Torture, l’Italia nei guai: l’Europa ci condanna di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 ottobre 2017 Due sentenze su Bolzaneto e il carcere di Asti. Era il 10 dicembre del 2004 quando nel carcere di Asti due detenuti, Andrea Cirino e Claudio Renne, furono torturati. Lo ha stabilito ieri la Corte europea dei diritti umani che ha condannato l’Italia per le azioni degli agenti penitenziari e perché i responsabili non sono stati puniti per la mancanza della legge sul reato di tortura. Lo Stato dovrà quindi versare 80mila euro per danni morali ad Andrea Cirino e alla figlia di Claudio Renne, morto in carcere all’inizio di quest’anno. Ma ieri i giudici di Strasburgo hanno condannato l’Italia anche per un altro motivo: per i fatti di Bolzaneto. Si tratta della seconda condanna che la Corte europea ha emesso sui fatti del G8 del 2001. La prima era relativa alle violenze commesse alla scuola Diaz. Era il 10 dicembre del 2004 quando nel carcere di Asti due detenuti, Andrea Cirino e Claudio Renne, furono torturati. Lo ha stabilito ieri la Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per le azioni degli agenti penitenziari e perché i responsabili non sono stati puniti per la mancanza della legge sul reato di tortura. Lo Stato dovrà quindi versare 80mila euro per danni morali ad Andrea Cirino e alla figlia di Claudio Renne, morto in carcere all’inizio di quest’anno. Ad annunciare la morte di quest’ultimo - avvenuto l’11 gennaio scorso - era stata l’esponente del Partito radicale Rita Bernadini con un post su Facebook: “È morto uno dei detenuti torturati nel carcere di Asti. Mi ha dato la triste notizia il Garante dei detenuti del Piemonte, Bruno Mellano. Claudio era ricoverato alle Molinette dal 27 dicembre, giorno in cui Bruno Mellano lo aveva ancora visto in carcere, perché rifiutava di andare in ospedale, ma nella stessa giornata si era convinto e lo avevano trasferito; stava molto male”. La storia ha dell’incredibile, anche se non è l’unica. Il 10 dicembre del 2004, Claudio Renne, all’epoca 30enne, di Novara, e Andrea Cirino, oggi 37enne, di Torino, reclusi nella casa circondariale della frazione di Quarto per reati contro il patrimonio, hanno un diverbio con un agente della polizia penitenziaria. Tornato dai colleghi, l’agente racconta di aver subito un’aggressione da parte dei due detenuti. A quel punto parte una spedizione punitiva contro Renne e Cirino, portati da un gruppo di agenti nella sezione isolamento, denudati e tenuti in celle prive di vetri nonostante il freddo. I due detenuti vengono quotidianamente picchiati, insultati, privati del sonno e della possibilità di lavarsi, tenuti senza materassi, lenzuola, coperte e con il cibo razionato. Un agente ha schiacciato la testa di uno dei due con i piedi. “Non mi facevano dormire. Faceva così freddo che ero costretto a stare tutta la notte per terra, attaccato a un piccolo termosifone. Non appena mi addormentavo, alzano lo spioncino e gridavano: “Stai sveglio, bastardo!”. Poi arrivavano i passi con gli anfibi e allora capivo: mi rannicchiavo. Loro entravano in sette od otto nella stanza e partivano calci, pugni, schiaffi. Speravo solo che la raffica finisse, ma non finiva mai”, ha raccontato anni dopo Cirino. Il 23 novembre del 2014 la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva dichiarato ammissibile il ricorso di due detenuti sottoposti a torture e il ministero della Giustizia aveva offerto un risarcimento - rifiutato - di circa 40mila euro ciascuno ai due detenuti per revocare la causa davanti alla Corte Europea. L’indagine giudiziaria sui fatti di Asti iniziò nel 2005 in seguito a due intercettazioni del 19 febbraio 2005 nei confronti di alcuni operatori di polizia penitenziaria sottoposti a indagine per altri fatti. La Cassazione, il 27 luglio del 2012, confermò quello che accadde all’interno del carcere piemontese. La sentenza aveva stabilito che i fatti “potrebbero essere agevolmente qualificati come tortura”. Ma il reato di tortura, in Italia, è stato introdotto nell’ordinamento italiano solamente tre mesi fa, il giudice quindi ha dovuto procedere per reati più lievi, arrivando ad assoluzioni e prescrizioni. L’associazione Antigone, che si era occupata della vicenda di Asti, ha espresso felicitazioni per la sentenza. “Per lunghi anni in Italia non c’è stato modo di avere giustizia - dichiara il presidente Patrizio Gonnella, ancora una volta abbiamo dovuto aspettare una decisione europea. Questo è un caso di tortura in prigione. Ci auguriamo che ci sia una presa di coscienza e che non ci sia impunità per i responsabili”. Il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma ha ricordato che le due sentenze di condanna sono un campanello d’allarme che richiede importanti e urgenti azioni da parte dell’Italia. La prima è la prevenzione, che “consiste - si legge nel comunicato del Garante - nell’inviare inequivoci messaggi che maltrattamenti e tortura non sono minimamente tollerati o coperti, bensì perseguiti penalmente e disciplinarmente”. Il Garante chiede pertanto di sapere se e quali provvedimenti siano stati presi rispetto alle persone che hanno agito, permesso o non adeguatamente vigilato negli episodi che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha definito come tortura, sia nella caserma di Bolzaneto che nel carcere di Asti. “L’introduzione del reato di tortura nel codice penale - scrive sempre l’ufficio del Garante - consente oggi al nostro Paese di rispondere in maniera adeguata a gravi violazioni dei diritti umani come quelle avvenute nei casi delle due sentenze odierne”. Tuttavia Mauro Palma ribadisce che messaggi, anche impliciti, di impunità non possono essere tollerati e che l’azione preventiva deve essere significativamente rafforzata. “In questa azione il Garante - conclude il comunicato - è pronto ad affiancare l’Amministrazione e, quale contributo in tale direzione, presenterà a breve i propri standard relativi alla privazione della libertà in ambito penale, così come emergono dalle raccomandazioni formulate nei Rapporti sulle visite finora realizzati”. Bolzaneto e Asti, la tortura è nelle carceri di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 27 ottobre 2017 Strasburgo: stop all’impunità. La legge non basta contro i torturatori. Oltre 4 milioni di euro di risarcimenti e l’ennesima brutta figura internazionale. A 16 anni di distanza dal G8 di Genova, dopo le sentenze sulla Diaz, e 13 anni da quanto accaduto nella prigione di Asti, arrivano altre due condanne da Strasburgo, le ennesime, per tortura. Non una parola qualunque ma tortura. Stavolta, tuttavia, ci sono alcune sostanziali differenze rispetto al passato nella decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. In primo luogo le condanne sono state due, per due fatti ben diversi tra loro. Da una parte ci sono le vicende del G8 di Genova e della caserma di Bolzaneto. Già in passato per le torture e le violenze avvenute nel luglio 2001 l’Italia era stata condannata dalla Corte di Strasburgo, sia per gli episodi della scuola Diaz che proprio per quanto avvenne a Bolzaneto. Dall’altro le brutalità commesse nelle prigioni di Asti nel 2004. Ciò che accomuna tuttavia i due casi è che riguarda delle prigioni. Nel caso di Bolzaneto un carcere improvvisato. Nel caso di Asti una galera vera e propria (per la prima volta l’Italia viene condannata per tortura in un carcere). Prigioni dove sono avvenute violenze brutali, minacce fasciste, fino allo scalpo verificatosi nella sezione di isolamento del carcere piemontese. La seconda novità rispetto al passato è l’entità dei risarcimenti alle vittime che superano di gran lunga quelli a cui finora la Corte di Strasburgo ci aveva abituato, arrivando in alcuni casi a riconoscere fino ad 85 mila euro ad un singolo ricorrente. Al di là della cronaca dei fatti, tuttavia, la doppia sentenza di oggi fotografa ancora una volta il clima di impunità che si era strutturato in Italia. Per lunghi anni nel nostro paese non c’è stato modo di avere giustizia e, ancora una volta, abbiamo dovuto aspettare una decisione europea. Ora l’Italia da qualche mese ha una legge e il termine tortura è stato introdotto nell’ordinamento giuridico italiano. Tuttavia, come abbiamo avuto modo di dire già all’indomani dell’approvazione, il testo è molto lontano da quello della Convenzione delle Nazioni Unite che era quello che chiedevamo. Altro elemento di queste sentenze che non può essere tralasciato è quello dell’impunità per gli autori delle violenze. Alcuni dei responsabili degli episodi oggi giudicati come tortura dalla Corte Europea sono ancora in servizio e a rispondere dei loro atti criminosi sarà solamente lo stato italiano dal punto di vista pecuniario. Nei prossimi giorni l’Italia andrà sotto osservazione dinanzi al Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura. Antigone ha presentato un rapporto indipendente sulla situazione del Paese sul quale vedremo come risponderanno le autorità italiane dopo questa ennesima condanna. In ogni caso, quello che oggi chiediamo è: che sia adottato un codice di condotta per i comportamenti in servizio di tutti gli appartenente alle forze dell’ordine; che ci sia sempre l’identificabilità di tutti coloro che svolgono compiti nei settori della sicurezza e dell’ordine pubblico; che si interrompano le relazioni sindacali con quelle organizzazioni che difendono, anche in sede legale, i responsabili di questi comportamenti; che dinanzi a questi casi lo Stato si costituisca parte civile; che vengano assunti tutti i provvedimenti amministrativi del caso contro gli autori delle violenze; che venga istituito un fondo per il risarcimento delle vittime di tortura. *Presidente di Antigone Il “nuovo” 41-bis non convince la Commissione parlamentare Antimafia di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 27 ottobre 2017 Perplessità sulla Circolare che attenua il regime “duro”. Il Dap in audizione: carenze strutturali nei penitenziari La Commissione parlamentare Antimafia ha dubbi sulla nuova circolare del 2 ottobre sul 41-bis, il carcere speciale per mafiosi e terroristi, sia sul fronte della sicurezza sia su quello delle responsabilità, “troppe” per i direttori delle carceri. La presidente Rosy Bindi in punta di fioretto ha pure contestato a Santi Consolo, il capo del Dap (il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) ascoltato ieri, che quella circolare non sia stata sottoposta a un parere preventivo della stessa Commissione “anche perché noi avevamo aperto un’inchiesta proprio sull’applicazione del 41-bis. Ora possiamo sperare che le segnalazioni” eventuali “saranno prese in considerazione?”. Consolo rimanda al ministro della Giustizia Andrea Orlando. “La valutazione politica sulle autorità alle quali la circolare deve andare non la posso fare io. Io le posso promettere che se una richiesta la valutiamo positivamente, la sottoporremo al Gabinetto del ministro che valuterà a chi trasmettere la circolare”. E il direttore generale, Roberto Piscitello, ricostruisce: “La bozza l’ho data a gennaio all’autorità politica, che ha deciso a chi sottoporla”. Consolo ha rivendicato la bontà del provvedimento teso a rendere “omogenee” le prassi dei di- rettori nelle carceri, ora diverse fra loro. Bindi, però, non la vede così: “Non è la circolare che si adegua alle carenze strutturali?”. Consolo ammette che le carenze strutturali ci sono e complicano l’applicazione del 41-bis: “Noi vogliamo rendere il più efficace possibile il 41-bis, consapevoli che soffre di carenze strutturali e voi avete ragione a lamentarvi se le celle sono una di fronte all’altra o se le passeggiate sono affollate”, perché favoriscono la comunicazione “proibita” tra mafiosi, ma racconta che ha provato a far riaprire la struttura di Cagliari e finora non ci è riuscito, e ha spinto per l’apertura di Cuneo dove a fine anno è prevista l’apertura di due sezioni. La Bindi, poi, manifesta un altro dubbio: “Non è che questa circolare rischia di scaricare sul personale responsabilità oggettive di carenze strutturali?”. Consolo dice di no: è stata fatta anche per “evitare abusi”. Si è entrati poi nel merito di alcuni punti della circolare, con domande di Davide Mattiello del Pd e Giulia Sarti del M5S. Tra le risposte in chiaro (altre sono secretate) quella sul problema dei medici di fiducia dei detenuti: “Lo consente la legge, ora abbiamo messo dei paletti per- ché ci vuole un’autorizzazione, sentite anche le Dda”, ha spiegato Consolo, che ha allargato le braccia sul problema degli avvocati: in pochi assistono la maggior parte dei detenuti mafiosi e il diritto alla difesa esclude controlli. Un altro punto discusso è stato quello sulla caduta del vetro divisorio per i colloqui con bambini sotto i 12 anni. Per il Dap non c’è un problema sicurezza: “Gli agenti sono in grado di accorgersi di un passaggio di messaggi”. Non la pensano così i Gom, il reparto speciale della polizia penitenziaria, che al Fatto (con disappunto di Consolo che in Commissione ha messo in dubbio l’articolo) hanno detto che il rischio è alto. Consolo (Dap): 723 detenuti al 41-bis, le unità del Gom saliranno a 620 Ansa, 27 ottobre 2017 “Sono complessivamente 723 i detenuti al 41bis, a cui si aggiungono 8 ristretti per fatti di terrorismo e 2 collaboratori, per un numero totale di 733”. Sono i dati sui detenuti in regime di carcere duro comunicati dal capo del Dap, Santi Consolo, nel corso dell’audizione in commissione Antimafia. Accanto a quella mafiosa, ha aggiunto Consolo, “oggi abbiamo un’altra emergenza, quella terroristica, e i detenuti in AS2”, il regime di alta sicurezza riservato a chi ha commesso reati con finalità di terroristiche o eversive, “stanno raggiungendo le 70 unità”. “Altra problematica - ha spiegato Consolo - è quella del personale”, che oggi conta in totale “circa 37 mila unità a fronte di un organico che ne prevede 42mila. Presso il Gom, ossia il Gruppo Operativo Mobile della Polizia penitenziaria chiamato a vigilare in particolare sui 41bis, “ci sono 597 unità. Nel decreto sulle nuove piante organiche se ne prevedono 620. A breve andremo ad implementare il Gom con altre 10 unità e garantiremo le 620 unità”. In audizione, insieme a Consolo, c’era anche il direttore del Gom, generale Mauro D’Amico, sia Roberto Piscitello, che guida la Direzione generale dei detenuti e del trattamento del Dap. Ingiusta detenzione. Sit-in a Montecitorio per ottenere adeguati rimborsi Libero Una delegazione guidata dall’aquilano Giulio Petrilli ieri ha organizzato un sit-in a Roma, davanti Montecitorio, per richiedere un adeguato risarcimento a chi subisce un’ingiusta detenzione, assumendosi l’impegno di inoltrare una formale denuncia alla commissione dei Diritti umani dell’Onu. Nel manifesto della mobilitazione si legge: “In Italia, può accadere che una persona sia detenuta ingiustamente per tanti anni e non venga mai risarcita”. Petrilli aveva solo 20anni quando è stato accusato di partecipazione a banda armata con funzioni organizzative, per poi essere assolto in appello e definitivamente in Cassazione. I dati nazionali parlano chiaro, su 4 milioni di vittime (dello Stato) che hanno subito un’ingiusta detenzione o un errore giudiziario solo 25mila hanno ottenuto un parziale o totale risarcimento. I manifestanti chiedono “l’abolizione del comma del dolo, che impedisce l’applicazione di molti risarcimenti per ingiusta detenzione” e la retroattività della “riforma del codice di procedura che nel 1989 ha introdotto la riparazione per ingiusta detenzione”. Alla manifestazione era presente anche l’Onorevole Gianni Melilla che ha presentato all’esame del parlamento una proposta di legge a sua firma per la modifica del comma del dolo, in particolare gli articoli 314 e 643 sull’ingiusta detenzione. Ha ucciso a 17 anni ma niente carcere. “Così lo restituiremo alla società” di Bepi Castellaneta Corriere del Mezzogiorno, 27 ottobre 2017 Il presidente del Tribunale per i minorenni di Bari, Riccardo Greco, spiega il provvedimento. Disposta la messa in prova per tentare il recupero. È la risposta del bene contro il male” A Monopoli un ragazzo di 17 anni spinge un pensionato dalla scogliera e lo uccide. Ma grazie alla “messa alla prova” di tre anni accordata dal giudice, l’assassino non farà un giorno di carcere. Dottor Riccardo Greco, lei è presidente del Tribunale per i minorenni di Bari: ritiene che sia stata fatta giustizia? “Penso che sia stata fatta una scommessa. Per il bene della collettività”. In che senso? “Si è deciso di scommettere sulla restituzione di un individuo alla società”. Resta il fatto che una vita è stata spezzata. Non si corre il rischio che possa passare un messaggio distorto e che in certi contesti si diffonda questa banalizzazione del male che innesca episodi così efferati? “Al contrario, è proprio quello che si vuole evitare: la messa alla prova è un percorso attraverso il quale viene contrastata e cancellata la banalizzazione”. In che modo? “Il ragazzo interiorizza quanto accaduto e ne prende coscienza”. A quel punto cosa accade? “C’è una verifica dopo tre anni: se l’esito è positivo, la società ritrova un suo cittadino e il reato è estinto”. In caso contrario? “Per il 17enne scatta la detenzione. È importante precisare che non c’è nulla di automatico: tutto passa invece attraverso un percorso seguito passo dopo passo e infine valutato con estrema attenzione”. Non sarebbe stato più opportuno pensare a un progetto di recupero senza prescindere dalla sanzione? “Non si tratta di prescindere dalla sanzione, ma siamo in presenza di una sospensione dell’iter processuale. Se poi per sanzione si pensa alla reclusione in carcere, va precisato che l’intero ordinamento penitenziario è mirato al recupero e non è ispirato a una logica afflittiva”. Ma allora per quale motivo ricorrere alla messa alla prova? “Perché è uno strumento che ha un valore aggiunto”. In che cosa consiste? “Il ragazzo frequenterà corsi di legalità, farà volontariato, è chiamato a fare una revisione critica della sua vita, potrà comprendere il dolore e il disagio che le sue azioni hanno provocato. Sono previsti anche incontri con i parenti della vittima, sempre che accettino, come accaduto nel caso dell’omicidio di Michele Fazio”. Ma in fin dei conti una messa alla prova non si traduce nella concessione di un beneficio di legge anticipato, cioè accordato prima dell’espiazione di una pena? “No, non è così: alla base non c’è un criterio premiale ma tutt’altro”. Vale a dire? “È il tentativo di rispondere al male con il bene”. Può spiegarsi meglio? “Per comprendere appieno è necessario farsi una domanda: alla società conviene mandare in carcere un 17enne per alcuni anni o recuperarlo evitando quindi che in futuro commetta altri reati?”. A dir la verità non c’è alcuna garanzia sull’esito di questo percorso di prova. “Proprio per questo si parla di scommessa. Ma i dati in nostro possesso ci consentono di dire che per oltre il 70 per cento dei minorenni non c’è recidiva”. Tuttavia non ritiene che tre anni siano pochi in considerazione anche della gravità di quanto accaduto? “Quello è solo il periodo previsto prima della valutazione. La messa alla prova, specialmente per certi soggetti, è tutt’altro che una passeggiata”. Perché? “Il ragazzo sarà lontano dalla famiglia e dal suo contesto abituale, dovrà seguire regole stringenti che evidentemente non ha mai osservato”. In ogni caso non è come la reclusione in carcere. “Stiamo parlando di minorenni. La funzione della giustizia minorile, e non solo, non è punire. Detto questo, l’unica differenza con la custodia in una struttura penitenziaria è che da lì non si può fuggire mentre in una comunità può accadere”. Fatto sta che questa decisione, applicata per la prima volta a Bari in un caso di omicidio, sta destando grande sconcerto. “Lo trovo comprensibile: è giusto che la società si ponga degli interrogativi così come è necessario che i Tribunali rispetto ad essi non si rivelino entità distanti. Tuttavia altra cosa è il diritto applicato. Qui si tratta di capire e verificare se un individuo possa essere recuperato: se la messa alla prova dovesse concludersi positivamente quel ragazzo non commetterà più reati”. Non teme che la mancanza di una sanzione più pesante possa in qualche modo accentuare fenomeni gravi di devianza minorile? “Non sussiste un rischio di questo genere. E comunque un giudice deve occuparsi del caso singolo, non di politica giudiziaria. Piuttosto bisognerebbe avere più fiducia nella magistratura”. Il Garante per l’infanzia: “allontanare i figli dei mafiosi? soluzione estrema” di Simona Musco Il Dubbio, 27 ottobre 2017 Decadenza della potestà genitoriale: parla il Garante per l’infanzia, Filomena Albano. “Fallimento? Niente affatto: questa è la prova di uno Stato forte”. Il Garante per l’Infanzia e l’adolescenza, Filomena Albano, non è di certo d’accordo con il presidente dell’Anac, Raffaele Cantone, che aveva criticato la scelta di allontanare i figli dei mafiosi dal nucleo familiare per evitare l’indottrinamento. È quello che racconta al Dubbio, analizzando uno strumento adottato dai tribunali minorili e ora esaltato dal Csm, che ha deciso di aiutare i magistrati impegnati in questo percorso, rafforzando gli strumenti a disposizione delle Procure. L’allontanamento è una soluzione estrema e la Cedu invita a tenere questa soluzione come extrema ratio. Qual è il punto di vista del Garante? Seguivamo già da tempo questo tema e siamo stati coinvolti nel suo sviluppo. Lo riteniamo un buono strumento. Si tratta di bilanciare principi già consacrati nella convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia, che prevede all’articolo 9 il diritto di vivere in famiglia ma prevede anche l’allontanamento dalla stessa in nome del superiore interesse del minore. Si tratta di principi che stabiliscono il diritto ad un livello di vita adeguato per lo sviluppo psicofisico, cosa che spesso non avviene in una famiglia mafiosa, dove viene trasmesso un modello educativo distorto. Così facendo viene pregiudicato in concreto lo sviluppo armonioso dei ragazzi, al pari di quanto avviene in una famiglia maltrattante. Ma non rischia di essere una soluzione estrema, visto che la convenzione dà così tanta importanza alla vita in famiglia? Si tratta certamente di una soluzione estrema che va adottata in condizioni estreme, in situazioni che effettivamente pregiudichino il sereno sviluppo del minore. Bisogna evitare automatismi pericolosi: i bambini non vengono allontanati a prescindere, le situazioni vanno valutate nel concreto. Ma non si può negare che una famiglia mafiosa trasmette messaggi educativi difformi ai principi comunitari e costituzionali. Lo Stato ha la responsabilità di dare ai ragazzi la possibilità di scegliere un presente e un futuro migliori e fornire un’alternativa alla vita offerta da alcuni contesti. Il presidente dell’Anac Cantone, mesi fa, aveva duramente criticato questo strumento, definendolo una scorciatoia e quindi un fallimento dello Stato. Secondo lei ha torto, dunque? Secondo me è tutt’altro che un fallimento, è anzi la prova di uno Stato forte. La convenzione stessa stabilisce che lo Stato può intervenire anche in presenza genitori e non solo in loro assenza, se si dimostrano palesemente inadeguati a crescere i propri figli. Lo Stato fa quindi sua la responsabilità educativa di questi ragazzi. Non c’è una libertà assoluta dei genitori di educare figli, se lo fanno in difformità dei principi stabiliti dalla Costituzione. Si può già valutare l’efficacia di questo strumento? Conosco la giurisprudenza del tribunale di Reggio Calabria e stiamo seguendo il progetto “Liberi di scegliere”, per il quale abbiamo partecipato al tavolo propedeutico di questo progetto presso il ministero della Giustizia. Il nostro compito è monitorare gli esiti, mentre non possiamo pronunciarci sulle decisioni giudiziarie. Posso però dire che si tratta di una magistratura attenta, anche al suo ruolo sociale, coraggiosa e impegnata, che si muove sempre all’interno dei principi del diritto con la Costituzione come riferimento. Non sarebbe meglio intervenire sul terreno educativo, per consentire ai giovani di autodeterminarsi anche quando vivono in contesti del genere? Abbiamo in cantiere tantissimi progetti nelle scuole: il nostro obiettivo è proprio prevenire e diffondere la cultura della legalità. Posso già anticiparvi che a novembre partirà un progetto di diffusione della Convenzione attraverso Geronimo Stilton, coinvolgendo tantissime scuole in tutta Italia e parallelamente il progetto “Navigando in un mare di diritti”, per diffondere la consapevolezza dei propri diritti e della legalità. La chiave di volta è prevenire e sensibilizzare coinvolgendo i bambini quando sono ancora piccoli, per intervenire mentre la loro personalità è in evoluzione. Così i risultati arriveranno più facilmente e saranno più percepibili. I progetti educativi riguardano anche le famiglie? È fondamentale. Se la famiglia fornisce una prova significativa di tornare sulla giusta strada allora i ragazzi avranno più possibilità di tornare a casa propria. L’allontanamento è sempre funzionale al rientro nel nucleo originario, non ha carattere permanente, purché la famiglia sia disposta a partecipare ad un progetto rieducativo. E questo si può fare solo rafforzando la rete dei servizi sociali, soprattutto al Sud. Un anno in galera da innocente, ora lo Stato gli chiede pure i soldi di Alessandro Gonzato Libero, 27 ottobre 2017 Accusato di narcotraffico per le dichiarazioni di un pentito, assolto dopo cinque anni. Ma niente risarcimento. Anzi: deve pagare un’ammenda di 2mila euro. “Questo è ciò che ha stabilito la Cassazione. Ho perso il ricorso per l’indennizzo e quindi sono obbligato a pagare sia le spese processuali che un’ulteriore somma alla cassa delle ammende” ci dice pieno di rabbia prima di un incontro pubblico, a Padova, durante il quale ha ripercorso il suo calvario. “In precedenza la Corte d’appello di Roma continua - aveva respinto la nostra richiesta di indennizzo, perché non ha ravvisato alcuna colpa grave al momento dell’emissione del provvedimento cautelare, che è stato ritenuto motivato in base ai documenti in possesso ai magistrati”. È terribile e oltremodo umiliante ciò che ha vissuto e sta vivendo quest’uomo. La sua è una di quelle storie che ti fanno tremare alla parola “giustizia”, che ti fanno capire che basta un niente perché d’un tratto ti si spalanchino le porte dell’inferno. E a quel punto, quando sei condannato, per tutti diventi un criminale. Il calvario di Olivieri è cominciato dieci anni fa. Erano le 4 del mattino del 22 ottobre 2007. Una pattuglia dei carabinieri si presenta a casa del figlio: “Chiami suo padre, per favore, dobbiamo parlargli”. Poco prima i militari avevano suonato alla porta dell’imprenditore, ma era notte fonda e l’uomo non aveva sentito il campanello: “Eravamo tornati da poco da un matrimonio, stavamo dormendo profondamente” racconta. “Il maresciallo, che è un mio amico fraterno, mi ha poi riferito di aver dissuaso alcuni suoi colleghi che volevano fare irruzione. Dopo la telefonata di mio figlio mi sono precipitato a casa sua. Una volta arrivati mia moglie ha preparato il caffè ai militari. Non capivo cosa stesse succedendo. Il clima era comunque rilassato. “Tieni”, mi ha detto un carabiniere mettendomi in mano un faldone di 165 pagine. “Leggilo mentre sei in carcere, così capisci di cosa sei accusato. Ma tra 5 giorni al massimo sarai fuori”. Le cose sono poi andate diversamente. Dapprima Olivieri viene portato al San Pio X di Vicenza. Poi viene trasferito nella sezione di massima sicurezza del carcere romano di Rebibbia, dove per quattro interminabili mesi è costretto a vivere, o meglio, a sopravvivere, tra alcuni dei più efferati boss della malavita organizzata come Giovanni Brusca, Michele Greco e numerosi affiliati del clan dei Casalesi. Com’era stato possibile finire dall’oggi al domani in mezzo a quella gente? Eppure le accuse che la procura aveva mosso contro di lui lo accomunavano a parecchi di quei criminali: associazione per delinquere di stampo mafioso, traffico internazionale di stupefacenti, riciclaggio. Olivieri, allora 59 enne, era un noto e stimato imprenditore dell’industria conciaria. Per la polizia di mezzo mondo era invece l’uomo di riferimento in Veneto del clan italo-canadese Rizzuto. Secondo gli investigatori era “mister 600 milioni di dollari”. Tale, per loro, era il suo giro d’affari illeciti. L’ordine di cattura era partito dopo le dichiarazioni di un pentito, secondo il quale Nick Rizzuto e suo figlio Vito, nonostante fossero dietro alle sbarre in Canada, continuavano a gestire il narcotraffico grazie alla collaborazione di un affiliato di Montréal, che spediva in Italia ingenti quantità di droga all’interno del pellame destinato a Olivieri. “In carcere ho dovuto trovare il mio spazio, sapete che cosa significa? Che sono stato costretto a dire agli altri detenuti che quel denaro lo avevo veramente riciclato. Lì dentro gli innocenti non sono ben visti: l’innocente è un debole, è uno che parla. È stato un ergastolano a dirmi che siccome tutti i giornali mi accusavano, dovevo dire che quelle cose erano vere. Da quel momento hanno cominciato a portarmi rispetto”. Olivieri, una volta scagionato, ha avuto la forza di ricominciare. Coi soldi del risarcimento voleva costruire un ospedale in Africa. Per ottenere ciò che gli spetta, si appellerà alla Corte europea dei diritti dell’uomo. E pare che faranno altrettanto gli altri 18 imputati assolti come lui con formula piena dalle stesse infamanti accuse. Dalla truffa alla minaccia, si allunga la lista dei reati perseguibili a querela di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 27 ottobre 2017 Dalla truffa alla minaccia, passando per la frode informatica e l’appropriazione indebita. È pronto (come anticipato dal Sole 24 Ore di martedì) il testo del decreto legislativo che, in esecuzione della delega contenuta nella legge n. 103 del 2017, rivede le condizioni di procedibilità per alcuni reati, estendendo il perimetro della querela. Verrà esaminato, insieme al decreto di riforma della Slitta invece alla prossima settimana, per la richiesta di approfondimento avanzata da alcuni ministeri nel corso della riunione del pre-consiglio di ieri il decreto legislativo sulle intercettazioni. Lo schema di decreto sulle condizioni di procedibilità riprende in larga parte le proposte avanzate dalla commissione istituita nel 2012 dal ministero della Giustizia e presieduta dal professor Antonio Fiorella. L’ultimo intervento di tenore analogo era datata 1981 con la legge n. 689. Se da una parte la procedibilità a querela rappresenta un punto di equilibrio fra l’esigenza di evitare che si realizzino meccanismi repressivi automatici per fatti di gravità trascurabile e quella di fare emergere l’interesse privato alla punizione del colpevole, dall’altra, con il suo ampliamento, ed è una delle dichiarate intenzioni del provvedimento, si può ottenere una riduzione anche significativa dei carichi processuali, senza toccare il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Potrebbero cioè attivarsi dei meccanismi conciliativi nella fase delle indagini, non fosse altro che per evitare il rischio processo. Lo schema di decreto estende la procedibilità a querela ad alcuni reati contro la persona e contro il patrimonio a causa del carattere soprattutto privato dell’offesa; per quanto riguarda reati che già prevedono la necessità della querela nell’ipotesi base, si prevede la riduzione dell’effetto delle circostanze aggravanti al cui verificarsi è invece collegato l’effetto della procedibilità d’ufficio. È questa, per esempio, la strada seguita per le minacce, disciplinate dall’articolo 612 del Codice penale. La stessa tecnica di limitazione degli elementi che determinano la procedibilità d’ufficio è stata seguita per i reati contro il patrimonio: truffa e frode informatica. Nel dettaglio, allora, il decreto stabilisce in 13 dei 15 articoli le fattispecie che vendono cambiare la condizione di procedibilità. Si tratta dei reati di truffa, frode informatica, appropriazione indebita, arresto illegale, indebita limitazione di libertà personale, perquisizione e ispezione personali arbitrarie, minaccia “grave”, violazione di domicilio commessa da pubblico ufficiale, falsificazione o alterazione di del contenuto di comunicazioni, sottrazione di corrispondenza o rivelazione del suo contenuto, uccisione o danneggiamento di animali altrui. Nel caso della truffa è escluso il caso del danno patrimoniale di rilevante gravità e la minorata difesa (l’approfittamento cioè delle condizioni che impediscono una difesa compiuta). Per l’appropriazione indebita il riferimento è alle condotte realizzate con abuso di autorità o relazioni domestiche oppure abuso di relazioni d’ufficio di coabitazione o di ospitalità; tutti contesti in cui emergono in primo piano interessi e relazioni di natura strettamente personale per le quali la perseguibilità dell’offesa non può che essere affidata all’iniziativa del soggetto provato. La data di entrata in vigore del decreto rappresenterà poi un punto fondamentale per la disciplina della fase transitoria. Il termine per la presentazione della querela per i reati interessati commessi in un momento antecedente inizierà proprio dalla data di entrata in vigore se la persona offesa ha avuto conoscenza del fatto-reato. Se è in corso un procedimento sarà il pm, nella fase delle indagini preliminari, oppure il giudice, dopo l’esercizio dell’azione penale, a informare la persona offesa. Escluso invece il cambio del regime di procedibilità se il giudizio, sempre al momento dell’entrata in vigore della riforma, è in Cassazione: troppo complicata l’informazione dalla persona offesa. Protezione sussidiaria: da disapplicare la norma che apre all’espulsione del condannato di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 27 ottobre 2017 Corte di Cassazione - Sezione I penale - Sentenza 29 ottobre 2017 n. 49242. La legge interna che consente di respingere il rifugiato-condannato con una sentenza definitiva per un reato che va da 4 a 10 anni, deve essere “disapplicata”, in base alla Carta di Nizza e alla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, se esiste un rischio di trattamenti inumani e degradanti. La Cassazione (sentenza 49242) accoglie il ricorso di un cittadino nigeriano, in carcere per espiare una pena con dead line 1 gennaio 2018. Il detenuto aveva chiesto sia al magistrato di sorveglianza sia al Tribunale di sorveglianza di annullare il no alla revoca anticipata della misura dell’espulsione dal territorio, essendoci i presupposti per la protezione sussidiaria. Entrambi i giudici avevano negato l’esame “immediato” anche se con motivazioni diverse: uno per il non prossimo fine pena e l’altro per la possibilità di fare la domanda di protezione in via ordinaria, rivolgendosi alle sezioni specializzate (Dl 13\2017) “aspettando” in caso la risposta in un Cie. La Cassazione, afferma invece il dovere di esprimersi da parte dei giudici della misura di sicurezza. La Suprema corte passa poi al “cuore” della questione ricordando che l’articolo 20 del Dlgs 251\2007 che legittima, in linea con il Testo unico sull’immigrazione, il respingimento per motivi di sicurezza anche nel caso di serio rischio di pena di morte, tortura o trattamenti inumani e degradanti, é in palese violazione della Carta di Nizza e della Convenzione Edu: circostanza che la rende disapplicabile. I giudici sottolineano, pur non potendo applicarla perché intervenuta nel corso della stesura del procedimento, la tutela rafforzata che sul punto offre la legge sul divieto di tortura (110\2017). Una norma che “cancella” l’inadeguatezza del testo unico sull’immigrazione per quanto riguarda le condizioni di ostacolo all’espulsione. La nuova legge non contiene infatti, alcun riferimento alla pena di morte o ai trattamenti contrari al senso di umanità, ma solo alla tortura e alla violazione sistematica e grave dei diritti umani. Aspetti che rendono assoluto, senza eccezioni, il divieto di respingimento. Per la diffamazione non occorre il nome: basta poterlo intuire con indizi semplici di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 27 ottobre 2017 Corte di cassazione - Ordinanza 26 ottobre 2017 n. 25420. In tema di risarcimento del danno da diffamazione a mezzo stampa, non è necessario che il soggetto passivo sia precisamente e specificamente nominato, purché la sua individuazione avvenga in assenza di una esplicita indicazione nominativa, attraverso tutti gli elementi della fattispecie concreta come ad esempio le circostanze narrate, oggettive e soggettive, in riferimenti personali e temporali e simili. Condanna per scrittore e casa editrice. Questo il principio di diritto affermato dalla Cassazione con la sentenza n. 25420/2017. La Corte ha così confermato la sentenza di merito che ha condannato scrittore e casa editrice al risarcimento del danno in funzione di episodi riportati in un libro non corrispondenti a verità. In particolare nelle pagine del libro si leggeva come, in occasione della seconda guerra del Golfo, i giornalisti non stessero nella città di Bassora, o meglio che si fossero trovati nella città solo il giorno dell’arresto e che nei giorni precedenti avessero inviato i servizi chissà da quale altro posto. La casa editrice nell’appello ha eccepito come avesse fatto valere il proprio diritto di critica. Critica sì ma solo per fatti veri. Motivo questo respinto dai Supremi giudici che hanno sottolineato come la critica è accettabile nei limiti della verità dei fatti, sia pure non assoluta, ma ragionevolmente putativa per le fonti da cui proviene o per altre circostanze oggettive così come accade per il diritto di cronaca. Roma: suicidio in carcere, si è impiccato un detenuto 55enne Corriere della Sera, 27 ottobre 2017 Un detenuto si è tolto la vita nel carcere di Rebibbia a Roma. Otto Prinoth, classe 1962, ospitato nel settore G9 del nuovo complesso, è stato ritrovato senza vita dalle guardie carcerarie. Sono in corso le indagini per fare luce sulla dinamica del suicidio. Era stato estradato un mese fa in Italia dove avrebbe dovuto scontare una condanna. Ma ieri mattina il personale di vigilanza nel carcere di Rebibbia lo ha trovato morto, impiccato a una sbarra nel bagno della sua cella. In precedenza non avrebbe dato segni di squilibrio o depressione. Asti: torture in carcere, il governo resiste e ora paga doppio di Andrea Giambartolomei Il Fatto Quotidiano, 27 ottobre 2017 Nel 2004 due detenuti furono picchiati e lasciati senz’acqua e senza materassi al freddo. Claudio Renne non ha fatto in tempo a vedere la sentenza che gli dà un po’ di giustizia. Il 10 gennaio è morto in carcere, dove era detenuto per reati comuni, dopo una lunga malattia. Soltanto ieri la Corte europea dei diritti dell’uomo ha riconosciuto che lui e Andrea Cirino, un altro ex detenuto della Casa circondariale di Asti, sono stati vittime di una tortura i cui responsabili sono rimasti impuniti. Il governo italiano ha violato il terzo articolo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (che vieta i trattamenti inumani) ed è stato condannato a pagare 80 mila euro a Cirino e 80 mila alla figlia di Renne: “Ricordo che negli ultimi tempi aveva difficoltà a parlare - racconta il suo avvocato Mauro Caliendo, ma voleva che, dopo tutti questi patimenti, qualcosa potesse andare in eredità a sua figlia”. Così sarà. È una storia dura quella di Renne e di Cirino, assistito dall’avvocato Angelo Ginesi. I due era detenuti per reati comuni ad Asti, quando il 10 dicembre 2004 scoppia un litigio tra Cirino e un agente della polizia penitenziaria. Renne interviene e per entrambi è l’inizio delle vessazioni. In attesa di entrare nell’ufficio del comandante della penitenziaria, ricevono le prime sberle. Denudati, vengono rinchiusi in una cella il cui letto non ha materasso, la finestra non ha vetri, il water non ha acqua. L’inverno è vicino e il radiatore non funziona. Per un po’ non ricevono cibo, che poi viene razionato. Ogni giorno arriva una spedizione di agenti per picchiarli. Un giorno uno strappa con forza il codino di Renne. Gli agenti avrebbero anche cercato di impiccare Cirino, che si è risvegliato in ospedale con delle lesioni al collo: per lui, alto 1,82 metri, sarebbe stato impossibile impiccarsi a un gancio all’altezza di 1,75 metri nella cella di isolamento in cui non avrebbe potuto tenere neanche i lacci per le scarpe. Questi abusi non emergono fino a quando, durante un’inchiesta sullo spaccio di droghe portate in carcere da alcuni agenti, un poliziotto dice ai pm di questi raid punitivi contro i reclusi più irrequieti e rompe l’omertà. Alla fine, alla sbarra con l’accusa di maltrattamenti aggravati finiscono cinque agenti, ma il 30 gennaio 2012 il giudice Riccardo Crucioli assolve uno degli agenti, derubrica i maltrattamenti in abuso d’autorità per altri due (reato già prescritto), mentre per altri due l’accusa diventa quella di lesioni personali, improcedibile senza querela. Nessuno viene condannato per quei fatti che “potrebbero essere agevolmente qualificati come tortura”, scriveva Crucioli nelle motivazioni. Ma l’Italia non aveva attuato ancora la Convenzione dell’Onu contro la tortura e il reato non esisteva ancora. Nel 2013 gli avvocati presentano un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Ieri è arrivato il verdetto: Renne e Cirino sono stati torturati in carcere. I giudici di Strasburgo avevano invitato i legali a fare una proposta risarcitoria: “Avevamo chiesto 45 mila euro, ma il governo l’ha respinta. Ora la Corte ci ha riconosciuto un indennizzo maggiore”, dice l’avvocato Ginesi. “Per anni in Italia non c’è stato modo di avere giustizia - afferma Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone -. Ancora una volta abbiamo dovuto aspettare una decisione europea. Questo è un caso di tortura in prigione”. Ed è il primo per l’Italia: finora Strasburgo ci aveva condannato per le pessime condizioni delle carceri e per la tortura avvenuta nella scuola Diaz di Genova durante il G8 del 2001. Napoli: ex detenuti diventano spazzini grazie a imprenditore napoletano di Giuliana Covella Il Mattino, 27 ottobre 2017 Alcuni hanno precedenti per furto, rapina e droga. Ma hanno avuto il coraggio e la forza di rimettersi in gioco. Grazie soprattutto a chi ha creduto in loro, offrendogli un’altra possibilità. Un progetto, quello di “I Bar Academy - connect at work”, fortemente voluto da Antonio Cardone, giovane imprenditore che - in collaborazione con la Fondazione di Comunità - ha dato lavoro a una decina di ex detenuti, che hanno indossato la veste di spazzini per ripulire le strade - per ora - del Rione Luzzatti a Poggioreale. “Oltre a ridare decoro ai nostri quartieri - spiega Cardone - abbiamo fatto in modo che si concretizzassero l’inclusione sociale e il reinserimento lavorativo di persone che in passato hanno avuto problemi con la giustizia o di tossicodipendenza. Non è la prima esperienza che fanno con noi. Poche settimane fa, infatti, li abbiamo impiegati per il catering in un evento benefico per il reparto oncologico del Pausilipon”. Così gli ex detenuti - in veste di operatori ecologici - hanno tirato a lucido le strade e i marciapiedi davanti a chiese, scuole e parrocchie. Una chance per un futuro migliore da offrire a chi sa di aver commesso errori nella propria vita, come sottolinea Pietro Ioia, presidente dell’associazione Ex Don: “Si tratta di un’iniziativa che, oltre a ridare fiducia a queste persone, permette loro anche di reinserirsi nel mondo del lavoro, dato che - come in questo caso - sono regolarmente pagati e contrattualizzati. Solo il lavoro può salvare realmente dalla delinquenza. Questi ragazzi che io conosco bene sono “assetati” di lavoro e questa opportunità data loro da Cardone è stata come uno spiraglio in una vita senza più speranze”. Civitavecchia (Rm): al via Corso di formazione per detenuti Peer Supporter bignotizie.it, 27 ottobre 2017 Parte alla Asl Roma 4 la seconda edizione del “Corso di formazione per detenuti Peer Supporter “che si inaugurerà giovedì prossimo alle 13 alla Casa Circondariale di Civitavecchia. Il corso si terrà il giovedì dalle 11 alle 13, per un totale di sette incontri. La prima edizione partita lo scorso anno a fine novembre ha prodotto risultati significativi e soddisfacenti sia per quanto riguarda la crescita personale dei partecipanti sia per I destinatari finali e cioè I detenuti in fase di fragilità psicologica o di effettivo disturbo psichiatrico. Inoltre, ha costituito in qualche modo un momento di apprendimento per gli stessi operatori partecipanti. “La decisione di avviare una seconda edizione - spiega la Asl - si è resa necessaria da una parte per rispondere all’esigenza di formazione continua dei partecipanti e dall’altra per promuovere e rafforzare le iniziative volte alla prevenzione del disagio psichico, coinvolgendo il più alto numero possibile di detenuti. L’intento del corso è quello di fornire un approccio concreto ad una problematica delicata come quella dell’adattamento al contesto carcerario per i detenuti particolarmente fragili o con disagi psichici. Si vuole offrire una opportunità ad alcuni detenuti di diventare una sorta di “coach” alla quotidianità nel sostenere altri detenuti più fragili, in un rapporto relazionale di aiuto. Un peer supporter è una figura di riferimento relazionale, un promotore del benessere, una figura di riferimento rassicurante ed emotivamente contenitiva. Il progetto si focalizza soprattutto sulla prevenzione del rischio suicidario e dei rischi di aggressività. Il percorso di formazione si prefigge un duplice obiettivo da raggiungere: da una parte si da la possibilità ai detenuti partecipanti di attribuire un significato diverso al proprio tempo umano e detentivo, in un rapporto di conoscenza con le istituzioni diverso dal solito, favorevole a sfruttare le occasioni di cura e recupero personali, dall’altra, si vuol creare un sostegno concreto che contrasti la tendenza all’isolamento dei detenuti con disagio psichico”. La Asl Roma 4 è tra le prime aziende sanitarie in Italia ad aver dato il via a questo progetto fortemente voluto e autofinanziato. Verona: quando la scuola si fa dentro pantheon.com, 27 ottobre 2017 Inizia l’anno scolastico nella Casa Circondariale di Montorio. Oltre una decina le classi, svariati i livelli: si va dalle basi dell’alfabetizzazione fino, per due detenuti, all’approdo universitario. In occasione della giornata di apertura è stato presentato un lavoro realizzato dall’associazione Microcosmo con i detenuti, una mappatura dei loro bisogni profondi che toccano anche il momento delicato della reintegrazione a fine pena. Ha riempito quattro quaderni grandi con le parole che ha imparato a scrivere da pochi mesi. Ne va fiera Ramona, che proprio in prigione è potuta andare a scuola, dopo quasi trent’anni passati nella fatica dell’analfabetismo. Come lei, molti prima di entrare in carcere hanno frequentato solo la scuola della strada. Seduti sulle panchine oggi c’erano loro, gli allievi insieme agli insegnanti e ad alcuni rappresentanti del territorio come il sindaco di San Bonifacio e il vicesindaco di Villafranca. L’anno scolastico inizia nella Casa Circondariale di Montorio e per cominciare ha voluto chiamare a raccolta tutti i suoi protagonisti. Come l’Istituto alberghiero Berti che segue due classi o l’istituto Lavinia Mondin che, invece, offre un servizio di tutoraggio con insegnanti volontari. Fondamentale da sempre il ruolo del Centro Provinciale per l’Istruzione degli Adulti. Circa una decina le classi attivate nel carcere scaligero, molte di loro impegnate proprio sul fronte dell’alfabetizzazione. In occasione della giornata di apertura è stato presentato un lavoro, durato un anno, realizzato dall’associazione Microcosmo con i detenuti. Si tratta di una mappatura dei loro bisogni profondi che toccano anche e soprattutto il momento delicato della reintegrazione a fine pena. Tra gli ospiti intervenuti, anche lo scrittore Edoardo Albinanti che, lontano dai pregiudizi o dalle retoriche indulgenti, insegna nel carcere di Rebibbia da anni. Prato: il “Gruppo Barnaba” festeggia 30 anni di servizio in carcere con un convegno tvprato.it, 27 ottobre 2017 Trent’anni di servizio in carcere. Era il 1987, lo stesso anno in cui fu aperta la casa circondariale della Dogaia, quando il Gruppo Barnaba iniziò le attività di volontariato per i detenuti. L’allora direttore Dessì cercava degli insegnanti per aiutare alcuni reclusi ad ottenere la licenza media. Tra coloro che hanno subito aderito a quella richiesta ci furono Lina Bellandi, che ha seguito i primi passi di questa esperienza e ancora oggi è tra coloro che portano avanti con determinazione i vari progetti promossi del Gruppo, appartenente al Volontariato Vincenziano. Con il tempo gli ambiti di impegno sono cresciuti, non c’è solo l’insegnamento, ci sono anche servizi come i colloqui con i detenuti, i rapporti con le famiglie, il sostegno agli indigenti attraverso un guardaroba, l’accompagnamento all’esterno, l’organizzazione di corsi formativi interni e la promozione di appuntamenti dedicati alla sensibilizzazione del tema carcere alla cittadinanza. Va letto in quest’ottica il terzo convegno del Gruppo Barnaba convocato per sabato 28 ottobre, al mattino, nel salone consiliare di Palazzo comunale. “Questo convegno - spiega la presidente del Gruppo Barnaba, Maria Gabriela Lai - intende continuare il percorso di conoscenza, affrontando il problema della pena e delle misure alternative al carcere”. Infatti il titolo dell’incontro è “La pena è efficace quando…”, ai puntini di sospensione seguiranno le riflessioni degli ospiti invitati a tenere gli interventi. Ecco il programma: alle 9,15 c’è l’introduzione di Barbara D’Orefice, comandante di Reparto del Carcere di Prato, a seguire il magistrato Angela Fedelino parlerà de “L’applicazione della pena nel rispetto dell’imputato e della vittima”, poi, prima della pausa caffè, è il turno della presidente Lai con “La parola al volontariato”. Alle 11 riprende Antonietta Fiorillo, presidente del tribunale di sorveglianza di Bologna: “Funzione delle misure alternative nell’ambito dell’esecuzione della pena”; chiude l’intervento di Ione Toccafondi, garante dei detenuti del carcere di Prato con un racconto della propria esperienza. L’ordine degli avvocati ha accreditato il convegno con due crediti formativi. Hanno aderito all’iniziativa: Terra di Mezzo, Centro comunità e carcere, Società di San Vincenzo, Telefono Azzurro, associazione Giorgio La Pira, parrocchia di Maliseti, ufficio Migrantes, Caritas e associazione Don Renato Chiodaroli. Info sul sito web del Gruppo Barnaba, info@gruppobarnaba.it, 3276344386. Roma: in carcere prime nozze gay, in cella insieme di Maria Elena Vincenzi La Repubblica, 27 ottobre 2017 Camilla ha 25 anni. Ieri mattina si è svegliata, si è fatta fare le treccine ai capelli, ha messo un filo di trucco, e indossato il suo vestito preferito, di un rosa pallido. Adriana, coetanea, quando ha aperto gli occhi era felice. Ha messo i pantaloni e un gilet, il trucco no, non fa per lei. Camilla e Adriana ieri mattina si sono sposate nella Casa circondariale di Rebibbia, dove sono entrambe detenute per questioni di droga. A celebrare l’unione il vicesindaco di Roma Daniele Frongia, che ha un passato da volontario nelle carceri. Un amore nato dietro alle sbarre: Camilla e Adriana condividevano la cella con altre recluse. Sono diventate da subito amiche e poi, pian piano, con il passare del tempo, è nato qualcosa in più. Adriana, di origini polacche, sapeva di essere omosessuale quando è entrata in carcere, lasciandosi alle spalle una storia che a sentire i genitori, agricoltori stabilitisi nel Lazio, è all’origine dei suoi guai. La sua pena finirà l’anno prossimo, ma i giorni di reclusione che ancora ha davanti, da ieri, saranno più felici. Per lei e per i suoi genitori che ieri hanno voluto essere presenti, portando le fedi con incisi i nomi delle ragazze. Camilla, sudamericana, invece, non aveva mai avuto un fidanzato, ma non sapeva il perché. Però, poco a poco ha sentito nascere un sentimento per l’amica alla quale presto ha dato il nome di amore. Resterà a Rebibbia fino al 2019, anche se ormai da qualche tempo esce per lavorare. Il loro comportamento esemplare in carcere è stato uno dei motivi che hanno indotto la direttrice, gli psicologi e gli educatori, a sostenere la loro storia d’amore e ad aiutarle a coronare il loro sogno. È stata una festa. Con tanto di fiori, regali, bomboniere e torta nuziale con una ventina di invitate del braccio femminile, le agenti, le operatrici e la direttrice. Una cosa quasi normale se non fosse che, invece di tornare a casa o partire per il viaggio di nozze, ieri sera si sono ritrovate dove tutto è iniziato. In quella gabbia in cui hanno trovato la loro libertà. È la prima volta che due detenute si uniscono civilmente in carcere e che possono vivere sotto lo stesso tetto. D’altronde condividevano la cella prima, separarle ora, spiegano fonti del ministero di via Arenula, sarebbe una cattiveria inutile e immotivata. Insomma Camilla e Adriana hanno precorso i tempi. Proprio quando si è aperto il dibattito, anche in tema di riforma dell’ordinamento penitenziario, sull’affettività dei detenuti: il progetto già in fase avanzata affronta la questione degli incontri tra persone unite o sposate, una delle quali sia detenuta. Al ministero si sta valutando di creare degli ambienti nelle strutture penitenziarie per consentire momenti di intimità. La vicenda a lieto fine di Camilla e Adriana apre un fronte ulteriore nelle carceri, dove le sezioni sono rigidamente separate per genere. Ponendo al legislatore un orizzonte nuovo che la stessa norma sulle unioni civili impone. Se l’unione fosse stata tra eterosessuali la separazione sarebbe inevitabilmente avvenuta un minuto dopo il sì. Per loro invece la cella si è trasformata nella prima casa. Roma: prima unione civile tra due donne in carcere, intervista al vicesindaco Frongia di Andrea Maccarrone prideonline.it, 27 ottobre 2017 A celebrarla Daniele Frongia, Assessore allo Sport e Politiche Giovanili di Roma che abbiamo intervistato in esclusiva. Inaugurato anche il murale realizzato dalle detenute trans del braccio G8. Oggi è stata un giornata particolare per Rebibbia. Nella sezione femminile dell’istituto penitenziario della Capitale è stata infatti celebrata la prima unione civile tra due donne detenute. Nel braccio G8 della sezione maschile, dove sono recluse le detenute trans è stato invece inaugurato il murale realizzato dalle stesse nell’ambito dell’intervento di riqualificazione del cortile da loro utilizzato per l’ora d’aria. In quest’occasione sono stati consegnati alle 16 donne trans i kit di accessori per cura personale e per l’igiene promessi lo scorso giugno dal Dipartimento delle Pari Opportunità. Purtroppo, a ricordarci l’estrema difficoltà, la sofferenza e le contraddizioni della realtà carceraria italiana, dobbiamo registrare che proprio nelle stesse ore a Rebibbia, nel braccio G9, c’è stato un altro suicidio. Un terribile monito sul tanto lavoro che spetta innanzitutto alle istituzioni, ma anche a tutte e tutti noi per garantire il pieno rispetto della dignità e dei diritti di tutte le persone detenute. La mattinata ha preso avvio proprio dalla sezione maschile, al braccio G8 dove è stato inaugurato uno splendido murale realizzato dalle detenute trans che vi sono ristrette e si sono impegnate direttamente nella riqualificazione del cortile a loro in uso. Si tratta di un’idea raccolta dalle stesse nell’ambito del progetto “Salviamo la Faccia” ed emersa lo scorso giugno nel corso di un incontro con la direzione dell’Istituto, con la Sottosegretaria Maria Elena Boschi e con il Dipartimento per le Pari Opportunità rappresentato al massimo livello dalla Direttrice Giovanna Boda. In quella sede le istituzioni si erano impegnate a trovare le risorse per sistemare la pavimentazione dell’area aperta e per i colori da destinare al murale. Oggi l’opera, realizzata con il fondamentale supporto di Silvio Palermo di “Made in Jail”, colora e rallegra un cortile prima spoglio e inutilizzabile. Palermo, sempre nell’ambito di Salviamo la Faccia, ha seguito passo passo le detenute nella realizzazione dei dipinti e ha loro proposto un utile laboratorio di stampa di magliette con loro disegni originali. All’inaugurazione erano presenti oltre alle detenute e ad altri ospiti la Direttrice dell’Istituto Penitenziario Rossella Santoro, la Direttrice della Sezione Coviello, l’ideatrice e coordinatrice del progetto Salviamo la Faccia Giulia Merenda con tutto il team di formatrici e formatori, la Garante dei Detenuti del Comune di Roma, Gabriella Stramaccioni, Leila Daianis dell’Associazione trans Libellula, la referente del tavolo diritti civili del Comune Cristina Leo e l’Assessore allo Sport e Politiche Giovanili di Roma Capitale Daniele Frongia. Quest’ultimo ha la delega alle questioni carcerarie e oggi, oltre ad inaugurare il Murale del Braccio G8, ha celebrato la prima unione civile italiana tra due donne detenute. Una notizia sicuramente particolare che accende un raggio di luce in un contesto non facile come quello carcerario. Lo abbiamo sentito. Oggi hai celebrato l’unione civile tra due donne detenute nel reparto femminile di Rebibbia? Si mi hanno detto che si trattava della prima unione civile tra due persone dello stesso sesso in un carcere italiano. Avevo già celebrato sia matrimoni che unioni civili ma mai in un istituto penitenziario Ha un sapore diverso? Il contesto è molto forte, anche se la gioia e l’emozione di un’unione alla base è la stessa. La condizione di detenzione non è mai facile. Ma ho visto una comunità viva, le due ragazze che si sono unite, le amiche detenute, gli agenti penitenziari, i genitori, le educatrici, i rappresentanti del comune. È stato un momento estremamente intenso. Le ragazze erano emozionate ancor più che in un matrimonio. Si conoscevano prima o si sono incontrate e innamorate a Rebibbia? Si sono conosciute dentro. C’è stata anche una grande sensibilità da parte della direzione del carcere. È stato possibile fare entrare gli ospiti che loro stesse hanno indicato ed erano presenti i genitori delle due giovani. Il clima era emozionato, ma ironico. Una delle due ragazze ha scherzato: “Ai miei genitori l’ho combinata grossa, sono finita qui dentro e ora un’unione civile in carcere”. Ma il padre sorrideva ed era contento. Oggi abbiamo inaugurato il murale del braccio G8. Era la prima volta che visitava l’area in cui sono recluse le donne trans? No, ci sono stato diverse volte, l’ultima volta ad agosto quando l’opera era ancora incompiuta. Ma in quelle occasioni non avevo potuto comprendere appieno la complessa rete contestuale. Oggi mi ha fatto molto piacere conoscere le formatrici, le associazioni e gli operatori che lavorano quotidianamente sul campo e raccogliere da loro esperienze, bisogni, richieste e suggerimenti. La realtà carceraria rimane una realtà complessa. Ovviamente la responsabilità principale è in capo al Ministero della Giustizia, ma quali strumenti e quali politiche può mettere in campo il Comune? Sicuramente il carcere rimane un luogo di privazione e un contesto estremamente difficile. Mentre noi stavamo ad ammirare il murale e in quel cortile finalmente colorato e restituito a una più piena fruizione si respirava gioia e soddisfazione, a pochi metri, nel braccio G9, si è suicidato un detenuto. Sul momento non ce lo hanno detto per non turbare quella preziosa atmosfera e non spegnere la soddisfazione sul volto delle detenute che si sono tanto spese per realizzare quest’opera. Ma è un chiaro segnale di quanto difficile sia la vita nella reclusione. E tutti siamo chiamati a fare la nostra parte per migliorarla. Come Comune abbiamo anche un importante funzione di stimolo istituzionale. Ad agosto, con la nuova Garante dei Detenuti, abbiamo incontrato i dirigenti del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, l’ufficio governativo da cui dipendono tutte le carceri e il personale carcerario italiano, ottenendo che fosse data accelerazione ad alcuni interventi di riqualificazione già previsti. Stamattina eravamo a Rebibbia anche per firmare assieme al DAP e ad AMA un protocollo d’intesa che consenta di fare uscire dei detenuti durante il giorno per dei lavori utili in favore della Città. Interventi di decoro, sulle aree verdi, pulizia. Il ruolo del lavoro nel reinserimento è centrale. Assieme al diritto alla salute un diritto fondamentale. Ed è molto importante sia per i detenuti che per la società in generale. Perché se on diamo strumenti reali per costruire il futuro il percorso di reinserimento diventa molto difficile e il tasso di recidiva alto. Roma: una rete oltre le sbarre, per la prima volta il live streaming da Rebibbia di Erica Manna La Repubblica, 27 ottobre 2017 Lui, che nei versi di Shakespeare diceva di poter vivere confinato in un guscio di noce e tuttavia sentirsi padrone di uno spazio infinito, riuscirà ad arrivare ovunque: anche dietro le sbarre. “Hamlet in Rebibbia”: e, contemporaneamente, in streaming, al Teatro della Tosse di Genova, e in quello dell’Arca, dentro alla casa circondariale di Marassi. E al Massimo di Cagliari e all’Eliseo di Nuoro. Lunedì 30 ottobre alle 20.30, mentre si svolge il Festival del cinema di Roma, per la prima volta il live streaming porterà il nuovo spettacolo del genovese Fabio Cavalli - co-sceneggiatore e coproduttore del pluripremiato “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani - da Rebibbia, il carcere di Roma, ai palchi di Genova. Ma solo qui, nella sala della Tosse, il collegamento sarà una vera finestra a doppio senso: con i 25 detenuti attori - gli stessi protagonisti di “Cesare non deve morire” che potranno interagire con il pubblico genovese. Potenza delle parole. E della fibra ottica, che collega l’Auditorium del carcere alla Rete, trasformandolo in un centro di produzione di eventi live streaming, anche con l’impiego professionale di detenuti formati all’uso delle nuove tecnologie. Ma lo spettacolo, da Rebibbia può arrivare anche in casa di chiunque: basta connettersi al sito enricomarisalerno.com. La prima picconata alla barriera tra il dentro e il fuori ha una data: 7 aprile 2016, quando l’Auditorium del carcere di Rebibbia è stato connesso in banda larga col web e con l’Aula Magna della Sapienza di Roma per le celebrazioni dei quattrocento anni dalla morte di Shakespeare: la diretta streaming ad alta definizione dell’evento è stata resa disponibile a tutto il pubblico attraverso i portali delle tre università romane e sul sito del Ministero della Giustizia. In quella occasione è stato proiettato “Cesare deve morire”, il film che i fratelli Taviani hanno girato al carcere di Rebibbia. Al termine della proiezione i detenuti protagonisti della pellicola, in diretta dal carcere, hanno raccontato al pubblico della Sapienza la loro esperienza, di come grazie alla cultura, al teatro, a Shakespeare, hanno potuto iniziare un cammino per divenire uomini migliori. Alcuni di loro non lasciano la cella da vent’anni, e la tecnologia consente loro un assaggio di libertà. “Nell’Amleto si rispecchiano i destini di molti degli attori della Compagnia. E di tutti noi - racconta Fabio Cavalli, produttore teatrale e cinematografico, direttore del Teatro Libero di Rebibbia dove ha portato in scena titoli come Napoli milionaria di Eduardo, il Candelaio di Giordano Bruno, Le Nuvole di Aristofane, La Tempesta, Amleto, Giulio Cesare di Shakespeare, l’Inferno di Dante, Sonata a Kreutzer di Tolstoj - Se c’è del marcio nell’antica Danimarca, come ce la passiamo, oggi, fra Roma, Napoli e Reggio Calabria?”. “Amleto - riflette Cavalli - è il killer obbligato. Quali faide, tradimenti e lotte fra clan, coprono di sangue le strade delle città, fino a macchiare i palazzi di un potere lontano ed oscuro? Dalla Fortezza di Elsinore al Maschio Angioino il salto spazio- temporale è quasi impercettibile. L’Amleto è cronaca di oggi ed emblema universale della dialettica fra Vendetta e Giustizia”. Cosenza: “Quando uscirò da qui…”, quaranta detenuti si raccontano di Lory Biondi* Redattore Sociale, 27 ottobre 2017 Nel libro “Controluce” storie dai penitenziari di Cosenza e Paola raccolte da Rosalba Baldino. Un progetto dell’associazione LiberaMente, che ha fatto creare un punto di lettura e studio all’interno del carcere. Con una biblioteca arricchita dai “libri sospesi” dei cittadini. “Le feste per chi vive in carcere sono giorni pesanti. È la malinconia ad accompagnare i nostri pensieri e il nostro tempo, tanto che per combatterla scatta in noi un meccanismo di sopravvivenza emotiva”. Racconta così la sua solitudine Elton, detenuto nella casa circondariale di Paola. La avverte ancora di più a Natale, a Pasqua, nel giorno del suo compleanno. Michele, invece, lavorava in una compagnia di navigazione e gli manca il mare. “Ora, a malapena intravedo il cielo e qualche sagoma di alcuni palazzi che circondano l’istituto, - scrive, - vorrei ritrovare quella nave affinché possa portarmi lontano dal buio che occupa la mia cella, la cella undici della casa circondariale di Cosenza”. I racconti di Elton e Michele fanno parte del libro “Controluce” a cura della giornalista e scrittrice Rosalba Baldino, edito da Dignità del Lavoro. Il volume è stato presentato nei giorni scorsi nell’istituto penitenziario di Cosenza alla presenza di rappresentanti delle istituzioni, studenti universitari e volontari. Racchiude i racconti di 40 detenuti di alta e media sicurezza delle case circondariali di Paola e Cosenza che hanno partecipato al laboratorio di scrittura creativa realizzato nell’ambito del progetto “Liberi di Leggere”, promosso dall’associazione di volontariato penitenziario LiberaMente e finanziato dal ministero del Lavoro e delle Politiche sociali (bando Direttiva 266/91, annualità 2014). L’amore per i figli, per la propria compagna, il tempo che non ritorna e il passato che non si cancella, la speranza, l’amicizia, la passione per il calcio. I detenuti raccontano così la loro vita, ripercorrendo giorni felici, riflettendo sui propri errori, sopportando momenti difficili e anelando alla libertà. “Quando uscirò da qui sarò un uomo libero - scrive Francesco - libero di costruire il futuro”. Il libro è stato consegnato ai detenuti da personaggi autorevoli del mondo delle istituzioni, del volontariato e della cultura che hanno curato anche le recensioni, tra cui il prefetto di Cosenza, Gianfranco Tomao, il presidente della provincia, Francesco Iacucci, il consigliere regionale Giuseppe Aieta, la delegata al welfare del comune di Cosenza, Alessandra De Rosa, il presidente di LiberaMente, Francesco Cosentini e il presidente del CSV Cosenza, Gianni Romeo. Grazie al progetto di Liberamente è intanto nato un punto di lettura e studio all’interno delle mura carcerarie. “Si aprono nuove prospettive per la realizzazione di un polo universitario - ha affermato il direttore della casa circondariale, Filiberto Benevento - che consentirebbe ai detenuti di avviare e proseguire gli studi”. Il progetto ha visto la realizzazione di un reading con la giornalista Carla Chiappini ed un incontro con lo scrittore napoletano Stefano Piedimonte, autore del libro “L’innamoratore”. Grazie a Liberi di Leggere è stata arricchita la biblioteca del carcere di Cosenza con arredi e libri (oggi conta più di tremila volumi) ed è stata coinvolta la cittadinanza tramite la possibilità di lasciare per essa un “libro sospeso”. A Liberi di Leggere è stato assegnato il Premio Antonio Proviero Città di Trenta (CS) e il Premio persona e comunità del Centro studi cultura e società di Torino. Il ricavato del libro servirà a sostenere le attività dell’associazione. *CSV di Cosenza La finta (e pericolosa) democrazia della Rete di Curzio Maltese La Repubblica, 27 ottobre 2017 Non esiste argomento al mondo capace di convincermi che questo aprire le fogne in Rete e lasciar emergere un guano di rancori, insulti e deliri assortiti, spacciati per “commenti”, questo grufolare di anonimi isterici che tocca sopportare per il profitto di un Gates o Zuckerberg, si possano considerare “libertà d’opinione”. Quale libertà? Quali opinioni? Siamo seri. È la rivoluzione libertaria del web e non puoi farci nulla, dicono. Sciocchezze. Qualsiasi media tradizionale avrebbe potuto fare altrettanto e qualcuno l’ha sperimentato. Sono abbastanza vecchio da ricordare i microfoni aperti di Radio Radicale, un minuto di rutto libero contro donne, soprattutto donne, meridionali - allora c’erano pochi stranieri - omosessuali, neri, avversari politici e anche vicini di casa. Nei giornali avremmo potuto pubblicare lettere anonime di lettori grondanti di diffamazioni, magari selezionando quelle contro gli avversari, ma per fortuna è proibito dalla legge. Sul web invece è incoraggiato. La versione ufficiale per i gonzi è che la Rete nasce totalmente libera e aperta a tutti: qualsiasi limite, fosse pure per proteggere i deboli e le vittime, costituirebbe una censura. Una versione per teste pensanti è questa. La Rete è uno strumento potentissimo ormai in mano a un pugno di padroni, Google, Facebook, Amazon e poco altro, i quali attraverso un colossale lobbismo riescono a ottenere dalla politica uno status di intoccabili, si tratti di rispondere di quanto pubblicano, rispettare i tetti pubblicitari e le norme antitrust, oppure di pagare le tasse. I cittadini dovrebbero ribellarsi e reclamare regole contro questa falsa libertà. Forse bisognerebbe andare anche oltre e rendere pubblico il web, sotto controllo democratico. Perché non c’è nessuna libertà nell’operazione calata dall’alto di distruggere il discorso pubblico, utile a formare un’opinione indipendente e alla ricerca dell’interesse generale, con un paio di surrogati alla moda e del tutto innocui per il potere. Da un lato, lo snaturamento di ogni dibattito in una pura competizione fra portatori d’interessi; dall’altro, la discussione fra cittadini ridotta a sfogatoio dei peggiori istinti. È la stessa logica che restringe lo spazio democratico alla scelta elettorale fra partiti di sistema che adottano le stesse politiche, con etichette ora di destra o di sinistra; oppure l’adesione a un antisistema che non offre una visione alternativa di società, ma si limita a fantasticare vendette ed epurazioni. I commenti sul web sono l’esercizio quotidiano, consentito dall’alto, di questa simulazione di democrazia alla perenne ricerca di un capro espiatorio; la profezia realizzata dei “due minuti di odio” di George Orwell in 1984. Libia. Così le milizie di Sabratha combattono per i soldi italiani di Francesco Semprini La Stampa, 27 ottobre 2017 I libici: “Da Roma cinque milioni di euro per fermare i barconi”. Rivolta delle fazioni contro il clan Dabbashi: “L’accordo è un disastro”. A Sabratha, la città costiera, già feudo dell’Isis e hub delle carrette del mare, si sta consumando una guerra che vede la potente famiglia Dabbashi messa all’angolo da fazioni rivali e militari di Tripoli, sullo sfondo di una lotta intestina per il controllo dei traffici, e di quel presunto accordo tra il clan e l’Italia. Fonti locali parlano di cinque milioni di euro in cambio dello stop dei barconi. Un tesoretto su cui tutti vorrebbero mettere le mani. Ma quei soldi sono mai arrivati in Libia? Se sì, che fine hanno fatto? La Farnesina smentisce categoricamente ogni contatto, ma Hussein Alk-Alagi, portavoce della milizia Al-Wadi, che ha innescato la rivolta anti-Dabbashi, conferma: “L’accordo con l’Italia è stato un disastro”. E mentre sulla polveriera di Sabratha spunta anche l’ombra del generale Haftar, ci si chiede chi fermerà l’ondata di migranti in arrivo dal serbatoio del Sahel. La stangata ai traffici - L’accordo della discordia risale a metà luglio. Secondo una versione ufficiosa il clan Dabbashi avrebbe provveduto a fermare le partenze in cambio di “attrezzature” e del “restyiling” della fedina penale degli affiliati delle due milizie di famiglia, la Brigata 48 e Al-Amnu. Secondo fonti locali sentite da “La Stampa” e riportate anche da media internazionali, tra cui Ap, emissari italiani avrebbero stretto un accordo coi Dabbashi, barattando aiuti e soldi, in cambio dello stop dei barconi. Secondo quanto sostengono fonti locali il denaro in questione sarebbe stato individuato nell’equivalente di circa 5 milioni di euro (non si sa se e quanti ne siano arrivati), oltre alla garanzia di un ufficio nel compound di Mellitah. La Farnesina smentisce qualsiasi contatto con il clan. A confermare l’intesa è Abdel-Salam Helal Mohammed, direttore dell’unità anti-trafficanti del ministero degli Interni libico: “Con quell’incontro non ci sono state più partenze”. I Dabbashi spodestati - I Dabbashi diventano da tycoon del traffico a gendarmi delle coste. A luglio le partenze si dimezzano rispetto all’anno passato, ad agosto calano dell’86%. Ma le fazioni tagliate fuori dalla spartizione di soldi e potere insorgono. A metà settembre Al-Amnu ha uno scontro a fuoco in mare aperto con i trafficanti di Al-Wadi, quartiere Est della città costiera, dove i migranti vengono rispediti e rimangono bloccati. La milizia (di orientamento salafita) scatena l’inferno: inizia l’insurrezione anti-Dabbashi. Ai rivoltosi si affianca Operation Room creata dal Consiglio presidenziale subito dopo i raid Usa di febbraio su postazioni Isis a Sabratha. Alcuni di loro sono gli eroi di Sirte guidati dal colonnello Abduljalil. I militari pian piano prendono il controllo di Sabratha e i Dabbashi vengono messi all’angolo nel corso degli scontri dove muoiono circa cento persone. Bashir Ibrahim, portavoce di Al Amnu, riconosce che l’accordo con l’Italia è stato la causa della guerra: “È una questione di potere, denaro e territorio”. Il portavoce di Al-Wadi, Hussein Alk-Alagi, definisce l’accordo un “disastro” che ha rinforzato solo una banda di criminali. L’ombra di Haftar - A complicare le cose è Khalifa Haftar, che approfitta del caos per infilarsi in Tripolitania. Secondo al-Tahar al-Gharabili, capo del consiglio militare di Sabratha, il generale starebbe reclutando uomini sul posto da affiancare agli stessi di Operation Room. Il gruppo smentisce, ma a quanto sembra Haftar potrebbe contare su una strana alleanza con i locali ultraconservatori Madkahalis. Al-Gharabili ritiene che il generale stia guadagnando influenza ad Ovest come leva negoziale. O ancor peggio punterebbe a una manovra a tenaglia nella sua ipotetica marcia su Tripoli alla scadenza di Skhirat, a metà dicembre. “Ci stiamo affacciando ad un’altra guerra - dice al-Gharabili all’Ap - una guerra che va oltre Sabratha, una guerra regionale, una guerra in Tripolitania”. I migranti dal Sahel - Ed in vista della quale si impone come un macigno un’altra incognita sul fronte del traffico di esseri umani. Bisognerà capire cosa rimane di quell’intesa con l’Italia o se ci saranno nuove richieste. E capire dove è finito il “tesoretto italiano”, anzi se mai sia esistito e dove è finito. Quel che è certo è che nel caos c’è chi ha rimesso subito in moto i barconi. A questo si aggiunge un altro elemento: ottobre è sempre stato foriero di sbarchi in Italia, lo scorso anno è stato un mese record e quest’anno già ce ne sono stati 3.000. Secondo informazioni raccolte da La Stampa in Sahel, i trafficanti del “serbatoio nero”, stanno intensificando le rotte verso la Libia, così tra poco migliaia di migranti e rifugiati verranno ammassati a ridosso delle coste, pronti a prendere il largo, col rischio di una nuova ecatombe. Tunisia. L’arcivescovo di Tunisi: carceri e disagio terreno fertile per l’Isis di Domenico Agasso La Stampa, 27 ottobre 2017 Parla monsignor Ilario Antoniazzi: i foreign fighters? C’è il rischio indottrinamento nelle prigioni; l’origine dei problemi non è in Tunisia, ma nei paesi da cui arrivano i migranti. Monsignor Ilario Antoniazzi, arcivescovo di Tunisi, quali sono i suoi pensieri dopo lo speronamento del barcone, la notte tra il 7 e 8 ottobre, con settanta migranti da parte della nave della marina militare tunisina, che ha provocato un naufragio con decine di morti? “La morte dei migranti è sempre un dramma. Sono persone che fuggono da miseria, guerre... e cercano una vita migliore. Si illudono di trovare in Europa il paradiso terrestre. L’incidente in mare con la marina tunisina ha impressionato molto perché la rotta per l’Italia si era quasi estinta. È stato un ritorno alla triste realtà del passato”. Che ruolo ha dunque la Tunisia in questo momento? Come si sta organizzando dopo la chiusura della frontiera libica? “Pensavamo che la chiusura della frontiera con la Libia non influenzasse più di tanto la vita tunisina. È la Tunisia il paese più sicuro nel Maghreb. Ma non si può chiudere il deserto e il mare ermeticamente; inoltre, per i disperati che si trovano nei campi profughi clandestini in Libia, l’unica salvezza si trova nel “rischiare la vita” per arrivare in Tunisia, che vuol dire la fine dell’incubo libico. Dunque oggi la Tunisia si trova d’innanzi una nuova sfida, perché si sta aprendo una nuova rotta verso l’Italia, e abbiamo l’impressione di essere solo agli inizi. Stiamo tornando al tempo di Lampedusa e delle prime carrette del mare: una volta arrivavano in Tunisia per andare in Libia, ora scappano dalla Libia e ricominciano a partire da qui, perché sanno che con gli accordi attuali è complicato andare in Italia”. Da dove partono di preciso i migranti? E in che condizioni affrontano il viaggio? “Soprattutto dalle coste tra Sfax et Sousse. La zona è piena di piccoli porti di pescatori. I migranti possono trovarvi da vivere e approfittare delle imbarcazioni dei pescatori che, facilmente, arrivano sulle coste italiane. Basta formare un gruppo, aver soldi per pagare e rischiare di partire verso “il paradiso terrestre” italiano. Era il caso del barcone speronato vicino a Sousse”. Come si potrebbero fermare concretamente queste partenze? “La Tunisia fa già il possibile. Ma credo che la questione principale sia un’altra”. Quale? “La spiego con un esempio. Se la casa è inondata dall’acqua è inutile chiedersi come fare per liberarsi dalle acque: i tubi sono scoppiati altrove. Ecco, la Tunisia sopporta le conseguenze di “tubi scoppiati altrove”. La causa e dunque la soluzione non sono qui, ma nei rispettivi paesi di provenienza di chi emigra disperatamente. Se non si risolvono i problemi all’origine, i migranti ci saranno sempre”. In questi viaggi drammatici c’è il rischio di infiltrazioni terroristiche? “Il rischio esiste. Però bisogna notare che i criminali degli attentati in Europa avevano spesso la nazionalità del posto. Le possibilità di infiltrazioni terroristiche sono molte, soprattutto dalla Libia, nostra prima vicina, o da luoghi da cui delinquenti vari scappano per sfuggire alla giustizia, si rifugiano in Tunisia e poi cercano la “libertà” in Italia e in Europa”. Dopo l’arresto del tunisino Anis Hannadi, fratello dell’attentatore di Marsiglia, e considerando che la Tunisia è un paese con altissimo numero di foreign fighters in Siria, quali sono le sue idee in merito? In particolare che cosa pensa del rapporto tra carcere e radicalizzazione? “Non si può negare che la Tunisia, malgrado sia il paese che ha dato il più gran numero di combattenti per “l’altare del martirio”, è ancora il paese più stabile e più sicuro del Maghreb, e - lasciatemelo dire - più sicuro di parecchi paesi europei. Esiste un buon controllo dei servizi di intelligence tunisina. Poi, come dappertutto, la prigione non è la migliore scuola per insegnare i valori”. In che senso? “L’Isis sa che le persone più fragili sono i bisognosi, i disoccupati, le persone con problemi famigliari, e così promettono somme di denaro per loro e le loro famiglie. Lo Stato islamico sa bene che il vuoto spirituale che vivono i nostri giovani, deve essere colmato e lo fanno benissimo offrendo falsi valori religiosi, spirituali e un paradiso frutto di un martirio, di una lotta per difendere la religione dai miscredenti. Dunque, un “terreno fertile” con queste situazioni di disagio, è ovviamente il carcere. Allo stesso tempo, per gli stessi motivi non mi ha mai meravigliato che giovani europei che hanno ogni ben di Dio dal punto di vista materiale, adottino le idee dell’Isis e combattano al suo fianco”. Ma pensando ai foreign fighters, c’è un rischio indottrinamento nelle carceri? “I foreign fighters non escono dalle carceri con la stessa facilità degli altri, però la domanda è: si esce migliori dalla prigione o più indottrinati di prima? Basta vedere in Europa come molti si siano radicalizzati in carcere”. Che cosa pensa del recente “condono” da parte del presidente della Tunisia Beji Caid Essebsi che ha aperto le porte delle carceri a chi aveva scontato la pena per furto o spaccio? “Ci si domanda se queste persone siano rimaste qui o siano partite verso l’Italia. È gente che ha già scontato la pena. Ma ci si chiede in che condizioni queste persone siano uscite dal carcere”. Russia. Il direttore di Novaya Gazeta: armerò i miei giornalisti perché possano difendersi di Giuseppe Agliastro La Stampa, 27 ottobre 2017 È la reazione del giornale di opposizione russo alle continue minacce e violenze subite. Il direttore di Novaya Gazeta Dmitry Muratov ha deciso di reagire in modo deciso alle tante violenze e intimidazioni subite dai suoi giornalisti e da altri reporter russi “scomodi” per le autorità. La sua idea - annunciata ai microfoni di Radio Eco di Mosca - è quella di dotare i reporter della prestigiosa testata investigativa di pistole traumatiche e di fargli seguire un corso per imparare a usarle. La Kalashnikov ha colto la palla al balzo e oggi ha promesso a tutti i giornalisti uno sconto del 10% sulle sue armi non letali. L’azienda che produce il famigerato fucile mitragliatore Ak-47 è però andata oltre, suggerendo addirittura quello che ritiene il modello più adatto per i reporter: la pistola MR-80-13T: è simile alla Makarov ma spara proiettili di gomma calibro 45, e inoltre “è perfetta per essere portata con una fodera speciale sotto il soprabito”, scrive la Kalashnikov in un comunicato. Le parole del direttore di Novaya Gazeta arrivano pochi giorni dopo l’accoltellamento di Tatiana Felghengauer, una reporter simbolo di Radio Eco di Mosca. La giornalista - spesso critica nei confronti del Cremlino - è stata aggredita lunedì da un uomo che ha fatto irruzione in redazione e l’ha colpita con un fendente al collo. L’assalitore è probabilmente uno squilibrato, ma il clima avvelenato creato dai media filogovernativi, che dipingono i reporter vicini all’opposizione come dei nemici, potrebbe aver avuto un peso non indifferente in questa vicenda. Anche a Novaya Gazeta sanno bene i rischi a cui vanno incontro facendo il proprio mestiere in modo indipendente e criticando le autorità. Anna Politkovskaya, che nei suoi articoli denunciava la deriva autoritaria del governo di Putin e le violazioni dei diritti umani nella turbolenta Cecenia, fu uccisa a colpi di pistola il 7 ottobre del 2006. Stava entrando nell’ascensore della palazzina in cui viveva con in mano i sacchi della spesa. Yuri Shekochihin morì avvelenato nel 2003. Anastasija Baburova fu ammazzata, anche lei a pistolettate, nel 2009 nel centro di Mosca assieme all’avvocato difensore dei diritti umani Stanislav Markelov. Ma la situazione non è poi molto migliorata negli ultimi anni. Appena un mese e mezzo fa, un’altra nota firma di Novaya Gazeta, Yulia Latinina, si è rifugiata all’estero dopo che degli sconosciuti le hanno incendiato l’auto e due uomini in motocicletta le hanno lanciato in faccia degli escrementi urlandole contro di “gettare merda sulla Russia”. Il direttore Muratov vuole evidentemente cercare di porre un freno a queste continue violenze e garantire ai suoi giornalisti maggiore sicurezza. “Raggiungeremo un accordo con il ministero dell’Interno” per l’uso delle pistole traumatiche, ha dichiarato. Dal Cremlino è arrivato un commento pacato: “Ognuno - ha detto il portavoce di Putin, Dmitry Peskov - è libero di adottare le misure di sicurezza che ritiene opportune, ma nel rigoroso rispetto della legge”. Muratov sembra comunque deciso ad andare avanti: “Armerò la mia redazione. Non ho alternative”, ha detto alla radio. Messico. Ma che c’è da ridere in prigione? di Silvano Malini Città Nuova, 27 ottobre 2017 Insieme alla cugina criminologa, la giovane comico e youtuber Sofía Niño de Rivera ha avviato un progetto pilota per un gruppo di recluse insegnando loro a ridere e far ridere. Sofía Niño de Rivera è una delle prime interpreti donne della rinata stand-up comedy: un artista solo su un palco con in compito di divertire. Lo fa brillantemente, tanto che è la prima donna protagonista di uno special di Netflix in spagnolo, e il suo nuovo show, si intitola Non è quello di Netflix. E come si usa oggi, ride delle convenzioni, prende in giro se stessa e i difetti nazionali “che sono virtù per i comici”. La fama conquistata l’ha proiettata anche come youtuber, e dal suo canale con 230 mila fans critica con simpatia pungente ma anche con serietà e durezza i mali della politica e della società messicana, sempre con un invito alla partecipazione cittadina e mettendo in luce il positivo. Ed impegnandosi in prima persona, ad esempio, per la raccolta di fondi del dopo terremoto. Da qualche tempo, in seguito all’invito della cugina, la criminologa Saskia Niño de Rivera, ha iniziato un progetto di appoggio alle recluse del mega carcere di Santa Martha Acatitla di Città del Messico. Tutto cominciò con la richiesta della cugina di offrire uno show di beneficenza per la Ong che dirige Reinserta (reinserisci), che si occupa di prevenzione e reinserimento sociali degli ex detenuti, con attenzione particolare posta sugli adolescenti, in uno dei Paesi più violenti e con più carcerati del mondo. In risposta, Sofía propose di introdurre lo stand-up, o monologo comico, nelle carceri, convinta che imparare a ridere e a far ridere faccia bene a tutti e sia particolarmente necessario per chi vive rinchiuso, come strumento per superare frustrazioni, rabbia e depressione. “Le donne in prigione non hanno praticamente nulla che le aiuti a gestire i loro problemi emotivi”, asserisce la comico trentacinquenne. “Credo che lo stand-up possa aiutarle”, perché “è uno strumento di catarsi. Mi ha aiutato molto nella vita”, afferma. In effetti, nelle prigioni messicane si vive al limite della dignità: sovraffollamento, violenze di ogni tipo, minacce, estorsioni e abusi, anche da parte di secondini, sono all’ordine del giorno. E anche se le donne sono solo il 5% dei 211 mila abitanti dei penitenziari del Paese, ricevono meno visite ed hanno più probabilità di essere abbandonate dai loro familiari rispetto agli uomini, secondo una ricerca di Reinserta. Saskia, la sua direttrice, spiega che le recluse accedono molto di rado all’accompagnamento psicologico e, anche quando ne hanno la possibilità, trovano molto problematico mettere in pratica i consigli degli specialisti quando devono pensare alla loro vera e propria sopravvivenza nelle loro celle. In questo contesto parrebbe proprio che non ci sia molto da ridere… Anzi, che sia proprio fuori luogo. Ma per le due cugine era una scommessa che si poteva vincere. Un punto a favore è il carattere del messicani, famosi nel mondo per essere amanti della fiesta e per ridere di tutto. “Persino della morte. Chi altri nel mondo lo fa?”, suole dire Sofía. Si riferisce al celebre dia de muertos, l’originalissima maniera di celebrare il 2 novembre in ogni angolo del Paese: con feste, musica, balli e un cenone, accompagnati dai “cari estinti”, presenti in foto tra teschi e fiori, in appositi altari a più livelli. Una tradizione antichissima, sono in apparenza superficiale, che onora profondamente la vita. Furono 10 allora le lezioni che la comico diede a un gruppo di recluse a Santa Marta Acatila durante l’estate. Saskia aveva convinto le autorità penitenziarie a provarci grazie al profilo pubblico della cugina e all’efficacia del lavoro carcerario di Reinserta. Fu più difficile trovare interne che volessero partecipare alle lezioni. “Lo stand-up è relativamente nuovo in Messico”, spiega Saskia. E poi “le carcerate non sapevano chi era Sofía né cosa facesse”. La commediante insegnò loro a ridere delle loro proprie esperienze e, per aiutarle, dovette farsele raccontare, cercare di introdurre elementi ironici o buffi e osservare come li applicavano e trovavano a loro volta i loro personali spunti comici. La comicità “è un utensile che non sapevano di possedere”. Ci volle del tempo, ma poco a poco, con tanta empatia, Sofía conquistò la loro fiducia. Non è mancato qualche contrattempo, perché il tempismo, nella commedia, è la chiave di tutto… Così una reclusa ha passato qualche tempo in isolamento per aver preso in giro la parlata di un secondino davanti a lui… Diciamo che sbagliando si impara. Tuttavia, l’esperimento è stato un successo. Il sottosegretario del sistema penitenziario della capitale, Hazael Ruíz, attesta che le lezioni di Sofia hanno aiutato a ridurre le tensioni a Santa Martha Acatitla, e sta organizzando lo stesso corso in un’altra prigione femminile. In seguito, probabilmente, toccherà anche agli uomini. “Le giovani che hanno partecipato hanno evidenziato un cambiamento attitudinale molto positivo, testimonia Ruiz. “Con lo stand-up hanno trovato un modo di canalizzare la negatività che sperimentano. Vanno più d’accordo fra di loro, con meno tensione, e - conclude - la loro nuova visione della vita è contagiosa”. Sofía si sente incoraggiata dai risultati, ma avverte che il Messico deve fare di più per generare condizioni più umane nelle carceri. “Il Paese ne beneficerebbe se la gente che vive in prigione si riabilitasse davvero e, quando uscisse, non consumasse droghe e non riprendesse la vita di prima”, ha detto alla Bbc. È una convinzione pienamente condivisa anche da Saskia. Oggi le cugine lavorano a un documentario di sensibilizzazione sulle condizioni di vita delle carceri messicane. È essenziale, secondo loro, insieme a far capire che “criminali non si nasce: i criminali li fa la società, li facciamo noi”, come afferma Saskia che, con Reinserta, sta trasformando ex carcerati in coraggiosi “agenti di cambiamento” nei loro stessi quartieri di provenienza.