I magistrati che “liberano” madri e figli dalle ‘ndrine di Roberto Di Bella e Luciano Trovato* Il Sole 24 Ore, 2 ottobre 2017 Le cronache italiane degli ultimi 30 anni sono costellate da fatti di sangue che hanno come protagonisti ragazzi immolati da un sistema criminale che induce bambini e adolescenti a indossare contemporaneamente i panni dei carnefici e delle vittime. È un fatto ormai riconosciuto che le organizzazioni mafiose, per lo svolgimento di specifiche attività illecite, reclutano ragazzi minorenni, per lo più provenienti da quartieri ad alta disoccupazione e da famiglie in condizioni di disagio. Nella crisi della scuola, della famiglia e delle altre strutture sociali, le mafie sembrano spesso l’unico soggetto che riesce a dare un’identità e una parvenza di integrazione. Nel meridione (in Calabria, in particolare) le organizzazioni criminali hanno una base prevalentemente familiare: i giovani di queste famiglie hanno da sempre respirato aria di violenza e di prevaricazione, educati a una cultura di mafia funzionale ad assicurare continuità alla “famiglia”. I minori nascono e crescono in contesti dove hanno visto uccidere i loro padri, fratelli, parenti. In questi casi, secondo il codice d’onore mafioso, deve scattare la vendetta, perciò violenza richiama violenza. Fin da piccoli i componenti di queste “famiglie” sono addestrati alla brutalità, all’uso delle armi e della forza anche nei confronti dei familiari più stretti, quando trasgrediscono le regole. In più occasioni si è assistito all’orrore di figli coinvolti nella scomparsa delle loro madri. “Colpevoli” di avere tradito l’onore della “famiglia”. Di non avere saputo aspettare - vedove bianche - i mariti detenuti in carcere. O di avere desiderato una vita libera dai vincoli del terrore. In tali contesti anche le scelte più intime (fidanzamenti, matrimoni) sono condizionate dalla “famiglia” per suggellare sodalizi costruendo di fatto vere e proprie prigioni culturali. Il carcere è considerato un attestato di professionalità da esibire ai propri coetanei in libertà e, soprattutto, ai capi delle organizzazioni criminali. Per un bambino crescere in contesti di mafia non vuol dire solo assorbire la negatività della dimensione valoriale sostenuta dalla sua famiglia, ma vuol dire anche subire la disincentivazione del processo naturale di progressivo distacco dal nucleo familiare di appartenenza e, senza neppure accorgersene, lo schiacciamento della propria individualità. È il gruppo familiare ad avere identità e non i singoli membri che lo compongono nelle loro diversità e nelle loro peculiarità. Ovviamente la semplice appartenenza a una famiglia mafiosa, qualora questa non trasmetta valori educativi indirizzati alla criminalità, non è presupposto sufficiente per l’intervento giudiziario, ma è anche vero che l’educazione dei figli non può essere lasciata al libero arbitrio dei genitori come se la tutela dell’infanzia dovesse fermarsi sulla soglia di casa della famiglia mafiosa. I provvedimenti sulla responsabilità genitoriale che da qualche anno la giustizia minorile calabrese sta adottando hanno intercettato un bisogno sociale. Hanno dato uno scossone culturale a un sistema che sembrava intangibile. Ci sono madri di ‘ndrangheta, stanche di lutti e carcerazioni, che hanno colto l’opportunità e si rivolgono alla giustizia nella speranza di un futuro diverso per loro e i figli. Ci sono adolescenti che si affidano al loro giudice, che rivendicano la loro libertà. Dimostrare che il futuro non è già scritto, ma da scrivere. Restituire dignità e pari opportunità a chi ha avuto la sfortuna di nascere in determinati contesti: questa la sfida (e l’opportunità) culturale e giuridica lanciata dalla giustizia minorile calabrese. Nei luoghi di mafia ti insegnano da piccolo l’ineluttabilità delle cose, l’impossibilità di cambiarle. Una rassegnazione che si estende purtroppo a molti settori della società civile e politica. Oggi non è più così. Una nuova coscienza civile sta formandosi. La notizia dei provvedimenti del tribunale per i minorenni, dei primi risultati positivi e la rivolta delle madri hanno aperto una breccia. La necessità di rivalutare le strategie di contrasto culturale al crimine organizzato e di educazione alla legalità è diventata un’esigenza sempre più avvertita dopo anni di perplessità, critiche, dissensi e non più un’idea stravagante di uno sparuto gruppo di magistrati. “Liberi di scegliere” è l’Accordo quadro - siglato dai ministri della Giustizia e dell’Interno, dalla Regione Calabria e dai Tribunali minorili - che prevede l’istituzione di équipe educative, formate da assistenti sociali e psicologi con specifica esperienza, che sostengano i giovani e i loro nuclei familiari. Una rete specializzata in grado di aiutare i ragazzi a riconoscere i loro bisogni più profondi, compressi dall’ideologia e dalla tradizione educativa mafiosa. All’interno di questo progetto, in occasione del Congresso dell’Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e la famiglia che si terrà nei prossimi giorni a Catanzaro, verrà firmato un protocollo regionale d’intesa tra i tribunali per i minorenni di Reggio Calabria e Catanzaro e l’Unicef per la realizzazione di attività di sensibilizzazione in favore della tutela dei minori. Accompagnare i giovani anche dopo la maggiore età, fino al raggiungimento di un’autonomia esistenziale e lavorativa, è l’obiettivo finale. In Calabria, ma non solo, coltivare una speranza di riscatto non è più un’utopia. *Presidenti dei Tribunali per i minorenni di Reggio Calabria e Catanzaro Antimafia, la stagione dell’ignoranza di Carlo Nordio Il Messaggero, 2 ottobre 2017 Lo scettico Senofane scriveva che i Traci immaginano gli dei con i capelli biondi e gli occhi azzurri, mentre gli etiopi li dipingono ricci e con la pelle nera; e se un triangolo potesse pensare, concludeva il filosofo, immaginerebbe Dio fatto a triangolo. Questo per dire che ognuno di noi tende a vedere la realtà secondo i condizionamenti dei propri pregiudizi. Ebbene, le parole della Presidente della Commissione antimafia, Rosi Bindi, secondo la quale alcuni giornali criticano il nuovo codice antimafia perché farebbero “gli interessi dei loro editori e colpiscono la riforma per minare le misure di prevenzione” rientrano proprio in questo schema, e non ci devono stupire. Esse infatti esprimono questa incapacità di svincolarsi dalla limitata prospettiva della propria funzione e di accostarsi al diritto in modo razionale. Poiché dunque non crediamo che questa infelice e grave sortita sia il prodotto di un pensiero riflesso, ma una voce fuggita da una incontrollata emotività, non entriamo nella polemica ma ci limitiamo a due osservazioni, una di natura tecnica, l’altra di ordine empirico. La prima. Acquistando - e leggendo - un codice di procedura penale, l’on Bindi constaterebbe che esso è stato sottoposto a una tale serie di integrazioni, soppressioni, e modifiche, da rendere problematica la sua applicazione e impossibile la certezza di quel diritto che esso dovrebbe invece garantire. Per rendercene conto non occorre nemmeno essere esperti giuristi. Basta confrontare, “visum visu” i caratteri italici degli articoli (che rappresentano la versione originale) con quelli in corsivo che ne contengono le dissonanti variazioni. Si vedrà che dell’originario codice Vassalli resta poco o niente, che la stessa Corte Costituzionale ha ripetutamente demolito le sue improvvisate novazioni, e che lo stesso legislatore ha smentito ripetutamente se stesso cambiando le norme adottate magari poco prima. Non solo. Se l’on. Bindi, con un modico supplemento di spesa - e un impegnativo supplemento di lettura - comprasse un codice commentato, vedrebbe che su uno stesso argomento (può prenderne uno a caso) si sono espressi in modo opposto procure, tribunali, corti d’appello e le stesse sezioni della Cassazione. Colpa dei magistrati impazziti? No, colpa delle leggi, che sempre più spesso, essendo dettate più dalla vana speranza di raccattar voti che da un efficace indirizzo di tutela, sono costruite in modo tecnicamente improbabile, e spesso atrocemente contraddittorio. Finché non interviene, appunto, la Corte, abrogandole perché “manifestamente irragionevoli”. È quanto sta accadendo e accadrà con questo codice antimafia, che, equiparando la corruzione al reato associativo, manifestar incapacità di equilibrare quello che si chiama “il disvalore del reato”, cioè la gravità dei comportamenti da punire. Come abbiamo già scritto, di questo passo la estenderemo alla violenza sessuale, all’omicidio stradale e alle altre cosiddette priorità che i partiti enfatizzano ogniqualvolta sentono odore di consenso elettorale. Disperderemo le energie, e la mafia si sentirà sollevata. La seconda. Sin dal suo apparire, questa legge è stata criticata da persone particolarmente attente al fenomeno della corruzione e qualificate nella sua analisi: il primo è stato proprio Cantone, seguito a ruota dal Presidente della Cassazione, Canzio, e dall’Avvocato Generale, il dottor Nello Rossi, notissimo tra i giudici per esser un autorevole esponente di Magistratura Democratica ed ex segretario dell’Anm. Poi sono arrivate le critiche di Luciano Violante, e degli ex presidenti della Corte Costituzionale Annibale Marini e Giovanni M. Flick. Qui ci fermiamo, perché l’elenco sarebbe chilometrico, e comprenderebbe anche politici di destra e di sinistra. Gli argomenti sono sempre gli stessi: equiparare corruzione e mafia è dogmaticamente e tecnicamente uno sbaglio. Concludo. Le parole della presidente Bindi, più che argomenti, sembrano sibili di rancore. Come tali, screditano la stessa autorevolezza di un organo della cui utilità ed efficacia molti cominciano a dubitare. Ma soprattutto non aiutano la lotta alla mafia e tantomeno la prevenzione della corruzione, perché il pasticcio procedurale che ne deriverà le comprometterà entrambe, sollevando tanti e tali cavilli che gli avvocati ne andranno a nozze, dilatando i tempi e rallentando i processi. Ebbene, pare che il governo intenda monitorare, tra un anno, gli effetti di questa stramba novità. Ne riparleremo. Anche se per quell’epoca non ci sarà più questa Commissione antimafia, e probabilmente nemmeno questa presidente a guidarla. Vittime di reato assistite. L’intesa tra il Ministero della Giustizia e l’Associazione Dafne di Marzia Paolucci Italia Oggi, 2 ottobre 2017 Un supporto alle vittime di reato non solo di natura processuale ma soprattutto informativo e psicologico. Nasce per intesa del Ministero della Giustizia e dell’Associazione Rete Dafne Onlus, un primo progetto finalizzato alla mappatura dei servizi di assistenza alle vittime di reato esistenti sul territorio nazionale. Si tratta di recepire la direttiva 2012/29/Ue del Parlamento europeo e del Consiglio recante “norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato” rispetto alle quali l’Italia, ancora non dotata di un servizio nazionale di assistenza alle vittime di reato, è risultata inadempiente. Il protocollo firmato il 14 settembre scorso in via Arenula dal ministro Andrea Orlando e da Marcello Maddalena, già procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Torino e oggi presidente dell’Associazione Dafne, vede l’azione congiunta del Ministero della giustizia e dell’Associazione presente sul territorio nazionale dal 2008 con l’esperienza formatasi a Torino e a Firenze. Di Rete Dafne Onlus, fa parte la città metropolitana di Torino, il Comune di Torino, il Dipartimento di salute mentale dell’Asl T02, l’Associazione Gruppo Abele onlus, l’Associazione Ghenos e la compagnia di San Paolo: una realtà scelta dal Ministero per l’esperienza necessaria a realizzare in tempi brevi la mappatura dei servizi di assistenza alle vittime già esistenti sul territorio nazionale per conto del Ministero della giustizia”, cita il protocollo. Ma la storia dell’intesa con l’Associazione che nel 2008, anno di nascita, è partita assistendo 12 persone vittime di reato e che quest’anno ha già raggiunto le 197, con il picco più alto in dieci anni di assistenza di 303 nel 2015, va fatta risalire già al 2016 con l’istituzione da parte del Ministero di un coordinamento nazionale dei servizi di assistenza alle vittime di reato e l’elaborazione di linee guida da diffondere alle associazioni. Ora, nell’imminenza della valutazione che la Commissione europea effettuerà nei prossimi mesi sull’integrale adempimento dell’Italia agli obblighi derivanti dalla direttiva Ue/2012/29, l’Italia, partecipando a un bando europeo, ha commissionato la mappatura dei servizi esistenti per le vittime di reato all’Associazione che già dispone di un elenco di 1.553 associazioni riconosciute, impegnate nel campo dei servizi di assistenza, ricavato dagli elenchi istituzionali dell’Agenzia delle Entrate e delle Regioni. “Siamo un Paese che da poco ha fatto passi avanti per la tutela effettiva delle vittime di reato”, ha osservato Orlando, “il fondo che le risarcisce è stato costituito solo due anni fa e significativamente rimpinguato quest’anno, passando da 2,6 a 40 milioni di euro. Ma non è ancora sufficiente. Oggi abbiamo cominciato a costruire una rete di tutte le associazioni che si occupano di sostegno alle vittime prima e durante il processo e che ci consentirà di creare un’alleanza tra istituzioni e associazioni per offrire servizi a chi spesso è impossibilitato ad avere piena consapevolezza dei propri diritti e delle risorse a cui può accedere”. Per Orlando è “un passo importante per l’umanizzazione del sistema giudiziario, per riconoscere le vittime come figura importante, non a chiacchiere, ma concretamente, e per fare in modo che ci sia un’effettiva uguaglianza delle vittime di fronte al processo. Spesso le condizioni economiche e culturali fanno la differenza nel far valere i propri diritti”. Il supporto che si vuole dare è sia informativo che psicologico, perché”, ha sottolineato il ministro, “avere vicino persone che aiutano a superare il processo è elemento di sollievo”. Un intervento, il suo, concluso accennando a un servizio ulteriore e collegato: gli sportelli di prossimità: “II piano sarà presentato il 3 ottobre, strutture pubbliche sul territorio finalizzate a rafforzare il servizio giustizia e in cui potrà trovare ospitalità anche questo tipo di servizio. Saranno un front office sul territorio, una sorta di Urp”, e “si troveranno dove non ci sono uffici giudiziari per costruire una rete sul territorio”. L’iter prevede che l’Associazione Dafne faccia da tramite tra il Ministero e l’associazionismo locale esistente diffondendo loro una lettera in cui il ministro Orlando spiega l’obiettivo della mappatura dei servizi di assistenza alle vittime esistenti sul territorio nazionale con una scheda di rilevazione dell’attività che ogni soggetto potrà riconsegnare all’Associazione compilata nelle risposte da ritrasmettere al Ministero della giustizia. Fine ultimo: “Rilevare le best practice esistenti e promuoverne la diffusione sul territorio nazionale”, riporta il protocollo. In lista solo se in aspettativa. Stretta alle toghe in politica, si sblocca la nuova legge di Liana Milella La Repubblica, 2 ottobre 2017 “Si può fare”. Lo dicono, e vanno nella stessa direzione, il capo dei Dem al Senato Luigi Zanda e l’ex toga, ora Mdp, Felice Casson. “Si può approvare la legge sulle toghe in politica esattamente nella stessa versione votata alla Camera. Per non perdere un’occasione”. Paletti rigidi per i giudici che decidono di tentare l’avventura della politica. Finora tre legislature già perse. Ma questa potrebbe essere la volta buona per dissipare, anche senza estremismi e rischi di incostituzionalità, le ambiguità che esistono, i tanti casi discussi, da Emiliano a Ingroia, riconosciuti dai magistrati stessi, come dal Csm e dall’Anm. La chance di cui parlano Zanda e Casson, ma che vedrebbe anche il benestare del presidente del Senato Piero Grasso, si gioca nelle commissioni Affari costituzionali e Giustizia. Ma è solo questione di pochi giorni. È un’altra legge da salvare, la settima dell’elenco proposto da Repubblica. Quella che disciplina “la candidabilità, l’eleggibilità, il ricollocamento dei magistrati in occasione di elezioni politiche e amministrative, nonché di assunzione di incarichi di governo nazionale e negli territoriali”. Quindi, per la prima volta, chi corre per un posto nel Parlamento italiano ed europeo, ma anche chi aspira a fare il sindaco o il presidente di Regione, o solo il consigliere circoscrizionale, o il premier o il ministro o un suo vice, o il presidente di un Authority, o il capo di gabinetto, dovrà rispettare le stesse regole. Rigide sì, anche se non draconiane. Perché nella legge al Senato non c’è l’obbligo, per chi si candida, di lasciare per sempre la toga. Ma paletti sì, come quello che chi decide di candidarsi, a meno che non ci siano all’improvviso elezioni anticipate, dev’essere in aspettativa di 6 mesi. Un esempio? Già da tempo ci susseguono indiscrezioni su una “discesa in campo” dell’ex pm di Palermo Nino Di Matteo, ora alla Procura nazionale antimafia, ma tuttora impegnato nel processo sulla trattativa Stato-Mafia. Se volesse candidarsi, dovrebbe lasciare subito il suo lavoro. Sei mesi sono pochi? Comunque significa stare fuori della mischia. Ma vediamo che può succedere in Senato tra una settimana. Siamo alla fase degli emendamenti. Ce ne sono circa 70, e tutti mirano a inasprire le regole. Vogliono tornare al testo che uscì dallo stesso Senato nel lontanissimo 2014, e che la Camera, a detta dei senatori, avrebbe edulcorato. Se uno solo di questi emendamenti - peraltro molti sono uguali - dovesse passare la partita sarebbe chiusa, perché il testo dovrebbe tornare alla Camera. Qui s’innesta la novità politica. Dice Luigi Zanda, il presidente dei senatori del Pd: “Una legge sulle toghe in politica ci vuole. I margini per approvare il testo nella sua versione attuale sono esigui, ma ci sono”. Felice Casson, da sempre su una posizione drastica - “Chi si candida poi non può più tornare indietro - stavolta veste i panni del mediatore: “Io l’ho già detto in commissione e in più di una riunione con governo e capigruppo: quest’occasione non va sprecata, non è la legge ottimale, ma almeno è una legge, che mette fine alla giungla dei comportamenti, quindi va approvata com’è, anche se io per primo ne vorrei una molto più drastica”. Tutto, adesso, è nelle mani delle commissioni Affari costituzionali e Giustizia. I paletti sono lì: sei mesi di aspettativa per chi si candida, 5 anni di lontananza lavorativa dal luogo in cui ci si candida. Chi non viene eletto non potrà fare il pm, né lavorare là dove si è candidato. Dopo l’esperienza politica, la toga può decidere di tornare in ruolo, ma per tre anni niente incarichi direttivi, ma solo funzioni collegiali. Oppure potrà optare per l’Avvocatura dello Stato o il ministero della Giustizia. Per chi, adesso, è già in politica, lavoro in Cassazione, anche alla procura generale, o alla direzione nazionale antimafia, o all’Avvocatura, sempre senza incarichi direttivi. Alla Camera M5S ha bocciato la legge, come Forza Italia. Entrambi la volevano molto più dura. Ma adesso siamo alla fase del “prendere o lasciare”. Intervista a Luca Palamara. “Se una toga scende in politica non può fare il pm” di Liana Milella La Repubblica, 2 ottobre 2017 Il membro del Csm Luca Palamara commenta le norme in discussione: “Chiediamo da tempo di sanare le anomalie”. “Ben venga, anche in questa legislatura, una legge che disciplini l’ingresso è l’uscita delle toghe dalla politica. Noi magistrati l’abbiamo sempre chiesta”. Lo sa bene Luca Palamara, oggi al Csm, ieri presidente dell’Anni. Che aggiunge: “Non sono solo affermazioni di principio, ma sollecitazioni puntuali che in questi anni abbiamo scritto nei nostri documenti rivolti al Parlamento”. I nemici della legge dicono che ormai è troppo tardi per approvare il testo votato alla Camera al quale rivolgono anche l’accusa di essere troppo blando. Lei da che parte sta? “Posso dire che il Csm, nel pieno rispetto delle prerogative delle due Camere, ha approvato un documento nel luglio 2015 in cui c’erano soluzioni stringenti per il rientro dei magistrati dalla politica. Perché questo è il vero tema da affrontare”. Per questo la legge m discussione viene accusata di essere troppo filo magistrati, nel senso che è previsto il loro ritorno indietro. “La nostra proposta era sicuramente più stringente. Tuttavia, senza esaurirsi nei pro e nei contro, da un lato non si deve demonizzare chi vuole legittimamente fare una esperienza politica, ma dall’altro bisogna dire un no netto alle cosiddette “porte girevoli”. Perché è chiaro che, nel momento in cui si decide di affrontare un percorso politico, il rientro nell’esercizio della giurisdizione diventa problematico. Chi veste i panni del politico finisce necessariamente per perdere, agli occhi dei cittadini, l’immagine fondamentale di terzietà e indipendenza che è imprescindibile per chi fa il nostro lavoro”. Quindi lei vieterebbe la possibilità di un rientro in magistratura anche senza la possibilità di fare il capo di un ufficio e senza fare il pubblico ministero? “Occorre trovare un giusto punto di equilibrio perché non si può dimenticare che la Costituzione esiste e riconosce il diritto di elettorato passivo a tutti i cittadini, ma conservando però il proprio posto di lavoro. Quindi una toga che esce dal Parlamento dovrebbe poter assumere un incarico defilato rispetto all’immediato esercizio della giurisdizione”. Mi faccia degli esempi di quali incarichi potrebbe assumere un suo collega appena ha lasciato la politica. “Non necessariamente chi rientra in magistratura deve fare il giudice o il pm. Può, ad esempio, svolgere funzioni amministrative presso il ministero della Giustizia o andare al Massimario della Cassazione, o ancora entrare nell’Avvocatura dello Stato. Ovviamente il tempo trascorso conta”. L’ingresso in politica. Sei mesi di aspettativa sono sufficienti per potersi candidare? “Rappresentano un termine necessario, direi addirittura indispensabile, per lasciarsi alle spalle il posto di pm o di giudice, e intraprendere la carriera politica. Ovviamente va sottoscritto l’obbligo di presentarsi in un distretto diverso da quello in cui si è lavorato. Purtroppo, in questi anni, ci sono stati troppi casi in cui, invece, il passaggio dalla magistratura alla politica è avvenuto senza alcun filtro. A mio avviso tutto a danno della nostra immagine di imparzialità”. Ma questa legge che arriverebbe a pochi mesi dalle elezioni non rischia di danneggiare chi vuole candidarsi, per esempio con l’obbligo dei sei mesi di aspettativa? “È ovvio chela legge non può che riguardare il futuro e non può preventivamente escludere chi liberamente vuole candidarsi”. È giusto, secondo lei, cancellare per sempre l’anomalia di un magistrato che continua a svolgere il suo lavoro, ma fa. anche il sindaco o l’assessore m un paese vicino? “Da tempo la magistratura stessa chiede di mettere fine a queste situazioni che, per la verità, già i diretti interessati avrebbero potuto evitare”. Giudici onorari, riforma sotto tiro di Antonello Cherchi Il Sole 24 Ore, 2 ottobre 2017 Quattrocento posti da magistrato onorario. Sono quelli che il Csm si prepara a bandire con una delibera da emanare entro metà novembre. Dal ministero della Giustizia, che deve valutare le disponibilità economiche, hanno infatti messo a disposizione 8,5 milioni di euro. È il primo passo della riforma della magistratura onoraria, che ha debuttato a Ferragosto con l’entrata in vigore del decreto legislativo 116, di attuazione della legge delega 57 del 2016, con l’obiettivo di mettere ordine in una situazione che da anni va avanti a forza di proroghe. È la prima tappa di un lungo crono programma, che porterà il nuovo assetto di giudici di pace, giudici onorari di tribunale e vice procuratori onorari a essere definitivamente operativo tra otto anni, nell’ottobre 2025, quando andranno a regime le nuove competenze dei giudici di pace. Una riforma mal digerita dai diretti interessati, che ribadiscono il loro malcontento con uno sciopero che da oggi fino a venerdì bloccherà le udienze civili e penali. Un fronte compatto, che raggruppa le principali sigle dei giudici non togati, decisamente contrari al nuovo assetto voluto dal Governo, perché non risponde “ai principi di salvaguardia e indipendenza della magistratura onoraria”. Sotto accusa è l’intero impianto, ma in particolare i temi legati ai nuovi carichi di lavoro - sarà richiesto un impegno di soli due giorni la settimana - e alla retribuzione, con un’indennità lorda di poco più di 16mila euro lordi l’anno, da cui sottrarre i costi della previdenza - è prevista l’iscrizione alla gestione separata Inps - e il carico fiscale Irpef. Si prospetta, insomma, uno “stipendio” tra i 600 e i 700 euro netti al mese, contro le più ricche retribuzioni attuali, che in alcuni casi - soprattutto per i giudici di pace, che percepiscono un fisso minimo e una parte variabile legata al lavoro svolto - assomma ad alcune migliaia di euro mensili. “E pensare - afferma Rossana Ferrari, presidente dell’Unione nazionale magistrati onorari - che a suo tempo il ministro della Giustizia Orlando disse che secondo lui l’assegno di povertà sarebbe dovuto essere di 800 euro al mese. Più di quanto viene offerto ora a noi”. Si tratta della soluzione che il Governo ha scelto davanti alle richieste dell’Unione europea, la quale ci ha prospettato due strade: stabilizzare i giudici onorari in attività - entrati in magistratura con un incarico a tempo determinato, ma poi, per effetto di ripetute proroghe, rimasti in servizio per decenni - oppure rendere gli “onorari” effettivamente tali, con un mandato temporaneo e un impegno delimitato, che non impedisca loro di fare altro. Ed è quest’ultima la soluzione scelta, che però deve fare i conti con chi sta già dentro il sistema e che ormai da tanti anni vive grazie all’incarico di “onorario”, che per molti non togati rappresenta l’unica professione. Per questo la riforma ha previsto un doppio binario, che consente a chi è già in servizio di conservare modalità di lavoro e retribuzione per i prossimi quattro anni e, per i successivi quattro, di lavorare per tre giorni la settimana, portando l’indennità fissa a 24mila euro annui. Inoltre, si potrà conservare l’incarico per quattro mandati, per un totale di 16 anni, contro gli otto (due mandati) riservati ai futuri nuovi ingressi. “Tutto vero - osserva Gabriele Di Girolamo, presidente dell’Associazione nazionale dei giudici di pace, ma che non impedisce di pensare che tra qualche anno il meccanismo si bloccherà, perché aumenteranno in modo significativo le competenze, ma si lavorerà di meno”. Nelle intenzioni della Giustizia, tuttavia, c’è il progetto di aumentare il numero totale dei magistrati onorari di 4mila unità, così che con più giudici in campo basterà anche un impegno bisettimanale. Ci vorrà, però, tempo, per tradurre in realtà tali propositi. Per ora si deve far fronte alle forti scoperture soprattutto fra i giudici di pace: ne mancano 2.215 (il 60%). A Roma, per esempio, su 210 posti, i giudici di pace in servizio sono 75. “Al di là di tutto - sottolinea Ferrari - c’è il fatto che la riforma ci bistratta, incidendo sull’organizzazione degli uffici e sulla nostra autonomia. E lasciando diverse questioni aperte. Per esempio, l’iscrizione alla gestione separata dell’Inps si deve fare già da ora? E nell’istituto di previdenza dove dobbiamo essere collocati?”. Il malcontento degli “onorari” è finito a Bruxelles, dove il 22 novembre il Parlamento esaminerà la petizione italiana per verificare se la riforma della magistratura onoraria è in linea con i dettami Ue. E anche presso la Corte di giustizia pende una pregiudiziale di analogo tenore. Napoli: celle piene, rivolta dei familiari dei reclusi di Giuseppe Letizia Cronache di Napoli, 2 ottobre 2017 Celle piene nel carcere di Poggioreale. Scatta la protesta dei familiari dei detenuti: siamo preoccupati, anche per le recenti notizie di cronaca, tra aggressioni, liti e risse. C’è troppa tensione e l’attenzione sulle condizioni dei reclusi si sta lentamente abbassando. “Occorre riportare il dibattito e gli occhi dell’opinione pubblica sulla vita ali ‘interno del carcere - scandisce il presidente dell’associazione Ex detenuti organizzati napoletani, Pietro loia - ci continuano ad arrivare reclami dai detenuti. Da quando il direttore Antonio Fullone è stato trasferito a Firenze dopo tanti passi in avanti, la situazione sta tornando ai livelli allarmanti di qualche anno fa. Serve fare qualcosa e subito”. Per questo gli Ex D.O.N. e le associazioni Rete di solidarietà popolare e Gioco di squadra Onlus hanno organizzato la manifestazione insieme ai parenti dei reclusi davanti al carcere. Oltre cinquanta persone hanno sfilato in via nuova Poggioreale. “Non è stato possibile parlare con il vicario, che ora sostituisce Fullone durante la fase di transizione - continua loia - ma quando sarà nominato il nuovo direttore? Non bisogna perdere tempo. Serve subito una figura autorevole, che prenda il suo posto e che detti le linee guida, per migliorare le condizioni nel carcere. E non è stato possibile nemmeno ascoltare il responsabile del settore sanitario, materia che seguiamo con particolare interesse, perché attiene alla salute dei reclusi. Per questo motivo una nostra delegazione sarà di nuovo nel carcere mercoledì, per parlare con il referente del settore sanitario e fare il punto della situazione”. Il sovraffollamento torna a fare paura negli istituti campani. L’ultimo episodio è accaduto poche settimane fa, quando un detenuto ha scritto una lettera-denuncia dal carcere di Poggioreale. Racconta di una vicenda, che sarebbe accaduta ad inizio settembre nel padiglione Milano. Spiega che davanti alla sua cella c’è una stanza, dove sono reclusi nove stranieri, tra bulgari, georgiani, marocchini e nigeriani. È arrivato un altro extracomunitario, ma nella camera non lo hanno voluto. Non perché straniero, ma perché “quelle sono celle da sei posti letto, che poi diventano anche da dieci - spiega Fabio nell’esposto - insomma stanno stretti”. Uno si è ribellato e c’è stato un breve parapiglia. Sono giunti gli agenti. Sempre secondo il racconto del detenuto, lo straniero che aveva protestato per il nuovo arrivo, sarebbe stato malmenato. Poi c’è stata una sorta di sommossa nel carcere, una rivolta nel padiglione Milano. Ma la situazione è tornata lentamente alla normalità. “Non capisco come mai sia possibile che nel 2017 dobbiamo subire ancora questi episodi”, conclude il recluso Pavia: tre detenuti hanno tentato il suicidio in 24 ore Corriere della Sera, 2 ottobre 2017 Il provveditore Luigi Pagano: “Struttura sovraffollata” Il sindacato di polizia: “I detenuti sono fuori controllo”. Tre giovani rinchiusi a Torre del Gallo, il carcere di Pavia, hanno tentato di togliersi la vita. Tutti nello stesso giorno. Per il Provveditore Luigi Pagano la struttura è sovraffollata e il sindacato della polizia penitenziaria denuncia che i detenuti sono “fuori controllo”. Nel carcere di Pavia tre tentativi di suicidio in un solo giorno. Tre giovani carcerati rinchiusi a Torre del Gallo, la casa circondariale alla periferia Est della città, hanno tentato di togliersi la vita. La prima richiesta di soccorso dal penitenziario alla centrale del 118 è partita venerdì intorno alle 11.30: un detenuto nordafricano di 24 anni era stramazzato a terra in cella, privo di sensi. Non sopportava più la vita dentro il carcere, così ha preso la bombola da cucina, fornita in dotazione per l’uso del fornelletto, e ha inalando gas metano per diversi minuti. Ad avere avuto la peggio, dei tre, è stato proprio lui. Il 24enne, ricoverato a seguito della forte intossicazione, versa in gravi condizioni nel reparto di rianimazione del San Matteo. Poco prima di mezzanotte, la seconda chiamata dal penitenziario di via Vigentina. Questa volta sono state le guardie, durante il giro di controllo tra le celle, ad accorgersi di quanto stesse accadendo. Un’altra storia di insofferenza e disagio: un giovane detenuto di 25 anni stava tentando di impiccarsi con della biancheria alle sbarre. Gli agenti lo hanno fermato giusto in tempo, per poi scortarlo in ospedale dove è stato ricoverato per le cure mediche. Se la caverà con qualche giorno di prognosi. Una sequela preoccupante culminata nel primo pomeriggio di ieri, quando un carcerato di 27 anni ha provato a recidersi la vena femorale con una lametta. Il ragazzo sarebbe svenuto vedendo il sangue uscire, evitando così di andare a fondo. Il terzo a finire in ospedale per lo stesso disperato motivo. Il Sappe, Sindacato autonomo di polizia penitenziaria, e il Provveditorato alle Carceri, esprimono forte preoccupazione: a Pavia 130 detenuti di troppo e 50 agenti in meno. “Nel penitenziario pavese riscontriamo problemi di grosso sovraffollamento - spiega Luigi Pagano, Provveditore alle carceri per la Lombardia. La struttura comprende anche un polo psichiatrico; situazioni delicate già in partenza. Siamo sotto organico e gli agenti fanno il possibile. Non sempre arrivano in tempo, purtroppo”. Per il sindacato, invece, la colpa è della vigilanza dinamica, di quelle “celle aperte” che permettono ai detenuti di agire indisturbati. “Questo è il prezzo che paghiamo per una scellerata politica penitenziaria che ha lasciato i detenuti senza nessun controllo - spiega Donato Capece, segretario generale Sappe -. Il ministro deve fare marcia indietro: bisogna tornare alla politica penitenziaria statica, con le guardie tra le celle 24 ore su 24. Senza sorveglianza i tentativi autolesionistici aumentano a dismisura. Quando non ci scappa il morto”. Vercelli: i Radicali “carcere, struttura degradata, affollamento e scarsità di personale” infovercelli24.it, 2 ottobre 2017 Sabato 30 settembre 2017 una delegazione organizzata dal Partito Radicale ha visitato la Casa Circondariale di Vercelli (Roswitha Flaibani - garante dei detenuti, Daniele Iglina e Silvia Molè - iscritti al Partito Radicale - Donatella Capra, consigliera comunale, e Sergio Bagnasco, uno dei portavoce di Mdp a Vercelli). Le autorità responsabili per l’accesso alla struttura si sono dimostrate molto collaborative nel fornire tutte le informazioni richieste e nel garantire l’ispezione delle varie aree di permanenza della popolazione carceraria, fornendo anche un preventivo assenso alla proiezione del documentario di Ambrogio Crespi dal titolo “Spes contra Spem”. Attraverso il colloquio preliminare a detta ispezione si è evinto un quadro generale di rado evidenziato o seriamente analizzato dai grandi media nazionali. La stragrande maggioranza della popolazione carceraria proviene da ambienti di estrema precarietà o degrado socio-economico e/o culturale, ambienti ai quali è destinata a rientrare nel caso di inadeguate politiche di reinserimento. Sono stati condotti molti colloqui con detenute e detenuti, laddove la possibilità di lavorare all’interno della struttura nonché di poter svolgere attività di varia natura (culturali, sportive, di formazione professionale quali il corso di geometri e quello alberghiero) è parsa primaria al fine di evitare forti stati di depressione (numerosi i casi di autolesionismo, anche per gli scarsi contatti con le rispettive famiglie) e al fine di favorire un reale e positivo atteggiamento nel senso di progetti di vita futura, mentre solo sono 5 i detenuti in regime di art. 21 che hanno la possibilità di uscire dall’istituto per svolgere attività lavorative. Secondo dichiarazioni delle stesse autorità penitenziarie le persone coinvolte in attività lavorative sono quelle che offrono maggiori garanzie in termini di stabilità emotiva e civile convivenza all’interno dell’istituto. Alcune detenute hanno lamentato disparità di trattamento rispetto ai detenuti (numericamente molto superiori: attualmente su 300 detenuti, 277 uomini e 23 donne, a fronte di una capienza regolamentare di 231 posti), che cercheremo di approfondire in collaborazione con le autorità competenti (corsi di formazione professionale dedicati, migliore allestimento di aree sportive). La struttura appare in buona parte in stato di degrado (infiltrazioni, infissi con spifferi che rendono scarsamente efficace l’impianto di riscaldamento, almeno un’area docce senza impianto di riscaldamento, celle ristrette in cui la zona sanitari - senza docce - coincide con il “cucinino”. La Direzione si adopera per realizzare per step la manutenzione straordinaria ( per esempio partirà a breve il rifacimento del tetto della sezione femminile) attraverso i finanziamenti della Cassa Ammende, per ovviare ai problemi di degrado strutturale. Le celle sono aperte circa 8 ore al giorno. L’unico piano attualmente a norma di legge pare essere il quinto, di fatto considerato area premio per coloro i quali aderiscono al patto trattamentale. Chiaramente, in ottica di diritti del detenuto, una struttura a norma dovrebbe essere garantita a tutti, difficile in paesi che dal lato pratico tendono a prendere in considerazione quasi solo l’aspetto retributivo della pena, con scarsi investimenti quindi nel settore del reinserimento e della manutenzione o ristrutturazione degli istituti, che sarebbero nell’interesse stesso sia del personale operante all’interno che della collettività tutta. Il personale penitenziario appare infatti ridotto rispetto alle reali esigenze, sia in termini di agenti di polizia penitenziaria che di educatori. Le aree per i colloqui con gli esterni - senza divisori - e in particolare quella per l’incontro con i bambini con molti giochi a disposizione appaiono del tutto adeguati. Durante la visita i detenuti hanno anche chiesto delucidazioni sulla possibilità di iscriversi al Partito Radicale e, alcuni di loro, hanno preannunciato la loro volontà di iscriversi per scongiurare la chiusura del Partito cui si andrebbe incontro se non si raggiungessero 3000 iscritti entro il 31/12. Un contributo fondamentale è dato da varie associazioni di volontariato che offrono sia materiali che attività ricreative. Una società senza carceri non deve essere una utopia, ma un obiettivo concreto al quale tendere. Questo obiettivo può essere raggiunto solo costruendo al di fuori delle carceri una società migliore in termini di pari opportunità ampiamente intese. Prato: i detenuti in permesso premio ritrovano il loro rifugio Il Tirreno, 2 ottobre 2017 La Casa Jacques Fesch per i carcerati è stata ufficialmente inaugurata ieri mattina, sabato 30 settembre, dopo due mesi di ristrutturazione. Con il taglio del nastro e la benedizione del vescovo Franco Agostinelli, la struttura è pronta ad accogliere nuovi detenuti. Dedicata al criminale francese convertito in carcere, la casa è di proprietà della parrocchia di Narnali e si trova in via Pistoiese 515/c, accanto al vecchio chiesino. La struttura è un tassello fondamentale del progetto della Caritas diocesana “Non solo carcere”, che ha come obiettivi l’accoglienza del detenuto, il suo reinserimento sociale e lavorativo e la sensibilizzazione della cittadinanza. La Casa è presente sul territorio dal 1990 ed ha avuto un utilizzo continuativo. La sua funzione nel tempo non è cambiata: accoglie i carcerati in permesso premio oppure a fine pena che non hanno un luogo in cui risiedere. La casa è composta da due zone: una pensata per i detenuti con due camere da tre posti letto ciascuna e una cucina; l’altra è un piccolo appartamento con ingresso indipendente con due posti letto per l’accoglienza delle famiglie o dei detenuti il cui soggiorno è più duraturo. “Io credo - dice il vescovo Franco Agostinelli - che questa sia un’opera degna di considerazione e di plauso per tutti coloro che ci hanno impiegato tempo, denaro e disponibilità: mi riferisco soprattutto alle associazioni di volontariato del territorio, a cui va la mia gratitudine”. Fossombrone: cinque detenuti ammessi a lavori di pubblica utilità di Roberto Giungi flaminiaedintorni.it, 2 ottobre 2017 Saranno cinque i reclusi del carcere di Fossombrone, che potranno svolgere lavori di pubblica utilità. all’esterno del luogo di detenzione per la pulizia di strade o piazze o in veste di operai generici nella casa di riposo comunale. La convenzione con il Ministero della Giustizia è stata rinnovata dalla Giunta comunale nel rispetto del dispositivo che era stato attivato anche alcuni anni fa. Si tratta di lavori non retribuiti ai quali sono ammessi i reclusi che lo richiedono. Vengono definiti “pena del lavoro di pubblica utilità a favore della collettività”. Un’iniziativa che consente di aprire possibilità sempre maggiori nell’opera di socializzazione e reintegro nel contesto sociale. Da sempre la presenza dell’istituto di pena nella cittadina metaurense ha costituito un punto di riferimento sia per quanto attiene l’economia del territorio sia per ciò che riguarda le varie iniziative che cercano tuttora con grande impegno di portare messaggi di solidarietà ed impegno sociale all’interno delle celle. Buona cosa viene giudicata la decisione del Comune i cui amministratori hanno voluto dare un altro segnale importante a favore di chi è ristretto ma può usufruire delle condizione migliori previste dalle legge in vigore. Agrigento: “la cella è troppo piccola”, detenuto scarcerato e risarcito Agrigento Giornale di Sicilia, 2 ottobre 2017 Cella troppo piccola, scatta la scarcerazione. Per quasi tre anni è stato detenuto in uno spazio medio a sua disposizione, considerati gli altri reclusi, di appena 2,73 metri quadrati. E così il magistrato di sorveglianza di Agrigento, Walter Carlisi, ha liberato in anticipo e ordinato un risarcimento di 7.208 euro nei confronti di Domenico Seddio, accusato di mafia. Ritenendo, scrive il Giornale di Sicilia, che il suo trattamento carcerario sia stato “degradante e contrario ai principi costituzionali”. Seddio, 44 anni, avrebbe dovuto finire di scontare nelle prossime settimane la seconda condanna per associazione mafiosa, inflitta nell’ambito della maxi inchiesta Dna che ha fatto luce sull’ennesimo tentativo di riorganizzazione mafiosa delle cosche nel versante empedoclino. La data del fine pena era prevista per il 17 ottobre ma il magistrato, in accoglimento del reclamo proposto dall’avvocato Vita Maria Mazza, ha disposto la scarcerazione immediata e non solo: per il restante periodo di detenzione al carcere di contrada Petrusa, Seddio dovrà essere risarcito con 8 euro al giorno che moltiplicati per 901 fanno 7.208 euro. “Dai calcoli elaborati - scrive il magistrato - risulta che Seddio, durante il periodo di detenzione, sia stato collocato per 1092 giorni in uno spazio pro capite, al netto di bagno, suppellettili e letto di meno di tre metri quadrati”. Carlisi sottolinea che nelle celle in cui è stato detenuto “era comunque presente la finestra che garantiva l’accesso di aria e luce naturale ma risulta che in molte celle sono presenti infiltrazioni di acqua provenienti dal tetto o da perdite dell’ impianto idrico che comportavano ripercussioni negative dal punto di vista igienico e sanitario”. Nell’ordinanza si aggiunge anche che le docce sono quasi tutte carenti di manutenzione, tali da far ritenere concreto il pericolo di insorgenza di malattie. Genova: assassino spietato o dissidente, il giallo del russo in cella di Marco Preve La Repubblica, 2 ottobre 2017 Tra i tanti arcani su cui è stato costruito il potere del Cremlino, è forse quello che tormenta di più l’ultimo zar: la sorte del tesoro di soldi e segreti accumulato da Boris Berezovsky, il primate degli oligarchi. Con il crollo dell’Urss Berezovsky riuscì ad accumulare una ricchezza valutata in tre miliardi di dollari e conquistare un posto di primo piano alla corte di Boris Eltsin. Ma poi alla fine degli anni Novanta ha cercato di sbarrare l’ascesa di Vladimir Putin ed è stato costretto all’esilio in Gran Bretagna, dove quattro anni fa è morto in circostanze mai chiarite. La sua scomparsa però non ha chiuso la caccia ai suoi forzieri, condotta a colpi di kalashnikov e di azioni legali. E l’ultima mossa di questa partita micidiale adesso si disputa tra Mosca, Londra e Genova. I giudici liguri devono pronunciarsi sull’estradizione di Mikhail Nekrich, ingegnere minerario residente in Svizzera arrestato a febbraio a Ventimiglia. In Russia lo accusano di concorso nell’omicidio di Alexander Mineev altro magnate post sovietico a capo di un impero da un miliardo di euro, abbattuto a colpi di mitra mentre viaggiava sul suo suv. Un’esecuzione che sarebbe stata ordinata per impossessarsi di 18 società del valore di 130 milioni di euro: i mandanti - secondo le autorità di Mosca - sarebbero Nekrich e il suo socio in affari Georgy Shuppe. E Shuppe è un’altra figura chiave: il genero di Berezovsky, come lui emigrato a Londra nel 2001. Lì poche settimane fa, il 4 agosto, il giudice distrettuale di Westminster, Kenneth Grant, ha scritto un capitolo importantissimo di questa vicenda: bollando con un marchio di infamia la giustizia russa, rivelando dei retroscena segreti e fornendo una speranza a Nekrich. Il giudice inglese ha infatti respinto la richiesta di estradizione nei confronti di Shuppe, accusato anche lui per l’omicidio Meneev. E la sentenza è stata depositata dagli avvocati di Nekrich, Andrea Rovere e Sabrina Franzone, nella cancelleria della Corte di Appello di Genova che deve decidere il destino del presunto complice. Nelle motivazioni il giudice Grant dà credito a chi “in Russia crede che Shuppe sappia dove si trovano i fondi del signor Berezovsky o chi abbia il controllo di tali fondi”. E ha evidenziato quanto alti siano gli interessi in gioco: “È stato provato che l’impulso per la sua estradizione è stato dato dai massimi livelli del regime russo a causa della loro persistente preoccupazione circa il signor Berezovsky e degli stretti legami tra i due uomini”. Insomma, tutto nasce dal Cremlino. Che non potendo mettere le mani su Shuppe, adesso deve riuscire a ottenere Nekrich. Lui ha messo nero su bianco le sue paure: “Se mi mandano in Russia la mia vita è in pericolo. Da me pensano di poter ottenere dei file su Berezovsky”. Non solo. Ha rivelato che nel 2015 fu sventato un piano per ammazzarlo: al killer sarebbe stato pagato mezzo milione di dollari. Davanti ai giudici italiani, Nekrich si fa scudo con la sentenza londinese. Un verdetto che smonta impietosamente la ricostruzione investigativa della polizia e della magistratura russa, piena di contraddizioni, di presunti testimoni oculari che, hanno in realtà riciclato discorsi uditi da terzi non meglio specificati, e contrassegnata da una costante violazione dei diritti di difesa. Scrive, tra le altre cose, Grant: “Il rapporto investigativo appare come una sfacciata collezione di accuse che non trovano riscontro... debolezza del quadro indiziario”. Ma il punto chiave arriva alla fine. Il giudice inglese boccia la richiesta di estradizione per il rischio di violare la Convenzione europea dei diritti dell’uomo che garantisce il giusto processo: quello russo invece “è un ordine giudiziario giovane sensibile alle pressioni e agli interessi politici”. E conclude: “Nel caso avesse luogo un processo senza giuria il giudice assegnatario sarebbe oggetto di “giustizia telefonica”. La condanna di Shuppe potrebbe significare un grande successo del regime in carica”. Cioè di Putin. La giustizia inglese è andata oltre. Per valutare le condizioni in cui sarebbe stato detenuto Shuppe in caso di estradizione, ha nominato una commissione di esperti incaricandola di visitare il carcere in cui Shuppe, ma anche Nekrich, potrebbero essere rinchiusi. La loro relazione è da brividi. Dice il professor Rod Morgan, uno dei periti: “Il regime carcerario nella Colonia 5 è il più oppressivo che ho avuto occasione di vedere”. La Colonia 5 di Vologda è un penitenziario a 500 chilometri da Mosca ospitato in un antico monastero circondato da un lago. Venne trasformata in carcere bolscevico durante la Rivoluzione d’Ottobre e diventò uno dei luoghi più nefasti delle purghe staliniane. Poi alla fine degli anni Novanta è stata ristrutturata per accogliere i condannati all’ergastolo. “La Colonia 5 è la prigione più isolata ed oppressiva che abbia mai visitato - ha dichiarato un altro dei consulenti, Alan Mitchell - Vi è un sistema di incessante oppressione. Nessun detenuto è stato refertato nel locale pronto soccorso negli ultimi venti anni”. Le autorità britanniche non hanno permesso che una persona venisse condotta in una prigione del genere. E quelle italiane? Terrorismo. I jihadisti e le donne bersaglio degli attacchi di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 2 ottobre 2017 Il primo avvertimento era arrivato nel settembre di tre anni fa. In un messaggio di 42 minuti diffuso via twitter il portavoce dello Stato Islamico, Abu Mohummed Adnani, aveva annunciato nuovi attentati, inserito l’Italia nella lista degli Stati da colpire e poi era stato esplicito: “Con la volontà di Dio, distruggeremo la Croce, conquisteremo la vostra Roma e prenderemo le vostre donne”. Una minaccia che con il trascorrere del tempo è evidentemente diventata strategia di attacco. Poco più di un mese fa, il 19 agosto, un marocchino è entrato in azione a Turku, in Finlandia. Ha ucciso a coltellate una signora di 67 anni e una ragazzina di 15, ha ferito due svedesi e un’italiana della provincia di Arezzo. La matrice terroristica è apparsa subito chiara così come l’obiettivo. “Puntava solo le donne”, ha dichiarato il portavoce della polizia. I fondamentalisti hanno sempre mostrato disprezzo per le donne. Le testimonianze di chi è stata rapita e tenuta prigioniera a Daesh rivelano la ferocia di questi individui per i quali le femmine sono soltanto oggetti da picchiare, seviziare, stuprare. Non si salvano nemmeno quelle ragazze che si offrono ai terroristi convinte di sposare la loro causa. Nonostante gli analisti avessero più volte messo in guardia rispetto al rischio che le giovani occidentali venissero circuite attraverso i social network e convinte a partire per lo Stato Islamico, molte ragazze tedesche, britanniche e anche italiane hanno intrapreso il viaggio senza ritorno. Quanto accaduto ieri a Marsiglia rivela nuovamente la selezione del bersaglio: due donne vittime di una furia cieca e assurda. È un ulteriore salto di qualità che non deve essere sottovalutato in quell’attività di prevenzione che certamente non può garantire il massimo livello di sicurezza ma può selezionare e proteggere in maniera più accurata gli obiettivi. E dunque quei luoghi, prime fra tutte le scuole, che le donne frequentano. I posti dove vivono e lavorano. Terrorismo. Accoltella due ragazze a Marsiglia, attentatore ucciso dalla polizia francese di Paolo Levi La Stampa, 2 ottobre 2017 Torna il terrore in Francia, ma stavolta nel mirino non ci sono gendarmi e poliziotti. Gli obiettivi sono due ragazze, 17 e 20 anni, fuori dalla stazione di Marsiglia. L’assassino, non radicalizzato né noto per fatti di terrorismo ma delinquente abituale, ha tagliato la gola alla prima appena fuori dalla stazione di Saint-Charles, ha abbozzato una fuga, poi è tornato e ha pugnalato l’altra. Quando ha visto una pattuglia di militari si è gettato contro di loro gridando “Allah Akbar”, ma il primo soldato che ha estratto l’arma lo ha abbattuto con due colpi. In serata, l’Isis ha rivendicato l’attacco, definendo l’assalitore un suo “soldato”. In ogni caso, resta un alone di mistero su questo “atto barbaro”, come l’ha definito il presidente della Repubblica, Emmanuel Macron. Il quale ha ringraziato i poliziotti a un mese da quella che dovrebbe essere la conclusione di uno stato d’emergenza durato due anni. In Parlamento, tante discussioni per il pacchetto terrorismo che dovrebbe rendere legge permanente parecchie disposizioni eccezionali. A Marsiglia erano le 13.45, la stazione era affollatissima come sempre la domenica quando - in pochi secondi - si svolge la violentissima azione. Le videocamere inquadrano l’uomo, seduto, immobile su una panchina della stazione, concentrato. All’improvviso si alza e si scaglia contro la prima vittima. Poi, fugge, torna e attacca l’altra. Usa sempre un grosso coltello da macelleria, ma quando i poliziotti perquisiranno il cadavere gli troveranno addosso un altro coltello. Nessun dubbio, quindi, che si sia recato a Saint-Charles per colpire. Fra le grida della gente e il fuggi fuggi generale, una pattuglia del dispositivo antiterrorismo Sentinelle individua l’assassino che si getta con il coltello sui militari. Uno di loro estrae l’arma d’ordinanza e gli spara per due volte, uccidendolo ed evitando ulteriori vittime, come non hanno mancato di sottolineare tutti i commentatori. Nonostante l’apparente evidenza dei fatti, l’episodio mantiene un alone di mistero. Ad alimentare gli interrogativi, c’è anche la comparsa del ministro dell’Interno, Gerard Collomb, davanti alle telecamere. Un’apparizione attesa a lungo che si è rivelata scarna di certezze, nonostante le ore trascorse. Nonostante l’inchiesta sia stata affidata alla procura antiterrorismo, e prima della rivendicazione dell’Isis, Collomb ha sottolineato che “potrebbe trattarsi” di un attentato terroristico. Non ha comunicato i nomi delle vittime, non si è sbilanciato sull’assassino, che - tramite il Dna e le immagini video - è stato ampiamente identificato. Ha fra i 30 e i 35 anni, aspetto nordafricano, pregiudicato per delinquenza comune, reati come scippi, furti, spaccio di stupefacenti, arrestato almeno una decina di volte. Ma non uno sprovveduto, né un improvvisatore: in vari paesi del Maghreb, ogni volta che la polizia l’ha fermato, lui ha fornito generalità e documenti diversi, sette identità per la precisione. Mai, però, era stato schedato come a rischio radicalizzazione. L’abbraccio del Papa ai migranti: “siete lottatori di speranza” di Giuseppe Baldessarro La Repubblica, 2 ottobre 2017 Nell’hub indossa lo stesso braccialetto dei profughi: “Molti non vi conoscono e si sentono in diritto di giudicare”. Al mondo del lavoro e della cooperazione: “I disoccupati non sono numeri”. E loda il “sistema Emilia”. Pranzo con poveri e detenuti, poi vede gli universitari: “Diritto allo studio sacrosanto. Ci servono parole non urla”. Morandi canta in piazza Maggiore. In 40mila allo stadio. “Siete lottatori di speranza. Qualcuno non è arrivato perché è stato inghiottito dal deserto o dal mare. Gli uomini non li ricordano, ma Dio conosce i loro nomi e li accoglie accanto a sé”. Comincia con queste parole, pronunciate al centro di accoglienza per i migranti di via Mattei, la visita del Papa a Bologna, tra gli ospiti dell’hub in festa che gli danno il benvenuto urlando e chiamandolo per nome, le magliette con la scritta “Welcome” e i cartelli. Tra le tante tappe di Francesco, l’Angelus in piazza Maggiore, dove ha incontrato il mondo del lavoro (“I disoccupati non sono numeri”) e i familiari delle vittime delle stragi, tra cui Marina Orlandi, vedova di Marco Biagi. Poi il pranzo con i poveri in San Petronio. Code per la messa allo stadio, dove sono andate 40mila persone. Dal punto di vista della sicurezza, la situazione è stata costantemente monitorata in prefettura da un’unità di crisi. In mattinata Bergoglio ha parlato in piazza a Cesena, dove ha lanciato un monito alla politica contro la corruzione. Francesco ha lodato Bologna, “città da sempre nota per l’accoglienza, dove qualcuno ha trovato un fratello da aiutare o un figlio da far crescere. Come vorrei che queste esperienze si moltiplicassero, la città non abbia paura di donare i cinque pani e i due pesci. Tutti saranno saziati. Bologna è stata la prima città in Europa, 760 or sono, a liberare i servi della schiavitù. Erano 5.855, tantissimi, eppure non ebbe paura, vennero riscattati dal Comune, dalla città. Forse lo fecero anche per ragioni economiche, perché la libertà aiuta tutti e a tutti conviene. Non ebbero timore di accogliere quelli che allora erano considerate non persone e riconoscerli come essere umani. Scrissero in un libro i loro nomi, come vorrei succedesse anche con i vostri nomi”, ha detto ai migranti che lo ascoltavano. All’hub di via Mattei, prima periferia della città, è una domenica di festa. Dopo la colazione gli ospiti si sono preparati con qualche cartello come “welcome Papa Francesco”, e “ho già visto troppa guerra”, mentre una ragazzina africana con le trecce gialle e nere sventola un orsacchiotto di peluche che sognava di dare al pontefice. Bergoglio riceve, come gesto simbolico, un braccialetto simile a quello fornito agli ospiti (video). “Molti non vi conoscono e hanno paura - ha detto nel suo discorso il Papa - questa li fa sentire in diritto di giudicare e di poterlo fare con durezza e freddezza credendo anche di vedere bene. Da lontano possiamo dire e pensare qualsiasi cosa, come facilmente accade quando si scrivono frasi terribili e insulti via internet. Oggi vedo solo tanta voglia di amicizia e di aiuto. Vorrei ringraziare le istituzioni e tutti i volontari per l’attenzione e l’impegno nel rendersi cura di quanti qui siete ospitati. Alcuni di voi sono minorenni: questi ragazzi e ragazze hanno un particolare bisogno di tenerezza e hanno diritto alla protezione, che preveda programmi di custodia temporanea o di affidamento”. Sul fenomeno dell’immigrazione, ha aggiunto: “Richiede visione e grande determinazione nella gestione, intelligenza e meccanismi chiari che non permettano distorsioni o sfruttamenti, ancora più inaccettabili perché fatti sui poveri. Credo davvero necessario che un numero maggiore di Paesi adottino programmi di sostegno privato e comunitario all’accoglienza e aprano corridoi umanitari per i rifugiati in situazioni più difficili. Vengo in mezzo a voi perché voglio portare nei miei i vostri occhi, nel mio il vostro cuore. Voglio portare con me i vostri volti che chiedono di essere ricordati, aiutati, direi “adottati”, perché in fondo cercate qualcuno che scommetta su di voi, che vi dia fiducia, che vi aiuti a trovare quel futuro la cui speranza vi ha fatto arrivare fin qui”. Poi una sorta di raccomandazione: “ “Vi esorto ad essere aperti alla cultura di questa città, pronti a camminare sulla strada indicata dalle leggi di questo Paese”. “La disoccupazione giovanile e i tanti che hanno perduto il lavoro e non riescono a reinserirsi sono realtà alle quali non possiamo abituarci, trattandole come se fossero solamente delle statistiche”, ha detto il Papa in piazza Maggiore durante l’incontro con il mondo del lavoro e della cooperazione. Poco prima Gianni Morandi aveva cantato davanti a 5mila persone in festa. Per Bergoglio accoglienza e lotta alla povertà “passano in gran parte attraverso il lavoro” e non si aiutano i “poveri senza che possano trovare lavoro e dignità”, “è la sfida appassionante, come negli anni della ricostruzione dopo la guerra, che tanta povertà aveva lasciato. Il recente “Patto per il lavoro”‘, che ha visto tutte le parti sociali, e anche la Chiesa, firmare un comune impegno per aiutarsi nella ricerca di risposte stabili, non di elemosine, è un metodo importante che auspico possa dare i frutti sperati”. Per Bergoglio, “non bisogna piegare la solidarietà alla logica del profitto. Cercare una società più giusta non è un sogno del passato”. Bergoglio ha elogiato e benedetto il “sistema Emilia”, inteso come un sistema che tiene insieme benessere e giustizia. “Solo il dialogo, nelle reciproche competenze può permettere di trovare risposte efficaci e innovative per tutti, anche sulla qualità del lavoro, in particolare l’indispensabile welfare”. Senza dimenticare la cooperazione, che del “sistema Emilia” è l’esempio più evidente e che “ha ancora molto da offrire, anche per aiutare tanti che sono in difficoltà e hanno bisogno di quell’ascensore sociale che secondo alcuni sarebbe del tutto fuori uso”. I rappresentanti di quel “modello”, dopo l’Angelus, sono sfilati per salutarlo e molti di loro sono ex comunisti, come l’ex presidente della Regione Vasco Errani, il presidente di Unipol Pierluigi Stefanini e altri rappresentanti del mondo della cooperazione e del sindacato. Papa Francesco pranza insieme agli ultimi in San Petronio: “La Chiesa vi vuole al centro”, dice il Pontefice prima di sedere a tavola con poveri, detenuti e migranti. “Cari fratelli e sorelle, che gioia vederci in tanti in questa casa! È proprio come la casa di nostra Madre, la casa della misericordia, la Chiesa che tutti accoglie, specialmente quanti hanno bisogno di un posto. Siete al centro di questa casa. La Chiesa vi vuole al centro”. Il menu del pranzo è stato composto da lasagne al ragù di manzo, cotoletta di tacchino con crema di parmigiano accompagnata da patate alla provenzale, centrotavola di uva e prugne settembrine e torta di riso. È stato preparato da Camst e Felsinea Ristorazione, che hanno messo in campo 12 cuochi e 20 persone per il servizio. Sono state usate stoviglie totalmente biodegradabili. È stato inoltre siglato un accordo con il Banco alimentare a cui verranno consegnate le eccedenze e i pasti non consumati per evitare lo spreco di cibo. Il Papa è stato accolto in piazza San Domenico dagli applausi. Poi si è fermato per una preghiera nella basilica, sulla tomba del santo. Dopo, il discorso del rettore e gli interrogativi posti dallo studente Davide Leardini: “Cos’ha voluto dire per lei cercare la verità? Che valore ha il nostro studio?”. “Siate artigiani di speranza”, ha detto il pontefice all’incontro con gli universitari dell’ateneo più antico del mondo - tremila studenti, professori e amministrativi dell’Alma Mater - papa Francesco si rivolge soprattutto ai giovani, consegnando loro tre diritti: alla cultura, alla speranza e alla pace. Bergoglio esorta al “sacrosanto diritto per tutti di accedere allo studio - in troppe zone del mondo tanti giovani ne sono privi - ma anche al fatto che il diritto alla cultura significa tutelare un sapere umano e umanizzante”. Lo studio, ha aggiunto Francesco, “serve a porsi domande, a cercare il senso della vita”, perché “il sapere che si mette al servizio del miglior offerente, che giunge ad alimentare divisioni e a giustificare sopraffazioni non è cultura”. E poi l’esortazione affinché “le aule delle università diventino cantieri di speranza”, che è il diritto “a non essere sommersi dalle frasi fatte dei populismi e dal dilagare inquietante e redditizio di false notizie”. Infine, il grido del papa contro la guerra. E in questo passaggio Bergoglio cita il cardinale Lercaro: “La chiesa non può essere neutrale contro il male”. E dunque, l’invito agli universitari è a “schierarsi per la pace”, a “sognare in grande”. “Sogno anch’io, ma non solo mentre dormo”, confessa. “Ci servono parole che raggiungano le menti, non urla dirette allo stomaco. Non accontentiamoci di assecondare l’audience”. “Non esiste una vita cristiana fatta a tavolino, scientificamente costruita, dove basta adempiere qualche dettame per acquietarsi la coscienza”. È l’ammonizione del Papa per i cristiani, nella messa che celebra nello stadio Dall’Ara, ultimo appuntamento del viaggio a Cesena e Bologna. Papa Francesco ha anche consegnato ai fedeli “tre P”: “di Parola (di Dio, ndr), di Pane (eucaristico), di Poveri”. Papa Francesco ha inoltre inviato a essere “peccatori in cammino” e non “peccatori seduti”, “peccatori pentiti”, non “peccatori ipocriti”: “il Signore - ha ammonito - cerca puri di cuore, non i ‘puri di fuori’“. Nella omelia, anche la critica agli “intellettuali della religione”, che “non sbagliavano in qualcosa ma nel modo di vivere e pensare davanti a Dio: a parole e con gli altri inflessibili custodi delle tradizioni”, incapaci di comprendere che la vita secondo Dio è in cammino, e chiede l’umiltà di aprirsi, pentirsi, e ricominciare”. Da qui la critica a “clericalismo, ipocrisia, distacco dalla gente, legalismo”. Nel saluto di commiato al Papa, l’arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi ha ripreso il tema delle tre “P”, tra l’altro affermando: “capiamo meglio le parole che il cardinale Lercaro voleva scritte sull’altare: “Se condividiamo il pane del cielo come non condivideremo quello terreno’“ (già citate dal Papa, ndr). Tra i segni liturgici della messa, la distribuzione a tutti di una lampada, segno del cammino intrapreso con la Domenica della Parola. Sull’altare inoltre è stata portata l’icona della Madonna di San Luca, tanto cara ai bolognesi. Infine Zuppi ha raccontato che era stato previsto un momento di saluto per il cardinale Carlo Caffarra, suo predecessore sulla cattedra di Bologna, che però è morto prima di questa visita del Papa alla città. “Siamo certi - ha detto Zuppi - che prega dal cielo per la Chiesa tutta e in particolare per la sua Chiesa di Bologna, e noi un applauso glielo facciamo da quaggiù”. Migranti. Weiwei: “Anche io sono un rifugiato, criticate i Governi, non le Ong” di Marta Serafini Corriere della Sera, 2 ottobre 2017 L’artista, a 60 anni, è entrato a far parte di quella categoria di esseri umani che chiamiamo migranti. E ora da Berlino, dove vive, racconta il percorso artistico e politico che lo ha portato a “Human Flow”, in uscita oggi in Italia. “Non me ne sono accorto fino a quando non ho realizzato questo film. Sono anche io un rifugiato”. Perseguitato dal governo cinese per le sue idee politiche, incarcerato nel 2011 in una cella di 27 metri quadrati per 81 giorni, minacciato con un’accusa di evasione fiscale, nonostante la sua fama gli abbia garantito l’attenzione di tutto il mondo, Ai Weiwei, a 60 anni, è entrato a far parte di quella categoria di esseri umani che chiamiamo migranti. E ora da Berlino, dove vive, racconta il percorso artistico e politico che lo ha portato a “Human Flow”, in uscita oggi in Italia. Il flusso umano, come lo ha chiamato lei, è davvero inarrestabile, nonostante le barriere che governi e Stati costruiscono per fermarlo? “Mio padre (il poeta Ai Qing, ndr) scrisse questa poesia prima della caduta del Muro. Si intitola The Wall e recita: “Cosa succede se un muro è alto tre metri, spesso 50 centimetri e lungo 50 chilometri? Non può bloccare le nuvole, il cielo, la pioggia e il sole. E non può nemmeno fermare milioni di pensieri, più liberi del vento”. È il problema: continuiamo a pensare di poter mettere un muro alla libertà”. Human Flow è stato realizzato in 23 Paesi, dall’Afghanistan alle coste siciliane, dal Kenya all’Iraq. Lei ha incontrato migranti da ogni parte del mondo. Come si è sentito durante questo viaggio? “Ero perfettamente a mio agio e la risposta sta nella mia infanzia. La mia educazione non è stata molto diversa da quella di un rifugiato. Sono sempre stato percepito come uno straniero a causa delle mie idee. Questa sensazione mi ha accompagnato per tutta la vita, anche dopo aver lasciato la Cina per New York. Ecco perché non ho fatto fatica a comprendere”. Si è fatto fotografare nella stessa posizione del corpo di Aylan Kurdi e con la sua arte ha cercato di smuovere le coscienze. Si può cambiare il destino dei migranti con un’immagine? “Ho cercato di mostrare come le migrazioni siano parte della condizione naturale dello sviluppo umano. In questo processo, l’empatia e la tolleranza sono l’elemento più importante. La diversità sta alla base di ogni cultura. Senza questo scambio la società non si sarebbe sviluppata. Ma sono consapevole: per la maggior parte degli esseri umani è difficile aprire gli occhi di fronte alla sofferenza altrui”. Domani è la giornata in memoria delle vittime dell’immigrazione. La rotta del Mediterraneo è una delle più pericolose. Come si ferma questa strage? “È mancata da parte dell’Europa la comprensione e la visione di questa crisi umanitaria. Ma non succede solo qui. Penso alla Birmania dove 500 mila Rohingya sono stati costretti ad abbandonare le loro case. Eppure non vediamo i leader politici seduti a un tavolo per creare dei corridori umanitari. Stesso discorso per la stampa che dà più spazio ad un’esplosione nella metropolitana di Londra o a un attacco a Nizza che alle stragi in mare. C’è una sproporzione enorme di attenzione. I nostri cuori e le nostre menti sembrano essere già danneggiati e offuscati da questo meccanismo e nessuno sembra preoccuparsene”. In Italia molto si è discusso del ruolo delle ong. Per alcuni i salvataggi provocano un aumento delle partenze. Per altri le ong svolgono un ruolo che spetterebbe ai governi. Che idea si è fatto? “Ho una grande ammirazione per chi di mestiere aiuta chi si trova in difficoltà. Criticare gli operatori umanitari significa ribaltare la prospettiva e perdere di vista le priorità. Quello che manca, piuttosto, è la critica ai governi che non solo dovrebbero preoccuparsi del destino dei migranti ma dovrebbero sostenere le ong”. Anche la Cina ha visto migliaia di persone lasciare il proprio Paese per l’estero. Allo stesso tempo è diventata una potenza internazionale. “Da un lato il governo non gode della legittimità del popolo, molti se ne vanno perché non hanno fiducia nella società cinese. Dall’altro lato la ricchezza sta trasformando la Cina in un Paese appetibile. Ma pensi a cosa dovrebbe accadere se ci fosse una guerra con la Corea del Nord. Una marea di persone si riverserebbe oltre i confini. Un nuovo human flow”. Lavoro. Caporalato digitale: i dipendenti invisibili (e senza diritti) dei servizi low cost di Brunella Giovara La Repubblica, 2 ottobre 2017 Fattorini Amazon, hostess Ryanair e “rider” di Foodora: dietro ai nostri vantaggi e alle nostre comodità ci sono lavoratori senza volto e spesso poco tutelati. Apri la porta, ed ecco arrivato il libro ordinato la sera prima su Amazon. Comodo, comodissimo. Si ringrazia e si saluta il fattorino, che in questo caso è un sorridente sudamericano, nello specifico un peruviano di mezza età. Quanto guadagnerà, per questa consegna che alle 8 di mattina non è certo la prima della sua giornata? 35 centesimi, a fare bene i conti. Perché viene pagato 7 euro l’ora (8,81 lordi), e in quell’ora - grazie all’algoritmo che gli confeziona il percorso - farà circa venti consegne. Quasi sicuramente è dipendente di una cooperativa, perché Amazon non fa consegne dirette, oppure di una srl. Ma per lui poco cambia: i prezzi orari viaggiano su quella cifra, e lui di conseguenza viaggia come una scheggia su e giù per Milano, a bordo di un furgoncino che la sera deve tornare alla base vuoto, possibilmente. Nelle nostre vite comode, piene di app che forniscono servizi a tutte le ore e di prezzi low cost, compaiono (ma a volte nemmeno li vediamo) quelli che molti definiscono gli “omini”, orribile definizione per preziosi prestatori di servizi, spesso molto mal pagati. Grazie a loro si vive meglio, ma a quale prezzo per loro? In una giornata ideale, iniziata a Milano, dove tutto fila via veloce e a volte i driver si schiantano contro un tram perché c’è fretta, bisogna consegnare, guadagnare, ed ecco arrivare lo shopper. Ore 9, un tizio barbuto porge le buste del supermercato preferito, la spesa l’ha fatta lui di persona alle ore 8, a negozio appena aperto. Servizio fornito da Supermercato24, ormai ex startup veronese che fornisce chi fa la spesa al posto tuo, basta registrarsi sulla piattaforma online, scegliere il supermercato (tutti, Eurospin, Carrefour, Coop, Iper, Esselunga…), lui va, sceglie, paga e arriva a casa. Ma quanto ci guadagna, lui? Dipende dalla spesa. Per un valore che va da 10 a 30 euro, gliene entrano in tasca 5. E su su, fino a una maxi spesa da 200, dove a lui ne spettano quattordici, da pagargli alla consegna. E se invece abbiamo dimenticato di comprare un paio di casse d’acqua minerale e ci fiondiamo al supermercato, ma poi scegliamo di farci portare tutto a casa, eccoci ritornare ai dipendenti delle cooperative, che raccolgono dai vari supermercati e consegnano a domicilio, veri eroi dell’ultimo miglio. Esselunga, ad esempio, fornisce i furgoncini con il marchio, ma chi arriva a suonare alla nostra porta è un dipendente di cooperativa, e si torna alla casella furgoni impazziti che attraversano la città. A noi costa, per una spesa superiore ai 70 euro, 3,10 euro, e ce l’hai a casa entro un’ora. Il driver guadagna 8,10 euro l’ora, e in quel tempo riesce a consegnare tre spese. Quindi, 2,7 euro a consegna. Sempre più che per Amazon, dove il driver è nelle mani di un computer, infatti “la prossima frontiera”, dice Luca Stanzione, Filt Cgil, “è contrattare direttamente con Amazon l’algoritmo che determina l’organizzazione del lavoro, e quindi i carichi”. E se nel pomeriggio decidessimo di prenotare un bel volo Ryanair da Milano Malpensa a Catania, 34,40 euro? Prezzo molto basso (l’andata, il ritorno non lo è altrettanto). Ma bassa anche la retribuzione del personale. Spiega la Uil Trasporti che gran parte dei lavoratori dipende da due società interinali irlandesi, Crewlink e Workforce, e che un assistente di volo - sempre che voli - lavora in media 180 ore al mese (di cui 90 di volo) e che viene retribuito con circa 1.500 euro (a fronte dei 2.500 di tutte le altre compagnie, compresi i low cost che applicano il contratto regolare). Quindi: 8,30 euro l’ora. Poi c’è il cane. Deve uscire due volte al giorno, ma la sera ci vuole un dog sitter, perché il quattro zampe non tollera i ritardi del padrone, quindi alle 20 è pronto per fare pipì. Ci vuole una persona capace e adatta al carattere dell’animale, magari scelta su una piattaforma come DogBuddy, ma ce ne sono moltissime in tutto il territorio nazionale. Costo orario? In zona Isola a Milano sono 11,50 euro, di cui dieci vanno alla dog sitter e 1,50 alla piattaforma. Qui il fornitore del servizio guadagna più o meno la cifra media di un battitore libero, con sua rete personale di contatti, ma ha una grande visibilità sul sito, quindi più possibilità di incassi. E si arriva all’ora di cena, con il frigo ormai strapieno ma nessuna voglia di cucinare, tanto meno di uscire. Qui c’è solo l’imbarazzo della scelta. Il fattorino anche detto “rider”, che lavora per Foodora e vola in bicicletta - con sprezzo del traffico e del pericolo - verso il ristorante scelto, apre la borsa termica, ci ficca dentro la cibaria e ri-vola verso l’indirizzo di consegna, ecco, questo intasca netti 3 euro e 60, che sarebbero 4 euro lordi. A questo si aggiungono i contributi Inps e Inail che l’azienda gli pagherà, oltre a un’assicurazione per danni contro terzi. “Comunque, non viene fuori uno stipendio”, dice Massimo Bonini, segretario della Camera del Lavoro di Milano e specialista di gig economy, l’economia dei “lavoretti”. “Siamo al di sotto della sussistenza. Un discorso che vale per tutti, Deliveroo, Glovo, Justeat eccetera”. Aggiunge Stanzione della Cgil: “La nostra battaglia è inserire i rider nel prossimo contratto trasporto merci”. Va detto che un rider in media riesce a fare 2,2 consegne all’ora, quindi guadagna circa 8,8 euro lordi l’ora. Se piove o nevica, se ci sono zero o 40 gradi, e soprattutto se pedala.