“L’affettività in carcere è un diritto fondamentale. Per questo siamo in sciopero della fame” di Cristina Nadotti La Repubblica, 28 ottobre 2017 La radicale Rita Bernardini: “Subito la riforma che tutela le coppie e le famiglie dei detenuti”. “Il caso delle due detenute di Roma che si sono sposate e occupano la stessa cella non può restare un precedente isolato”. Rita Bernardini, coordinatrice della presidenza del partito radicale, fa lo sciopero della fame da 12 giorni per chiedere al governo di emanare i decreti delegati di riforma penitenziaria, nei quali il diritto all’affettività è un cardine. Il matrimonio celebrato a Rebibbia e la sistemazione delle due detenute rappresenta un precedente importante? “Sì ma non è sufficiente - sottolinea Bernardini - Nella mia lunga esperienza di visita e studio della situazione carceraria fino a oggi mi era capitato di imbattermi in un solo caso in cui la direzione del penitenziario si era premurata di non separare due uomini legati da un rapporto affettivo. Ma garantire ai detenuti intimità con i loro compagni, se anche essi carcerati, o con le famiglie, è essenziale per il loro benessere psicofisico. Per questo, tra le proposte avanzate per la riforma penitenziaria il riconoscimento di questi diritti occupa uno spazio centrale. Il ministro della Giustizia Orlando ha fornito rassicurazioni sull’approvazione, ma visto che la legislatura è agli sgoccioli siamo preoccupati che possa saltare”. Il caso di Rebibbia è relativamente facile, ma che succede con le coppie eterosessuali? “C’è anche il problema delle famiglie in visita. La nostra proposta è, come già accade all’estero, che sia garantita a ognuno la possibilità di colloqui intimi, lontani dagli sguardi di altri detenuti o del personale carcerario. Proponiamo inoltre che siano concessi permessi premio per l’affettività. Tutto questo sulla base di precise indicazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità, che considera la sessualità fondamentale per la salute e quindi un diritto inalienabile”. Dove e come potrebbero avvenire questi colloqui intimi? “Abbiamo pensato a piccole unità abitative che comprendano un letto, una piccola cucina e il bagno. Bisogna tenere conto che spesso si tratta di garantire le visite dei figli ed è indispensabile ricreare il più possibile un ambiente familiare, quando non è possibile il permesso premio. In Italia ci sono oltre centomila minori che entrano in carcere in visita, e ci sono state denunce su perquisizioni corporali fatte a bambini di pochi anni”. Parlare di piccole unità abitative vista la situazione delle nostre carceri sembra un’utopia, non le pare? “È chiaro che riportare la situazione delle carceri alla capienza regolamentare è indispensabile. Però, proprio perché vogliamo mostrare la ragionevolezza e l’importanza della nostra proposta, abbiamo chiesto di partire con 50 unità da predisporre entro due anni e poi su tutti e 193 gli istituti”. Ci sono altri modi in cui favorire l’affettività? “Al momento i detenuti non sottoposti a regimi speciali possono telefonare soltanto una volta alla settimana per dieci minuti. Questo di sicuro non favorisce i rapporti con le famiglie, perciò chiediamo di aumentare il tempo a 20 minuti e di poterlo gestire, in modo che magari un giorno ci sia soltanto un saluto e in altri momenti la possibilità di risolvere un problema. Inoltre chiediamo l’uso di email e Skype”. Donne nelle carceri: allarme sostanze stupefacenti, 5 su 100 quelle con Hiv di Filomena Fotia meteoweb.eu, 28 ottobre 2017 “La prevalenza di infezione da Hiv è stata 5,5%, pari a 48 donne, di cui 30 italiane e 18 straniere. La modalità di trasmissione di Hiv è prevalentemente per via parenterale rispetto a quella sessuale”. Nel mese prima di entrare in carcere dal 30% al 60% delle donne fa uso di sostanze stupefacenti, rispetto al 10% - 45% degli uomini. La prevalenza dei disturbi da uso di sostanze stupefacenti nelle donne detenute è quasi il doppio che negli uomini; i disturbi di salute mentale concomitanti ed aver avuto esperienze del mondo del lavoro del sesso, possono essere ulteriori fattori di rischio per l’acquisizione dell’infezione da Hiv. In Europa la popolazione detenuta femminile ha una prevalenza di infezione da Hiv che varia da regione a regione raggiungendo il picco massimo di una su cinque in Europa dell’est, superiore sia rispetto alla popolazione generale (0,3%), che alla stessa popolazione detenuta maschile (7%). “All’interno delle carceri le abituali reti di sostegno sociale sono interrotte o fortemente indebolite - spiega Elena Rastrelli, Responsabile di ROSE, Rete dOnne SimspE, network nazionale nato all’interno della SIMSPe, Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria - Questo può portare le donne a differire all’esecuzione del test per l’HIV o ad essere scoraggiate ad iniziare o proseguire correttamente la terapia antiretrovirale. Ciò è spesso aggravato dalla discriminazione nei confronti delle donne sieropositive in carcere, aumentandone ulteriormente la vulnerabilità. Una volta rilasciate, lo stigma di essere stata detenuta pesa sulle donne; per molte di esse sono significativamente ridotte la probabilità rispetto agli uomini di ricevere una prescrizione ART, di aderire a un regime ART, di aderire al trattamento e di mantenere la soppressione”. L’appuntamento - In contemporanea con la 16th European Aids Conference, ospitata a Milano sino al 27 ottobre, quella sulle donne in carcere è un’importante riflessione per sottolineare la necessità di riservare a Hiv-Aids, in Italia e nel mondo, l’attenzione egli interventi necessari. Vari qualificati contributi scientifici verranno presentati nell’occasione milanese da Soci della Simit, Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali. Il congresso Europeo cade negli stessi giorni in cui il Piano Nazionale per l’Aids predisposto dal Ministero della Salute viene discusso ed auspicabilmente licenziato nella Conferenza Stato-Regioni. Donne nelle carceri - In Italia le donne rappresentano circa il 4% della popolazione detenuta distribuita in 55 istituti penitenziari (2.448 su 57.661 in totale) con una percentuale di circa il 37% di straniere. I dati preliminari dal network nazionale Rose-Hiv, provenienti dai 15 specialisti infettivologi degli Istituti di Chieti, Reggio Calabria, Piacenza, Paliano, Latina, Civitavecchia, Roma, Genova, Milano Bollate, Milano San Vittore, Vigevano, Torino, Sassari, Palermo, Cagliari, sono riferiti a 876 donne (36% delle detenute al 31/10/2017). “La prevalenza di infezione da Hiv è stata 5,5%, pari a 48 donne, di cui 30 italiane e 18 straniere - dichiara Elena Rastrelli - La modalità di trasmissione di Hiv è prevalentemente per via parenterale rispetto a quella sessuale (rapporto 2:1). La coinfezione con virus da Hcv è stata osservata nel 33% (16 pazienti). Due pazienti Hbsag positive non erano viremiche per Hbv-Dna. Il 10% delle pazienti sieropositive detenute non erano in terapia antiretrovirale per rifiuto della terapia, mentre tra coloro che assumevano regolarmente i farmaci anti-HIV, il 21% (9 pazienti) mostravano una replicazione attiva di HIV nel sangue”. 41bis, il Gom e le nostalgie di un passato di violenze di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 ottobre 2017 Il Dap cerca di uniformare i trattamenti negli istituti, mentre c’è chi critica questi tentativi. Da pochi anni, soprattutto dopo il cambio di guardia della direzione del Dap, c’è il tentativo di umanizzare, rendere costituzionalmente accettabile il ruolo dei Gom, il corpo d’élite della polizia penitenziaria, che ad agosto ha avuto un ampliamento ulteriore delle sue funzioni come la sorveglianza dei detenuti accusati di terrorismo islamico, oltre alla promessa - fatta dal capo del Dap Santi Consolo durante l’audizione alla commissione antimafia - di passare da 597 a 620 unità come prevede la nuova pianta organica. Se da una parte c’è un tentativo riformatore, dall’altra - all’interno del Gom - ci sono rigurgiti conservatori che, nascondendosi dietro l’anonimato tramite un articolo del Fatto Quotidiano, sollevano critiche mettendo perfino in discussione la nuova circolare del Dap sul 41 bis perché, a detta loro, avrebbe reso il carcere duro un grand hotel. Eppure la circolare non ha fatto modifica alcuna, ma ha solo uniformato per tutte le carceri le regole già preesistenti, compreso il divieto del vetro divisorio per i bambini minori di 12 anni. Regola, appunto, già esistente, con l’aggiunta che i bambini possono stare più tempo con il genitore. Critiche, lamenti di persone con alle spalle - secondo quanto ha scritto il Fatto - vent’anni di esperienza, che evocano un passato che non c’è più e si spera che non ritorni. Infatti il Gom, nel passato, si è trovato al centro di pesanti polemiche e denunce per la scia di pestaggi lasciati all’interno delle carceri dopo il suo passaggio, come quello nella struttura di San Sebastiano di Sassari dell’aprile 2000, e per le brutali perquisizioni nel carcere milanese di Opera (da presidente della commissione Giustizia della Camera, Giuliano Pisapia aveva denunciato senza mezzi termini gli “episodi di brutalità” avvenuti, parlando del passaggio di “un vero e proprio uragano che ha distrutto ogni cosa”), fino alla gestione della caserma Bolzaneto, con relative torture, durante il G8 di Genova 2001 che, tre giorni fa, è costata una condanna dalla Corte europea. Non sono mancate nemmeno le denunce da parte dei penalisti per aver messo in passato sotto controllo, illegalmente, i colloqui con i detenuti al 41 bis. Il Gom è il gruppo operativo mobile attualmente gestito dal generale Mauro D’Amico. Fu istituito nel 1997 con un provvedimento firmato dall’allora capo del Dap, Michele Coiro, ma soltanto due anni dopo con il Decreto Ministeriale del 19 febbraio 1999, firmato dall’allora ministro della Giustizia Oliviero Diliberto, ebbe il suo definitivo riconoscimento. Il Gom nasce per provvedere al servizio di custodia dei detenuti sottoposti al regime previsto dall’articolo 41 bis, il carcere duro. Tale norma legislativa venne introdotta nel 1992, nel “super decreto antimafia”. Ufficialmente lo scopo del 41 bis sarebbe quello di recidere ogni possibile contatto del detenuto con l’esterno, e quindi, con l’organizzazione criminale di riferimento. Proprio per far sì che ciò avvenisse, venne creato il Gruppo operativo mobile. Il Gom raccolse l’eredità di un altro reparto, lo “Scopp” (Coordinamento delle attività operative di Polizia penitenziaria), istituito nei primi anni 90 soprattutto per consentire la sicura esecuzione dei processi, e del “Battaglione Mobile” dell’allora corpo degli Agenti di custodia, che operò a cavallo fra gli anni 70 e 80. Anche lo Scopp” fu al centro delle polemiche. A testimoniare le violenze è stato Piero Ioia, un ex detenuto al carcere di Poggioreale e ora presidente dell’associazione “ex detenuti organizzati napoletani”. Fu lui che assistette alla nascita della famigerata cella zero del carcere di Poggioreale. Ioia ha raccontato che una mattina, mentre tra detenuti si commentava il trasferimento notturno e coatto di alcuni boss mafiosi avvenuto nei giorni precedenti, all’ improvviso ci fu l’irruzione armata dello Scopp che sparò all’impazzata verso il soffitto del padiglione. Ioia così ha narrato il seguito: “A quel punto tutti noi ci rifugiammo all’interno delle nostre celle. Io mi infilai sotto al mio letto dove sentivo fischiare le pallottole fin dentro la mia cella. Il tutto durò per pochi e interminabili minuti e restammo chiusi per tutta la giornata nelle celle”. La pace però finì presto. “Verso le 19 e 45 della stessa giornata - continua Piero Ioia - sentimmo delle urla strazianti in lontananza. Piano piano si fecero sempre più forti finché fu la volta della nostra cella: entrarono due uomini alti, robusti e incappucciati dove con fucili alla mano ci intimarono di spogliarci nudi. Una volta spogliati ci pestarono con il calcio del fucile e ci obbligarono ad uscire di corsa fuori dalla cella. Ad aspettarci c’erano altri uomini che ci accompagnarono con calci, pugni e manganellate giù al piano terra. A quel punto, sotto il tiro delle armi, faccia al muro fummo pestati con manganelli dietro la schiena e sui glutei. Poi ci fecero correre tra le due fila composte da giovanissime guardie che arrivarono dalla scuola della polizia penitenziaria di Portici. Continuarono a pestarci con manganelli, pugni e, come se non bastasse, venimmo azzannati da cani di razza, i pastori tedeschi”. Le torture però non finirono lì: “Ad alcuni detenuti, i cani gli morsero i genitali e rischiarono di farseli strappare. Poi di corsa, tutti tumefatti, pieni di sangue e senza alcuna assistenza medica, fummo portati giù alle compresse dove all’epoca cerano celle segrete molto ampie. Dopo due giorni, legato mani alla schiena e incappucciato, venni prelevato e portato in un ufficio. A quel punto mi fu tolto il cappuccio e vidi davanti a me molti uomini con il viso coperto. Alla domanda dove avevo nascosto la pistola, io risposi di non saperlo. Quindi mi fu rimesso il cappuccio e portato di peso al piano terra di un padiglione, mi fu tolto di nuovo il cappuccio e vidi una cella vuota con una luce rossa opaca, uno sgabello e una corda a cappio. Al tal punto io subito dissi dove nascosi l’arma e mi fu risparmiata l’ennesima tortura” Fp-Cgil: 500 agenti penitenziari distaccati rientrano nelle carceri Askanews, 28 ottobre 2017 Impegno di Orlando, al via anche confronto su tema aggressioni. “Cinquecento poliziotti penitenziari distaccati faranno rientro nelle carceri e si apre finalmente il confronto sul problema delle aggressioni subite dal personale”. A farlo sapere è la Fp-Cgil Polizia Penitenziaria al termine di un confronto con il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, aggiungendo che: “Da anni chiediamo che il personale di Polizia Penitenziaria in esubero nelle sedi non detentive faccia rientro nelle carceri, così come abbiamo spinto con decisione per ottenere un confronto per trovare soluzioni condivise che mettano in sicurezza il personale a fronte del progressivo aumento delle aggressioni subite. Per questo siamo soddisfatti delle decisioni assunte dal Ministro della Giustizia Orlando”. Inoltre, prosegue la Fp-Cgil Polizia Penitenziaria, “non ci è ben chiaro il metodo con cui sarà selezionato il personale che dovrà fare rientro negli istituti penitenziari. Noi abbiamo proposto fin dall’inizio del confronto col ministro un metodo oggettivo, ribadito nell’ultimo confronto, ossia far rientrare nelle carceri di appartenenza tutti i poliziotti distaccati nelle sedi non detentive dopo il 31 dicembre 2011 e, sulla base dei dati forniti dall’amministrazione penitenziaria, avremmo ottenuto approssimativamente lo stesso risultato annunciato dal Guardasigilli nel corso del confronto. Ma - precisa la categoria - la nostra proposta non è passata al tavolo di confronto. Ci auguriamo comunque che si usi un metodo che possa evitare favoritismi. Il solo modo è partire dall’ultimo distaccato in ordine cronologico e procedere fino al raggiungimento della dotazione organica prevista”. Per la Fp-Cgil Polizia Penitenziaria “non si tratta della soluzione definitiva del problema della carenza di organico, ma è senza dubbio un aiuto concreto per il personale di Polizia Penitenziaria che si trova in prima linea nelle sezioni detentive delle nostre carceri ed è costretto a lavorare con il 30% di unità in meno. Ora Orlando - conclude la Fp-Cgil Polizia Penitenziaria - mantenga l’impegno assunto e convochi subito un tavolo di confronto per trovare soluzioni concrete al triste fenomeno delle aggressioni che il personale di Polizia Penitenziaria continua a subire ogni giorno”. “Legge per revocare la patria potestà ai mafiosi”: il Csm chiede nuove norme di Gigi Di Fiore Il Mattino, 28 ottobre 2017 Il primo provvedimento del presidente del Tribunale per i minori di Reggio Calabria, Roberto Di Bella, venne firmato nel 2012. È la Calabria la prima regione ad aver sperimentato la sospensione della “responsabilità genitoriale” ai coinvolti in indagini di mafia. Nei primi cinque anni, l’iniziativa ha portato all’allontanamento dalle famiglie di origine di ben 40 minorenni. Uno strumento di intervento giudiziario, con collegamento stretto tra la Dda del capoluogo, Procura e Tribunale per i minori distrettuale, seguito anche a Napoli e Catania. Dalla prassi all’iniziativa del Csm, che si fa parte attiva nella procedura proponendo norme esplicite nei codici civile e penale. Martedì prossimo, il plenum discuterà la risoluzione della sesta commissione, che ha avuto per relatori i consiglieri Ercole Aprile e Antonello Ardituro, sulla “tutela dei minori nell’ambito del contrasto alla criminalità”. A otto mesi dalla clamorosa decisione del Tribunale dei minori di Napoli, che tolse la responsabilità genitoriale alle famiglie, appartenenti al clan camorristico Elia, di sei minori, tra i tre e i quattordici anni, che partecipavano o avevano solo assistito alla confezione e vendita di dosi di droga nella zona del Pallonetto di Santa Lucia a Napoli. Scrissero i giudici minorili napoletani: “Restare nelle loro abitazioni, affidati alle cure delle rispettive famiglie, significherebbe farli restare in un contesto che è stato per loro gravemente pregiudizievole”. Ed è proprio questo lo spirito della proposta della sesta commissione del Csm, nella risoluzione inviata ai presidenti di Camera e Senato, alla presidente della commissione parlamentare antimafia, al ministro della Giustizia e ai vertici della magistratura nazionale. Nel documento, partorito anche dopo le audizioni del procuratore Giuseppina Latella e del presidente del tribunale Roberto Di Bella dell’ufficio giudiziario minorile di Reggio Calabria, si scrive che l’intenzione è “favorire la riflessione sullo stato e sulle conseguenze personali e sociali delle condotte delle famiglie mafiose che negano l’adolescenza ai propri figli, inserendoli sin dalla tenera età nelle dinamiche criminose dell’associazione mafiosa, tanto da poter essere considerate a tutti gli effetti famiglie maltrattanti”. Come i genitori tossicodipendenti, o quelli che usano violenza ai figli, anche i contesti familiari di mafiosi vengono considerati “maltrattanti”. E giustificano, quindi, a tutela dei minori, l’intervento del giudice per garantire un’educazione e uno sviluppo non condizionati da insegnamenti e valori mafiosi. Caro Csm, anche Impastato era figlio di mafioso ma si ribellò al padre di Mimmo Gangemi Il Dubbio, 28 ottobre 2017 La proposta di portare via i figli alle famiglie della ‘ndrangheta offusca l’idea di giustizia. È in discussione al Csm la proposta di togliere la patria potestà alle famiglie mafiose e di affidare i figli a strutture pubbliche. Si può disquisire a sazietà sulla questione, resta però che i piccoli allontanati dal nido diventerebbero vittime sacrificate all’inefficienza di uno Stato che non riesce a estirpare il fenomeno, che eleva a logica incontestabile - offuscando così l’idea stessa di Giustizia - l’ipotesi che chi cresce in un ambiente mafioso debba per forza sviluppare l’animo del mafioso e che si arrabatta utilizzando i più deboli, dopo aver loro impresso a caldo il marchio di mafiosi già solo decidendo che giocoforza condurranno la stessa vita delittuosa dei padri. Dovesse esserci il sì del Csm, si stabilirebbe a priori, e con l’imperizia cinica delle decisioni frettolose e arruffone, che dove c’è un padre mafioso - latitante, carcerato - non ci sia possibilità di orientarsi per un’educazione sana ai figli, di guidarli su strade di rettitudine, di stare accorti a non porli davanti al bivio dove biforcano il carcere e la morte per mano assassina, magari spinti a ciò dall’intento di non incorrere nel destino amaro del genitore, tra sangue, galera, sofferenze inflitte e patite. E si dà per scontato che la nuova situazione di bimbo o ragazzo esiliato in strutture pubbliche - ed è tristemente noto come funzionano le più - non produca i guasti che invece spesso capitano a chi è estirpato alle origini e costretto, con buona pace dell’innocenza della giovane età, a mutare la vita da così a così e a finire in quella condizione di abbandono e di solitudine, senza l’affetto, le cure e le attenzioni di cui solo le mamme sono capaci. Inoltre, viene difficile credere che l’allontanamento possa trasformarsi in un affido a famiglie di buoni sentimenti: essendo note la pericolosità e la ferocia della ‘ ndrangheta, nessuno si arrischierebbe ad accoglierli, per il timore di poter impattare nelle ritorsioni. La civiltà affossi quindi la barbarie. E la proposta cada nel vuoto. Applicarla sarebbe una prepotenza da Inquisizione, e una sconfitta delle Istituzioni, costrette a estremizzare con azioni da regime totalitario l’incapacità di estirpare il cancro. Pure, sarebbe un risultato pericoloso, con altri passi acciaccati verso la deriva autoritaria della Giustizia, in atto da tempo in certe aree più a rischio del paese e che avvolge di nebbia fitta lo Stato di diritto, incrina la libertà e la democrazia. Nessuno dovrebbe pagare la colpa del cognome che porta. Di sicuro, non un minore. Ho conoscenza diretta di famiglie di ‘ndrangheta che hanno deciso e attuato un futuro diverso per i figli, tenendoli estranei, spingendoli allo studio, alle buone frequentazioni, a forgiare pensieri positivi. Ma lo Stato pare non accorgersi della loro esistenza. O non intende accettarlo, per troppa rigidità, per troppe convinzioni che hanno messo crosta fino a deciderle inconfutabili, verità assolute. Non riflette, lo Stato, che i comportamenti repressivi applicati sul mucchio a prescindere, senza alcun distinguo tra chi nella malavita s’immerge mani e piedi e chi invece tende a scansarla, parano davanti a un muro cieco, diventano istigazione a delinquere, perché lasciare ai figli della ‘ndrangheta soltanto lo sbocco ‘ndrangheta impedirà di spezzare il circolo vizioso e perpetuerà la malapianta. Penso a Peppino Impastato, figlio di un boss di Cosa Nostra. Ha scelto un percorso di onestà e di denuncia, pur vivendo in un ambiente malsano. È in nome suo, e di tanti come lui di cui non c’è memoria solo perché non si sono immolati eroi, che bisogna astenersi dal sopruso amorale che si va profilando. Anche in nome e in ricordo di Maria Rita Logiudice, la ragazza venticinquenne, bella e fresca di laurea con lode, che si è uccisa gettandosi dal balcone per non aver più sopportato la discriminazione per l’appartenenza a una potente cosca di ‘ndrangheta di Reggio. Allora registrammo le parole di dolore e di contrizione del Procuratore Cafiero De Raho: “Credo che debba toccare la coscienza di tutti… che siamo tutti responsabili di fatti come questo… Persone così possono essere il cambiamento della Calabria… Se noi perdiamo simili occasioni per recuperare la libertà, l’onestà, l’etica, se diciamo ai ragazzi cambiate vita e poi, quando la cambiano, li isoliamo, li emarginiamo, non diamo nessun sostegno, allora non abbiamo più nessuna speranza per il nostro futuro… Dobbiamo fare tutto ciò che è necessario perché tragedie di questo tipo non avvengano più”. Peppino e Maria Rita - e chissà quanti altri non noti alle cronache - sono la prova che non c’è automatismo tra il crescere dentro una famiglia di mafia e il diventare mafiosi. Comunque, pure a voler ammettere che i più di quegli innocenti di oggi da adulti non condurranno vite da innocenti, valgono i pochi, è più importante che, pur di colpire il resto, non si penalizzino i Peppino e i Maria Rita. Chi va a decidere tenga nella giusta considerazione i piccoli dal cognome scomodo che verrebbero a essere privati del diritto alla famiglia. E non trascuri le esternazioni del Procuratore su una figlia della ‘ndrangheta che inseguiva e coltivava civiltà. Non commetta l’errore di lasciare che restino parole vuote. Non trasformi le lacrime di allora in lacrime di coccodrillo. Togliere i figli ai mafiosi? La legge non serve, i tribunali lo fanno già di Vincenzo Maiello Il Mattino, 28 ottobre 2017 Lascia perplessi la risoluzione con la quale la sesta Commissione del Csm ha sollecitato il legislatore ad introdurre - quale pena accessoria del delitto associativo di stampo mafioso - la decadenza dalla potestà genitoriale, relativamente a casi di coinvolgimento del figlio minore nelle attività criminali del condannato. In discussione, com’è ovvio, non è la condivisibilità della prospettiva di tutela perseguita, bensì il mezzo individuato per realizzarla. È il caso di segnalare come la vigente legislazione minorile già contempli, con una disciplina risalente nel tempo e di collaudata e diffusa applicazione, il potere del Tribunale per i Minorenni di pronunciare la decadenza della potestà genitoriale in ogni situazione nella quale - all’esito di puntuali e congrui accertamenti effettuati anche tramite specialisti nelle materie psico-sociologiche - la permanenza del vincolo genitoriale appaia pregiudizievole alla crescita del minore. Di ciò dà implicitamente atto la stessa Commissione che ha sollecitato l’intervento del Parlamento, quando ricorda le molte vicende nelle quali i giudici minorili dei territori a più alta densità mafiosa (Calabria e Sicilia più di tutti) sono intervenuti, adottando provvedimenti che hanno spezzato convivenze familiari che ponevano ad elevato rischio di compromissione i diritti del minore. A nostro sommesso avviso, proprio questo passaggio della risoluzione priva di plausibile ragionevolezza la proposta dell’organo di governo della Magistratura. L’esperienza di funzionamento della magistratura minorile dimostra, infatti, che situazioni di difficoltà educativa dei minori inseriti in contesti familiari ipotecati da cultura mafiosa formano oggetto di monitoraggio e di intervento da parte dei Tribunali minorili, attraverso decisioni che, per definizione, sono orientati a proteggere l’interesse educativo del minore ed il suo diritto ad una crescita sana ed a un’adeguata formazione etico-culturale. Ora, pensare di affidare questo genere di provvedimenti al giudice penale, con l’automatismo proprio del regime di applicazione delle pene accessorie ed all’esito di un processo che guarda ai soli profili di accertamento della colpevolezza dell’imputato, equivale a subordinare la tutela del minore a discutibili esigenze di incrudelimento della risposta punitiva. Si correrebbe il concreto rischio di una eterogenesi dei fini: sotto le spinte nobili della tutela degli interessi della fasce deboli, riaprirebbe il varco alla loro mortificazione. Sotto altro profilo, non si può mancare di rilevare come - nelle materie calde della politica criminale esposta ai condizionamenti dell’emotività populistica, tra cui certamente rientra la disciplina penale dei fatti di criminalità organizzata - l’azione legislativa sembri dominata dall’ansia di reperire strumenti sempre più afflittivi e congegni sanzionatori volti a neutralizzare la pericolosità del reo, piuttosto che a commisurarne la colpevolezza entro il limite della gravità del reato. Si abbia il coraggio di indicare con franchezza gli obiettivi perseguiti e si eviti di pervertire il diritto penale, assecondandolo a logiche assai distanti dai valori costituzionali. “I boss ci accusavano di deportare i figli, ma ora qualcuno ci ringrazia dal carcere” di Gigi Di Fiore Il Mattino, 28 ottobre 2017 Parla il presidente Di Bella, l’ideatore della sottrazione dei minori alle famiglie mafiose. Da sei anni presidente del Tribunale per i minori di Reggio Calabria, Roberto Di Bella è stato l’ideatore della soluzione giuridica per i figli dei mafiosi di cui si è occupata la risoluzione del Csm. A lui il New York Times ha dedicato una copertina, lodando l’iniziativa. E il presidente Di Bella è stato anche ascoltato dalla sesta commissione del Csm nella preparazione del testo della risoluzione. Presidente Di Bella, valuta positivamente l’iniziativa del Csm? “La risoluzione del Csm ha una straordinaria importanza giuridica e culturale. La responsabilità genitoriale, come ora si chiama la vecchia patria potestà, implica diritti e doveri per i genitori, tra cui quello educativo. Sia la nostra Costituzione sia alcune risoluzioni internazionali, tra cui la convenzione Onu del 1989, danno rilievo all’educazione e allo sviluppo del minore come valore sociale”. Lei è stato l’ideatore dell’originale soluzione giuridica, seguita da altri tribunali. Come nacque? “A Reggio, la famiglia criminale coincide con quella di sangue. Tornando a Reggio Calabria da presidente, negli stessi uffici dove ero stato agli inizi della carriera fino al 2005, verificai che ritrovavo nei fascicoli sempre gli stessi nomi, le stesse famiglie. La ndrangheta perpetua eredità culturali e continuità familiari. Pensai che un tribunale minorile non poteva stare a guardare”. Qual è lo spirito degli interventi? “Valutiamo casi concreti. Non facciamo certo epurazioni etniche. Solo quando il metodo mafioso influisce sull’educazione e la formazione dei minori interveniamo. Quando, ad esempio, dalle intercettazioni si evidenziano condizionamenti dei figli, o la loro partecipazione alla commissione di reati. Interveniamo anche, a pieno titolo, quando la famiglia non fa nulla per correggere i figli che hanno commesso reati”. Intervenite anche per salvare i minori da pericoli di incolumità personale? “Sì, nel caso ad esempio di faide in corso tra gruppi di ndrangheta. Interveniamo, se abbiamo coscienza che il minore è esposto a rischio e ritorsioni. Poi, ci sono i casi di figli di collaboratrici di giustizia”. Cosa avviene? “I figli, non sottoposti a programmi di protezione, erano stati affidati a familiari che li hanno utilizzati per convincere le madri a interrompere la collaborazione con la giustizia, attraverso pressioni e maltrattamenti. Siamo dovuti intervenire per sottrarre i minori a quel contesto familiare”. Avete incontrato ostacoli, all’inizio? “Sì, ci siamo trovati bersaglio di accuse di totalitarismo, di voler deportare dei minori strappandoli ai loro genitori. Gli attacchi di stampa sono stati molto violenti. Non è così, l’unico nostro intento è la tutela dei minorenni, sottrarli ad un contesto che impedisce loro un sano sviluppo. Il tribunale per i minori si è trovato sempre accanto il procuratore Cafiero e la Dda. Con loro abbiamo firmato un protocollo d’intesa e collaborazione, ricordato dal Csm”. Che reazione avete avuto dai genitori dei minori sottratti alla famiglia d’origine? “Dal 2012 siamo arrivati a oltre una quarantina di casi. Le madri hanno cominciato a sperare nel nostro intervento, per mandare via i figli e sottrarli ai pericoli dell’affiliazione alla ndrangheta. Ma anche qualche padre in carcere comincia a vedere di buon occhio l’iniziativa nei confronti dei figli. C’è un caso particolare, che dimostra come andiamo nella giusta direzione per agire sulla mentalità mafiosa”. Quale caso? “Un boss detenuto al 41-bis. Ci ha scritto, dicendo che era contento per il figlio, che in questo modo potrà evitare di seguire la sua stessa strada”. Chi vi aiuta nell’attuazione pratica dei vostri provvedimenti? “Ci siamo trovati accanto Libera contro le mafie, che ci aiuta a trovare sistemazioni e lavoro ai ragazzi. E molti, anche dopo i 18 anni, ci chiedono di continuare a vivere lontano dalla Calabria. Soprattutto alcune ragazze, che si sono integrate altrove. Nessuno ci porta rancore, ma ci sono grati e questo gratifica molto il nostro lavoro”. c’è da ben sperare? “Sì. Il primo luglio scorso, abbiamo firmato un accordo con i ministri di Giustizia e Interno e tutti gli uffici giudiziari calabresi su un progetto che si chiama Liberi di scegliere. Prevede pool di educatori e di esperti, che possono rendere possibili l’allontanamento dei minori dalle famiglie mafiose”. La giustizia mostra, in questo modo, il suo lato rieducativo? “Sì, è una giustizia con il cuore che si fa carico di aspetti sociali importanti, come l’educazione dei minori. Cerchiamo di far capire che le mafie portano sofferenza. Ecco perché è importante l’iniziativa del Csm, che potrebbe portare anche a nuovi strumenti normativi, soprattutto nel codice civile”. Minori autori di reato, perché il carcere non è la soluzione di Francesco Caringella Corriere del Mezzogiorno, 28 ottobre 2017 Chi entra in carcere è destinato a diventare un altro uomo. Quasi sempre peggiore. In ogni caso diverso. Le sbarre ti disumanizzano perché fanno sparire dal vocabolario la parola “normalità” e dall’orizzonte la parola “domani”. La perdita della libertà significa perdita del valore vero della vita, che, come insegnano i filosofi dell’antica Grecia, si sostanzia nell’usare le chiavi nelle nostre mani per trovare un equilibrio accettabile tra verità e bellezza. Ce lo insegnano Goliarda Sapienza con “Università Rebibbia”, il Bobby Sands di “Un giorno della mia vita” e, soprattutto, “Lo straniero di Camus”. Un uomo spogliato della socialità e privato dell’affettività perde il valore della sua vita. La solitudine, la noia, il senso di abbandono, lo smarrimento, il silenzio delle notti infinite e il metallo delle celle rischiano di privare il detenuto della sua umanità già malata. Risultato: i reclusi che vivono in strutture carcerarie non aperte al lavoro e incapaci di accettare la sfida rieducativa, sono destinati nella maggior parte dei casi alla recidiva, con alta propensione al suicidio. Per ragioni antiche connesse al sovraffollamento, alle condizioni complicate, alla mancanza di fondi e a lacune culturali, gli istituti di detenzione non riescono ad essere strutture di recupero dell’uomo che si è perso ma diventano scuole criminali che radicalizzano la propensione al delitto. Certo, molto è stato fatto negli ultimi anni grazie agli sforzi della politica e all’azione encomiabile di direttori, agenti, operatori e volontari, ma la strada da percorrere è ancora lunga: se il tasso di sovraffollamento si è sensibilmente ridotto (105,6 detenuti su 100 posti disponibili secondo l’ultimo rapporto del Consiglio d’Europa del 2017, rispetto ai 140 degli anni precedenti), nelle nostre case circondariali prevale nettamente il momento afflittivo, mentre poco spazio è dedicato al detenuto in quanto uomo, alla riparazione della vittima (restorative justice), alla ricucitura del patto sociale ferito e, soprattutto, a quel percorso di reinserimento che, attraverso il lavoro, l’affettività e l’educazione alla legalità, deve compensare l’innaturale perdita della libertà. L’alto tasso di recidiva in cui incappano gli ex detenuti che si lasciano la cella alle spalle, spesso superiore al 70%, dimostra che la pena detentiva non riesce a perseguire, accanto alle funzione repressiva, la necessaria funzione rieducativa scolpita nell’articolo 27 della Costituzione. Il carcere, a dispetto delle intenzioni encomiabili di chi ci lavora con passione e orgoglio, troppo spesso finisce per diseducare il detenuto, aggravando l’originaria propensione al crimine. Nonostante la pancia del Paese e la voglia di sicurezza dei cittadini invochino un uso massiccio della forca e delle manette, la ragione e l’umanità ci inducono allora ad affermare che il carcere, rivisto e aggiornato, deve essere una misura eccezionale alla quale ricorrere solo in casi di particolare gravità che non consentono di percorrere strade diverse come quelle misure riparatorie, interdittive e inibitorie che la cultura anglosassone sperimenta da decenni come strumenti di conciliazione tra esigenze afflittive, riparatorie, preventive e risocializzative. Le considerazioni valgono ancora di più quando il reato sia commesso da un uomo in erba, ossia un minorenne come il ragazzo di Monopoli che, con un gesto assurdo e terribile, ha privato della vita un anziano signore ancora desideroso di assaporare gli anni che il Signore gli avrebbe regalato in aggiunta ai 77 già vissuti. Il codice di procedura minorile, tra il fine rieducativo della pena e quello punitivo, assegna una netta prevalenza al primo aspetto. Si può anzi dire che, per un ragazzo non ancora diventato uomo, la pena deve mirare non a rieducare ma a educare una personalità ancora in cerca di identità e di significato. Si può discutere se l’anticipata maturazione dei nostri ragazzi rispetto a settant’anni fa giustifichi l’invocato abbassamento a 16 anni della minore età criminale. È anche opinabile la previsione legale di una “messa alla prova” meramente processuale che consente di evitare integralmente la pena invece del meccanismo nordamericano della probation sostanziale, come tecnica alternativa o aggiuntiva di esecuzione della pena. Si può anche ragionare in merito all’adeguatezza del termine massimo di tre anni della messa alla prova, probabilmente inadeguato quando vi è di mezzo una vita spazzata via che richiederebbe un più congruo tempo per perdonare e per pagare. Si può anche comprendere che la gente avverta questo meccanismo come un barbaro premio che svuota di valore la preziosa vita di un anziano uomo spinto in mare da una scogliera. Quel che però è certo, come insegna il nostro Dio, è che nessun colpevole è colpevole sin dalla nascita. Un minorenne che delinque è un colpevole recente e non completamente consapevole. Metterlo in carcere e gettare via le manette potrebbe trasformarlo in un delinquente definitivo e maturo. Meglio, allora, perseguire con fatica l’interesse della collettività, rispondere al male con il bene e scommettere, per riprendere le parole del presidente del Tribunale dei minorenni Riccardo Greco, sulla restituzione di un uomo alla società. Condanna Cedu su Bolzaneto, l’Italia e il prezzo della vergogna Il Dubbio, 28 ottobre 2017 Una sentenza attesa e prevedibile. Non a caso, nell’aprile scorso, il Governo italiano aveva riconosciuto i propri torti ed era pervenuto ad un accordo con sei delle vittime, con un risarcimento di 45.000,00 euro. All’epoca, tale atto consentì alla Corte Europea di chiudere la procedura intentata da tali ricorrenti, anche per le assicurazioni date dal nostro Paese “a adottare tutte le misure necessarie a garantire in futuro il rispetto di quanto stabilito dalla Convenzione Europea dei Diritti Umani, compreso l’obbligo di condurre un’indagine efficace e l’esistenza di sanzioni penali per punire i maltrattamenti e gli atti di tortura e l’impegno a predisporre corsi di formazione specifici sul rispetto dei diritti umani per gli appartenenti alle Forze dell’Ordine”. La condanna odierna, che risarcisce coloro per i quali non si era pervenuti ad alcun accordo, punisce l’inerzia dello Stato italiano, per non aver legiferato in materia e per non aver condotto indagini efficaci. Oggi il delitto di tortura in Italia c’è, ma la fattispecie è ben lontana da quella prevista dalle convenzioni internazionali firmate dall’Italia, da oltre 30 anni. Il testo qualifica il reato come “comune” e non come “proprio”, slegandolo quindi dall’operato dei pubblici ufficiali. È stato cancellato, nel corso dell’iter parlamentare, il termine “reiterate”, sostituito con “più condotte”. Inoltre il reato non sussiste “nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti”, dove la parola “sofferenze”, unitamente a “legittime misure” appare palesemente in contrasto. La fattispecie di reato così come descritta è di difficile applicazione, poiché le condizioni poste per la punibilità saranno di complessa se non impossibile verifica. Le garanzie fornite all’Europa non sono state, dunque, rispettate e quando a Strasburgo apriranno gli occhi vi saranno nuove condanne, richieste, ancora una volta, da cittadini che, per avere Giustizia, dovranno rivolgersi altrove. Il nostro è, ormai, un Paese senza vergogna. Si preferisce pagare, pur di non introdurre nell’ordinamento leggi giuste e di alto valore sociale, ma impopolari. Si vuole una comunità privata di una corretta sensibilità e informazione su temi fondamentali per un Paese civile, disconoscendo i valori stessi della nostra Costituzione, troppo spesso ignorata. Quanto è avvenuto dopo la sentenza “Torreggiani”, provvedimento “pilota” che ha costretto il Governo a prendere in considerazione la drammatica e ben nota condizione delle carceri italiane, è emblematico. Si è rassicurata l’Europa con provvedimenti tampone, privi di una vera natura strutturale ed oggi, dopo circa 4 anni, il sovraffollamento ha ripreso a crescere e si attende ancora una concreta riforma del sistema penitenziario e dell’esecuzione penale. L’Unione Camere Penali Italiane ha dato il suo contributo agli Stati Generali e lo sta dando nelle Commissioni volute dal Ministero, i cui lavori ormai sono quasi ultimati. Ora la politica faccia la sua parte. La Giunta Dell’unione Camere Penali Italiane L’Osservatorio Carcere U.C.P.I Detenzione non “inumana” se il carcerato trascorre abbastanza tempo all’aperto di Maria Rita Corda masterlex.it, 28 ottobre 2017 Con la sentenza n. 48433 del 2017 la Corte di Cassazione si è espressa su un possibile caso di detenzione inumana nelle carceri rumene. Una sentenza che analizza quando uno Stato membro viola i principi previsti dalle convenzioni europee sul trattamento dei carcerati nelle strutture penitenziari. Secondo quanto previsto dall’articolo 3 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, “nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti.” Sovraffollamento delle carceri e condizioni igieniche delle stesse possono influire sul tipo di detenzione a cui viene sottoposto il carcerato. Vediamo insieme la pronuncia della Suprema Corte. Detenzione inumana: il caso - Il soggetto condannato alla pena di 5 anni di reclusione per tentato omicidio e colpito da mandato di arresto europeo ricorre in cassazione contro la sentenza della Corte d’appello di Catania. Lo Stato membro richiedente è la Romania. Il ricorrente denuncia la violazione dell’art 18 della legge n. 69 del 2005, sostenendo che ci sia la reale possibilità che nelle carceri rumene sarà sottoposto a trattamenti inumani e degradanti. Dalle ricerche degli organi competenti è più volte emerso che le condizioni dei detenuti nelle carceri della Romania in termini di sovraffollamento e scarsa igiene fossero problematiche. Corte E.D.U e condizioni delle carceri rumene - La Corte E.D.U. con la sentenza del 6 dicembre 2016 si è espressa sulle condizioni delle carceri della Romania dichiarando che lo Stato membro viola l’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Spazio inferiore al minimo previsto di 3m2, mancanza di luce naturale e sistemi di aerazione, disponibilità di un solo servizio igienico della superficie di 1m2, scarsa qualità del cibo tale da creare problemi digestivi sono questi alcuni degli elementi che indicano in che condizioni vivono i detenuti rumeni. Detenzione inumana, la pronuncia della Corte di Cassazione La Suprema Corte ha annullato la sentenza impugnata. Per quanto riguarda gli spazi strutturali disposti dagli standard europei sono 3m2 calpestabili a meno che non siano presenti delle circostanze particolari. Secondo le indicazioni della Corte E.D.U., se i detenuti possono avere maggiore libertà di muoversi nelle ore diurne, questo può compensare la ridotta distribuzione dello spazio. La mancanza di spazi adeguati è uno dei fattori che può essere fondamentale per dichiarare una detenzione inumana. Lo Stato membro che ha questi problemi nelle sue carceri può però fare leva su tre punti: “a) la durata breve, occasionale e di modesta entità della detenzione nel suddetto regime; b) la sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella con lo svolgimento di adeguate attività; c) la presenza di dignitose complessive condizioni carcerarie”. In sintesi, se il detenuto è libero di muoversi all’aperto per almeno un’ora al giorno o svolge delle attività (sempre fuori dalla cella) come lavoro, formazioni oppure svago, questi limiti strutturali possono venire meno. In ogni caso bisogna sempre tenere conto del periodo di detenzione. Connessione tra reati anche senza autori identici di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 28 ottobre 2017 Per le Sezioni unite non è necessario che chi commette gli illeciti sia la stesso soggetto. Per la connessione tra reati non è necessaria l’identità tra gli autori del reato fine e quelli del reato mezzo. Lo hanno chiarito le Sezioni unite penali della Cassazione con informazione provvisoria resa dopo l’udienza del 26 ottobre. Resta ovviamente ferma la necessità di individuare un legame finalistico tra i due illeciti. Viene risolto in questo modo, ma le motivazioni saranno disponibili solo tra qualche tempo, un contrasto tra le sezioni semplici della stessa Corte risalente nel tempo. In discussione c’è l’interpretazione da dare all’articolo 12, comma 1, lettera c) del Codice di procedura penale. Una norma, che, dopo il decreto legge n. 367/91, indica la ragione della connessione in termini oggettivi (“se dei reati per cui si procede gli uni sono stati commessi per eseguire o occultare gli altri”) una consistente linea interpretativa (di recente, per esempio, la sentenza n. 5970 del 2016) ritiene necessaria, soprattutto nel caso di reati commessi in concorso la piena coincidenza soggettiva tra gli autori del reato fine e quelli del reato mezzo. A questo orientamento se ne contrapponeva poi un altro, concretizzando un contrasto favorito anche dalla versione della disposizione antecedente l’intervento del 2001 (sino ad allora era infatti scritto nel Codice, “se una persona imputata di più reati, quando gli uni sono stati commessi per eseguire o occultare gli altri”), secondo il quale, proprio per la natura oggettiva del collegamento, non è richiesto per la connessione teleologica che ci sia una perfetta identità tra gli autori del reato fine e quelli del reato mezzo. E questo sia nell’ipotesi di reati in concorso, sia “mono-soggettivi”, con gli evidenti riflessi sulla determinazione della competenza per connessione. In realtà la questione era già stata sottoposta in due occasioni alle Sezioni unite che però non avevano, per ragioni diverse di inammissibilità, mai potuto affrontare la questione nel dettaglio. La rettifica esclude la bancarotta di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 28 ottobre 2017 Nessuna prova o indizio per contestare anche il falso in bilancio. L’amministratore di una società non può essere condannato per bancarotta e neppure essere responsabile per falso in bilancio sulla sola base di una rettifica contabile. Servono invece ineludibili accertamenti di fatto per verificare la mancanza di fatto dei beni. Lo puntualizza la Corte di cassazione con la sentenza n. 49507 della Quinta sezione penale depositata ieri. La sentenza ha così accolto l’impugnazione presentata dalla difesa di un imprenditore, condannato per bancarotta fraudolenta a un anno e quattro mesi, più dieci anni di inabilitazione dall’esercizio di imprese commerciali e uffici direttivi. La Cassazione, nell’affrontare la questione, mette nel mirino la tesi dei giudici di appello che avevano ritenuto solo assertiva e strumentale la spiegazione contenuta nella nota integrativa. I giudici di secondo grado hanno cioè confuso una sparizione fisica con una diversa valorizzazione contabile di beni effettuata attraverso la rettifica delle poste di bilancio. Del resto, né il capo d’imputazione né la consulenza del pubblico ministero prospettavano elementi a sostegno della sparizione fisica dei beni, facendo invece riferimento a un dato contabile, al confronto cioè fra il valore delle merci rappresentato a libro giornale a inizio 2002 e quello che risulta dalla scheda contabile dal libro degli inventari alla fine dell’esercizio 2002. È certo astrattamente possibile, ammette la Cassazione, che un imprenditore o un amministratore societario distragga beni dall’impresa mascherando la loro sparizione con un artificio contabile costituito da una rettifica del valore iscritto a bilancio, ma la prova di questo comportamento non può essere ricavata dalla sola esistenza della rettifica contabile, senza cercare riscontri di fatto sull’assenza fisica dei beni. Sbagliato allora il riferimento alla giurisprudenza della Cassazione per la quale la prova della bancarotta può essere tratta dalla mancata dimostrazione da parte dell’amministratore della destinazione dei beni. Un orientamento, puntualizza adesso la Corte, che presuppone sempre il dato fisico della mancanza dei beni. Per la Cassazione è allora “condivisibile” la tesi della difesa, per la quale “la connotazione in termini di assertività è propria di qualsiasi dato, spiegazione e prospettazione contabile contenuta nel bilancio e nelle relative scritture, che articolano valutazioni, sia pure nel rispetto di un ventaglio di parametri normativi”. L’operazione di rettificazione, inoltre, era avvenuta nell’immediatezza della redazione del bilancio e, su questo punto, la Cassazione torna a ricordare il valore del bilancio nella rappresentazione della situazione patrimoniale e finanziaria della società (bilancio che, quanto alle rimanenze prescrive che devono essere iscritte al costo di acquisto o produzione, o al valore di realizzazione secondo l’andamento del mercato, se minore). Non ci sono infine, conclude la Cassazione, neppure prove o indizi per ritenere che l’amministratore abbia effettuato un’operazione contabile fraudolenta, svalutando i beni in questione, e quindi commettendo il diverso reato di falso in bilancio, nel quale, ricorda la sentenza, le valutazioni hanno comunque rilevanza penale se difformi, senza spiegazioni dello scostamento, da criteri consolidati in via normativa oppure generalmente accettati sul piano tecnico. La fake news costa cara: sei mesi di reclusione di Filippo Merli Italia Oggi, 28 ottobre 2017 In epoca di bufale online la sentenza del tribunale di Palermo è significativa. Gery Palazzotto è vivo e scrive insieme a noi. Eppure, per Wikipedia il giornalista e scrittore siciliano era “morto improvvisamente il 19 gennaio 2011 mentre si trovava a casa di un’amica a Roma”. Una fake news costata cara all’autore, tale Davide Guida, condannato a sei mesi di reclusione con pena sospesa e al pagamento di una provvisionale di 1.000 euro a Palazzotto, costituitosi parte civile. La sentenza del tribunale di Palermo, come ha scritto lo stesso Palazzotto sul suo blog, “in qualche modo rappresenta una pietra miliare, dato che parliamo di fake news ante litteram”. Autore di romanzi noir ed ex caporedattore del Giornale di Sicilia, Palazzotto, 54 anni, nel gennaio del 2011 aveva denunciato l’accaduto sul suo sito. “Mi sono accorto che qualcuno aveva stravolto la mia voce su Wikipedia scrivendo, tra l’altro, che sono un attivista politico, che sono morto improvvisamente il 19 gennaio 2011 per un abuso di psicofarmaci o droghe e che, nonostante la mia dipartita, questo blog veniva aggiornato attivamente da una segreteria organizzativa che continuava a scrivere a mio nome per rispetto delle mie misteriose volontà”. “Wikipedia ha ovviamente corretto la voce”, aveva proseguito il giornalista. “Tutti i dati relativi agli Ip sono stati registrati. Sporgerò denuncia penale per diffamazione, non senza promuovere una causa civile per il risarcimento dei danni”. Nel maggio del 2013, Palazzotto, oggi direttore del settore comunicazione del teatro Massimo di Palermo, aveva annunciato di conoscere l’identità del pirata informatico. “Ci sono voluti più di due anni, ma alla fi ne le indagini hanno prodotto un risultato. È stato identificato il killer mediatico che, nel gennaio 2011, mi uccise sul web: ora è indagato per diffamazione”. A giugno, invece, lo scrittore aveva parlato dei tempi lunghi della giustizia. “Sporsi denuncia, indicai Ip, circostanze, sospetti: c’era solo da andare a prendere quei malfattori e sottoporli a procedimento giudiziario. Nulla accadde, non ho mai avuto una sola notizia, silenzio. Quando mi è capitato di criticare sul web una parlamentare nazionale, invece, nel giro di un’ora si è materializzato un agente della polizia postale che ha subito avviato la sua perfetta indagine e scritto in bella grafi a il suo compitino. Una giustizia rapida, istantanea, su misura”. Ora, come ha riportato Repubblica Palermo, a distanza di sei anni la sentenza del giudice della terza sezione penale del tribunale di Palermo, Provvidenza Di Grigoli, è arrivata. “Inserendo notizie non veritiere e diffamatorie”, si legge nel provvedimento, “relative alla morte di Palazzotto, non avvenuta, Guida ne offendeva l’onore e la reputazione, con l’aggravante di avere recato l’offesa con un mezzo di pubblicità”. Come ha ricordato Palazzotto, l’hacker, tra le cause della finta morte del giornalista, aveva parlato di “abuso di alcol e droghe”. Sia la falsa notizia della scomparsa, sia i dettagli, avevano passato indenni le verifiche di Wikipedia, enciclopedia che, com’è noto, viene aggiornata grazie alle nozioni dei lettori. In epoca di pagine di Facebook e di siti web che diffondono bufale online, quella del tribunale di Palermo è una sentenza significativa: le fake news possono costare caro. Emilia Romagna: il Garante “migliorare l’offerta culturale per le donne in carcere” di Cristian Casali cronacabianca.eu, 28 ottobre 2017 Presentato progetto rivolto alle donne detenute, sulla prevenzione della violenza di genere attraverso percorsi didattici nelle carceri. “Riflettere su pari opportunità di accesso ai percorsi scolastici: si può e si deve migliorare l’offerta culturale per le donne in carcere, anche in riferimento all’aspetto del reinserimento nella società”. Il Garante regionale delle persone private della libertà personale, Marcello Marighelli, è intervenuto in mattinata alla presentazione del progetto “Sperimentazione interregionale sulla prevenzione della violenza di genere nei percorsi di istruzione interni al carcere”, all’auditorium del civico 18 di viale Aldo Moro a Bologna. Nell’evidenziare che “la cultura è un diritto, anche nelle carceri” Marighelli ha riferito che “in Emilia-Romagna sono cinque gli istituti che ospitano detenute donne (Bologna, Modena, Reggio Emilia, Forlì e Imola), che sono in totale 161”. Il tema delle pari opportunità collegato all’aspetto dell’istruzione, ha poi ribadito il Garante, “deve entrare stabilmente nelle carceri, mi impegnerò affinché questo avvenga”. All’incontro sono stati diffusi i risultati della sperimentazione, finanziata dal Dipartimento delle pari opportunità e realizzata dai Cpia (Centri provinciali per l’istruzione degli adulti) negli istituti penitenziari di Bologna, Modena e Ancona nell’anno scolastico 2016-2017, con la presentazione dei percorsi scolastici avviati. Percorsi rivolti a studenti e, principalmente, a studentesse in stato di detenzione, una sperimentazione che prevede la progettazione, la realizzazione e la valutazione di tre interventi formativi sulla violenza di genere. In particolare, il percorso al femminile parte da una partecipazione condivisa su identità e ruolo delle donne nelle rispettive culture di appartenenza, mentre il percorso al maschile è principalmente rivolto alla popolazione musulmana, sul tema della parità di genere. All’incontro è intervenuto anche il consigliere regionale Giuseppe Paruolo: “È giusto che chi ha commesso degli errori nella propria vita ne affronti le conseguenze, ma è anche importante mettere in campo tutti gli strumenti per costruire percorsi che saranno utili una volta fuori dal carcere. In commissione Cultura, che è la commissione dell’Assemblea legislativa che presiedo, abbiamo, ad esempio, approfondito il tema degli studi universitari per i detenuti, collegato all’importante lavoro compiuto da volontari e da professori universitari in pensione”. Oltre al Marighelli e Paruolo sono intervenuti Emilio Porcaro del Cpia metropolitano di Bologna, Giovanni Desco dell’Ufficio scolastico regionale, la consigliera della Città metropolitana di Bologna Elisabetta Scalambra, Marco Bonfiglioli del Provveditorato amministrazione penitenziaria per l’Emilia-Romagna e le Marche, Massimo Ziccone della Casa circondariale di Bologna e il Garante dei detenuti del Comune di Bologna Antonio Ianniello, oltre i rappresentanti dello studio Diathesis e dei Cpia. Milano: mancano magistrati, niente permessi e benefici di legge per i detenuti di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 28 ottobre 2017 Rinvii di mesi, udienze cancellate e celle piene. Di mese in mese, il numero dei detenuti aumenta con preoccupante costanza. Vista da una cella angusta, la prospettiva per centinaia di detenuti delle carceri milanesi è drammatica. Hai diritto all’affidamento in prova, a lavorare all’esterno o ad avere un permesso e potresti uscire dal carcere? Ai mesi che dovevi già aspettare prima che un giudice esaminasse il tuo caso ora se ne aggiungeranno altri ancora perché il Tribunale di sorveglianza, con una decisione senza precedenti, ha annullato una serie di udienze a causa della carenza di magistrati. Le carceri italiane sono di nuovo sovraffollate. Di mese in mese, il numero dei detenuti aumenta con preoccupante costanza avvicinandosi sempre più al record raggiunto negli anni scorsi prima dei provvedimenti che hanno svuotato le celle. Più detenuti vuol dire maggiore carico di lavoro per i magistrati di sorveglianza che vigilano sull’esecuzione delle pene occupandosi anche di permessi o delle misure alternative, come l’affidamento in prova ai servizi sociali. Al 31 agosto scorso, nelle 13 carceri del distretto di Milano (Lombardia occidentale) erano recluse 6.723 persone, 1.553 in più della capienza, con un indice di affollamento medio del 130% che raggiunge picchi del 184,4% a Lodi, del 172,9% a Busto Arsizio e del 142,4% ad Opera dove, a fronte di una capienza di 918 posti, ci sono 1.307 detenuti. Per smaltire un arretrato di ottomila fascicoli che si era accumulato a partire dal 2014, a novembre scorso il Tribunale di sorveglianza di Milano si rimboccò le maniche e, nonostante la mancanza di tre magistrati sui 12 previsti in organico e con un caricar di lavoro del 50% in più furono portate da tre a quattro le udienze settimanali, in ciascuna delle quali vengono trattati 80 fascicoli. In qualche anno l’arretrato sarebbe stato azzerato, se però nel frattempo fossero arrivati i rinforzi sui quali si era fatto espressamente conto. Ma fino a ora le continue e insistenti richieste del presidente Giovanna Di Rosa, che si è insediata a luglio 2016, sono finite nel nulla e il Csm solo a giugno scorso ha pubblicato i posti vacanti permettendo così ai candidati di presentare domanda. Da allora, tra arrivi e altre partenze, il saldo a Milano è di meno quattro magistrati di sorveglianza ma arriverà presto a meno cinque quando il 2 novembre uno di quelli in servizio andrà in Corte d’Appello. Quest’ultimo trasferimento senza rimpiazzo è la goccia che ha fatto traboccare il vaso, perché il carico di lavoro salirà fino a un insostenibile più 70%. Nel provvedimento con cui cancella le udienze, approvato dal Consiglio giudiziario, Di Rosa scrive che “l’eccezionalità e la gravità della situazione”, consigliano una riorganizzazione “per arginare in qualche maniera l’insostenibile pressione dei flussi di lavoro”. Per ora, la soluzione è stata, appunto, l’eliminazione delle udienze dei prossimi 8 lunedì, a partire dal 6 novembre. La cosa potrebbe sembrare marginale, ma non lo è. Perché l’eliminazione di un’udienza innesca un effetto domino su centinaia e centinaia di detenuti che sono in carcere i quali, sebbene abbiano la priorità, vedranno allungarsi inevitabilmente i tempi di risposta alla richiesta di un qualsiasi beneficio di cui potrebbero avere diritto. Ripercussioni anche sui quasi undicimila condannati a pene fino a tre anni (in taluni casi fino a 4 o anche a 6 anni) per le quali è stata sospesa l’esecuzione della pena. Sono i cosiddetti “liberi-sospesi”, fantasmi giudiziari che da lunghissimo tempo aspettano di sapere se andranno o no in affidamento ai servizi sociali o in un programma di disintossicazione dalla droga e che ora dovranno attendere ancora di più prima di chiudere il conto con la giustizia oppure di andare in carcere, se non meritano benefici perché sono pericolosi. Padova: al Due Palazzi inaugurata ludoteca nell’area in cui i genitori incontrano i bimbi Corriere Veneto, 28 ottobre 2017 Per diminuire lo stress nei bambini che incontrano i loro papà detenuti, Telefono Azzurro ha fatto una ludoteca. Nella Casa circondariale del Due Palazzi, dove c’erano due stanze separate, adesso c’è una ludoteca con disegni, pennarelli, peluche, giochi in scatola e molto altro ancora. Dire che Telefono Azzurro abbatte i muri anche in carcere non è solo una metafora: l’Onlus per la tutela dei minori infatti ha chiesto e ottenuto la demolizione di una parete per allestire uno spazio a misura di bambino, dove i detenuti possono incontrare i figli e giocare insieme a loro nell’ambito del progetto “Bambini e carcere”. Oggi la Casa circondariale ospita 180 detenuti (il doppio della capienza consentita), di cui 6 su 10 stranieri e/o con un processo in corso; la nuova ludoteca, gestita da 60 volontari che si danno il turno e sorvegliati dagli agenti di polizia penitenziaria, può ospitare due famiglie per volta ed è aperta ogni sabato (più qualche domenica) dalle 9 alle 16: “In un contesto come questo c’è più interazione - spiega Concetta Fragasso di Telefono Azzurro. I giocattoli arrivano dalle donazioni dei privati e dell’Ikea, che ci regala le monetine lasciate dai clienti per prelevare la bulloneria; la dimensione del gioco riduce i silenzi e gli imbarazzi. Al progetto partecipano 21 nuovi volontari, tra cui molte laureande di Psicologia: il percorso prevede formazione, affiancamento a un volontario esperto e riunione mensile obbligatorie”. Le accortezze non sono casuali: “Spesso racconta Fragasso - i bambini vengono al colloquio con l’assistente sociale. Alcuni di loro non sanno che il papà è in carcere e pensano di andarlo a trovare sul posto di lavoro, altri lo sanno ma reggono il gioco della mamma. Le situazioni da gestire sono tante, dal papà che scoppia a piangere al bambino su di giri: un ambiente sereno non risolve tutto ma è un grosso aiuto”. Quella inaugurata ieri non è l’unica ludoteca di Telefono Azzurro al Due Palazzi: le altre due sono nella Casa di reclusione e nell’Istituto a custodia attenuata per tossicodipendenti (Icatt) della Casa circondariale, che ospita una cinquantina di detenuti. Qui le postazioni sono sei e oltre ai giochi ci sono anche dei pannelli con prati e mongolfiere, realizzati dagli studenti del liceo Selvatico: “Padova - conclude Fragasso è prima in Italia sia per il numero dei volontari che per quello delle ludoteche”. Porto Azzurro (Li): il Garante “silenzio dell’Asl sulle problematiche del carcere” quinewselba.it, 28 ottobre 2017 Il garante dei diritti dei detenuti: “All’ospedale manca un locale idoneo al ricovero dei detenuti, problemi anche nel servizio psichiatrico”. Un preoccupante silenzio dei vertici Usl sulle problematiche del carcere di Porto Azzurro. La denuncia è del garante dei diritti dei detenuti, Nunzio Marotti. “Non è necessario rendere pubblico - scrive Marotti - quanto attiene all’adempimento del proprio ruolo. Prima si procede attraverso contatti con chi ha la facoltà di assumere decisioni, informando e, se occorre, sollecitando. All’inizio del mese di settembre, ho scritto ai vertici dell’Usl Nord Ovest per sostenere le segnalazioni-richieste del Direttore della Casa di Reclusione dott. D’Anselmo. Le questioni erano e sono rilevanti. La prima riguarda le criticità del servizio psichiatrico nel presidio carcerario, dopo il pensionamento del dott. Santoro. Richiamavo la drastica riduzione dell’orario e la non reperibilità. Fattori insostenibili tenendo conto del numero di soggetti psichiatrici attualmente ristretti. La seconda concerne la mancanza di un locale idoneo al ricovero dei detenuti presso l’Ospedale di Portoferraio, come previsto dalla normativa. Colgo questa occasione per aggiungere un ulteriore elemento: la necessità di prolungare l’orario di permanenza del personale infermieristico sino alla mezzanotte (oggi è fino alle 22,00) per evitare seri problemi in ordine alla distribuzione della terapia serale. La situazione non è cambiata e, comunque, non ho avuto ancora alcuna risposta. Mi auguro che la rilevanza mediatica possa essere efficace e resto in attesa di notizie ma soprattutto di azioni risolutive”, conclude Nunzio Marotti, riservandosi di valutare ulteriori iniziative. Torino: “Liberamensa” alle Vallette, dove il cibo “salva” chi lo mangia e chi lo fa di Luca Iaccarino La Repubblica, 28 ottobre 2017 Si chiama Casa Circondariale Lorusso e Cutugno ma tutti la conoscono come il carcere delle Vallette. Se ci arrivi in una notte d’autunno fa un certo effetto, anche se sei a piede libero. Come a me, che sabato scorso vengo a provare Liberamensa, il ristorante aperto un anno fa dietro i cancelli, con la collaborazione dell’Università di scienze gastronomiche di Pollenzo. I guardiani controllano i documenti, e prima d’entrare nella “cittadella” ecco una porticina. Dentro, d’un tratto, calore e un bel locale moderno. Oggi si festeggia il compleanno con Piero Parente della cooperativa Ecosol, il direttore dell’istituto Minervini, i garanti per i detenuti Gallo e Mellano, ma io fremo per il cibo. Il menu è fisso a 30 euro, cambiano i piatti secondo quel che c’è nell’orto e l’estro di professionisti e detenuti che conducono il locale. Ci arrivano una piccola bagna cauda, uno sformato con fonduta, risotto alla zucca, rolata di coniglio grigio, un “morbido” di lamponi. Lo stile è “da ristorante” per professionalizzare i ragazzi, il risultato buono con i picchi di bagna e dolce. Beviamo Dolcetto e chiacchieriamo del potere salvifico della cucina: per chi la mangia, e per chi la fa. Liberamensa, - via Maria Adelaide Aglietta 35 - Torino - Aperto solo le sere di sabato sera e domenica - prenotazione obbligatoria allo 3458784980. Foggia: le voci del carcere, progetto del Liceo “Perugini” contro gli stereotipi immediato.net, 28 ottobre 2017 Oltre 150 sì, nero su bianco. Tutti gli studenti del liceo artistico “Perugini” di Foggia coinvolti nel progetto “Il carcere fra immaginario e realtà, per superare gli stereotipi dell’immaginario comune legati a chi sta dentro e chi sta fuori dal carcere”, hanno affermato, compilando un modulo, l’importanza di intraprendere percorsi di legalità a scuola. I loro docenti, Angela Favia, Maria Grifoni e Michele Sisbarra, animatori del progetto, hanno deciso di accontentarli scegliendo una prospettiva diversa, quella del carcere, vissuto da chi dietro le sbarre ci vive. Il percorso ha avuto inizio il 26 ottobre, presso la Biblioteca provinciale di Foggia “La Magna Capitana”, con la presentazione del libro “Colpevoli. Vita dietro e oltre le sbarre” di Annalisa Graziano. La scelta del contenitore culturale, che ha accolto gli studenti delle quarte e quinte classi, non è stata casuale. “Tra pochi giorni la Biblioteca inizierà un nuovo ciclo di incontri presso la Casa Circondariale di Foggia - ha spiegato la responsabile, Gabriella Berardi - e nella nostra esperienza all’interno del carcere sono numerosi gli stereotipi che abbiamo superato. Il pietismo, certo ma anche quello che vuole i carcerati tutti brutti e cattivi. Come spesso accade, la verità sta nel mezzo ed è rappresentata dalla possibilità di una scelta. Si sceglie ciò che si conosce, per questo la Biblioteca ha deciso di collaborare a questo lungo progetto che vi vede protagonisti” - ha concluso, rivolgendosi ai giovani in platea. Un percorso non semplice, quello che porta alla realizzazione di attività all’interno degli Istituti Penitenziari, come ha sottolineato la bibliotecaria Roberta Jarussi. “Ciò che ho compreso dalla mia esperienza diretta è che occorre scegliere e parlare un linguaggio comune, per accorciare le distanze. In carcere non c’è possibilità di inganno; i detenuti sono diretti, a volte crudi e chiedono trasparenza. Per questo, per lavorare bene “dentro” occorre una sospensione del giudizio, che non è richiesto a noi”. Una battaglia, quella contro gli stereotipi, che vede in prima linea le associazioni, come ha ricordato durante i saluti iniziali il dirigente dell’IISS “Lanza-Perugini”, Giuseppe Trecca. “Non serve alcun pietismo - ha sottolineato - ma noi cittadini abbiamo bisogno di sicurezza e ben dice don Ciotti, che ha firmato la prefazione del libro, quando sottolinea come il carcere non debba essere considerato una discarica sociale. La scuola è un’agenzia di formazione importante anche per la personalità dei giovani, che non possono restare intrappolati negli stereotipi. Per questo, ringrazio i docenti di questo interessante progetto, che spero coinvolga e impegni tutti gli studenti interessati”. Le istituzioni entrano nel carcere. A portare i saluti dell’Amministrazione Comunale di Foggia l’assessore all’Istruzione, Claudia Lioia. “Il Comune di Foggia sta investendo molto sul tema della legalità, con particolare attenzione alle giovani generazioni - ha detto - e il libro ‘Colpevoli’, così come l’impegno di Annalisa Graziano, raccontano come sia importante concedere una seconda possibilità. Mio marito, avvocato penalista, difese anni fa un esponente della criminalità organizzata che si era occupato di eliminare tracce in scene del crimine. Ebbene, durante la sua condanna a trent’anni, quell’uomo si è laureato, ha fatto un percorso di rieducazione e reinserimento e oggi, che è un uomo libero, si è trasferito al nord e lavora in una casa editrice. Questo è un esempio di come, con percorsi di recupero efficaci, anche un esponente della criminalità possa scegliere di cambiare. Uno sbaglio non deve essere per forza una decisione per la vita”. Una posizione condivisa dalla dirigente dell’Ufficio Scolastico Provinciale, Maria Aida Episcopo. “La scuola rappresenta un tassello importante all’interno del mondo carcere. Per fortuna, negli anni, anche l’approccio dei docenti è mutato profondamente. All’inizio nessuno voleva insegnare negli Istituti Penitenziari. Oggi, invece, alcuni docenti ne hanno fatto una ragione di vita, contribuendo a scrostare quei luoghi da quella patina che li vuole solo come contenitori di reati. Del resto, anche il mondo della scuola si alimenta della cultura della seconda possibilità. Così, grazie ad alcuni docenti che hanno lavorato come buone cellule, lo stereotipo che bloccava molti colleghi nell’insegnare dentro è stato sconfitto”. Un lavoro di rete che coinvolge anche il Centro di Servizio per il Volontariato. “Ognuno di noi è colpevole di non fare abbastanza per gli altri - ha detto provocatoriamente Pasquale Marchese, vicepresidente del CSV Foggia -. Bisogna puntare sulle giovani generazioni, anche nel mondo del volontariato, che oggi coinvolge principalmente anziani. Fare del bene fa star bene ed è un appello che rivolgo alla comunità tutta, ma soprattutto agli studenti”. Il Progetto del “Perugini” ha ricevuto un finanziamento della Fondazione dei Monti Uniti di Foggia, in sala rappresentata dal sociologo Roberto Lavanna, membro del Consiglio di Amministrazione. “La Fondazione dei Monti Uniti di Foggia già Fondazione Banca del Monte, sostiene progetti negli istituti Penitenziari di Capitanata da cinque anni e ha deciso di sostenere anche le attività promosse da Annalisa Graziano. L’attenzione è rivolta al mondo del carcere, ma anche all’esecuzione penale esterna e ai progetti che vengono realizzati con la collaborazione dell’Uepe. La Fondazione è molto attenta ai percorsi di legalità e per questo motivo, da alcuni anni, segue e sostiene anche i beni confiscati alle mafie”. Durante la presentazione si è tenuta anche la performance teatrale di Michele D’Errico, che ha interpretato alcuni brani tratti da Colpevoli. “Il libro è frutto di un lavoro collettivo - ha spiegato Annalisa Graziano - e nasce da una lunga chiacchierata con il direttore della Casa Circondariale di Foggia, Mariella Affatato. Il principio costituzionale ci ricorda che il carcere deve essere un luogo di recupero e non una discarica sociale. In altri termini, se il tempo impiegato dentro è stato fruttuoso, allora la libertà guadagnata diventa occasione utile di riscatto nel mondo fuori. L’accesso ai programmi di rieducazione è fondamentale per restituire alla società persone in grado di convivere con gli altri. Gli anni passati senza attività, invece, aumentano il senso di frustrazione e rabbia nei confronti di un sistema a cui non ci si è adattati. Il concetto di fondo - ha evidenziato - è che se il recupero e il reinserimento di detenuti ed ex detenuti falliscono, il danno per la collettività, in termine di costi e di sicurezza, è enorme. Studi ed esperienze europee - e non solo - dimostrano che il rimedio alla recidiva esiste. E quel rimedio si chiama revisione del reato e lavoro; occupazione che può crearsi in una società matura, in cui l’etica della responsabilità e la legalità non siano solo impegno di pochi”. Al centro della mattinata, temi delicati, dal rapporto con le famiglie di origine e con figli, al valore della lettura e delle iniziative di volontariato, passando dai reati e dalla loro revisione, fino alla vita quotidiana negli Istituti penitenziari. La lettera di un detenuto. Nel corso della mattina, Michele D’Errico ha letto una lunga lettera che Donato, detenuto della Casa Circondariale di Foggia, ha consegnato ad Annalisa Graziano, perché fosse donata agli studenti del “Perugini”, intitolata “Colpevoli, ma non per sempre”. “A volte - scrive Donato - la mia brama di conoscenza morde più acutamente dello stesso desiderio di libertà: la lettura è la mia ambizione quotidiana che mi permette di essere libero con la mente, poiché nessuno può imprigionarla se non noi stessi con i nostri schemi a circuito chiuso, con le nostre assurde certezze. Quando il sangue arriva a quel grado di maturazione che accorda ed esalta tutti i doni naturali, basta un’occasione perché cominci l’ascesa della persona alla grandezza…”. Cinque mesi di progetto. Gli studenti, che nel corso dei prossimi mesi saranno impegnati nella lettura del libro, in visioni di film sul tema, in incontri con esperti del settore e di produzione artistica, con strumenti espressivi peculiari dei diversi indirizzi di studio, saranno coinvolti in performance artistiche ispirate al libro “Colpevoli”. Presso la Casa Circondariale di Foggia è prevista, a febbraio 2018, l’ultima fase del progetto, con gli alunni delle classi V del “Perugini” che visiteranno la struttura e presenteranno i loro elaborati ai detenuti, partecipando alla Reading Performance curata da Michele D’Errico. Il progetto del Liceo “Perugini” è patrocinato dalla Fondazione dei Monti Uniti di Foggia, Comune di Foggia, Biblioteca Provinciale e Csv Foggia. Napoli: volontariato con l’Associazione “Carcere VI.VO” (Vincenziani Volontari) linkabile.it, 28 ottobre 2017 L’Associazione “Carcere VI.VO” rimanda, sia nel nome che nelle finalità, a San Vincenzo de Paoli, il quale nel ‘600 dedicò la sua attività ai galeotti francesi. Nel 1987 le Figlie della Carità di Napoli riprendono la sua opera e, grazie anche alla collaborazione di molti laici, nel 1989 nasce quest’Associazione che si occupa, principalmente, del recupero e del reinserimento dei detenuti e dei tossicodipendenti. Sotto la presidenza di Carmine Uccello, “Carcere VI.VO” si pone accanto alle famiglie, con visite domiciliari e ascolto, per far sì che queste non si sentano abbandonate ed abbiano modo di condividere i loro problemi. Ma non solo, infatti, altro compito dei volontari, è quello di essere vicini ai detenuti tramite corrispondenza o visite all’interno delle carceri, offrendo sempre parole di conforto. Oppure ai tossicodipendenti proponendosi di accompagnarli in Comunità Terapeutiche e motivandoli ad un corretto reinserimento all’interno della società. L’impegno maggiore assunto da “Carcere VI.VO” è sicuramente la vicinanza alle famiglie dei detenuti, cercando con forza di includere nella società coloro che la società stessa tenta di escludere e far riacquistare dignità a chi l’ha perduta. Ogni anno viene organizzato uno spettacolo di beneficenza ed il ricavato viene devoluto interamente alle famiglie più bisognose. Il prossimo 24 novembre alle ore 17.30, nella Casa delle Figlie della Carità di Napoli, ci sarà lo spettacolo di quest’anno, durante il quale potremmo ammirare la bravura e la dedizione di alcuni cantanti e comici napoletani. Gli spettacoli servono soprattutto a sensibilizzare la società dato che le richieste di aiuto sono tante e i volontari, da soli, non possono rispondere a tutte. Altro impegno, degno di lode, dell’Associazione è la convenzione con il CRAI per fornire viveri ed una bustina con qualche spicciolo alle famiglie dei detenuti senza reddito. “Il volontario è un lavoro difficile”, afferma il Presidente Carmine Uccello, “è necessario far rifiorire la speranza per un avvenire diverso”, lasciare, quindi, un messaggio positivo per il futuro. Il presidente Uccello porta l’esempio del buon samaritano: “non bisogna mai fermarsi, bisogna continuare ad accompagnare e, soprattutto, bisogna accorgersi se avvengono cambiamenti”. “Carcere VI.VO”, oggi, dispone di 4 volontari per il carcere di Poggioreale, 3 volontari per il carcere di Secondigliano e 2 volontari per il carcere di Pozzuoli e cerca sempre di operare in rete con le altre Associazioni di volontariato in modo da creare coesione sul territorio e non lasciare che le persone ristrette e, soprattutto, le loro famiglie si sentano abbandonate a loro stesse. Milano: il convegno “Oltre le sbarre: storia, architettura e filosofia del carcere” bookcitymilano.it, 28 ottobre 2017 Con Antonio Quatela, Domenico Alessandro De Rossi, Chiara Castiglioni e Valeria Verdolini. Con oltre 54 mila detenuti il sistema carcerario italiano è in crisi strutturale: uno storico, un architetto, una filosofa e una sociologa si confrontano sui problemi della detenzione, della vita dei detenuti, delle strutture carcerarie in una riflessione a più voci sui problemi e le possibili soluzioni per fare della detenzione una reale occasione di recupero e reinserimento. Con: Chiara Castiglioni, filosofa, presidente di Infiniti Mondi Onlus, socia SFI (Società filosofica Italiana) e di Aim Confil (Associazione italiana dei consulenti filosofici); Domenico Alessandro De Rossi, presidente Commissione “Diritti della persona privata della Libertà” della Lidu Onlus, architetto e saggista; Antonio Quatela, storico, si occupa di studi sulla Resistenza a Milano e in particolare del ruolo del carcere di San Vittore nel sistema concentrazionario; Valeria Verdolini, docente all’Università degli Studi di Milano. Sociologa del diritto e attivista, è presidente di Antigone Lombardia. Milano, il 19 novembre 2017, ore 14:30. Roma: “Hamlet in Rebibbia”, apre la Festa del Cinema in carcere di Teresa Valiani Redattore Sociale, 28 ottobre 2017 Cinque gli appuntamenti internazionali, dal 30 ottobre al 3 novembre, con il teatro che si fa cinema e da Roma raggiunge in live streaming le sale di altre città e di altri istituti. Il regista Fabio Cavalli: almeno per qualche ora, liberi o reclusi, sogneremo lo stesso sogno. “Il Cinema sa unire i destini più diversi. Almeno per qualche ora, liberi o reclusi, sogneremo lo stesso sogno”. Forte dei risultati della prima edizione, la dodicesima Festa del Cinema di Roma ripropone anche quest’anno la collaborazione con il carcere e il lavoro sui palcoscenici rinchiusi del regista Fabio Cavalli e della sua squadra di attori detenuti, alcuni dei quali impegnati in passato insieme a lui sul set di “Cesare deve morire”. Dal 30 ottobre al 3 novembre sono cinque gli appuntamenti internazionali in calendario, aperti a liberi e detenuti, nell’esperimento di integrazione che passa attraverso il felice connubio tra Cinema e Video-Teatro. Il viaggio nella “fabbrica dei sogni” parte dal teatro del carcere di Rebibbia Nuovo Complesso alle 20.30 di lunedì con “Hamlet in Rebibbia live streaming full-HD”, per approdare in diretta alla Sala del Maxxi, al Teatro della Tosse di Genova, al Carcere di Marassi e, sempre grazie al web, in altri numerosi teatri e carceri italiani. Proiezioni di grandi film in anteprima, Video Teatro live streaming, laboratori e workshop di cinema tra università e carcere, gli ingredienti di questa seconda edizione che si inaugura con la più celebre opera di Shakespeare e sarà ospite, il 3 novembre, della sala cinema del Carcere Femminile, all’insegna della collaborazione tra la Fondazione Cinema per Roma, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e il Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo dell’Università degli Studi Roma Tre, con l’impegno produttivo de La Ribalta - Centro Studi Enrico Maria Salerno che da quindici anni diffonde e crea opere teatrali e cinematografiche di prestigio internazionale con i detenuti del carcere romano. Con l’adattamento e la regia di Fabio Cavalli, lunedì saranno sul palco i detenuti attori del Teatro Libero di Rebibbia - Reparto G12 dell’alta sicurezza, con Vanessa Cremaschi nel ruolo di Gertrude e Chiara David in quello di Ofelia. Il “Progetto Speciale del Ministero per i Beni e le Attività culturali e del Turismo 2017” vede la direzione artistica di Laura Andreini Salerno, le musiche di Franco Moretti, le scenografie di Franco De Nino e Fabio Settimi, i costumi di Paola Pischedda e l’organizzazione di Alessandro De Nino. “Rispondiamo alla crisi del pubblico in sala con l’idea di una forma d’arte che sia insieme Teatro, Cinema, Tv e web - spiega il regista Fabio Cavalli, responsabile del progetto Ottava Arte “l’avanguardia della nuova espressività in palcoscenico”. Le produzioni live streaming da un carcere sono una novità assoluta a livello internazionale. Facciamo di necessità virtù: se gli attori non possono uscire portiamo fuori i loro spettacoli con le immagini, nella perfezione dell’Hd, la regia in diretta e il coinvolgimento del pubblico in sala come complice di questa sperimentazione che in Italia comincia dal carcere di Rebibbia e vuole estendersi ai principali teatri”. L’Amleto di Shakespeare, non a caso, apre la rassegna. “Amleto è il killer obbligato, l’esecutore - sottolinea Fabio Cavalli -. Ma rifiuta di agire senza le prove del delitto. Pretende che Vendetta e Giustizia siano le due facce della stessa moneta. Nella strage finale, innocenti e colpevoli saranno ugualmente sacrificati in un atto di purificazione distruttiva. Solo Orazio resta testimone vivente, incaricato di ricordare ai posteri il rischio mortale che comporta la violazione dell’ordine all’interno di una comunità. Nell’Amleto si rispecchiano i destini di molti degli attori della Compagnia. E i destini di tutti noi. Se c’è del marcio nell’antica Danimarca, come ce la passiamo, oggi, fra Roma, Napoli e Reggio Calabria? Quali faide, tradimenti e lotte fra clan, coprono di sangue le strade delle città, fino a macchiare i palazzi di un potere lontano ed oscuro? Dalla Fortezza di Elsinore alle nostre metropoli il salto spazio-temporale è quasi impercettibile. Nella parola dialettale scarnificata dei detenuti-attori, l’Amleto è cronaca di oggi ed emblema universale della dialettica fra Vendetta e Giustizia”. Il programma: lunedì 30 ottobre Video-Teatro live streaming da Rebibbia. Al termine dell’evento saluti live fra i detenuti-attori e il pubblico del Maxxi (aperto con accreditamento in entrambe le sale). Da martedì 31 ottobre a giovedì 2 novembre proiezioni aperte al pubblico esterno dell’Auditorium di Rebibbia. Venerdì 3 novembre, proiezione al Carcere Femminile. Tutti gli eventi sono ad ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria fino a esaurimento posti. Per info e prenotazioni: www.enricomariasalerno.it. “Armatevi e morite”, di Pietrangelo Buttafuoco. La difesa fai-da-te è un inganno di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 28 ottobre 2017 L’intellettuale nel libro “Armatevi e morite” (Sperling & Kupfer), scritto con il giornalista Carmelo Abbate, demolisce un tema caro alla sua area culturale. È il libro che non ti aspetti da un giornalista di destra, qual è considerato Pietrangelo Buttafuoco. Sembra proprio Matteo Salvini il principale destinatario del messaggio recapitato dal saggio scritto con Carmelo Abbate, “Armatevi e morite. La difesa fai-da-te è un inganno (e non è di destra)”, uscito per Sperling & Kupfer. Sostengono gli autori che il cittadino armato di fucile, posto a sentinella della propria abitazione già protetta da vetri blindati, finestre sbarrate, cavi, catene e lucchetti, è un’illusione pericolosa, un percorso illogico e irrazionale che finirà per lasciare tanti nuovi morti ammazzati sul terreno. Lo Stato che detiene il monopolio della difesa e della sicurezza è una delle più grandi conquiste di civiltà. Rinunciarci, magari sull’onda di quella che Buttafuoco e Abbate indicano come “l’ultima isteria della destra sciué-sciué”, sarebbe una regressione quanto una follia. Perché alla “sgangherata macchina della propaganda populista interessa solo mettere all’incasso l’applauso: share nelle trasmissioni urlate, like nei social, bagni di folla al Bar Sport”. Mentre al povero signor Veneranda, personaggio creato da Carletto Manzoni e preso a riferimento dell’italiano medio piccolo borghese, non resta che “attaccarsi al ferro”. Così facendo, lo Stato si “cala le braghe” e il signor Veneranda “ci lascia le penne”. Armatevi e morite, fare del cittadino il poliziotto di sé stesso, è “l’armiamoci e partite di chi, facendo la guerra a parole, manda avanti gli altri a crepare”. Questo si nasconde dietro il mantra del “cittadino con la pistola”, la ricetta “un’arma in ogni famiglia” e lo slogan dispensato con rassegnata leggerezza: “Visto che lo Stato non ci difende...”. Un “maledetto imbroglio”, scrivono Buttafuoco e Abbate. La loro contestazione non è portata in punto di ideologia, ma di pragmatismo. La difesa fai-da-te è un inganno perché laddove questa viene applicata, provoca una vera e propria carneficina. Gli “Stati Armati d’America”, come vengono indicati dagli autori, sono lì a mostrarci la direzione che non bisogna assolutamente percorrere. Hanno la più alta percentuale di armi da fuoco per abitante al mondo: 88,8 ogni 100 persone, secondo l’organizzazione indipendente svizzera Small Arms Survey, dato 25 volte più alto rispetto alla media delle nazioni Ocse. Ma allo stesso tempo fanno registrare il più elevato numero di omicidi rispetto a tutti gli altri Paesi industrializzati: quasi 12 mila morti ammazzati soltanto nel 2008. All’opposto, sempre secondo lo stesso osservatorio, in Giappone si contano 0,6 armi da fuoco ogni 100 abitanti (tasso più basso fra i Paesi ricchi) e 11 persone uccise nel 2008, mentre due anni prima erano state solo 6 in tutto il Paese. Periodo nel quale negli Usa più di 500 persone avevano perso la vita per una causa accidentale, cioè mentre erano intente alla pulizia della pistola o del fucile. E qui si apre una pagina che deve far riflettere quelli che pensano che basti una pistola per mettersi al sicuro. Perché dall’analisi specifica dei dati sulle vittime di armi da fuoco emerge la scarsa consistenza della cosiddetta autodifesa: la maggior parte dei morti non deriva dall’azione del cittadino che protegge il proprio casolare, ma da quello che attacca e spara per le ragioni più disparate. Un altro osservatorio indipendente, Gun Violence Archive, ha contato 58.634 “sparatine” (come le chiamano i sicilianissimi autori) nel 2016, 15.062 delle quali mortali. Soltanto in 1.971 di questi casi gli americani hanno fatto fuoco a scopo difensivo, mentre gli incidenti per colpi accidentali sono stati 2.198. A completare questa speciale contabilità del massacro, 384 mass shooting, le sparatorie di massa come quella del Pulse, il gay club di Orlando in Florida, dove il 12 giugno 2016 un cittadino americano ha fatto fuoco a casaccio sulla folla e ucciso 49 persone, ferendone altrettante. Poi c’è la scuola. Tra il 2013 e il 2015 il gruppo di attivisti Everytown ha contato 160 school shooting in 38 stati americani, il 53% delle quali in istituti elementari. Ogni giorno 19 bambini arrivano nei pronto soccorso per ferite da arma da fuoco, fra il 2003 e il 2013 ne sono stati ammazzati 163 per incidenti nei quali mancava la volontà o la consapevolezza di uccidere. Morti per gioco, per essere chiari. Ecco cosa ci dice l’esperienza fattuale. La difesa fai-da-te è un inganno, è fumo negli occhi, ci rende “più nudi, più insicuri, più vittime”. Chi si arma è destinato a morire, o a bruciarsi le natiche. E qui gli autori tirano fuori una storia di cui da sempre ridono gli uomini delle scorte e i dirigenti della pubblica sicurezza. “Quella di un tutelato h24 che la passione per le armi ebbe a pagarla bruciacchiandosi il sederino”. Aveva la mania di portarsi dietro il revolver, non avendone sapienza d’uso, infilato nella tasca dei jeans senza averne messo la sicura. Ancora una volta si confermò il dogma di Cechov: “Se in una scena compare una pistola bisogna che spari. E fu pum! Per fortuna solo sul popo’”. “Fuori da Gaza”, di Selma Dabbagh. Una vita quotidiana all’inferno di Guido Caldiron Il Manifesto, 28 ottobre 2017 La scrittrice palestinese Selma Dabbagh è a Roma, ospite del Salone dell’editoria sociale, con il romanzo “Fuori da Gaza”, uscito per Sirente edizioni. “Non ho avuto bisogno di trarre ispirazione dalla storia della mia famiglia per dar vita ai Mujahed, i protagonisti del romanzo, perché ci sono esperienze dolorose come l’esilio che appartengono a tutte le famiglie palestinesi. Mio nonno veniva da Jaffa, finì in prigione più volte e rischiò di essere assassinato a causa del suo impegno politico. Decise di andarsene dopo il 1948 quando mio padre fu colpito da una granata lanciata da un gruppo paramilitare ebraico. Finirono prima in Siria, quindi in Kuwait e infine in Gran Bretagna, dove mio padre conobbe mia madre che è inglese. Però la Palestina non mai lasciato la nostra casa, abbiamo sempre partecipato a manifestazioni, fatto parte di Ong e nella mia famiglia allargata ci sono stati dei membri dell’Olp”. Nata in Scozia nel 1970, dopo aver vissuto tra l’Europa e il Medioriente Selma Dabbagh si è stabilita a Londra dove alterna la sua attività di avvocato per i diritti umani e il suo sostegno ai movimenti di solidarietà con i palestinesi, al suo lavoro di scrittrice. Suoi racconti sono comparsi in diverse raccolte, uno è stato adattato per la radio dalla Bbc, mentre Fuori da Gaza, pubblicato nella collana Altriarabi del Sirente (traduzione di Barbara Benini, pp. 184, euro 15) è stato nominato libro dell’anno dal Guardian nel 2012. Nel romanzo, che Dabbagh presenterà domani (alle 18 a Roma nell’ambito della IX edizione del Salone dell’editoria sociale, Porta Futuro, via Galvani 108), è descritta la vita quotidiana di una famiglia palestinese nell’inferno di Gaza, dove giovani che come Rashid e sua sorella Iman, che cercheranno anche di costruirsi una vita lontano dalla guerra, tra il Golfo e Londra, vedono le proprie esistenze strette tra i bombardamenti israeliani e il crescere del fondamentalismo islamico. Un romanzo che, oltre alla claustrofobia di una città e di un mondo sotto assedio, evoca il desiderio di libertà che scuote le nuove generazioni delle società mediorientali e che ha già alimentato le “primavere arabe”. Il suo romanzo sembra costruito sulla dialettica che vivono i giovani palestinesi che ne sono protagonisti tra il voler restare per lottare e le spinte a fuggire per inseguire le proprie aspirazioni. Cosa resta dell’individuo e dei suoi desideri in una simile situazione? È alla tensione tra questi due sentimenti che rimanda l’idea stessa del libro: l’essere pronti a dare la propria vita per la causa o scappare da quei luoghi. Fin dal titolo inglese, Out of It, ho cercato di tenere insieme le due dimensione di questo “fuori”: da un posto fisico come da una dimensione mentale, o coscienza politica se si vuole. Si tratta di un’esplorazione dei diversi fattori che hanno fino a oggi spinto le persone a rimanere o ad andarsene, a opporsi al contesto politico in cui vivono o a distogliere semplicemente lo sguardo da tutto ciò. In questo senso, lo spazio concesso alla propria individualità e ai propri desideri è un tema importantissimo. Ricordo di aver partecipato a un matrimonio di una famiglia di Gaza che si svolgeva in Giordania subito dopo che gli israeliani avevano iniziato a bombardare la Striscia. Un giovane presente scoppiò in lacrime, in realtà perché si era lasciato con la fidanzata, e sua sorella si rivolse a lui in modo brusco, chiedendogli perché facesse così e perché invece non piangeva per il suo popolo. Per i palestinesi, la sensazione di non poter indagare questo spazio interiore è spesso molto concreta. Ambientare il libro soprattutto a Gaza ha reso esplicito questo conflitto che è anche di natura interiore? Ho scelto Gaza perché esprime in modo estremo la situazione che vivono però tutti i palestinesi. Volevo esplorare il modo in cui il contesto, politico, la guerra, la violenza, incombe sul mondo interiore di ciascuno. Non stavo cercando di descrivere Gaza in modo specifico, quanto piuttosto raccontare lo stato di guerra, di assedio, la pressione esercitata sugli individui. Questa pressione che vivono i personaggi, i conflitti e le tensioni in cui sono immersi, del resto sono strumenti essenziali per un romanziere. Se gli interrogativi che lo attraversano riguardano gli individui, nel suo libro prevale la dimensione corale. Lo immagina come fosse il romanzo di un popolo? Spero che questo sia il risultato. Volevo cercare di catturare diverse dimensioni della vita palestinese che negli ultimi 70 anni si è fatta sempre più diversificata. I palestinesi sono dispersi a livello internazionale, si sono adattati e operano in diversi paesi e culture. Ho scritto la mia tesi su tutti i metodi, legali o meno, attraverso i quali sono stati separati e divisi. Mi sono chiesta che cosa li legasse ancora, malgrado questa separazione, e ho deciso che a farlo sia la consapevolezza di un’ingiustizia irrisolta. E ognuno dei personaggi del romanzo ha una relazione emotiva diversa con questo senso di ingiustizia. Dalla madre dei protagonisti, già attiva nel Fronte popolare, a Lana, la moglie di Sabri, uno dei figli, che faceva politica fin da ragazzina, fino a Iman che appare quasi tentata dal messaggio degli islamisti, quella che lei racconta è anche, se non soprattutto, una storia di donne… Sarebbe stato difficile non farlo. Le donne sono state coinvolte in ogni fase della lotta palestinese, fin dalla rivolta araba del 1936. Figure femminili sono presenti in tutte le diverse ondate del movimento, a partire da quel periodo. E ancora oggi. Non si può scrivere questa storia senza parlare del loro ruolo e coinvolgimento in tutto ciò. Migranti. Sul naufragio dei bambini aperta inchiesta della Procura militare di Fabrizio Gatti L’Espresso, 28 ottobre 2017 “Omissione di soccorso e omicidio”. Nuova indagine sulla Marina e sulla Guardia costiera per il massacro raccontato nel film “Un unico destino”. Il fascicolo della Procura di Roma intanto non viene archiviato: dopo tre ore di discussione tra le parti, il giudice per le indagini preliminari ha chiesto venti giorni per depositare la decisione. Sul naufragio dei bambini entra il campo la Procura militare. Lo ha annunciato il giudice per le indagini preliminari, Giovanni Giorgianni, durante l’udienza in camera di consiglio conclusa in giornata. La magistratura con le stellette, che si occupa dei reati commessi dai militari, ha aperto un’inchiesta parallela per “omissione di soccorso o protezione, in caso di pericolo” (articolo 113 del codice penale militare) e “violenza di militari italiani contro privati nemici” (articolo 185 del codice penale militare di guerra). Dopo tre ore di discussione tra le parti, il Gip ha anche deciso di non accogliere per il momento la domanda di archiviazione presentata dalla Procura di Roma: il giudice Giorgianni ha chiesto venti giorni di tempo per valutare la richiesta di nuove indagini depositata dai legali delle famiglie per accertare le responsabilità degli ufficiali italiani nella morte di 268 persone, tra cui 60 bambini, annegate l’11 ottobre 2013 a 61 miglia a Sud di Lampedusa. È il massacro di civili raccontato nel film “ Un unico destino “: il naufragio che ha convinto il premier di allora, Enrico Letta, ad avviare l’operazione “Mare nostrum”. Tre padri, tre medici, tre uomini. E la guerra che impedisce loro di essere padri, medici e uomini. Aleppo, la loro città, è sotto il fuoco incrociato. È per questo che decidono di mettere in salvo i loro bambini. Il più piccolo ha dieci mesi. Il più grande otto anni.Una storia di Fabrizio Gatti, scritta da Diana Ligorio. Riprese di Maurizio Felicetti, Francesco Mazzetti e Ivan M. Consiglio. Montaggio di Ilaria Il peschereccio carico di famiglie siriane, 480 passeggeri in tutto tra cui cento bimbi e una trentina di medici, si è rovesciato dopo essere rimasto cinque ore alla deriva senza soccorsi a poche miglia da nave Libra: secondo quanto si è appreso dalle telefonate registrate, il pattugliatore italiano ha addirittura ricevuto dal Comando in capo della Squadra navale della Marina, in piena emergenza, l’ordine di allontanarsi e andare a nascondersi. Contro la richiesta di archiviazione si sono opposti gli avvocati Alessandra Ballerini ed Emiliano Benzi, che assistono alcuni papà che nel naufragio hanno perso le mogli e i figli, mai più ritrovati. All’udienza erano presenti anche l’avvocato Arturo Salerni, legale di un medico siriano e della moglie che nel naufragio hanno perso tutte e quattro le loro bambine e Dario Belluccio, avvocato dell’unico dei 212 sopravvissuti rimasto in Italia. La novità della giornata è dunque l’apertura dell’inchiesta decisa dal procuratore militare di Roma, Marco De Paolis. Al momento il fascicolo risulta contro ignoti. Ma non è escluso che nei prossimi giorni, dopo l’acquisizione degli atti della Procura ordinaria, vengano presi i primi provvedimenti nei confronti degli ufficiali indagati. L’articolo 113 del codice penale militare prevede la reclusione militare per “il comandante di una o più navi militari il quale non presta a navi o ad aeromobili, ancorché non nazionali, l’assistenza o la protezione che era in grado di dare. La condanna comporta la rimozione”. L’articolo 185 del codice penale militare in tempo di guerra riguarda invece le “violenze di militari italiani contro privati nemici”, un termine legale per definire i civili: “Se la violenza consiste nell’omicidio, ancorché tentato o preterintenzionale, o in una lesione personale gravissima o grave, si applicano le pene stabilite dal codice penale. Tuttavia la pena detentiva temporanea può essere aumentata”. Dal 2011 la Libia era in stato di conflitto. Nei giorni del naufragio la Libra era stata inviata nel Mediterraneo a proteggere i pescherecci italiani da eventuali attacchi delle milizie e per avvistare i barconi carichi di profughi. Il Parlamento inoltre non aveva stabilito che quella del pattugliatore fosse una missione di pace: da qui la decisione, secondo la Procura militare, di applicare il codice penale militare di guerra. Sul massacro dell’11 ottobre 2013 si è già espresso un giudice, il capo dell’ufficio Gip del Tribunale di Agrigento, Francesco Provenzano, che con provvedimento coatto, sostituendosi alla Procura siciliana, ha indagato quattro ufficiali per omicidio con dolo eventuale (non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo). E ha quindi trasmesso gli atti per competenza a Roma, poiché le decisioni che avrebbero ritardato i soccorsi sarebbero state prese nelle centrali operative romane della Marina e della Guardia costiera. “Dalle mie carte emerge con chiarezza che (quel giorno) c’è una comunicazione di disastro marittimo e una persistente omissione e lì bisogna capire chi e perché ha voluto questa persistente omissione di soccorso”, ha dichiarato pochi giorni fa il giudice Provenzano in una intervista a Raffaella Daino su SkyTg24: “Era ben chiaro al centro della Guardia costiera di Roma”, ha aggiunto il Gip, “che stesse per succedere un’ecatombe e lo aveva detto anche il dottor Jammo nelle sue strazianti telefonate... Perché si va verso l’archiviazione, visto che c’è una norma che impone di attivarsi per il salvataggio? Si poteva e si doveva evitare quella ecatombe. Si doveva perché c’era la norma, si poteva perché c’era il tempo. Però non si è fatto”. Il dottor Jammo, Mohanad Jammo, 44 anni, è il medico sul peschereccio che al telefono satellitare supplica l’intervento della Guardia costiera: “We are dying, please, stiamo morendo, per favore”, sono le sue parole, ripetute dopo aver inutilmente detto che il peschereccio era stato attaccato da una motovedetta libica, stava affondando, aveva già mezzo metro d’acqua nella parte bassa dello scafo, il motore in panne e due bambini feriti a bordo. Anche la Procura di Agrigento aveva chiesto l’archiviazione, perché si era dichiarata incompetente a indagare: per un suo clamoroso errore era stato scritto che il punto del naufragio, a 61 miglia da Lampedusa e 118 miglia da Malta, si “trovava inequivocabilmente nelle acque territoriali” maltesi, che però si fermano a 12 miglia dall’isola. Un errore corretto dal provvedimento del giudice Provenzano. “Difendo la nostra Marina militare, so quanta passione, quanti sacrifici e quanta professionalità impiegano nel loro lavoro. Per questo è necessario distinguere. Ma da persona e da cittadina italiana io mi sento in dovere di chiedere a loro scusa”, ha dichiarato riferendosi ai papà che hanno perso in mare le loro famiglie il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, intervistata da Gianluca Di Feo per Repubblica: “Esiste una legge del mare che di fronte al rischio per la vita umana impone alla nave più vicina di intervenire... Il gip romano ha domandato degli approfondimenti e io posso dire che avrà la massima collaborazione e la massima trasparenza da parte del ministero che rappresento. Ovviamente sarebbe un errore grave pensare di incolpare la Marina militare nel suo complesso ma bisogna capire se ci sono delle responsabilità personali: non riesco a spiegarmi perché quella nave sia stata lasciata senza soccorso per così tante ore”. Gli ufficiali indagati per omicidio con dolo eventuale sono il tenente di vascello Catia Pellegrino, 41 anni, allora comandante di nave Libra e volto immagine della Marina militare italiana, l’ammiraglio in congedo Filippo Maria Foffi, 64 anni, fino al 2016 comandante in capo della Squadra navale della Marina (Cincnav), e gli ufficiali di servizio nella centrale operativa della Guardia costiera di Roma, il tenente di vascello Clarissa Torturo, 40 anni, e il tenente di vascello, Antonio Miniero, 42 anni. Per il reato di omissione di soccorso sono invece indagati la comandante di nave Libra, Catia Pellegrino, il capo della centrale operativa della Guardia costiera, Leopoldo Manna, 56 anni, il capo sezione attività correnti del Comando in capo della Squadra navale della Marina (Cincnav), il capitano di fregata Luca Licciardi, 47 anni, e l’ufficiale superiore di servizio alla centrale operativa aeronavale del Cincnav, Nicola Giannotta, 43 anni. Nel chiedere l’archiviazione dei procedimenti a loro carico, il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone e i sostituti procuratori, Francesco Scavo Lombardo e Santina Lionetti, sostengono che gli ufficiali della Marina e della Guardia costiera indagati non fossero consapevoli delle reali condizioni di pericolo a bordo del peschereccio carico di bambini. E che l’ordine per l’impiego di nave Libra dovesse arrivare dal centro coordinamento soccorsi di Malta, poiché pur essendo molto più vicino a Lampedusa il punto dell’emergenza ricadeva nell’area di ricerca e soccorso di competenza maltese. Secondo i legali dei papà sopravvissuti si tratta di conclusioni smentite sia dalle registrazioni delle telefonate chiare e ben comprese del dottor Jammo, sia dalle testimonianze dei piloti dell’aereo ricognitore maltese, il maggiore George Abela e il capitano Pierre Paul Carabez, e dell’ufficiale di servizio al centro coordinamento soccorsi di Malta, il maggiore Ruth Ruggier, che quel pomeriggio hanno più volte chiesto l’intervento immediato di nave Libra: sia attraverso le centrali operative, sia direttamente sul canale 16 delle emergenze in mare, senza ottenere risposta. Testimonianze inedite raccolte nel film “Un unico destino”, prodotto da Espresso e Repubblica con 42° Parallelo e Sky. E custodite anche nei rapporti delle Forze armate di Malta, che nessuna Procura italiana però ha mai chiesto di acquisire. Antiproibizionismo, una legge di civiltà che fa paura al Parlamento di Maria Antonietta Farina Coscioni* Left, 28 ottobre 2017 L’assurda legge Fini-Giovanardi continua a mietere vittime. E le carceri si riempiono. Un po’ di storia credo sia necessaria. La memoria è importante. Marco Pannella non è stato solo il principale protagonista di tante battaglie per i diritti civili: divorzio, legalizzazione dell’aborto, eutanasia, giustizia giusta. Si è battuto anche per la legalizzazione delle “droghe leggere”, perché si contrasti l’azione dei grandi spacciatori e non si puniscano con la galera gli “spacciati”. Le sue iniziative antiproibizioniste cominciano all’inizio negli anni 70: scrive una lettera al Messaggero, denuncia l’assurda criminalizzazione di chi fuma spinelli, il fatto che le forze dell’ordine siano costrette ad arrestare studenti trovati in possesso di pochi grammi di “roba”. Nel 1975 si fa arrestare, per aver fumato uno spinello durante una conferenza stampa e dopo aver debitamente avvertito le forze dell’ordine. Si rifiuta di chiedere la libertà provvisoria: vuole la garanzia che sia discussa e votata, entro quattro mesi, la legge di riforma sulle droghe. Vede la luce nel 1976: finalmente per il semplice consumatore non c’è più la galera. Nel 1990, il presidente del Consiglio di allora, Bettino Craxi, vuole una legge che reintroduca il reato di consumo di droga. hanno successivo Pannella e i radicali promuovono un referendum per l’abolizione delle sanzioni penali per il consumo di droga. Si vota nel 1993: il 52% dei votanti è per l’abrogazione. La campagna per la legalizzazione delle droghe leggere prosegue: nuove disobbedienze civili, distribuzioni gratuite e pubbliche di hashish. Per questo Pannella viene condannato a otto mesi di libertà vigilata e due mesi di carcere. Clamorosa la disobbedienza civile in Tv, durante la trasmissione Rai L’Italia in diretta: regala 200 grammi di “fumo” alla conduttrice. Una scena cult che ancora spopola nei social. La battaglia di Pannella, di Rita Bernardini, del Partito Radicale per la legalizzazione delle droghe leggere e la non punibilità dei tossicodipendenti continua: collegata a quelle contro il sovraffollamento delle carceri e per il diritto alla cura dei malati; e ancora disobbedienze civili. Bernardini coltiva piante di hashish, chiede che sia applicata anche nei suoi confronti la legge. Niente da fare. La procura di Roma non interviene. Si arriva all’assurdo che le sequestrano alcune piantine, senza procedere: per le perizie non contengono principi “attivi”. Intanto l’assurda legge Fini-Giovanardi continua a mietere vittime. Oggi sono tanti ad essere convinti della necessità (e dell’urgenza) della legalizzazione, almeno per le droghe “leggere”. A fronte di tante parole, però, corrispondono pochi fatti. Pannella non c’è più. Resta il Partito Radicale a tenere alta la bandiera dell’antiproibizionismo, con disobbedienze civili e iniziative giudiziarie. La legalizzazione, che una volta era un tabù, oggi è questione di cui si comincia a prendere consapevolezza: se ne discute, ci sono timidi confronti. La legalizzazione attuata in altri Paesi dimostra che l’intuizione pannelliana è giusta, fondata. Chi non se ne rende conto è la classe politica, salvo rare, significative, eccezioni. Il Parlamento non discute. I progetti di legge non sono esaminati definitamente. La questione non appartiene alle agende dei maggiori partiti. Hanno un’enorme responsabilità e colpa: di omissione, di indifferenza. Felloni, hanno paura. Ma hanno ragione: in una vera democrazia non sarebbero quello che sono. *Presidente Istituto Luca Coscioni e membro di presidenza del partito Radicale Germania. Italiano, 19 anni, in cella da luglio senza prove di Andrea Tornago Il Fatto Quotidiano, 28 ottobre 2017 Vettorel, arrestato al G20, non risponde di atti specifici ma per i giudici “è del black bloc”. Da più di cento giorni è detenuto nel carcere minorile di Hahnöfersand, ad Amburgo, in attesa di un processo il cui verdetto sembra già scritto. Fabio Vettorel, 19enne di Feltre (Belluno), è l’unico italiano rimasto in carcere dopo le manifestazioni contro il G20 del 7 e 8 luglio scorso ad Amburgo, segnate da scontri e da centinaia di arresti. A lui, incensurato, accusato di “disturbo della quiete cittadina”, i giudici tedeschi hanno attribuito in una discussa ordinanza del 17 luglio una “predisposizione per natura alla violenza”. E al contrario degli altri giovani fermati e rilasciati a poco a poco (l’ultimo pochi giorni fa, il catanese Alessandro Rapisarda, dopo la condanna sospesa con la condizionale a un anno e un mese), per Fabio è cominciata un’odissea giudiziaria che da oltre tre mesi lo tiene lontano dalla famiglia e dall’Italia. “Chiediamo solo che possa avere un processo equo - spiega al Fatto la madre di Fabio, Djamila Baroni - ma quanto è accaduto finora con la giustizia tedesca non ci lascia tranquilli”. La prima doccia fredda arriva il 19 luglio, quando Fabio ottiene la scarcerazione su cauzione ma poi arriva lo stop in seguito a un ricorso presentato nella notte dalla Procura: l’indagato deve restare in carcere, secondo il pm c’è “pericolo di fuga”. Eppure Vettorel è italiano e, se necessario, i magistrati tedeschi potrebbero far ricorso al mandato di cattura europeo. Fabio e la sua famiglia hanno capito, leggendo l’ordinanza della Corte d’appello di Amburgo che ha confermato la carcerazione preventiva, che probabilmente il ragazzo non sarebbe uscito di prigione fino alla sentenza di primo grado. A nulla sono serviti gli appelli presentati dall’avvocato Gabriele Heinecke fino al terzo grado di giudizio. Polizia e magistratura hanno mostrato finora di avere elementi molto deboli: Fabio partecipava a un corteo fermato da una violenta carica della polizia, il cui operato è stato criticato fortemente dalla Tv e dalla stampa tedesca; indossava i “vestiti tipici del Black Bloc” ovvero “giacca nera di goretex, sciarpa bianca e nera”; appartiene al “Black Bloc”, secondo i giudici, “perché fermato in un corteo del Black Bloc”. Non ci sono fatti determinati attribuiti a Vettorel: “A questo punto delle indagini non si possono attribuire singole azioni violente compiute di propria mano - ammette la Corte d’appello nell’ordinanza - ma la polizia sta analizzando il vasto materiale video e questo stato dei fatti sarà molto probabilmente dimostrabile in udienza”. Una sorta di giudizio “prognostico” della colpevolezza che fa alzare il sopracciglio a diversi giuristi tedeschi e italiani. Anche perché quando i magistrati scrivono queste righe, nessuno ha ancora incontrato Fabio: né uno psicologo, né un pm, né un giudice. E le immagini della polizia, diffuse dal primo canale della Tv pubblica tedesca Ard senza nascondere perplessità, mostrano il ragazzo che cammina spaesato a margine del corteo durante lo scontro. Anche giornali autorevoli come Die Welt e la Süddeutsche Zeitung hanno parlato di un provvedimento “inusuale” a suo carico. Una successiva ordinanza gli rimprovera di “non essersi allontanato” e di aver “sostenuto e rafforzato con la sua presenza” le violenze altrui. Nel frattempo Vettorel resta in prigione. Il 16 ottobre scorso, alla prima udienza del processo, il suo difensore ha presentato un’istanza di ricusazione della giudice Wolkenhauer, chiamata a decidere sulla colpevolezza del ragazzo insieme a due giudici popolari dopo aver rigettato l’ultima istanza di scarcerazione del giovane sostenendo che nonostante non vi fosse “alcuna prova di una violenza concreta da parte dell’imputato”, gli elementi raccolti “suggeriscono una condanna ai sensi del diritto minorile”, che in Germania si applica fino ai 21 anni. Ma la richiesta è stata rigettata e sarà lei a celebrare le udienze del 7, 14 e 15 novembre. La sentenza, appunto, sembra già scritta. Iran. Mettono a morte Ahmadreza Djalali. Italia, fatti sentire! di Giulia Merlo Il Dubbio, 28 ottobre 2017 Rischia il patibolo un medico che ha lavorato per anni a Torino. La sentenza è stata emessa il 27 ottobre dal Tribunale rivoluzionario di Teheran: condanna a morte per il medico iraniano Ahmadreza Djalali. L’accusa, “aver sparso corruzione sulla terra”, un reato di derivazione coranica che fa riferimento ai comportamenti disonesti e che, oggi, comprende anche le attività di spionaggio. Secondo l’Iran, infatti, Djalali sarebbe stato un agente segreto del Mossad, cui avrebbe passato informazioni sui programmi militari e nucleari iraniani in cambio di aiuto per ottenere il permesso di soggiorno in Svezia. Per sette mesi, tre dei quali passati in cella d’isolamento, il dottor Djalali non ha potuto incontrare un avvocato e due giorni prima della condanna a morte il dottore ha denunciato, in un audio pubblicato su You-Tube, le torture e le confessioni estorte durante l’isolamento. Il medico ha raccontato di aver subito torture psicologiche e minacce da parte dei funzionari che lo interrogavano, i quali lo hanno costretto per due volte a rilasciare confessioni di fronte a una telecamera. L’uomo, nato in Iran ma residente nel paese scandinavo (dove vivono la moglie e due figli) e collaboratore dell’Università di Novara per quattro, è stato arrestato nel 2016 durante in un viaggio nel suo paese d’origine perché si è rifiutato di “diventare un agente dell’Intelligence di Tehran”, ha spiegato lui stesso in una lettera scritta dal carcere di Evin e pubblicata dal Centro per i Diritti Umani in Iran. Il dottore, specializzato in medicina di emergenza e delle catastrofi, ha scritto di essere stato avvicinato da membri dell’esercito con la richiesta di raccogliere informazioni su infrastrutture, sistemi antiterrorismo e operazioni sensibili degli Stati europei in cui si recava. “La mia risposta è stata no, gli ho detto che ero uno scienziato e non una spia e che il mio amore per la mia madre patria lo dimostravo attraverso l’aiuto nella ricerca scientifica nei centri accademici iraniani”. Dopo quel rifiuto sono iniziate le accuse: “Durante un viaggio accademico a Tehran, sono stato trattenuto e accusato di aver agito contro la sicurezza nazionale. Mi hanno accusato di essere una spia di Israele dal 2008”. Quattro giorni dopo la condanna a morte, il direttore generale di Amnesty International Italia, Gianni Rufini, ha consegnato all’ambasciatore della Repubblica islamica dell’Iran in Italia oltre 3.000 firme a sostegno dell’annullamento dell’accusa di spionaggio e della relativa sentenza. Altre 35.000 firme erano state inviate all’ambasciata nei mesi precedenti. La consegna è avvenuta nel corso di un incontro cui hanno preso parte anche la senatrice Elena Ferrara e il senatore Luigi Manconi, che hanno presentato all’ambasciatore il testo dell’interpellanza, indirizzata al ministro degli Affari esteri Alfano, sottoscritta da oltre 130 senatrici e senatori appartenenti a tutti gli schieramenti politici, che chiede che venga scongiurata l’esecuzione di Djalali. Ora la legge iraniana concede al condannato 20 giorni per appellare la sentenza prima dell’esecuzione. Intanto, le forze internazionali di molti paesi si stanno mobilitando per scongiurare l’esecuzione del dottore se - come si teme - non ci saranno possibilità di veder accolto l’appello. L’appello contro la condanna a morte del medico Ahmadreza Djalali Le elezioni presidenziali del maggio scorso, lontane dal poter essere definite libere e regolari soprattutto nella scelta dei candidati - espressione del gradimento della Guida Suprema - hanno sancito la riconferma del Presidente Rouhani. Tale risultato viene erroneamente salutato, purtroppo anche da notevoli rappresentanti istituzionali nazionali ed internazionali, come una prosecuzione nel percorso di normalizzazione dei rapporti con l’Iran, quando in realtà costituisce un elemento di continuità della visione messianica, dispotica e antidemocratica della Repubblica Islamica. La notizia della condanna a morte di Ahmadreza Djalali, il medico iraniano, che aveva lavorato in Italia presso il Centro di ricerca sulla medicina dei disastri di Novara e che era stato arrestato a Teheran nell’aprile 2016 con l’accusa di essere una spia, conferma la natura oscurantista del regime Iraniano, dove il boia lavora a pieno ritmo se pensiamo che quest’anno, alla fine di settembre, erano già 456 le persone salite sul patibolo secondo Human Rights Monitor mentre sono ormai quasi 3200 le persone giustiziate nel corso dei due mandati di Rhouani secondo Nessuno tocchi Caino. D’altro canto la propaganda antisemita, gli appelli alla distruzione dello Stato di Israele, le provocazioni nei confronti dei valori occidentali sono proseguite ai massimi livelli nella Repubblica Islamica dell’Iran. La corretta attuazione da parte iraniana dell’accordo nucleare viene continuamente messa in discussione dai numerosi test missilistici che l’Iran continua a effettuare nonostante siano vietati da risoluzioni del Consiglio di Sicurezza. Il controllo di ampi settori dell’economia iraniana da parte del “Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica” annoverata nelle liste internazionali delle organizzazioni terroristiche, l’intero settore finanziario iraniano caratterizzato da un altissimo grado di riciclaggio monetario e di finanziamento alle attività terroristiche, rappresentano una concreta minaccia all’integrità del sistema finanziario internazionale, contrariamente a una propaganda mistificata che ha finora dipinto l’Iran come un nuovo “Eldorado”. Per quanto riguarda le inadempienze iraniane degli impegni assunti con la ratifica di convenzioni e trattati riguardanti i Diritti Umani, i più recenti rapporti del Segretario Generale delle Nazioni Unite certificano la perdurante gravità delle violazioni iraniane. All’interno della società civile iraniana ha iniziato a guadagnare terreno una legittima richiesta d giustizia e verità per i tremendi fatti del 1988, quando l’allora Guida Suprema, Ayatollah Khomeini, emanò un’autentica “fatwa” contro gli oppositori alla “rivoluzione Islamica”, portando all’eccidio di 30.000 persone seppellite poi in fosse comuni disseminate per tutto il Paese. La totale impunità dei responsabili ed il colpevole silenzio della comunità internazionale nel corso di tutti questi anni, rappresentano una triste pagina nella storia mondiale che ha permesso all’Iran di arrivare a garantire incarichi governativi ad alcuni dei responsabili di questo autentico massacro, non ultimo il Ministro della Giustizia del primo Governo Rouhani, Mostafa Pour-Mohammadi. Troppi interessi, nel processo di ripresa dei rapporti con Teheran, sembrano aver prevalso sul rispetto dei diritti civili e delle libertà fondamentali, almeno fino ad oggi. In considerazione di quanto precede, sottoponiamo al Governo italiano, la necessità di una rivalutazione approfondita dei nostri rapporti con l’Iran, in particolare per ciò che riguarda l’esigenza di rappresentare le priorità che l’Italia attribuisce al pieno rispetto dei Diritti Umani universalmente riconosciuti, del contrasto al terrorismo internazionale e ai fenomeni di radicalizzazione sostenuti anche da Teheran. Riteniamo importante che il Governo italiano si attivi all’interno dell’Unione Europea e delle altre sedi internazionali, per chiedere la liberazione di Djalani e la creazione di una commissione d’inchiesta internazionale sul massacro del 1988. Firmano: Ambasciatore Giulio Maria Terzi di Sant’Agata. I parlamentari Nicola Ciracì, Luigi Compagna, Stefania Pezzopane, Mariano Rabino e Roberto Rampi. Sergio d’Elia, Segretario e Elisabetta Zamparutti, Tesoriera di Nessuno tocchi Caino Siria. L’Onu accusa Assad di aver utilizzato armi chimiche a Khan Sheykhun di Giampaolo Cadalanu La Repubblica, 28 ottobre 2017 Il rapporto dell’Organizzazione per la messa al bando delle armi chimiche denuncia l’aviazione governativa per il massacro di Khan Sheykhun. Le trattative di pace riprendono a Ginevra il 28 novembre. Gli organismi internazionali non hanno dubbi: l’attacco con il gas Sarin a Khan Sheikhun del 4 aprile scorso è opera dell’aviazione siriana. Il meccanismo investigativo congiunto di Nazioni Unite e Organizzazione per la messa al bando delle armi chimiche ha pubblicato le sue conclusioni in un rapporto che punta il dito contro il governo di Damasco perché, dice il documento, “lo scenario più probabile” è quello che vede il gas lanciato durante un bombardamento aereo. E in quelle ore era proprio l’aviazione di Bashar al Assad che colpiva la zona. Non è ben chiaro se gli esperti delle organizzazioni internazionali abbiano avuto effettivo accesso alla zona dell’attacco, al centro dei combattimenti fra jihadisti e truppe governative, o se invece la ricostruzione sia basata soltanto su testimonianze riportate. Il governo siriano e gli alleati russi, coinvolti nelle operazioni aeree, hanno sempre negato di aver usato i gas, suggerendo invece che le bombe abbiano colpito un deposito di prodotti chimici dei ribelli. La ricostruzione che accusa Assad si scontra, secondo diversi osservatori, anche con le incongruenze rilevate dai filmati che mostrano i corpi dei bambini uccisi: i cadaveri hanno già perso la rigidità che dovrebbero avere se l’orario dell’attacco e quindi della morte fosse quello indicato nelle ricostruzioni. Lo stesso rapporto internazionale sottolinea che i ribelli hanno utilizzato armi chimiche - in questo caso però si tratta di iprite, con tracce molto diverse da quelle del gas nervino - nell’attacco di settembre a Um Housh. Il segretario generale Antonio Guterres ha definito “oggettiva e imparziale” la ricostruzione dell’Onu, anche se fonti dell’Organizzazione per la messa al bando delle armi chimiche ricordano che “si tratta comunque di valutazioni politiche”. E politiche sono le prime reazioni della diplomazia americana: l’ambasciatrice all’Onu Nikki Haley ha ribadito le responsabilità del presidente siriano e il segretario di Stato Rex Tillerson è andato oltre, sottolineando che “non c’è futuro per la famiglia Assad”. Ma nonostante le esternazioni dell’amministrazione Usa, che già nelle ore seguenti all’attacco aveva lanciato un pesante bombardamento missilistico su una base siriana come rappresaglia contro quello che Trump definiva “il macellaio Assad”, il destino del presidente di Damasco sembra tutt’altro che deciso. Il sostegno degli alleati Iran e Russia appare solido: l’ambasciatore di Mosca all’Onu Vasily Nebenzia ha freddamente ribadito a Tillerson che “non bisogna anticipare l’avvenire, nessuno conosce ciò che lo attende”. Proprio il ruolo personale di Bashar al Assad sembra essere l’ostacolo fondamentale per le trattative di pace: proprio in queste ore l’inviato Onu per la Siria, Staffan de Mistura, aveva annunciato la ripresa a Ginevra dei colloqui fra rappresentanti governativi e opposizione, il 28 novembre prossimo.