col supporto di Usa e Spagna) svolgono la funzione di gendarmi del Sahel. “Ed è proprio questa l’aspirazione francese, un cambio della guardia col G5, mantenendo una presenza minima ma un controllo stabile nell’area”, ci dicono fonti diplomatiche. La forza G5 prevede del resto l’impiego di 5.000 soldati e un quartier generale a Sévaré, nel Mali centrale. A comandare la forza è il generale di divisione maliano Didier Dacko. In una sua prima fase la missione prevede il dispiegamento di forze lungo i confini dei Paesi interessati, in una seconda l’impiego di unità di reazione rapida all’interno. Gli obiettivi sono militari ma accompagnati da interventi umanitari, istituzionali e di sviluppo per tutta l’area, secondo il principio del “prima si cura e poi si previene”. Sono due gli aspetti critici del progetto. Quello finanziario, con un investimento iniziale di 423 milioni di euro, per cui ogni Paese G5 ha stanziato 10 milioni, l’Ue 50 milioni e la Francia da sola 8 milioni, per un totale di 108 milioni. Gli altri? Elementi utili emergeranno dalla conferenza dei donatori di dicembre a Bruxelles. Gli Stati Uniti da parte loro però sono stati chiari e, pur ribadendo con forza il sostegno al G5, lo declinano in chiave bilaterale, in linea con la dottrina Trump assai scettica sull’approccio multilateralista. E questo rende complicato un inquadramento del G5 in ambito Onu e in rapporto alla missione Minusma, che opera in Mali forte di un miliardo di dollari di budget. Il rischio è un braccio di ferro che indebolisca il G5 con aiuti non coordinati. “È ipotizzabile un processo progressivo che porti a un’integrazione maggiore nel tempo - spiega l’ambasciatore Cardi - Abbiamo due strumenti, Minusma e G5, occorre farli lavorare assieme”. Un segnale di convergenza potrebbe arrivare già oggi, con la riunione del Cds presieduta dal ministro degli Esteri francese Jean-Yves Le Drian, in cui discuterà del supporto al G5. Nel caso di un’intesa, potrà essere avviata una discussione su cui, su cui il Cds potrebbe votare già nel mese di presidenza italiana. Un risultato importante su un’iniziativa di rilevanza strategica per l’Italia, e sulla quale Roma, questa volta, non può e non deve rimanere indietro.