Investire nel carcere più umano di Paolo Foschini Corriere della Sera, 29 ottobre 2017 All’inizio di questa settimana per due detenuti di San Vittore è arrivata dal tribunale una buona notizia: i magistrati che si occupano dei loro rispettivi casi li hanno autorizzati a partecipare a un concerto esterno con il coro di cui fanno parte. Peccato solo che il concerto c’era già stato, il 30 settembre. Il che è roba da nulla rispetto ai tantissimi, e aumenteranno, indicati ieri dal bel pezzo di Giuseppe Guastella come la folla dei “liberi-sospesi”: che il loro conto lo avrebbero anche già pagato salvo restare in galera perché nessuno esamina il loro fascicolo. Il che è roba da nulla rispetto ai circa 20 mila in Italia (più di un detenuto su quattro) con meno di tre anni che per legge potrebbero scontare fuori, facendo qualcosa di utile per sé e per altri anziché guardando il soffitto in cella. Il che è tutta roba da nulla, se vogliamo dirla col suo nome, rispetto al fatto che di chi sta in galera al novantanove di noi su cento importa esattamente questo: nulla. E nulla purtroppo importerà, a novantanove su cento, che un ufficio pure tra i più efficienti d’Italia come il Tribunale di sorveglianza di Milano - quello che appunto si occupa non di mandare gente in galera ma di decidere su chi e come debba restarci o uscirne - sia stato costretto ad annunciare che da novembre toglierà dal calendario, causa drammatica carenza di organico, un giorno di udienze ogni settimana. Con buona pace degli ottomila fascicoli di arretrato e del sovraffollamento delle carceri che nel solo distretto di Milano comprimono - con i 6.723 dell’ultimo dato aggiornato - 1.553 detenuti in più di quelli che ci starebbero. Per carità: ovvio che la coperta è corta per tutti. Non ne esiste uno, dentro al Palazzo di giustizia, di ufficio che non sia sotto organico. E per la regola di cui sopra possiamo tutti star sereni che anche il giorno in cui lo Stato avrà un euro con cui assumere un magistrato lo manderà in Procura per arrestarne ancora, non alla Sorveglianza per tirarli fuori. Perché la sicurezza, certo. Eppure è proprio sulla sicurezza, che bisognerebbe fare un pensiero. Magari seguendo il ragionamento del provveditore delle carceri lombarde e ora di tutto il Nordovest, Luigi Pagano, il quale proprio ieri ha raccolto i dati di un rilevamento commissionato a tutti i suoi direttori: in Lombardia ci sono circa 1.600 detenuti con meno di tre anni da scontare, di cui 1.300 con meno di due anni, di cui 830 con solo un anno. Fa notare che anche solo trovando per questi una pena alternativa fuori dal carcere - niente di più niente di meno di quel che prevede la legge, nei casi in cui si può - l’affollamento rientrerebbe nei limiti. E se lo Stato non può pensarci da solo lui lancia un appello a imprenditori, aziende, grandi strutture: “Dare un lavoro a queste persone sarebbe il primo passo perché in galera non ci tornino”. Perché se è vero che di loro a nessuno importa nulla, ed è così, magari potremmo anche solo pensare un po’ a noi. E chiederci quanta sicurezza in più ci dà, se è questo che ci importa, investire denaro per metter dentro chi fa una rapina piuttosto che impegnarlo affinché quando esce non torni subito a farne un’altra. Dal perdono responsabile all’abolizione del carcere, attraverso le misure alternative di Raffaele Crisileo (Avvocato) Ristretti Orizzonti, 29 ottobre 2017 Le ipotesi di Gherardo Colombo e Luigi Manconi. Non appena si diffonde la notizia di un delitto, subito si pensa che, chi lo ha commesso, debba essere incarcerato. Ed allora cerchiamo un’altra prospettiva di analisi. Il magistrato Gherardo Colombo, nel suo libro “Il perdono responsabile” - che ho avuto modo di leggere e rileggere in questi giorni - sostiene l’inadeguatezza del carcere e la necessità di modelli alternativi perché la pena retributiva è stato un fallimento per il recupero del trasgressore. Infatti il 60% dei detenuti, una volta liberi, ricommettono reati; neppure si ripara il danno alla vittima. Inoltre, secondo il dott. Colombo, questo tipo di detenzione lede i diritti della persona: perché chi commette un reato non può essere annientata! Bellissima questa espressione, che trova la nostra più ampia condivisione. Ma il carcere trionfa nella nostra società perché di fronte al reato la risposta della collettività è ancora emotiva. Ed invece dovrebbe trionfare la giustizia “riparativa” che insegna al colpevole ad essere responsabile ed a dialogare con chi ha subito il torto e con la comunità. Se tutto ciò in prigione non si può fare il carcere non serve. Ecco perché condividiamo la giustizia “riparativa”! È questo quello che il giurista Gherardo Colombo chiama “perdono responsabile”. Egli però sa che, oggi, un’idea del genere non è recepita bene nella nostra società. Ma quali sono le possibili misure alternative? Questa è la domanda che ci dobbiamo porre. Innanzitutto il magistrato Colombo propone la mediazione penale: il colpevole affronta un percorso attraverso cui capisce l’errore e chiede perdono alla vittima, risarcendola anche simbolicamente; le dà cosi ristoro alle sue sofferenze. Altre soluzioni proposte potrebbero essere, ad esempio, l’affidamento ai servizi sociali o a comunità non carcerarie. Scrive Gherardo Colombo “La gran parte dei condannati a pene carcerarie torna a delinquere; la maggior parte di essi non viene riabilitata, ma semplicemente repressa e privata di elementari diritti; la condizione carceraria è di una durezza inconcepibile per chi non la viva; la cultura della retribuzione costringe le vittime dei crimini alla semplice ricerca della vendetta, senza potersi giovare di alcuna autentica riparazione, di alcuna genuina guarigione psicologica”. È possibile pensare a forme diverse di sanzione, che coinvolgano vittime e condannati in un processo di concreta responsabilizzazione? Ecco un’altra domanda da porsi. Nel suo libro Gherardo Colombo studia le basi della cd. giustizia riparativa, che emerge negli ordinamenti internazionali. Bellissimo questo suo pensiero laddove afferma: “Quando ho iniziato la carriera di magistrato ero convintissimo che la prigione servisse, ma presto ho cominciato a nutrire dubbi. Anche se non l’ho detto mai, ritenevo giusto, ad esempio, proporre che i giudici, prima di essere abilitati a condannare, vivessero per qualche giorno in carcere come detenuti. Continuavo a pensare che il carcere fosse utile; ma piano piano ho conosciuto meglio la sua realtà e i suoi effetti. Se il carcere non è una soluzione efficace, ci si arriva a chiedere: somministrando condanne, sto davvero esercitando giustizia?”. E noi concordiamo nel ritenere che il carcere emargina; che le celle annullano e basta. Ma quella del dott. Colombo non è la voce di chi grida in un deserto. Il Sen. Luigi Manconi, parlamentare e fondatore dell’Associazione Buon Diritto, concorda nel ritenere che, fra coloro che escono dalla prigione dopo aver scontato la pena, quasi il 70% torna a delinquere; una percentuale maggiore rispetto a chi ha beneficiato di misure alternative o ha pagato con sanzioni diverse dalla reclusione. E allora, come intervenire? Il Sen. Manconi, coautore del libro, “Abolire il carcere” lancia proposte per cambiare il sistema appunto con concrete misure alternative che, se applicate, potrebbero essere - secondo noi - una ricetta vincente. Ma molti temono che, se si abolisse il carcere, potrebbe essere compromessa la sicurezza del cittadino. Ed invece non è cosi ! Per garantire questa sicurezza - afferma il parlamentare - la risposta non è la prigione, ma le sanzioni patrimoniali, la mediazione penale, le attività riparatorie; istituti che stanno diffondendo in diversi Paesi europei, in primis in Svezia che da tempo sta realizzando quel reinserimento sociale cui la pena deve tendere. Ed allora il carcere deve perdere la sua centralità. Tutto questo perché? Perché il carcere è solo uno sterile processo di “spoliazione”: quando la cella si chiude la vita si svolgerà tra quelle quattro piccole mura senza fare nulla, per tutti il tempo della pena. Per questo concordiamo con Gherardo Colombo e Luigi Manconi sul fatto che la realtà del carcere non va augurata ad alcuno. Ed allora occorre dare voce a questi sentimenti affinché si realizzi una nuova società sull’esempio svedese. Testimoni di giustizia, ora la legge rischia di saltare di Antonio Maria Mira Avvenire, 29 ottobre 2017 A rischio l’importante proposta di legge sui testimoni di giustizia. Approvata all’unanimità a marzo dalla Camera, incappa al Senato nelle tensioni all’interno del centrosinistra. Così in commissione Giustizia passa, malgrado il parere contrario del governo, un emendamento di Corradino Mineo di Si, appoggiato da Felice Casson di Mdp che, se confermato in aula, obbligherebbe a un ritorno a Montecitorio. Il governo e il relatore annunciano che l’emendamento correttivo della modifica è già pronto, ma quando si voterà? Infatti la conferenza dei capigruppo di giovedì che avrebbe potuto calendarizzare la proposta non lo ha fatto, ritenendo di essere ormai in piena sessione di bilancio. Questo vuol dire che bisognerà aspettare almeno fino al 20 novembre quando una nuova capigruppo potrebbe decidere di inserire la proposta per l’aula. Tempi strettissimi, dunque, per “una riforma importante e molto attesa con la quale si supera l’impropria sovrapposizione con la figura del collaboratore di giustizia e che rende più garantista, trasparente e personalizzato il trattamento riservato al testimone di giustizia”. Lo afferma Rosy Bindi, presidente della commissione parlamentare Antimafia, spiegando che “il provvedimento è frutto di un lungo e puntuale lavoro della nostra commissione, che fin dall’inizio di questa legislatura aveva individuato tra le sue priorità la difficile condizione di questi cittadini che senza alcuna contropartita hanno fatto il loro dovere denunciando le azioni criminali e le pratiche illegali di mafiosi”. Ricordiamo che mentre i collaboratori di giustizia, i cosiddetti “pentiti”, sono criminali che, dopo aver commesso reati, decidono appunto di collaborare con lo Stato e ottengono in cambio sconti di pena e sostegno economico, i testimoni di giustizia, come dice la parola, sono persone che hanno assistito a delitti o li hanno subiti (ad esempio la richiesta di pizzo) e in modo disinteressato decidono di denunciare. Una scelta che li porta a vivere sotto scorta, spesso lontano da casa, cambiando a volte anche il nome. Una figura molto diversa che, finora, non aveva una regolamentazione specifica, che ora la proposta vuole inserire. Proprio per questo il rischio di ritardi o fallimenti proprio sul filo di lana ha provocato molti interventi. “Sarebbe davvero grave, ora che siamo vicini al traguardo, - è l’appello della Bindi - vanificare il lungo cammino fatto in questi anni”. Ricordando anche le recenti parole di Papa Francesco proprio nell’incontro con l’Antimafia: “Non si può dimenticare che la lotta alle mafie passa attraverso la tutela e la valorizzazione dei testimoni di giustizia, persone che si espongono a gravi rischi scegliendo di denunciare le violenze di cui sono state testimoni”. E un forte appello arriva da Cgil, Cisl e Uil, Libera, Avviso pubblico, Acli, Arci, Legacoop, Legambiente, Sos Impresa e Centro Pio La Torre che, in un comunicato congiunto, chiedono che il testo sia approvato “nel più breve tempo possibile, senza apporvi alcuna modifica”, perché “chi ha messo in gioco la propria vita e quella dei propri familiari, ha diritto di sentire forte che le Istituzioni e la società civile responsabile, siano schierate chiaramente dalla sua parte”. Ora l’emendamento approvato rischia di annullare tutto. Davide Mattiello (Pd), coordinatore del comitato sui testimoni di giustizia della commissione Antimafia, è durissimo con chi lo ha votato. “Ammettono anche loro che è stato uno sgambetto inutile al governo per farlo andare sotto. Ma è uno schiaffo al lavoro fatto e pure ai testimoni. Ma che senso ha? Faccio appello perché l’aula ora ripristini il testo e approvi definitivamente una legge così importante”. Orlando: “Caporalato, la legge funziona. Colpiamo gli interessi mafiosi” di Antonio Maria Mira Avvenire, 29 ottobre 2017 La legge contro il caporalato compie un anno. “Una legge che sta funzionando bene, per contrastare abusi inaccettabili sulle persone, per combattere chi bara e per difendere gli imprenditori onesti. Ce lo dicono magistrati e forze dell’ordine. E ora sono convinte anche alcune associazioni agricole che un anno fa ci criticavano”. Lo sottolinea con forza il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, uno dei “padri” della norma. E lo è anche della legge sugli eco-reati, che di anni ne ha compiuti già due e ugualmente con ottimi risultati. “Due norme strettamente collegate. La lotta alla mafia si fa colpendo anche i suoi affari, ed entrambe queste realtà lo sono, traffici di rifiuti e sfruttamento delle persone”. Raggiungiamo il ministro a Portici dove partecipa alla Conferenza programmatica del Pd. Poche parole sull’attuale situazione politica. “Serve subito una svolta. Il centrosinistra va costruito, oggi non c’è. Non bastano gli appelli all’unità, bisogna lavorare per l’unità. Significa costruire contenuti comuni, costruire uno stile, con dei toni diversi”. Mentre sull’evasione di tre detenuti dal carcere di Favignana assicura che “faremo luce su quello che è avvenuto. Quel carcere ha un rapporto tra Polizia penitenziaria e detenuti assolutamente nei parametri di legge, anzi molto al di sopra. Quindi certamente ci sono stati degli elementi di sottovalutazione che dovremo accertare”. Ricorda che “quasi tutti gli evasi di questo anno sono stati ripresi, anche se – accusa - non sempre viene data la notizia”. E assicura che “l’umanizzazione del carcere va avanti ma anche la garanzia che chi è stato condannato sconti la sua pena”. Ministro partiamo dalla legge sul caporalato... Quando sarà finita la stagione agricola faremo una valutazione complessiva, ma i segnali sono già positivi: una maggior possibilità di incriminazione, una serie di inchieste importanti ma soprattutto un effetto deterrente. Abbiamo anche indicato questa tra le attività che dovrà svolgere la scuola della magistratura per il prossimo anno. Osserviamo inoltre una responsabilizzazione di tutta la filiera, dopo alcune resistenze di pezzi dell’associazionismo delle imprese agricole. Ora sta comprendendo che lo sfruttamento dei lavoratori è una delle forme attraverso le quali si crea concorrenza sleale, oltre che illegalità e abusi inaccettabili sulle persone. Ne avete parlato con magistrati e forze dell’ordine? Ci siamo confrontati e tutti hanno dato un giudizio positivo apprezzando soprattutto l’elemento di non confinare l’incriminazione su chi intermedia la manodopera ma di estendere lo sguardo su tutti coloro che in qualche modo concorro alla catena dello sfruttamento. Era ipocrita considerare solo i “caporali”.... Dietro a loro c’è quasi sempre un imprenditore. Ma con la legge si toglie l’alibi anche alla distribuzione. È fondamentale sapere da dove viene il prodotto, come è stato realizzato, quali sono stati i passaggi. Perché nessuno può dire “io non sapevo in quanto non ho chiesto”. Ora la legge impone di chiederlo. È quindi una norma che ripulisce la filiera. Un tema che penso stia a cuore alla stragrande parte delle imprese che rispettano le regole. Non barare e non sfruttare... È un approccio a 360 gradi, non semplicemente limitato ai casi estremi. Infatti farà emergere che il caporalato non riguarda solo i migranti, ma anche gli italiani. Ha un diffusione e un’articolazione molto più complessa di cui la legge tiene conto. E non riguarda solo l’agricoltura. Sicuramente però aiuterà l’integrazione dei migranti, facendo emergere il lavoro nero... È cosi, assieme al lavoro che sta facendo il ministero dell’Interno sul dramma dei ghetti, cercando di dare un tetto vero a queste persone. La legge ha messo in moto dei meccanismi virtuosi sul fronte amministrativo e sulle politiche degli enti locali. La riforma della cittadinanza, come ha ripetuto Minniti, deve essere approvata entro la fine della legislatura? Certo. È una legge che garantisce percorsi di integrazione che sono importanti e utili soprattutto per chi vive qui, non solo per chi viene da altri Paesi. Non avere sacche di mondi a parte è, da tutti i punti divista - sociale, economico, della sicurezza - interesse soprattutto del Paese. Un’altra legge molto attesa era quella sugli eco-reati.... E anche questa sta funzionando. Ricordo che non piaceva a Confindustria eppure come quella contro il caporalato può orientare il ciclo produttivo sul fronte della qualità piuttosto che su quello della quantità a qualunque costo. Noi siamo un Paese che può competeré nel mondo anche sappiamo esibire un modello di produzione legato all’idea che il mondo ha dell’Italia. Se viene associata a un territorio e a un modello sociale, perde il suo fascino. Norme che aiutano gli imprenditori onesti, puliti, di qualità... Ormai nel mondo e non solo in Italia c’è un consumo consapevole e il fatto che queste leggi orientino verso un modo di produrre sostenibile non è positivo solo da un punto di vista etico, ma anche dal punto di vista del brand Italia, che può trarre forza da questa impostazione. Contro gli stalker il Codice antimafia di Simone Marcer Avvenire, 29 ottobre 2017 Le misure di prevenzione previste per terroristi, narcotrafficanti e mafiosi, adottate per tutelare le vittime di stalking e pedofilia. Le misure di sorveglianza speciale, previste normalmente in materia di lotta al terrorismo, al traffico degli stupefacenti ed alla criminalità organizzata vengono ora applicate anche (in modo e con scopi diversi) come forma di prevenzione contro il ripetersi di altri reati: in particolare contro stalker e autori di reati sessuali. L’obiettivo infatti è assicurare tutela alle vittime di stalking, maltrattamenti e pedofilia e rendere possibile il recupero sociale dopo la fase carceraria. I primi due destinatari del provvedimento proposto dal questore Marcello Cardona e deciso dal Tribunale sono 43 enne italiano, che dopo aver scontato una condanna per maltrattamenti aggravati dalla morte della vittima (l’anziana suocera), è accusato di stalking nei confronti della ex, e di un italiano di 37 anni, accusato di abusi sessuali e maltrattamenti nei confronti del figlio minore con deficit cognitivi. In entrambi i provvedimenti è stata adottata la cosiddetta “ingiunzione terapeutica”: l’alternativa al percorso terapeutico (obbligatorio dopo aver scontato la pena, facoltativo durante la detenzione) è infatti il ritorno in carcere. Il provvedimento è stato inoltre notificato alle vittime (nel caso del minore al suo tutore), come elemento di tutela nei loro confronti. Per quanto riguarda il 43enne, pregiudicato, nel 2006 era stato condannato per maltrattamenti in famiglia, aggravati dalla morte della suocera, deceduta dopo essere stata picchiata e a causa dell’occlusione del cavo orale con un cucchiaio. Dalla sentenza si evince che “l’uomo ha agito in presenza di minori, con crudeltà e futili motivi”. La perizia psichiatrica lo ha qualificato come “affetto da disaffettività e da una particolare malvagia di carattere patologico”. Una volta fuori, dopo pochi mesi di libertà, ha inseguito e minacciato, impugnando una pistola, la nuova compagna che aveva deciso di interrompere la relazione, proseguendo fin dentro un autobus. Tutto ciò in presenza del figlio minore di lei. Nel secondo caso, il minore vittima di violenze ha manifestato crisi epilettiche, considerate dai medici conseguenze degli abusi subiti. La misura del Tribunale prevede, tra le altre cose, obbligo di soggiorno nel comune di residenza per 2 anni e 6 mesi, la ricerca di un lavoro, di non associarsi a persone che hanno subito condanne di non rincasare oltre le 22 e non uscire di casa prima delle 7. Processi G8, l’ultima follia: il ministero della Giustizia che risarcisce se stesso di Marco Preve La Repubblica, 29 ottobre 2017 Le spese legali dei gratuiti patrocini relativi alle decine di parti offese per la Diaz e Bolzaneto. Sedici anni dopo le torture della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto, lo Stato italiano, incapace di perseguire efficacemente i colpevoli ai quali venne addirittura garantita la progressione di carriera, non è neppure in grado di ottenere dai colpevoli il rimborso delle spese legali legate al processo. Clamoroso? Lo è ancora di più il corto circuito istituzionale che vede il ministero della Giustizia risarcire sé stesso, con i soldi di tutti gli italiani, poiché non è in grado di far pagare i colpevoli. Questa ennesima vicenda di burocrazia impazzita che ruota attorno al G8 del 2001 vale qualcosa come sei milioni di euro. Non esattamente bruscolini. Il tema riguarda la spese legali per le parti offese che nei processi Diaz e Bolzaneto usufruirono del gratuito patrocinio. Trattandosi per lo più di persone molto giovani, per la maggior parte straniere, molti dei pestati ed arrestati che passarono dalla scuola Diaz al lager di Bolzaneto usufruirono dell’assistenza legale gratuita garantita dallo Stato. Alla fine dell’odissea giudiziaria le spese degli avvocati sono state saldate dai fondi ministeriali a disposizione della Corte d’Appello, in questo caso di Genova. Automaticamente il Campione penale, ovvero una sezione della stessa Corte ha reso esecutivi i precetti di recupero delle spese attraverso il braccio operativo di Equitalia Giustizia (questo il nome prima della trasformazione di Equitalia). Ogni notifica ha raggiunto i condannati, ma anche i prescritti ma responsabili civili, tutti però condannati in solido con i rispettivi ministeri, ovvero quelli dell’Interno (polizia) e di Giustizia (agenti, dirigenti e medici dell’amministrazione penitenziaria). Così, tutti i condannati appena ricevuta la notifica di pagamento l’hanno contestata con un ricorso. Le richieste sono così passate sotto la competenza di Equitalia Riscossioni che ha ricominciato la trafila. E i condannati del G8 hanno risposto con la stessa moneta: ricorso e invito ad andare a chiedere le somme ai ministeri. E questo è accaduto. Risultato: decine, poi centinaia di ricorsi e pratiche impantanate. Stante l’impossibilità di sbloccare la situazione, e per evitare un paradossale pignoramento dei conti ministeriali da parte di Equitalia per soddisfare il credito degli stessi ministeri, i vertici dei dicasteri di Giustizia e Interno a luglio si sono riuniti e hanno preso una decisione. Quella di pagare loro le spese legali per i gratuiti patrocini. In sostanza il Ministero della Giustizia risarcisce sé stesso al posto dei condannati. Nonostante la soluzione appaia surreale è naturalmente legittima. Resta però un ultimo capitolo da scrivere. Ovvero, come i Ministeri di Interni e Giustizia decideranno di rivalersi sui condannati dei due processi simbolo del G8. È evidente, infatti, che sono i pubblici funzionari che torturarono, che permisero la tortura o che si voltarono dall’altra parte mentre veniva perpetrata, coloro che devono pagare le spese. Se i dirigenti dei Ministeri non ci proveranno saranno a loro volta passibili di azioni della Corte dei Conti per danno erariale. Favignana (Tp): tre detenuti segano le sbarre della cella e poi si calano con le lenzuola di Agostino Gramigna Corriere della Sera, 29 ottobre 2017 “Via dall’isola grazie a complici”. Dentro ci sono i corridoi, le sezioni, le chiavi che girano e l’ordinaria battitura del ferro sulle sbarre, per segnalare che tutto è sotto controllo. È da poco passata la mezzanotte. Un agente penitenziario batte l’ultima. A quell’ora i detenuti del carcere di Favignana, isola delle Egadi, sarebbero dovuti essere in branda. In una cella invece tre di loro sono in azione: prendono un filo d’acciaio che deve esser passato facilmente al metal detector, legano e imbavagliano un quarto detenuto nella stanza e cominciano a segare le sbarre. Quando il lavoro è finito escono dalla finestra senza più sbarre, salgono pochi metri, raggiungono il tetto e attraverso un varco guadagnano il muro di cinta, alto circa otto metri. Con le lenzuola ben annodate si calano nella notte. A cento metri c’è la spiaggia. Probabilmente qualcuno li aspetta, per traghettarli verso le vicine coste del Trapanese (sette miglia). Alle tre e mezza di notte, quando viene dato l’allarme e scattano le ricerche dei militari, dei tre evasi non c’è più traccia. L’ergastolano - Tra i fuggiaschi c’è anche un ergastolano, Adriano Avolese, condannato per omicidio, originario di Pachino, nel Siracusano. Gli altri due sono di Vittoria, Giuseppe Scardino e Massimo Mangione che avrebbero dovuto finire di scontare la pena nel 2032 e nel 2037. Erano stati trasferiti a Favignana da qualche mese dopo aver tentato di fuggire dall’istituto di pena di Siracusa. Nonostante il trasferimento “punitivo”, i detenuti erano stati messi nella stessa cella. Le proteste dei sindacati - Ieri i sindacati di polizia penitenziaria, come Sappe e UilPa, hanno denunciato “l’ennesimo scandalo evasione” e puntato il dito sulle condizioni di lavoro degli agenti e sul sovraffollamento: “Sono state smantellate le politiche di sicurezza”. Ma il carcere di Favignana è diventato operativo sei anni fa ed è considerato tra i più moderni d’Italia. Gli agenti sono circa una sessantina e sorvegliano 46 detenuti alloggiati in 15 celle, tutti sistemati al secondo piano perché il primo non è in funzione da quando il direttore generale del Dap (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria), Roberto Piscitello, ha chiuso la Casa di Lavoro. A regime la capienza sarebbe di 108 persone. Nessun filmato - Negli anni settanta il vecchio carcere costruito attorno al castello di San Giacomo ha ospitato brigatisti e criminali come Renato Vallanzasca. La nuova struttura, trasferita a poche centinaia di metri, ha un sofisticato sistema di videosorveglianza (l’ultima verifica è stata fatta lunedì), che dispone, o dovrebbe disporre, anche di laser e sensori che ad ogni attraversamento di corpi fa scattare l’allarme. Tutti elementi che fanno pensare che qualcosa non ha funzionato: se ci sono, gli impianti quella sera erano fuori uso. Tanto che sull’evasione non c’è nessun filmato. Sulla vicenda dovrà fare luce la procura di Trapani che ha aperto un’indagine. Da ieri intanto è caccia ai fuggitivi. Controlli sono stati effettuati all’imbarcadero di aliscafi e traghetti sulla piccola isola delle Egadi. Posti di blocco sono stati effettuati in tutta la provincia di Trapani da polizia e carabinieri. Si stanno analizzando i video disponibili per tentare di ricostruire il percorso fatto dagli evasi. E il probabile supporto ricevuto da basisti e complici. Firenze: “Io e il fondamentalismo. A Sollicciano” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 29 ottobre 2017 L’imam del carcere: “Insegno il Corano, ma quanta voglia di vendetta tra i detenuti”. Hamdan al-Zeqri, di origini yemenite ma cittadino italiano a tutti gli effetti è il ministro di Culto nel carcere di Sollicciano. Ha 30 anni, vive nel Mugello e studia alla Facoltà teologica di piazza Tasso a Firenze. Hamdan Al-Zeqri, guida spirituale islamica nel carcere fiorentino di Sollicciano, dice senza nascondersi: “Alcuni detenuti sono frustrati, assaliti dalla rabbia, si sentono escluso dalla società. Il rischio che possano diventare terroristi esiste”. Una minoranza certo, ma l’imam risponde con l’ascolto, le parole, “insegnando che la fede ed il Corano dicono un’altra cosa”. “Non vede l’ora di uscire di prigione per vendicarsi. Vuole vendicarsi degli amici e dei familiari, da cui si sente tradito. Vuole vendicarsi col mondo intero”. Hamdan al-Zeqri, guida spirituale islamica nel carcere di Sollicciano, lo dice senza peli sulla lingua: “Quel recluso è frustrato, assalito dalla rabbia, si sente escluso dalla società. Il rischio che possa diventare un terrorista esiste”. E non è l’unico, dentro il carcere di Sollicciano, così come in tanti altri penitenziari italiani. “Quando esco dal carcere, vedrete che il mio nome sarà ricordato a lungo, mi disse un giorno uno dei detenuti”, aggiunge. E proprio per contrastare questo fenomeno, la comunità islamica di Firenze, in accordo con l’Unione delle comunità islamiche d’Italia e il Ministero della Giustizia, ha attivato la figura del Ministro di Culto in carcere, un imam tra le sbarre, capace di parlare con i detenuti, ascoltare le loro difficoltà e invitarli alla riflessione. “Insegno loro il vero Islam, leggiamo passi del Corano, cerco di condurli sulla strada giusta”, dice Hamdan, 30 anni, nato nello Yemen ma cittadino italiano. Parla fiorentino, vive nel Mugello. Studia scienze religiose alla Facoltà teologica dell’Italia centrale, in piazza Tasso. Varca i cancelli di Sollicciano ogni venerdì. Prima la preghiera in un’aula diventata moschea, con circa 70 detenuti. Poi i colloqui individuali, durante i quali Hamdan spiega ai reclusi il vero senso della fede. Si trova di fronte persone che hanno perso ogni speranza, dove la collera prevarica tutto. “Certi detenuti mi fanno paura. Si sentono esclusi, gli manca il riconoscimento e la considerazione da parte della società. In carcere non tutti hanno possibilità di lavorare, passano la giornata senza fare niente - racconta - Hanno smarrito il senso di appartenenza al mondo che li circonda, si sentono morti che camminano. Hanno tanta rabbia che unita all’ignoranza, può portare al fondamentalismo, magari al terrorismo, così questi ragazzi sublimano le loro frustrazioni, riescono ad attirare l’attenzione della società. E finisce che, usciti dal carcere, si rivolgono a organizzazioni criminali e terroristiche per trovare quello che credono essere un riconoscimento”. Succede anche agli italiani, che invece di abbracciare il fondamentalismo, tornano a commettere nuovi reati. Per contrastare derive pericolose, Hamdan apre il Corano, spiega ai reclusi che la fede è un’altra cosa, aiutandoli a ritrovare la speranza, la voglia di vivere dentro e fuori dal carcere. Cerca di curare la loro anima. A volte funziona: “Vedo in loro un principio di cambiamento”. È importante trovare qualcuno con cui parlare: “Prima di me - spiega Hamdan - questi ragazzi non parlavano con nessuno, credo che l’ascolto e il confronto sia il primo passo per la trasformazione. Cerco di far capire quanto sia importante esercitare la pazienza, la perseveranza e la misericordia. Alcune di queste persone non hanno una solida educazione religiosa, non hanno strumenti culturali che possano aiutarli a tenersi lontani dai propagandisti di odio. Così cerco di instaurare con loro un rapporto di fiducia per prevenire la radicalizzazione. Porto loro alcuni libri che possano reindirizzarli sulla retta via, per riscoprire i pilastri della fede, analizzare e superare l’errore che li ha portati in carcere. Spiego loro che il jihad non significa vendetta. Il vero jihad nell’Islam significa educare se stessi”. E poi, se qualcuno esce dal carcere, l’accompagnamento spirituale prosegue anche fuori, dove gli ex detenuti vengono supportati nel reinserimento socio-lavorativo. Porto Azzurro (Li): convenzione tra Comune e carcere, 3 detenuti avviati al lavoro quinewselba.it, 29 ottobre 2017 Dalla Casa di Reclusione di Porto Azzurro tre persone per interventi sul territorio e uno destinato alla Biblioteca comunale. Venerdì 27 ottobre è stata stipulata la convenzione fra Comune di Rio nell’Elba e Casa di reclusione di Porto Azzurro ed è stata firmata dal Commissario Prefettizio Salvatore Parascandola e il direttore del Carcere Francesco D’Anselmo. Grazie alla convenzione tre detenuti volontari saranno impiegati nell’attività di spazzamento, decoro del territorio e manutenzione ordinaria, mentre un quarto si occuperà a tempo pieno della Biblioteca comunale, in modo tale da renderla accessibile anche nelle ore pomeridiane per bambini e ragazzi, che durante la mattina sono impegnati nelle attività scolastiche. “La convenzione - fanno sapere dal Comune - ha la finalità di promuovere azioni concordi di sensibilizzazione nei confronti della comunità locale rispetto al sostegno e al reinserimento di persone in esecuzione penale; promuovere la conoscenza e lo sviluppo di attività a favore della collettività; favorire la costituzione di una rete di risorse che accolgano i soggetti detenuti ammessi al lavoro esterno o ammessi a misura alternativa che hanno aderito ad un progetto riparativo”. Torino: l’invito a Segio per il convegno in carcere diventa un caso, si muove il pm di Alessandro Fulloni Corriere della Sera, 29 ottobre 2017 La presentazione qualche giorno fa di un docu-film su pena e ergastolo, “Spes contro spem”, prima al carcere di Torino “le Vallette” e all’indomani a quello di Asti. Entrambi gli appuntamenti davanti a detenuti di massima sicurezza. In veste di relatore, come rappresentante dell’associazione “Nessuno tocchi Caino” c’era anche Sergio Segio, ex terrorista di Prima Linea, condannato tra l’altro per gli omicidi dei giudici Emilio Alessandrini e Guido Galli e da tempo impegnato nel sociale. Ma ora la sua partecipazione agli incontri diventa un caso. Dopo le proteste di alcuni sindacati di polizia penitenziaria il procuratore di Torino Armando Spataro, che negli anni 70 indagò sul terrorismo, ha chiesto chiarimenti alla direzione delle Vallette. 11 magistrato vuole che gli venga inviato il carteggio che riguarda l’appuntamento, comprese le “domande di autorizzazione all’ingresso del carcere di chi ha già partecipato” e i “conseguenti provvedimenti”. Richiesta seguita dall’auspicio, affidato da Spataro a una nota, che per il futuro ci sia un cambio di rotta: che cioè prima di eventi a cui si pensa di invitare “ex terroristi responsabili di gravi reati”, si interpellino i capi delle procure, perché questi possano esprimere una valutazione. “E inammissibile che l’ex terrorista - ha scritto il Sappe - sieda a un tavolo per discutere di sistema penale: come invitare Riina alla revisione del 41bis”. E l’Osapp: “La nonchalance con cui è stato accolto Segio dimostra la mancanza di rispetto per le vittime”. Roma: “Il nostro amore più forte delle sbarre del carcere” di Enrico Bellavia La Repubblica, 29 ottobre 2017 Camila, Adriana e le prime nozze gay celebrate in un penitenziario. “Ora aiutate gli altri detenuti, anche chi vive in cella ha diritto alla felicità”. La festa a Rebibbia per l’unione civile. “Viviamo nella stessa cella ma pensiamo al futuro”. I due letti a castello, il fornelletto elettrico, la piccola dispensa ricavata da un armadietto. La tv accesa su un telegiornale. In un angolo un cane di ceramica come soprammobile e una loro foto in cornice. Il mondo di Camila e Adriana è tutto qui. In una piccola stanza con le sbarre. Si sono inseguite barattando la libertà con la possibilità di stare insieme. Un carcere per condominio, una cella per casa. Ed è proprio qui, al secondo piano del reparto cellulare femminile di Rebibbia che, giovedì, si sono sposate. “Siamo felicissime, sogniamo di poter vivere insieme fuori al più presto, anche se qui dentro ci siamo trovate ed è nato il nostro amore”, raccontano a Marta Bonafoni, consigliere regionale, e a Stefano Anastasia, garante dei detenuti del Lazio. Coccolate dalle compagne, aiutate da agenti ed educatori, sostenute dalla famiglia di Adriana, hanno celebrato l’unione civile, la prima in un penitenziario. Un punto di non ritorno nel difficile cammino per garantire l’affettività anche a chi è recluso. Due anni fa, il primo incontro. Adriana racconta senza pudori: “Ho sempre saputo di essere omosessuale. Ho avuto altre compagne, ma nulla di paragonabile a Camila. All’inizio avevo paura, non capivo se lei fosse davvero innamorata”. Le porte girevoli della giustizia hanno fornito le prove che cercavano. Adriana, polacca, 25 anni, è venuta in Italia da bambina. La madre e il suo nuovo marito a lavorare nei campi. Lei a crescere tra lavori di casa e amicizie sbagliate. Poco più che maggiorenne, i primi problemi. Due anni fa, il carcere. E qui conosce Camila, 29 anni, un figlio piccolo rimasto con i nonni in Brasile. A vederle sembrano quasi coetanee, “non glielo dica che si monta la testa”, scherza Adriana, che qui chiamano “il marito”. Entrambe dentro per droga, si scrutano, si conoscono, si innamorano. Adriana lascia il carcere dopo qualche mese. “Piangeva in continuazione e mi ha confessato di aver trovato l’amore”, racconta la madre, Elisabetta. “Siamo sempre state amiche, ma da quel momento lei ha capito a cosa serve una madre”. Quando per un cumulo di condanne le porte di Rebibbia si riaprono, Adriana è raggiante: “Poteva rivedere Camila”. Per poco. Questa volta è la “moglie” a lasciare il carcere per il lavoro esterno. Ma il loro amore resiste a burocrazia e privazioni. “Eravamo in reparti separati, ci salutavamo attraverso la grata a due piani di distanza”. Camila, che ha conosciuto la famiglia di Adriana e chiama “Mammina” Elisabetta, rinuncia al lavoro esterno pur di stare con Adriana: “Io non ho più genitori, mio figlio è lontano, è lei la mia famiglia”. Il 26 ottobre da quei piani che le dividevano pioveva riso. “L’altoparlante che avverte delle visite ha dato l’annuncio: “le spose possono uscire”“. Per Rebibbia è stata una giornata di festa. Le spose elegantissime per il rito a cui hanno assistito l’assessore Daniele Frongia, la garante dei detenuti del Campidoglio Gabriella Stramaccioni e il cappellano del carcere. “Erano due bomboniere”, racconta la testimone, 63 anni, 19 dei quali passati a Rebibbia. Camila e Adriana guardano avanti ma non dimenticano di dire grazie a chi le ha aiutate: il personale di Rebibbia che ha dato loro fiducia. Sono state contente che la loro storia sia stata raccontata: “Speriamo che serva ad aprire un dialogo sull’amore in carcere”. Intanto loro, con l’entusiasmo di due giovani innamorate e sposate da appena tre giorni, progettano il futuro. Adriana uscirà nel 2019, Camila tra tre mesi. E spera di riabbracciare presto suo figlio: “Voglio portarlo qui, lui sa di Adriana, di questa amica speciale che gli ha spedito il pallone autografato di Cristiano Ronaldo. Non permette a nessuno di toccarlo”. Roma: Grillini (Arcigay) “rotto un tabù, basta negazione degli affetti in carcere” di Maria Elena Vincenzi La Repubblica, 29 ottobre 2017 “Questa unione è una perla in un mondo brutale”. Parla così Franco Grillini, presidente onorario di Arcigay che per 7 anni, da parlamentare in commissione Giustizia, ha girato le carceri italiane. Infrange il tabù degli affetti in cella? “Ha una portata straordinaria, pone con forza il tema dell’affettività che è il vero tema, già affrontato e risolto da Paesi più avanzati”. Qui è amore dove invece ci si immagina solo violenza. “In carcere la sessualità è associata quasi sempre alla violenza. Con una recrudescenza peraltro delle malattie sessualmente trasmissibili. Non si comprende che gli affetti sono una parte importantissima del progetto di rieducazione”. Questa unione mette di fronte a una contraddizione. Una coppia etero non avrebbe avuto le stesse possibilità. “Ed è un errore, un mondo di affetti è un mondo meno violento e la libido inespressa si trasforma in aggressività”. Prato: “La grande fuga”: la mostra sul teatro in carcere in Toscana di Laura Meffe pratosfera.com, 29 ottobre 2017 Una mostra per celebrare l’attività delle compagnie teatrali dentro le carceri toscane. “La Grande Fuga” al Polo Campolmi. Raccontare l’impegno e il lavoro dell’associazioni che operano nelle carceri toscane. È questo l’obiettivo della mostra “La grande fuga. Teatro e carcere in Toscana” che sarà inaugurata il prossimo 6 novembre alle 17,30 nella sala espositiva del Polo Campolmi (via Puccetti 3). Ingresso libero. Fino al 12 novembre, lunedì-venerdì dalle 15 alle 19. “La mostra - spiega la presentazione - è organizzata da Teatro Metropopolare, il collettivo fondato e guidato dalla regista siciliana Livia Gionfrida che lavora dal 2008 all’interno della Casa Circondariale La Dogaia di Prato, dove ha creato un laboratorio permanente di ricerca e produzione teatrale in cui lavorano attori detenuti e artisti del collettivo. La compagnia pratese dopo anni di tenace attività, grazie al sostegno della Regione Toscana e del Comune di Prato e alla collaborazione della Direzione, dell’area Educativa e degli agenti della C.C. La Dogaia, è riuscita a sviluppare sempre più l’idea di un carcere aperto ad eventi esterni non occasionali”. “Negli anni il carcere è diventato una vera e propria residenza artistica ideale, un luogo di incontro nel quale la compagnia conduce ogni anno un laboratorio di formazione teatrale, organizza workshop, concerti e momenti di alta formazione con professionisti esterni, provenienti dal mondo del teatro, della danza e della musica”, prosegue la presentazione. “Il collettivo produce ogni anno spettacoli teatrali che vengono replicati dentro e fuori il carcere - si legge ancora - Attualmente sta lavorando ad un nuovo spettacolo, Studio per un finale, che vede protagonisti quattro attori-detenuti della compagnia. Lo spettacolo sarà presentato in anteprima al Teatro Palladium a Roma all’interno del festival Destini Incrociati e replicato il 22 novembre al Teatro Magnolfi a Prato”. Il progetto “Teatro in Carcere” - “Sin dalla fine degli anni Ottanta - racconta la nota - l’incontro fra le compagnie e gli operatori teatrali con i detenuti ha consentito la realizzazione di numerosi percorsi laboratoriali che hanno condotto ad eventi produttivi, caratterizzati da una forte rilevanza artistica e, insieme, sociale”. “Su queste premesse è nato il progetto regionale “Teatro in carcere”, promosso dall’Assessorato alla cultura della Regione, che ha costituito uno dei primi tentativi di mettere in rete il lavoro delle realtà associative sul territorio regionale ed è stata esperienza trainante per altre analoghi progetti. Il coordinamento - continua - rappresenta un importante organismo di connessione tra le istituzioni, le realtà associative del territorio e le direzioni delle case circondariali, ed ha l’obbiettivo di superare l’isolamento delle esperienze e costruire una rete fra le diverse realtà, pur salvaguardando le identità artistiche e le autonomie progettuali”. Il progetto “Teatro in carcere” include attualmente diverse realtà operative nelle carceri toscane: Arci Solidarietà Livorno (Casa Circondariale di Livorno), Associazione ANSPI (Istituto Penale Minorile di Pontremoli), Associazione Dialogo (Casa di Reclusione Porto Azzurro), Teatro Metropopolare (Casa Circondariale La Dogaia di Prato), Associazione Sobborghi (Casa Circondariale di Siena e Casa Circondariale di Massa Marittima), Centro di Teatro Internazionale (Casa Circondariale Mario Gozzini di Firenze), Cooperativa C.A.T. (Casa Circondariale Sollicciano di Firenze, Casa Circondariale Mario Gozzini di Firenze), Empatheatre (Casa Circondariale San Giorgio di Lucca e Casa di Reclusione di San Gimignano), Giallo Mare Minimal Teatro (Casa Circondariale Femminile di Empoli), Krill Teatro (Casa Circondariale Sollicciano di Firenze), Tempo Reale / Massimo Altomare (Casa Circondariale Sollicciano di Firenze), Sacchi di Sabbia (Casa Circondariale Don Bosco di Pisa). Mattarella rinvia alle Camere legge contro le mine antiuomo: “illegittimità costituzionale” La Stampa, 29 ottobre 2017 Il presidente Sergio Mattarella ha rinviato alle Camere - ed è la prima volta che accade durante il suo mandato - una legge di iniziativa parlamentare che riguarda misure per contrastare il finanziamento delle imprese produttrici di mine anti-persona, di munizioni e sub-munizioni a grappolo. Gli uffici giuridici del Quirinale hanno infatti riscontrato una disparità di sanzioni che determina una conseguente “irragionevole” disparità di trattamento. Per cui, “il provvedimento presenta profili di evidente illegittimità costituzionale”. La legge è una delle poche non governativa, ed una delle poche che ha avuto solo due letture, senza navette tra Camera e Senato. Si tratta di una proposta di legge nata in Senato su iniziativa di Silvana Amati e altri 13 senatori Dem, approvata in sede legislativa dalla Commissione Finanze, il 6 ottobre 2016, e confermata prima dalla Commissione Finanze e poi dall’Aula di Montecitorio, che l’ha approvata definitivamente il 3 ottobre scorso. La legge introduce il “divieto totale” del finanziamento a qualsiasi titolo delle aziende che producono mine anti-uomo e bombe a grappolo da parte di banche, intermediari finanziari o fondi pensione. A vigilare sono chiamati la Banca d’Italia, l’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni (Ivass), la Commissione di vigilanza sui fondi pensione (Covip). Gli intermediari che violano la legge sono puniti con la sanzione amministrativa pecuniaria da 150.000 euro a 1.500.000, e la perdita temporanea, da due mesi a tre anni, del requisito di onorabilità necessari per le attività bancarie. Il Quirinale segnala che l’art. 6, comma 2, della normativa in esame, in contrasto con la finalità dichiarata, determinerebbe l’esclusione della sanzione penale per determinati soggetti che rivestono ruoli apicali e di controllo (per esempio i vertici degli istituti bancari, delle società di intermediazione finanziaria e degli altri intermediari abilitati); per altri soggetti, privi di questa qualificazione, sarebbe invece mantenuta la sanzione penale, che prevede la reclusione da 3 a 12 anni, oltre alla multa da euro 258.228 a 516.456. Questo contrasta - sottolinea il Quirinale - con l’art.3 della Costituzione che vieta ogni irragionevole disparità di trattamento fra soggetti rispetto alla medesima condotta”. Naturalmente la mancata promulgazione della legge “non determina alcun vuoto normativo in quanto mantiene in vigore l’attuale regime sanzionatorio di carattere penale”. Migranti. La guerra libica senza soluzione rischia di aprire il fronte Tunisia di Romano Prodi Il Messaggero, 29 ottobre 2017 Dopo oltre sei anni la “guerra libica” non ha ancora trovato una soluzione, anche se i rapporti di forza, negli ultimi tempi, tendono ad orientarsi in favore del generale Haftar. Forte del sostegno degli egiziani, dei Paesi del golfo e dei francesi, il generale sta progressivamente estendendo il suo potere da Tobruk verso ovest lungo il Mediterraneo, e a sud verso i grandi deserti. In questi ultimi giorni Haftar ha addirittura dichiarato alla rete televisiva al-Arabiya di essere ormai in controllo di oltre i tre quarti dell’immenso territorio libico. Quest’affermazione non corrisponde alla realtà dei fatti ma certo non è un’esagerazione definire il generale come l’uomo forte del conflitto libico. Da parte nostra è opportuno sottolineare che Haftar, servendosi di un ridotto manipolo di soldati ha, negli scorsi giorni, cacciato da Sabrata le tribù più vicine alle posizioni e agli interessi italiani. Tutto questo non impedisce che il compromesso concluso dal ministro Minniti con alcune di queste tribù continui ad apportare un contributo molto positivo al sensibile calo del flusso di emigranti che dalla Libia si dirigeva verso le coste italiane. Come tutti gli accordi definiti in situazioni di potere ancora incerto si tratta di accordi precari perché incerta rimane la sorte degli interlocutori che li hanno sottoscritti. Non vi sono tuttavia possibilità di superare questa indeterminazione fino a quando non si chiuderà in modo definitivo il conflitto libico, sulla cui soluzione nessuno può vantare un ruolo dominante, anche se il protagonismo dell’Egitto e della Francia cresce col passare del tempo. Quanto all’Italia, essa non è certo favorita dalle sue tensioni con l’Egitto, tensioni iniziate da quando sono state interrotte le relazioni diplomatiche in conseguenza dell’assassinio di Regeni. Il ritorno del nostro ambasciatore al Cairo non è stato sufficiente per fare emergere la verità di questo tragico episodio ma la lunga rottura diplomatica non ha di certo aiutato la creazione del clima di collaborazione necessario per fare affiorare almeno una parte di verità. Anche perché la ricerca non si sarebbe dovuta servire solo della collaborazione delle autorità del Cairo ma anche degli accademici britannici che avevano affidato a un giovane studioso un compito eccessivamente delicato dal punto di vista politico. Gli importanti successi registrati nel controllo migratorio non ci possono tuttavia fare dimenticare quanto importanti siano gli interessi di alcuni nostri partner europei nei confronti della Libia. Particolarmente attivi sono a questo proposito i francesi, che hanno giocato un ruolo decisivo nel supporto ad Haftar, fin dal momento in cui l’aiuto delle loro forze speciali si è rivelato indispensabile per permettere al Generale di conquistare Bengasi. L’attivismo militare francese è stato poi accompagnato da un parallelo successo diplomatico, dato che la Francia è riuscita ad imporre come inviato speciale delle Nazioni Unite in Libia (ruolo che il nuovo segretario dell’Onu non intendeva affidare a un europeo) un libanese di indubbie qualità ma di completa educazione francese e da molti anni Professore a Parigi. Gli inglesi hanno agito invece più sotto traccia, mettendo a frutto i buoni rapporti che il loro paese da tempo coltiva nei confronti dell’Egitto e dei paesi del Golfo. Certo non può non destare la nostra attenzione il fatto che, la settimana scorsa, il Presidente egiziano al-Sisi, partecipando alla celebrazione dell’anniversario della battaglia di El Alamein, abbia visitato solo il Memoriale del Commonwealth, trascurando quello tedesco e quello italiano. Si tratta forse di disattenzione ma, più probabilmente, di un messaggio indiretto, come spesso si usa in diplomazia. Apertamente preoccupante è invece il fatto che il governo di Tripoli abbia anche negli scorsi giorni impedito alla delegazione dell’Onu di visitare il sud della Libia, da dove arrivano notizie di trattamenti brutali nei confronti dei migranti che attraversano il deserto per arrivare in Europa. Una riflessione va infine dedicata al fatto che nuove rotte di migranti stiano debordando dalla Libia alla Tunisia grazie a controlli volutamente molto laschi del governo tunisino. Si tratta di un fenomeno da stroncare subito, prima che anche in Tunisia si crei quella “industria del transito” che acquista sempre più forza grazie ai soldi illecitamente guadagnati. Dato che la Tunisia vive soprattutto degli scambi con la Ue, un intervento combinato di Roma e Bruxelles diretto a controllare le nuove rotte di migrazione, potrebbe risultare assai opportuno. Come si vede, la guerra di Libia, dopo oltre sei anni, continua ad accumulare danni e vittime senza la prospettiva di una soluzione ragionevole a portata di mano, anche perché non vi può essere termine al conflitto libico se non con l’assenso di tutte le principali tribù del Paese. Minniti: “Dobbiamo prendere l’impegno di approvare in questa legislatura lo Ius soli” La Stampa, 29 ottobre 2017 “Dobbiamo prendere l’impegno di approvare in questa legislatura lo Ius soli”. A sottolinearlo sul palco della conferenza programmatica del Pd è il ministro dell’Interno Marco Minniti. “Lo Ius soli non è una legge sull’immigrazione, ma sull’integrazione - aggiunge - due cose integralmente diverse. Il cuore della questione è come un grande partito affronta una grande questione di principio. Lo Ius soli è una legge di principio. Un grande partito, sulle leggi di principio, dibatte, decide e convince. L’unica cosa che non fa è rinunciare”. Secondo Minniti, su questa legge si gioca anche “la credibilità per una nuova fase nelle politiche dell’immigrazione”, e sul tema il Pd “deve cercare di convincere chi non la pensa come noi”. “Quello che abbiamo fatto al governo non l’abbiamo fatto da soli. La sfida è lavorare insieme oltre i confini del Pd, per costruire una grande alleanza, governare l’Italia, battere la destra e sconfiggere definitivamente i populismi”, dice il ministro al Pd. Serve vocazione “non minoritaria”: “Se si ritira o ci si mette di lato rispetto alla sfida di governo, la sinistra perde se stessa. E questo il popolo della sinistra italiana non lo capirebbe e non lo perdonerebbe”, aggiunge. “Il punto fondamentale del nostro programma è l’orgoglio per quello che abbiamo fatto ma questo ci porta a dire che tutto quello che abbiamo fatto non l’abbiamo fatto da soli. Siamo stati il primo motore ma non l’abbiamo fatto da soli. Dobbiamo ripartire dai risultati che abbiamo ottenuto: deve partire la sfida unitaria non con piccole diplomazie tra partiti o persone”, sottolinea il ministro Marco Minniti. “Dobbiamo trasmettere una grande passione unitaria, che parli al sentimento di progresso del popolo italiano, sapendo che la vera passione unitaria significa che abbiamo molte ragioni ma non abbiamo tutte le ragioni e se ve lo dice uno come me dovete crederci”. “La sinistra senza la sfida del governo non esiste. Quella sfida la possiamo pure perdere: ho una certa esperienza da questo punto di vista. Ma l’unica cosa non si può fare è abdicare rispetto alla sfida di governo”, afferma il ministro dell’Interno. Cannabis. La canapa cresce ovunque, eppure mancano scorte per le terapie di Nadia Ferrigo La Stampa, 29 ottobre 2017 L’Italia è piena di campi, ma solo lo Stato può produrre cannabis 500 chili di fabbisogno per uso medico e l’Olanda limita l’export. Le storie dei pazienti italiani con una terapia a base di cannabis a uso medico sono tutte diverse per età, soluzioni e patologie, ma hanno una caratteristica comune: non c’è il lieto fine. Claudia è la mamma di Luca, venti anni di vita e due di cancro tra antidepressivi e morfina, per combattere un dolore che non mollava mai. Melissa, nemmeno trent’anni, sette con la sclerosi multipla e una sofferenza così atroce da impedirle di camminare: dopo tre mesi la sedia a rotelle non le serviva quasi più. La dieta di psicofarmaci e morfina stava distruggendo la vita di Debora, due figli piccoli e una diagnosi di sindrome fibromialgica: nessun appetito, impossibile dormire più di un paio d’ore filate. Rimborsi non per tutti - Per Luca, Melissa e Debora ancora non basta aver trovato un medico disposto a sperimentare quella che viene definita terapia complementare (infiorescenze di canapa da assumere con un decotto o tramite inalazione) e aver scovato una delle poche farmacie disposte a far arrivare i medicinali. Non conta nemmeno stare tra i fortunati che vivono in una delle tredici regioni italiane che ne hanno previsto la rimborsabilità. Le scorte di cannabis terapeutica, nazionali o di importazione, sono esaurite. Con liste d’attesa di mesi, le terapie interrotte e il dolore che ritorna, condito dalla rabbia. Come si fa a soffrire così per la mancanza di una pianta che cresce dappertutto e per di più ha una millenaria tradizione di eccellenza made in Italy? Il paradosso è evidente: i campi di canapa privati si moltiplicano a vista d’occhio, ma la cannabis terapeutica (che solo lo Stato può produrre) non sembra mai essere abbastanza. Negli anni Quaranta l’Italia era la prima produttrice al mondo di canapa. Nel dopoguerra la difficoltà della lavorazione e la concorrenza di altre fibre sintetiche più economiche, come il nylon, portarono al progressivo abbandono delle coltivazioni, anche se il colpo di grazia l’ha dato l’associazione tra la verdissima foglia a sei punte e la droga. Da quando la cultura occidentale si è lasciata alle spalle il proibizionismo dedicandosi a riscoprire le proprietà di questa pianta nobile e bistrattata, le aziende agricole e le cooperative che si dedicano alla coltivazione di canapa industriale - con basso contenuto di Thc, ma con alte percentuali di cannabinoidi - sono sempre di più, pronte a soddisfare le richieste di un mercato in piena espansione. Ancora non ci sono dati e statistiche sulle prescrizioni italiane, ma a testimoniare il vertiginoso incremento di domanda ci sono le previsioni della Direzione dei dispositivi medici e del servizio farmaceutico del ministero della Salute, che, come spiegato a La Stampa, ha individuato “l’aumento del fabbisogno nazionale di 100 chili l’anno negli ultimi tre anni”. Come si arriva a questa cifra? “Ci basiamo sui consumi degli ultimi anni per prevedere circa 350 chili per il 2017 e 500 chili per il 2018”. Nel 2016 l’Istituto farmaceutico militare di Firenze ha avviato una produzione sperimentale di 50 chili di Fm2, la cosiddetta “cannabis di Stato”, raddoppiata quest’anno e, come annunciato a maggio, ancora da incrementare con nuove serre e investimenti. Tetto ai rifornimenti - L’unica alternativa sono i prodotti della olandese Bedrocan, che sono più cari - per una terapia si può arrivare a spendere anche a migliaia di euro al mese, con un prezzo tra i 20 e i 50 euro al grammo -, con un limite da rispettare: come precisato dal ministero “l’Office of Medicinal Cannabis del Ministero della salute welfare e sport olandese ha informato di non poter aumentare l’esportazione verso l’Italia oltre i 250 chili”. Considerato l’aumento dei consumi, l’obiettivo è arrivare alla massima capacità produttiva dello Stabilimento Farmaceutico fiorentino, stimato “in venti volte l’attuale produzione, proprio per evitare di dipendere dall’importazione che resta una risorsa in caso di necessità”. Tutto risolto? Non proprio. Primo, anche aumentando da subito la coltivazione alle piantine bisogna pur dare il tempo di crescere. Secondo, a giugno il ministero della Salute ha stabilito per decreto il prezzo della Fm2: il costo deve stare tra gli 8,50 e i 9 euro per grammo. “Un provvedimento necessario per uniformare le spese a cui sono sottoposti i malati - spiega Pier Luigi Davolio, farmacista e vice presidente della Sirca, Società italiana ricerca cannabis -, ma con questo prezzo fisso le farmacie non guadagnano nulla: ecco perché per i malati è sempre più difficile trovare la cannabis, che non conviene più. Restano soltanto gli ospedali, ma le diversità legislative regionali rendono la situazione dei malati molto complessa”. Terzo, la Fm2 non va bene per tutti pazienti. Lo spiega bene il dottor Paolo Poli, tra i primi in Italia a sperimentare i cannabinoidi, primario dell’unità operativa di Terapia del dolore dell’ospedale di Pisa. “Parlare di canapa è come parlare di un antibiotico, senza però specificare di quale si sta parlando. Bisogna prima di tutto investire negli studi clinici, perché le terapie sono molto complesse. Oltre alle difficoltà di estrazione e titolazione, pensiamo alla somministrazione: gli studi del ministero per esempio sono stati fatti sul decotto, ma non certo è l’unico modo di assumere la cannabis. Un altro problema sono i dosaggi: c’è chi ha benefici con bassi livelli di Thc, chi con alti. Abbiamo terapie che prescrivono la Fm2 la mattina, più leggera, e il Bedrocan la sera. La canapa inoltre è una pianta, non è brevettabile: per studiare un nuovo prodotto a un’azienda farmaceutica servono grandi investimenti e minimo sei anni di lavoro”. Il dottor Poli, a capo di una sperimentazione con più di 2mila pazienti, evidenzia poi un altro nodo da risolvere, la prescrizione off label. In ospedale il trattamento con cannabinoidi può essere fatto con il permesso del direttore sanitario, ma un privato deve far firmare il consenso informato al paziente: la sua prescrizione si deve basare sui risultati di una ricerca pubblicata su una rivista di indiscusso pregio internazionale. “Ma se le opinioni nella letteratura specialistica sono difformi? - continua Poli -. Per esempio, decido di trattare un cardiopatico con la cannabis. Dopo quindici giorni ha un infarto e muore, la famiglia può dire che è morto per quello. Dove sta scritto che la Fm2 è un prodotto sicuro, dove sono gli studi? Non ci sono, ecco perché capisco i colleghi che non la prescrivono”. Lo strappo delle Regioni - Nella nuova legge in discussione al Parlamento si prevede anche la possibilità di individuare “uno o più enti e imprese da autorizzare alla coltivazione nonché alla trasformazione”. Non si spiega però come e quando potranno produrre cannabis a uso medico, se con un bando e con quali criteri. Nei mesi scorsi i governatori di Emilia, Toscana e Puglia, raccogliendo gli appelli dei malati lasciati senza terapia, si sono dichiarati “pronti ad avviare l’autoproduzione”. Lineare il loro ragionamento. I malati hanno bisogno di cannabis, noi ne abbiamo campi interi: seguendo le indicazioni del ministero della Salute, perché non si può far incontrare domanda e offerta, creando così nuovi posti di lavoro? Anche se pochi sono disposti ad ammetterlo, le decine di varietà di infiorescenze e derivati coltivati e venduti in Italia vengono spesso usate - con esiti assai diversi da caso a caso - da chi dovrebbe invece seguire una regolare terapia, garantita dal servizio sanitario. E fanno rabbia le storie di chi si trova a rivolgersi al mercato illegale, senza nessuna possibilità di conoscere livelli di Thc e cannabinoidi, né la più che probabile contaminazione della cannabis con altre sostanze. “La risposta più efficace, efficiente, immediata e che non implica modifiche di legge è concedere ad altri la licenza per produrre cannabinoidi - commenta Marco Perduca, ex senatore con i Radicali e direttore della piattaforma Legalizziamo.it dell’associazione Luca Coscioni, tra i promotori della legge. Così invece si mantiene intatto il monopolio di fatto dello Stato, anche se ci sono enti pubblici e privati, nazionali e non, già pronti alla produzione”. Nel testo in attesa del vaglio del Senato non solo non si parla più di legalizzazione, ma è stata eliminata anche la possibilità di auto-coltivazione. “È incredibile che dopo aver depenalizzato l’uso personale della cannabis non si sia voluto depenalizzarne anche la coltivazione personale. Ancora oggi una pianta in terrazza può portare fino a sette anni di prigione”. Anche se non hai nemmeno trent’anni e ne hai bisogno per riuscire ad alzarti dal letto. Turchia. Asli Erdogan: “Il carcere ti succhia l’anima, ora non riesco più a scrivere” di Marco Ansaldo La Repubblica, 29 ottobre 2017 La galera, Dante, la sua Turchia. Stasera la scrittrice è al Festival Adriatico Mediterraneo di Ancona, dove riceve il “ Premio 2017 per il suo impegno per la libertà di parola e i diritti civili in Turchia”. E alle 18.30 dialoga con Marco Ansaldo alla Loggia dei Mercanti. Asli Erdogan dà appuntamento alla Pasticceria Gezi, proprio di fronte al Gezi Park, simbolo della rivolta nel 2013 a Istanbul e in tutta la Turchia. Perché vederci qui? “Perché è un luogo familiare, un bellissimo ritrovo. Ci si incontra sempre tanta gente e io ci sono affezionata”. Era a Gezi Park durante quei giorni difficili? “Certo, nel mezzo della rivolta. Ricordo ancora quando mi sono trovata da sola, in strada, con un blindato davanti. Guardi le mie braccia: qui, qui e ancora qui. Sono piene di bruciature, tuttora, per gli agenti chimici lanciati dalla polizia. Lei non immagina quanto ho pianto in quei giorni per i gas lacrimogeni. E lo vede questo palazzo sotto cui ci troviamo?”. È il Centro culturale Ataturk: qui venne appeso un colossale ritratto del fondatore della Turchia moderna, e la folla a Piazza Taksim e al Gezi Park guardava a lui mentre resisteva alle cariche. Così come faceva l’uomo che protestava in piedi in silenzio per ore, imitato in tutte le piazze del Paese. Per non parlare della gente che si raccoglieva seduta, per lo stesso motivo, con un libro in mano a leggere. “Già. E adesso questo palazzo verrà tirato giù. Il volto di Mustafa Kemal, Ataturk, era un simbolo per tutti quelli che in quei giorni andavano a manifestare. Qui ora faranno un grande centro commerciale e costruiranno una moschea”. Asli Erdogan oggi è una donna fiera e sensibile, che non ha perso fiducia nel suo prossimo. Anche se i quattro mesi e mezzo passati in carcere nel 2016 - con l’accusa di sostegno al terrorismo solo per aver fatto parte del consiglio di amministrazione di un quotidiano filocurdo (il processo è ancora in corso) - fino alla liberazione arrivata a sorpresa alla vigilia di Capodanno, l’hanno duramente provata nel corpo e nello spirito. Da quando il passaporto le è stato restituito ha però cominciato a viaggiare e a ritirare i numerosi premi assegnati in absentia: prima in Francia dove è stata ricevuta dal Presidente Emmanuel Macron, poi in Germania dove ha preso l’Erich Maria Remarque e partecipato alla Fiera del libro di Francoforte. Ora in Italia, dove spera di trovare conforto e soprattutto la forza necessaria per tornare a scrivere. Lei arriva qui per la prima volta come scrittrice. Come in ogni parte del mondo, c’è stata molta apprensione sul suo caso. “Lo so. Dall’Italia ha ricevuto solo buone sensazioni, ma non posso dire di conoscerla. Questa sera al Festival Adriatico Mediterraneo di Ancona parlerò e riceverò un premio di cui sono molto orgogliosa. Ma non sono mai stata a Firenze, e ci andrò finalmente domani. Non ho mai visitato Roma, e aspetto un giorno di vedere Napoli, la Sicilia e tutto il Sud. Ancora ricordo quando, a vent’anni, innamorata di Dante Alighieri, leggevo l’Inferno della Divina Commedia mettendo davanti a me tre libri: la versione in turco, la traduzione in inglese, e l’originale in italiano. La vostra lingua per me ha qualcosa di magico”. E la Turchia di oggi? “Il pensiero unico mi spaventa. A volte la situazione attuale mi ricorda la Germania degli anni Trenta. E non è necessario che mettano dei campi di concentramento per fare un paragone con il passato”. In quei giorni difficili di Gezi Park, Orhan Pamuk scrisse un articolo sul parco, ricordando come da bambino la sua famiglia si organizzò per impedire il taglio di un solo albero. Il premio Nobel turco l’ha sempre difesa quando lei si trovava in carcere. “Sì, so che Orhan era molto preoccupato per me. Lui oggi è veramente il nostro autore più grande. E così Elif Shafak. Ma non tutti gli scrittori mi sono stati a fianco. Una volta mi sono trovata a un evento con un collega, e quello si è girato dall’altra parte. Mi sono chiesta che cosa avessi mai fatto. Poi l’ho scoperto: avevo firmato un appello a favore di alcuni intellettuali, ma lui era evidentemente stava su un altro fronte”. Che rapporti ha avuto con un altro grande, scomparso pochi anni fa, Yashar Kemal, turco e curdo? “Un uomo delizioso. Una volta, con il suo fare paterno, venne da me e disse: “Io lo so che sei povera. Ricordati: non te ne vergognare mai”. Chissà da che cosa l’aveva capito”. Ma lei oggi è tradotta in tutto il mondo, i suoi libri sono pubblicati in 21 Paesi... “Guardi, non lo so. Eppure è così. Le faccio un esempio, proprio sul suo Paese. Non è strano che in Italia sia uscito solo un mio libro, peraltro uno dei primi, Il mandarino meraviglioso, pubblicato diversi anni fa meritoriamente dall’editore Keller? Adesso ho visto che Garzanti ha fatto uscire una mia raccolta di testi, Neppure il silenzio è più tuo. Mi chiedo perché non sia stato pubblicato altro. Eppure ho scritto otto romanzi. C’è questo altro libro, L’edificio di pietra, il mio ultimo, a cui tengo molto, costruito con una trama strana e asimmetrica, e che altrove, in Germania per esempio, ha interessato molto. Comunque, a me basta che i miei libri arrivino e piacciano ai lettori”. Riesce a scrivere dopo il carcere? “No”. Perché? “Non è facile, sa? La privazione della libertà ti succhia l’anima, ti prosciuga. Per me l’arresto è stato uno shock. Come scrittore mi stanno uccidendo. La notte non dormo: aspetto ancora che arrivi la polizia. Di giorno fatico a organizzarmi. Devo pensare a rimanere viva. Non so nemmeno se l’anno prossimo lo sarò. Io prendo la letteratura molto seriamente, e per me l’atto di scrivere necessita di concentrazione. In cella non avevo un tavolo, mi mancavano le cose, casa mia. Per scrivere una frase che meriti di essere letta, a volte c’è bisogno di una vita. Sì, quando ero in prigione ho buttato giù qualche appunto. Ma stavo in mezzo a 24 donne. E per fortuna che c’erano. Non so come avrei resistito. Il conforto di ricevere lettere, poi, anche quello è stato importante”. Dall’estero ha sentito il sostegno della comunità intellettuale? “Sicuramente. È stato decisivo. E i premi che via via mi venivano assegnati erano per me fonte di grande consolazione. Ora aspetto di ritirarli tutti, se sarà possibile”. Stati Uniti. Emergenza oppioidi, 59mila morti l’anno per abuso di analgesici di Marina Catucci Il Manifesto, 29 ottobre 2017 La fascia più colpita, i 35enni bianchi della classe media e medio bassa, con famiglia e lavoro. Zone interessate, le stesse che hanno portato alla vittoria del presidente. E il governo taglia il Medicaid. Trump ha dichiarato la crisi dovuta al consumo di oppioidi, un’”emergenza sanitaria pubblica”. Quello dell’abuso di analgesici a base di oppioidi è un annoso problema americano: ogni anno negli Usa muoiono migliaia di cittadini a causa di overdose di farmaci analgesici o sostanze come il fentanyl, e i dipendenti da queste sostanze hanno superato i due milioni. Nel solo 2016 le vittime sono state 59 mila. Stando alle statistiche, sotto i 50 anni si muore più per overdose di oppioidi che per arma da fuoco o incidenti stradali. La fascia più colpita è quella dei 35enni bianchi della classe media e medio bassa, con caratteristiche come l’avere una famiglia e un lavoro, solitamente non correlate con l’abuso di droghe. Le zone più colpite sono le stesse che hanno portato alla vittoria di Trump, il New England e la cosiddetta Rust Belt: Ohio, Pennsylvania, Michigan, Vermont, Rhode Island, New Hampshire, West Virginia e Illinois, stati del nordest molto colpiti anche dalla crisi economica. Negli ultimi 20 anni il fenomeno è cresciuto, passando da 3 mila a 59 mila decessi l’anno. Secondo il National Center for Health Statistics, un dipartimento del Centers for Disease Control and Prevention (CDC), nel 2016, l’83% delle morti per overdose negli Stati uniti sono state causate da oppioidi, un aumento del 20% rispetto ai dati del 2015. Molti media Usa paragonano questa emergenza con la guerra del Vietnam, durata 19 anni e costata la vita a 58.209 soldati statunitensi. Le origini di questa crisi vengono fatte risalire al 1999, quando le prescrizioni di farmaci come OxyCotin e Percocet aumentarono a dismisura; questi farmaci non solo venivano regolarmente prescritti dai medici, ma anche forniti da farmacie online con pochi controlli. Oggi gli Usa sono il paese con il consumo più elevato di farmaci oppioidi, che sono entrati nella cultura popolare, come la dipendenza di Dr. House da Vicodin, forse la marca più famosa, prescritta per far fronte anche a un torcicollo. Già due mesi dopo l’inizio del suo mandato, Trump aveva creato una commissione apposita per gestire per l’abuso di oppioidi e sostanze stupefacenti, composta da cinque membri con il compito di consigliarlo su come fronteggiare la crisi, la Opioid and Drug Abuse Commission. Che già nel suo primo report interno, pubblicato il 31 luglio 2017, aveva esortato Trump a procedere con un’azione “diretta e completamente in suo potere”, vale a dire dichiarare lo stato di emergenza nazionale, un atto solitamente utilizzato per far fronte a catastrofi naturali, ma che permette di attingere ai fondi federali del Disaster Relief Fund e facilita il passaggio di alcune leggi e regolamenti straordinari, in deroga alle regole dei programmi federali. Ad esempio, il programma federale sanitario rivolto a individui e famiglie a basso reddito, il Medicaid, rimborsa il trattamento per abuso di droga solo alle cliniche che non hanno più di 16 posti letto, ma questa regola potrebbe essere derogata durante l’emergenza. Il 16 ottobre Trump aveva detto di volere lo stato di emergenza nazionale, ma dichiarando solo un’emergenza sanitaria pubblica. Le sue sono rimaste “affermazioni di facciata”, ha detto il Washington Post; un semplice invito a non iniziare ad assumere droghe. L’annuncio di Trump è arrivato lo stesso giorno in cui la Camera ha approvato il budget del 2018 che prevede tagli per un trilione e mezzo di dollari. A farne le spese è proprio il Medicaid. Anziché combattere l’emergenza, Trump va nella direzione opposta. Somalia. Un ordinario week end di terrore a Mogadiscio di Gina Musso Il Manifesto, 29 ottobre 2017 Al Shabaab ancora all’attacco, dopo i 400 morti del 14 ottobre. Bersaglio l’hotel Nasa-Habloid, dove era in programma il meeting anti-islamisti tra il presidente Farmajo e i leader regionali. Ancora un doppio attacco kamikaze al cuore di Mogadiscio in un sabato pomeriggio di ottobre, appena due settimane dopo quello che è stato classificato come il peggiore attentato nella storia della Somalia (oltre 400 morti). Qui per ora si parla di una decina di vittime accertate, ma bisogna purtroppo rammentare che anche lo scorso 14 ottobre il bilancio delle due esplosioni (e in particolare di quella che ha quasi raso al suolo l’hotel Safari) sembrava in un primo momento assai meno grave. Anche questa volta l’obiettivo principale era un hotel che si trova nel centro della capitale somala, vicino all’ex sede del parlamento e al palazzo presidenziale, caro all’establishment politico nazionale e agli ospiti internazionali. Non è un albergo qualsiasi, il lussuoso Nasa-Habloid, già colpito nel giugno 2016 con modalità analoghe a quelle messe in atto ieri: un’autobomba che viene fatta esplodere contro il cancello d’ingresso aprendo la strada all’irruzione nell’edificio di un commando armato. Il bilancio in quel caso era stato di almeno 15 morti e 20 feriti. Qui bisognerà capire anche gli effetti di una seconda esplosione, avvenuta a un incrocio non distante, al centro di una zona particolarmente affollata nel week end. Qui a seminare il terrore è stato un mini-van imbottito di esplosivo. Tutt’altro che casuale è anche il giorno scelto dai terroristi per colpire l’hotel. Ieri al Nasa-Habloid era in programma un meeting tra il presidente somalo Mohamed Abdullahi “Farmajo” e i leader delle cinque repubbliche federali somale. Un incontro nel quale si sarebbe dovuto mettere a punto proprio una strategia comune contro il gruppo armato islamista al Shabaab, da anni incubo delle forze di sicurezza governative e delle diverse forze militari straniere presenti sul terreno. Il presidente, fa sapere un comunicato, al momento dell’attacco non si trovava nell’edificio in quanto l’incontro era previsto in serata. E stavolta, a differenza della strage di due sabati fa, mai rivendicata, al Shabaab non ha esitato a metterci la firma. Si aggrava così l’escalation di sangue che ha investito Mogadiscio dall’inizio dell’anno, con oltre 20 attentati e almeno 500 morti. L’ultima strage, passata quasi inosservata, è avvenuta domenica scorsa in un sobborgo a sud della capitale, quando un bus che trasportava gente comune è stato investito dall’onda d’urto di un ordigno piazzato sul ciglio della strada. Risultato, almeno 12 vittime innocenti. La strategia di al Shabaab, altrove alle corde per effetto soprattutto dei droni Usa, è sempre più quella di seminare il caos lì dove il governo si sente più sicuro, nella capitale. Nel mirino c’è anche la presenza militare sempre più vistosa della Turchia, che ha da poco inaugurato una base in città. Il crescente coinvolgimento di Ankara nelle tormentate vicende somale non sembra aver giovato. Né promette nulla di buono il fatto che il Paese sia diventato, per posizione e potenzialità, uno dei terreni dello scontro in atto tra Qatar e Arabia saudita. Marocco. Dalla piazza alla cella, il Rif non vuole tacere di Davide Lemmi Il Manifesto, 29 ottobre 2017 La repressione del governo ha messo fine a un anno di manifestazioni nella regione. Ma resta viva la rabbia per una disuguaglianza strutturale. La protesta si sposta in carcere: 35 prigionieri in sciopero della fame da oltre un mese. Ad Al Hoceima, una delle città principali della regione del Rif, non si protesta più. Le strade delle manifestazioni si sono svuotate. Gli slogan, sempre più rari, per giustizia e uguaglianza si sono trasferiti nei sobborghi di Imzouren o nelle piazze di Casablanca. L’indagine sulla morte di Mouhcine Fikri - il pescatore ucciso nell’ottobre 2016 da un compattatore di rifiuti mentre tentava di recuperare i pesci requisiti e gettati via dalla polizia, nonché scintilla delle proteste - è stata insabbiata. I capi del movimento di protesta Hirak sono in carcere o sotto il controllo dei servizi di intelligence marocchino. Al Hoceima è stata costretta al silenzio. Dopo chilometri di tornanti, lo storico capoluogo del Rif si presenta. Ripide colline circondano la città. Il mar Mediterraneo si apre davanti, unica via di fuga. Fuga dalla repressione della polizia, la povertà senza alternative e la corruzione dilagante. “La crisi in Europa ha fortemente impattato su Al Hoceima - spiega Ghassan El Karmouni, giornalista d’inchiesta di Economie Entreprises - La regione dipendeva molto dalle rimesse dei marocchini immigrati nel Continente e dopo il 2008 c’è stato un calo nel flusso dei soldi”. Un flusso che nascondeva un male cronico: “La questione del Rif esisteva prima - continua El Karmouni - L’industria ittica, settore trainante ad Al Hoceima, è stata gambizzata e trasferita a Agadir, sull’Oceano Atlantico”. Il processo di de-industrializzazione ha coinvolto tutta la regione, “c’è stata una scelta politica precisa di spostare l’asse dal mar Mediterraneo all’Atlantico, puntando su Tangeri come hub industriale”. Le scelte politiche di Rabat seguono il modello Maquiladoras, già presente in molti Paesi dell’Est Europa, con la creazione di zone off-shore in cui aziende straniere possono delocalizzare la propria produzione. “Il Marocco ha l’ambizione di divenire un vero e proprio attore regionale e ogni investimento e decisione devono essere di portata internazionale”, aggiunge il giornalista di Economie Entreprises. Si legge in quest’ottica la scelta del governo nel 2015, durante l’accorpamento delle regioni, di spostare il titolo di capoluogo a Tangeri, privando Al Hoceima e la provincia di più di mille stipendi di funzionari pubblici e aggravando una situazione economica già precaria. “C’è un altro asset che ha cambiato rotta - ci spiega Abdelhadi Gmira, segretario generale del Cgt, sindacato marocchino, dando il quadro completo - Il contrabbando, forte nella costa mediterranea del Marocco in passato, ha seguito la rotta dei migranti, spostandosi verso la nuova zona portuale sorta vicino a Ceuta e privando l’area, per quanto illegale, di un’altra fonte di entrata”. Ragioni a cui si aggiungono le conseguenze del terremoto del 2004 che ha sconvolto Al Hoceima e l’area circostante. “C’è stata una forte speculazione sulla terra, la ricostruzione è stata selvaggia e questo ha portato a un innalzamento dei prezzi e all’esproprio di numerosi terreni agricoli da parte delle autorità locali”, conclude El Karmouni. Ma la corruzione, bersaglio degli slogan delle proteste del movimento Hirak, non è relegata al solo Rif. “In Marocco le tangenti sono una pratica istituzionalizzata ed endemica - continua il segretario del Cgt - In questo Paese esiste una disuguaglianza dilagante, da una parte un élite ricchissima e dall’altra una fascia della popolazione povera e molto numerosa che non beneficia degli investimenti dello Stato”. Le tensioni si accumulano soprattutto laddove i piani strategici sono venuti meno e il Rif si propone, come nel 2011 all’alba delle primavere arabe, aprifila di un movimento di protesta che riguarda tutto il Paese. “Il movimento nato nel Nord è solo la locomotiva - prosegue Abdelhadi Gmira - Qui parliamo di bisogni e necessità primarie. Acqua potabile, salute, salari, lavoro: fino a che i problemi persisteranno, le manifestazioni non finiranno”. E potrebbero contagiare altre aree disagiate e altri contesti di profonda disuguaglianza. “Le istituzioni stanno cercando di marginalizzare il Rif - ci rivela Afnane, membro del comitato di supporto alle famiglie dei detenuti di Hirak - Lo fanno tramite i media e imponendo una narrativa in cui si considera l’area come un caso particolare”. Ma ad unire il nord al resto del Marocco basta il finestrino di un treno. Le periferie di Tangeri, Casablanca, Rabat o Fez riassumono una condizione generale. Un malessere sociale che nel Rif è stato acuito da politiche precise, ma che è ben conosciuto anche nel resto del Paese. Intanto la protesta continua nelle carceri di Casablanca, dove sono stati trasferiti i 50 leader del movimento Hirak. Da ormai più di un mese è in corso uno sciopero della fame. “Sono 35 i prigionieri politici che hanno smesso di alimentarsi - spiega Khalid El Bekkari, membro dell’Associazione dei diritti umani in Marocco - La loro condizione è gravissima ma, hanno detto alle famiglie in visita, non smetteranno finché non otterranno ciò che chiedono”. Nonostante le torture, denunciate dagli attivisti per i diritti umani, i detenuti continuano a lottare per le stesse istanze fatte dall’inizio delle manifestazioni: “L’indipendenza è una truffa, non c’è nessuna velleità di autonomismo: vogliono un’università, la creazione di posti di lavoro, un reparto oncologico e un rinnovato interesse dello Stato per la regione”, conclude El Bekkari.