Dietro le sbarre si muore di più. Suicidi: la strage silenziosa di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 ottobre 2017 Venerdì scorso un detenuto si è tolto la vita a Poggioreale: è il 46esimo dall’inizio dell’anno. Si continua a morire nelle carceri italiane, sia per cause naturali che per suicidio. Venerdì scorso, nel carcere campano di Santa Maria Capua Vetere, si suicidato il 46esimo detenuto. Si chiamava Gaetano Della Monica, 45 anni, recluso per avere organizzato decine di falsi matrimoni per far ottenere la cittadinanza a stranieri clandestini. Era stato trovato con la testa dentro una busta vicino al tubo del gas del fornellino portatile della cella. Quando il suo compagno si è svegliato e ha dato l’allarme, Gaetano era già cadavere. Questo è il secondo suicidio dall’inizio di questo mese. Il primo era avvenuto il 3 ottobre sempre in un carcere campano, ma a Poggioreale. Si chiamava Massimiliano Marcello, 39 anni, e si era ucciso impiccandosi. La sua vicenda è emblematica, perché viene inquadrata del discorso della salute mentale e fisica. Massimiliano, infatti, presentava delle condizioni psicofisiche precarie. A dimostrarlo è il certificato medico firmato dal dottore che lo aveva visitato. “Le condizioni fisiche e psichiche del signor Marcello appaiono in fase di peggioramento - si legge nel certificato -, sia sotto il profilo del tono dell’umore, sia sul versante somatico in quanto il paziente ha nel frattempo perso almeno 20 chili, a causa di una condizione anoressica, che peraltro non emerge dalla lettura della cartella clinica. Egli è infatti passato da un peso di circa 92 chili all’attuale peso di 71 chili, perdendo gran parte della massa muscolare. Si tratta di una perdita di peso di circa il 20%, realizzatasi molto rapidamente nell’arco di 5 mesi”. In pratica stava male e aveva una condizione psichica e fisica incompatibile con il carcere, tant’è vero che era stato chiesto al Tribunale del riesame di sospendere il regime carcerario. Ma i tempi, come accade di frequente, si erano allungati. Marcello ha deciso di uscire da solo dal carcere, ma in una bara. In carcere ci sono diversi modi per suicidarsi. Con un sacchetto in testa, una sniffata al gas delle bombolette del cucinino, un laccio di scarpa, una felpa, una cintura, una striscia di lenzuolo o di jeans stretta al collo, un taglio in gola, le vene dei polsi squarciate. Suicidi che sono aumentati rispetto al passato. Nel decennio 2000-2009, secondo una ricerca, i suicidi nelle carceri italiane sono stati 568, mentre nel decennio 1960-1969 furono “appena” cento, rispetto a una popolazione carceraria di circa la metà dell’attuale. In percentuale, dunque, la frequenza è aumentata del 300 per cento. Rispetto a 40 anni fa i detenuti erano prevalentemente criminali “professionisti”, mentre oggi la maggior parte dei carcerati è costituita da emarginati, tossicomani, immigrati sans papiers, malati mentali. Tutte tipologie di detenuti che, forse, dovrebbero avere una pena alternativa alla detenzione. Tuttora preoccupante - come si legge anche nel recente dossier del Senato - è pure l’incidenza dei fenomeni di autolesionismo (8.540 casi nel 2016 e 1.262 nei primi due mesi del 2017), dei suicidi tentati (1.006 nel 2016 e 140 a inizio 2017) e compiuti (40 nel 2016 e 12 nei primi 57 giorni del 2017): un tasso che, negli istituti di reclusione, è 12 volte più alto che all’esterno, tanto da sollecitare la definizione di un Piano nazionale di intervento per la prevenzione dei suicidi in carcere. Non mancano, però, anche dei dubbi su alcune morte archiviate come suicidi. In alcuni casi, infatti, i cadaveri ritrovati impiccati hanno presentato lesioni nel corpo che poco hanno a che vedere con la modalità del suicidio. Però, appunto, parliamo di casi archiviati. Non esiste, finora, nessuna sentenza giudiziaria che parla di omicidi mascherati da suicidi. Un caso, per un pelo, “rischiava” di arrivare a una sentenza definitiva di questo tipo. La peculiarità di questa storia è che si era arrivati a due sentenze contrapposte. Parliamo della morte di Marco Erittu. Si tratta di un detenuto ritrovato, senza vita e con un sacchetto di plastica infilato in testa, nella sua cella di San Sebastiano il 18 novembre del 2007. Una verità è emersa nel 2011, grazie a un pentito, Giuseppe Bigella, che, con le sue rivelazioni, ha portato all’arresto di un agente e di due detenuti. Secondo le sue accuse, il primo avrebbe aperta la porta della cella per consentire agli altri due di entrare e uccidere Erittu. Il poliziotto, dopo l’omicidio, avrebbe richiuso la cella e così la morte del detenuto fu archiviata come suicidio. Il processo si è concluso con due verità: il gup di Sassari ha creduto al pentito che si è autoaccusato e lo ha condannato a 14 anni di carcere, mente la corte d’Assise di Sassari ha stabilito che Marco Erittu non è stato ucciso assolvendo i coimputati di Bigella. Così abbiamo un assassino - o sedicente tale - reo confesso che sta scontando la pena inflittagli da un Gup per un delitto avvenuto in una cella che, per una corte d’Assise, non è mai stato commesso. Imputati “messi alla prova” nei boschi e nei parchi insieme a Legambiente di Teresa Valiani Redattore Sociale, 26 ottobre 2017 Firmato l’accordo con il Dipartimento per la Giustizia minorile e di Comunità: i soggetti interessati saranno impegnati nella tutela del patrimonio pubblico. Gemma Tuccillo: “Non solo lavori utili alla società ma anche per sviluppare il senso di appartenenza al Paese”. Fruibilità e tutela del patrimonio, collaborazione per la prevenzione degli incendi, salvaguardia di boschi e foreste, recupero del demanio marittimo, protezione della flora e della fauna, manutenzione e fruizione di ospedali, case di cura, giardini, ville e parchi. È un impegno che viaggia su un doppio binario quello destinato agli imputati che saranno “messi alla prova” con lavori di pubblica utilità nelle 8 sedi di Legambiente dislocate sul territorio nazionale. È di ieri la firma dell’accordo sottoscritto dal capo del Dipartimento per la Giustizia minorile e di Comunità, Gemma Tuccillo, e dal presidente di Legambiente, Rossella Muroni, che prevede l’impiego di imputati adulti in lavori di pubblica utilità “con compiti specifici di tutela del patrimonio ambientale”. “Ci stavamo lavorando già da un po’ - spiega il capo Dipartimento, Gemma Tuccillo - e la firma dell’accordo è un risultato che arricchisce gli sforzi che stiamo facendo per allargare quanto più possibile la collaborazione della rete territoriale, degli enti di riferimento particolarmente significativi in questo lavoro di inclusione efficace, che abbia contenuti di concretezza e riabilitativi in senso ampio. Il coinvolgimento di Legambiente vuol dire, infatti, anche cittadinanza attiva: l’imputato non svolge solo un lavoro utile per la società ma è chiamato a partecipare al recupero ambientale, alla tutela del patrimonio, alla valorizzazione del nostro Paese che è anche il suo Paese”. Non solo ulteriori opportunità per i lavori di pubblica utilità, dunque, ma anche “un alto livello di contenuti - sottolinea il Capo Dipartimento -. Perché è importante diversificare gli interventi e le opzioni di lavoro anche in ambiti che arricchiscano il patrimonio del soggetto stesso e lo coinvolgano in modo diretto e attivo sulla conservazione di ciò che gli appartiene in senso lato, per sviluppare il senso di appartenenza al proprio Paese”. “La Messa alla prova - si legge in una nota del ministero della Giustizia - è una misura che esiste dal 1988 per i minori e che è stata estesa agli adulti con modalità leggermente diverse. Prevede, per reati punibili con una pena non superiore a 4 anni, la possibilità della sospensione del processo e l’avvio di percorsi alternativi obbligatori di lavori di pubblica utilità, da svolgere gratuitamente in favore della collettività. L’imputato dovrà inoltre provvedere a eliminare le conseguenze del reato, risarcire il danno e prestare attività di volontariato di rilievo sociale”. Per la diffusione di “questa vera misura di comunità su tutto il territorio nazionale, che avvicina il nostro Paese al sistema europeo di probation - prosegue la nota, il ministero della Giustizia è fortemente impegnato: ad oggi, sono 9.765 gli imputati in regime di ‘messa alla provà ed il progetto di una gamma sempre più vasta di opportunità lavorative ne consentirà un forte aumento”. L’obiettivo del Ministero è stipulare accordi, a livello nazionale, che impegnino gli enti a mettere a disposizione posti di lavoro su tutto il territorio. In un meccanismo “a cascata”, le sedi territoriali degli uffici di esecuzione penale esterna facilitano la stipula di convenzioni tra i tribunali ordinari e le sedi territoriali degli enti, in modo da raggiungere il duplice obiettivo di implementare il numero degli ammessi e rendere omogenea la fruizione della misura su tutto il territorio nazionale. Su impulso del Ministro Orlando sono già stati stipulati accordi con l’associazione “Libera contro le mafie” e con l’Unione Italiana Ciechi e Ipovedenti e sono in corso numerosi altri contatti con l’Ente Nazionale Protezione Animali, l’Anci, il Mibact, il Fec e la Croce Rossa. L’On. Gianni Melilla (Mdp): “risarcire le persone ingiustamente incarcerate” articolo1mdp.it, 26 ottobre 2017 “Ieri abbiamo promosso, insieme ad altre personalità politiche e a Giulio Petrilli, ingiustamente detenuto per 6 anni, una manifestazione per chiedere finalmente giustizia per tutte le persone assolte dopo essere ingiustamente incarcerate per anni. Su 7mila domande annue che chiedono il risarcimento per ingiusta detenzione, ne vengono accolte al massimo mille e cinquecento, anche per inconfessabili ragioni di risparmio da parte dello Stato. La causa di questa ingiustizia deriva da una norma per cui l’assolto da ogni imputazione non riceverà nulla se le sue frequentazioni o i suoi comportamenti hanno determinato un “dolo o una colpa grave”. Contro questa norma ingiusta e discrezionale ho presentato una proposta di legge che chiede l’abrogazione di questa norma contenuta nell’articolo 643 del codice penale. Il danno devastante provocato da una ingiusta detenzione deve essere risarcito secondo il dettato costituzionale. La vita di migliaia di persone innocenti è stata devastata, sul piano personale, familiare, professionale. Lo Stato non può girarsi da un’altra parte”. Cosi’ in una nota Gianni Melilla, deputato di Articolo 1-Mdp. Gli ufficiali del Gom: “I 41-bis oggi stanno al grand hotel” di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 26 ottobre 2017 La squadra d’élite della Penitenziaria denuncia: “Carcere sicuro per i super boss. Quello duro invece lo fanno tutti gli altri”. “La verità è che il 41-bis, il carcere duro, come lo chiama la stampa, lo fanno i detenuti comuni, non i mafiosi”. Parola di ufficiali del Gom, il gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria, diretto dal generale Mauro D’Amico, alle prese tutti i giorni con l’applicazione di quello che preferiscono chiamare carcere “sicuro” per i mafiosi o terroristi che non devono portare all’esterno messaggi di morte e affari sporchi. Diversi uomini del Gom rompono il silenzio e accettano di parlare con Il Fatto, ma dietro anonimato per ovvi motivi di sicurezza: spesso sono minacciati di morte. In 594 controllano 734 detenuti. Sembrano tanti a chi non è un addetto ai lavori ma, spiegano, fanno fatica a fare tutti i controlli meticolosi che devono eseguire e accumulano straordinari. E mentre i detenuti al 41-bis sono aumentati, i Gom sono diminuiti: 50 in meno rispetto all’anno scorso e quasi 700 rispetto a cinque anni fa. Durante la nostra conversazione, dicono all’unisono che il problema “umanitario” tornato alla ribalta recentemente non esiste. La vergogna sono “i detenuti comuni ammassati in piccole celle. Chi sta al 41-bis ha una cella singola a misura europea con bagno e quasi sempre doccia, e tv. Garantito materasso e guanciale ortopedici, se è necessario”. Pessime anche le caserme dove vivono ufficiali e agenti del Gom. A Novara, in inverno, devono mettere i cartoni alle finestre per il freddo; a Roma c’è un appartamento chiamato “favela” con 11 posti letto e un solo bagno. In diverse caserme gli agenti si sono dovuti comprare la lavatrice. A L’Aquila sono rimasti cinque giorni senza acqua calda, a Parma per 45 giorni è rimasta chiusa la mensa su ordine della Asl. E se un agente per motivi di servizio deve restare in una sede oltre gli otto mesi regolamentari, perde i 12 euro di indennità e gli tocca pure pagare 70-80 euro al mese per dormire in caserma. Si sentono “non riconosciuti, isolati” ma finora non una parola all’esterno, perché? “Abbiamo fatto un giuramento di fedeltà alla Repubblica e uno tra noi di lotta alla mafia”, rispondono per tutti un paio di loro che hanno alle spalle una ventina di anni di servizio. Sono coloro che hanno una lunga esperienza i più perplessi su alcuni punti della nuova circolare sul 41-bis del 2 ottobre scorso, primo fra tutti quello sulla caduta del vetro divisorio durante gli incontri tra i boss e i loro figli o nipoti diretti, che hanno meno di 12 anni. È una concessione del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) rispetto alla legge sul 41-bis. Chi vede le cose dall’esterno la ritiene una decisione civile, soprattutto per i bambini che così possono scambiarsi gesti di affetto con genitori o con i nonni. Ma la realtà dei mafiosi è “feroce”, ribattono gli uomini del Gom, “non si fanno scrupoli a usare i bambini per dare ordini”. È già successo con Giuseppe Setola, del clan dei Casalesi o con Vito Vitale, capomafia di Partinico, per esempio. Tranne “in caso di gravi sospetti, non possiamo neppure fare perquisizioni corporali dei mafiosi per verificare che non passino pizzini ai bambini”. Un altro dei punti “critici” per il Gom riguarda la possibilità per gli avvocati difensori di dare ai loro assistiti materiale processuale su supporti informatici. “In un dischetto può esserci altro e noi non possiamo verificarlo per il diritto alla difesa”. Prima di salutarci, un ufficiale dice: “Si deve sapere che il 23 maggio (giorno della strage di Capaci, ndr) i mafiosi in carcere si fanno ancora gli auguri”. La proposta del Csm “Cari giudici, togliete i figli ai mafiosi” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 26 ottobre 2017 Pronta la decadenza della potestà genitoriale. Secondo Palazzo dei Marescialli i bambini nati in una famiglia di affiliati devono essere equiparati a quelli nati in famiglie dove i genitori sono alcolisti o tossicodipendenti. I figli nati in una famiglia mafiosa devono essere equiparati a quelli nati in famiglie dove i genitori hanno problemi di alcolismo o tossicodipendenza. Ed è pertanto necessario procedere con provvedimenti giudiziari che comportino la decadenza della patria potestà e il successivo allontanamento del minore dalla residenza familiare, con il suo affido ad una struttura che consenta di crescere in un contesto idoneo per l’età. È questo il contenuto della risoluzione che il Plenum del Consiglio superiore della magistratura sta discutendo su iniziativa dei consiglieri Ercole Aprile e Antonello Ardituro, in materia di “tutela dei minori nell’ambito del contrasto alla criminalità organizzata”. Per prevenire e recuperare i minori è, dunque, indispensabile intervenire sulla sfera familiare e/ o sociale di provenienza, in quanto è una delle prime cause che incidono sul percorso di crescita. In particolar modo nelle regioni meridionali si riscontra un frequente coinvolgimento di minori in attività illecite legate ad associazioni criminali, spesso di tipo mafioso (attività che consistono, ad esempio, nello spaccio di stupefacenti, estorsioni, omicidi). Forse anche a causa del condizionamento mediatico esercitato da alcune recenti fiction, il fenomeno si è accentuato e la “cultura” mafiosa ha fatto presa sui giovani provenienti da contesti malavitosi. La ricerca del potere, la facile ricchezza e realizzazione di sé, prevalgono sulla pacifica convivenza e mettono le istituzioni sotto una luce negativa. La soluzione è l’adozione di provvedimenti di decadenza o limitazione della potestà genitoriale (fino ad arrivare alla dichiarazione di adottabilità) e di collocamento del minore in strutture esterne al territorio di provenienza, per eliminare il legame con i condizionamenti socio- ambientali. Pur costituendo l’extrema ratio, la salvaguardia del superiore interesse del minore ad un corretto sviluppo psico-fisico prevale sull’autonomia riconosciuta ai genitori nell’adempimento del dovere educativo. La famiglia di origine, come nei casi in cui i genitori siano dei tossicodipendenti o degli alcolisti, è “famiglia maltrattante” che, per le modalità con cui “educa” i figli, ne compromette lo sviluppo psicofisico. Per il Csm vanno, in primis, potenziati gli strumenti a disposizione dei giudici minorili, con una azione sinergica da parte dei servizi minorili e dei servizi sociali, e una collaborazione, quando necessario, con gli uffici giudiziari ordinari. Fondamentale, poi, un riassetto normativo che renda più efficace ed effettiva l’applicazione di questi provvedimenti e che investa anche il diritto penale (introducendo la pena accessoria della decadenza dalla potestà genitoriale per i reati associativi di tipo mafioso) e processuale (dove si prevede ora l’affidamento alla famiglia anche di minori che abbiano commesso gravi reati). Un discorso a parte riguarda invece i figli minori di testimoni e collaboratori di giustizia per i quali oltre ad una tutela psicologica bisogna porre in essere le condizioni per un loro inserimento nelle località protette. Intercettazioni: se facessimo come in Inghilterra? di Piero Sansonetti Il Dubbio, 26 ottobre 2017 Giornalisti e magistrati, con la loro eccezionale potenza, condizionano la politica e impongono che solo in Italia la piaga delle intercettazioni deturpi la giustizia e l’informazione. Domani il Consiglio dei ministri esaminerà, e forse varerà, il decreto che riforma le intercettazioni. Aspettiamo di leggerlo, per giudicarlo. Però di una cosa sono certo: sarà molto al di sotto di quel che servirebbe, e lo sarà per un motivo semplice, che provo a spiegare. Perché il governo deve tenere conto delle pressioni formidabili che vengono esercitate dalle due categorie che oggi, sul piano politico, in Italia, sono le più potenti tra tutte le altre categorie (dopo i big della finanza...): giornalisti e magistrati. Per giornalisti e magistrati le intercettazioni sono linfa vitale. Non possono farne a meno. Sono il carburante che permette alle loro macchine di funzionarie. E la sola idea di doverci rinunciare li atterrisce. Non esiste nessun’altra ragione seria per non decidere misure drastiche contro le intercettazioni. L’unica ragione è il terrore della canizza che magistrati e giornalisti sono in grado di sollevare, sostenendo che ridurre le intercettazioni significhi limitare il lavoro della magistratura e ferire la libertà di stampa. Nessuna delle due cose è vera. La magistratura per il suo lavoro non ha bisogno di intercettare ogni giorno decine di migliaia di telefoni. Ha bisogno invece di mezzi finanziari, tecnologi e umani. Nella maggior parte dei casi le intercettazioni non sono usate per impedire un reato e per trovare i colpevoli di un reato, ma solo per mettere sotto controllo un “previsto-colpevole” e sperare che cada in trappola. Il metodo della intercettazioni a strascico, che è il più usato, è in contrasto aperto con i compiti e le funzioni della magistratura. E talvolta anche con la legge. Per di più, spessissimo, le intercettazioni sono fuorvianti, o perché non si tiene conto dei toni, dei sottintesi, dei lessici usati dagli intercettati, o perché addirittura non si capiscono i dialetti, o perché non si escludono i continui fenomeni di millantato credito (che sono un ingrediente essenziale nelle telefonate di ciascuno di noi). E dunque, con una notevole frequenza, non solo non aiutano le indagini ma aiutano clamorosi errori giudiziari. Quanto alla libertà di stampa, è una cosa molto seria (molto poco praticata nel nostro paese) e con le intercettazioni non ha niente a che fare. Tra libertà di stampa - e di inchiesta, di indagine, di analisi, di reportage, di racconto: tutta merce assente dai nostri giornali - e libertà di mettersi agli ordini dei pezzi della magistratura o degli 007 dei servizi segreti, ci passa un oceano più grande del Pacifico. Le intercettazioni, semplicemente, sono nel migliore dei casi un aiuto a lavorare meno, per Pm, poliziotti e giornalisti, nel peggiore dei casi un formidabile e abusivo strumento di potere e di lotta per il potere. Le intercettazioni - cioè, l’assurdo eccesso delle intercettazioni - sono una piaga del giornalismo e della giustizia italiana. Tant’è vero che in un paese sicuramente democratico come la Germania, e dove sicuramente la giustizia funziona meglio che da noi, le intercettazioni sono quasi otto volte di meno che da noi. Capite che vuol dire? Non è che il numero delle intercettazioni, in Italia, sia del 20 o del 30 o del 40 per cento superiore al numero delle intercettazioni tedesche. No: l’ottocento per cento in più. Una differenza spaventosa, inspiegabile. Oppure preferite fare il confronto con la Gran Bretagna, patria del diritto anglosassone? Le nostre intercettazioni sono 33 volte di più di quelle inglesi: il 3300 per cento in più. Cifre da capogiro. Che fotografano la distanza tra uno Stato di diritto serio e un luogo dove vige una specie di “democrazia spiata”. In Gran Bretagna le intercettazioni sono permesse solo a scopo investigativo. Non sono ammesse nel processo né come prove né come indizio. E non sono pubblicabili dai giornali, come succede in quasi tutta Europa. Ora non credo che salterà su qualcuno a dirmi che l’Inghilterra dovrebbe imparare da noi cos’è la libertà di stampa. Di questi dati di fatto, di queste cifre, se ne tiene conto nel dibattito in Italia? No: qui il dibattito si svolge solo ripetendo vecchi slogan maoisti ricopiati dai novelli conservatori. Sarebbe bello se i liberali, i democratici, magari anche i socialisti, non si facessero intimidire. Finora però non è successo. Sulla riforma delle intercettazioni il nodo delle trascrizioni di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 26 ottobre 2017 Una procedura per garantire la riservatezza delle comunicazioni senza attentare al diritto dell’informazione. E poi un nuovo reato contro la diffusione di riprese e registrazioni fraudolente. Per la prima volta una disciplina articolata dei virus informatici con cui “infettare” computer e cellulari di persone sospette. Agevolazioni per le intercettazioni contro i reati do corruzione. I 9 articoli del decreto legislativo sulle intercettazioni che approda oggi in pre-consiglio in vista della riunione di domani del consiglio dei ministri intervengono ad ampio raggio. A partire dal divieto di introduzione nei “brogliacci”, nei verbali cioè redatti anche in forma sommaria delle operazioni di ascolto, di materiale irrilevante per le indagini. Lo schema di decreto interviene sull’articolo 268 del Codice di procedura penale, introducendo il comma 2-bis, che vieta la trascrizione, anche sommaria, delle comunicazioni o conversazioni irrilevanti per le indagini e di quelle che contengono dati personali definiti sensibili dalla legge, imponendo che nel verbale siano indicate solo la data, l’ora e il dispositivo su cui la registrazione risulta essere intervenuta. Il pubblico ministero è informato dalla polizia giudiziaria, per verificare la possibile irrilevanza delle comunicazioni e conversazioni; gli ufficiali di polizia giudiziaria hanno l’obbligo di avvertire il pm, con una specifica annotazione, nei casi in cui c’è incertezza se procedere a trascrizione nel verbale di queste conversazioni. Il pubblico ministero, a sua volta, con decreto motivato, può disporre la trascrizione delle comunicazioni e conversazioni se le considera rilevanti per i fatti oggetto di prova, comprese quelle relative a dati personali definiti sensibili dalla legge se le ritiene, oltre che rilevanti, necessarie. Si stabilisce, pertanto, la possibilità di recuperare il materiale raccolto, comunque custodito in un archivio riservato, solo se effettivamente funzionale alla prova dei fatti. Per quanto riguarda il deposito delle intercettazioni e la selezione del materiale raccolto viene riscritta la disciplina dell’udienza stralcio: si è scelta una procedura a due fasi, che prevede il deposito delle conversazioni e delle comunicazioni, oltre che dei relativi atti, e la successiva acquisizione, a cui il giudice provvede sulla base di un contraddittorio tra le parti fondato su richieste scritte e memorie. Se necessario, il giudice può fissare udienza, con la partecipazione del pubblico ministero e dei soli difensori, per provvedere, all’acquisizione e al contestuale stralcio, con destinazione finale all’archivio riservato, delle comunicazioni irrilevanti e inutilizzabili. Nell’archivio, sotto la custodia del pm, confluisce tutto il materiale relativo alle operazioni di ascolto (annotazioni, verbali, registrazioni, decreti che hanno disposto, autorizzato, convalidato o prorogato l’intercettazione), per garantire l’esercizio delle facoltà di difesa e consentire il controllo sulle scelte di esclusione operate dal pubblico ministero. Tra il materiale sono comprese le annotazioni a cui la polizia giudiziaria è tenuta per informare il pubblico ministero sui contenuti di conversazioni che potrebbero, data la loro irrilevanza, essere non trascritte in verbale. Per effettuare intercettazioni quando si procede per i più gravi reati contro la pubblica amministrazione (pena non inferiore a 5 anni) basteranno poi i sufficienti indizi di reato e la necessità per lo svolgimento delle indagini. Quanto ai trojan horses, lo schema di decreto esclude limiti nel caso di indagini contro criminalità organizzata e terrorismo, mentre per gli altri reati andranno individuati anche in forma indiretta i luoghi in cui si sposterà il dispositivo mobile. Corruzione male endemico, ci vuole più prevenzione sul fronte educativo di Bruno Ferraro* Libero, 26 ottobre 2017 Un sondaggio ha rivelato che per l’88% degli italiani la corruzione è aumentata nel nostro Paese negli ultimi venti anni. Un’agenzia internazionale ha relegato l’Italia al 66esimo posto mondiale per quanto attiene alla “percezione della corruzione” sulla base di un questionario inviato ad un pool di giornalisti e operatori di Ong. Un ruolo importante, ovviamente, hanno avuto alcuni scandali che hanno toccato le coscienze: dal Mose di Venezia, che secondo gli ambientalisti non risolverà il problema degli allagamenti e intanto ha succhiato somme ingenti per la realizzazione e la manutenzione; dall’Expo al più recente Mafia capitale in cui funzionari pubblici hanno intascato tangenti per favorire appalti a società e cooperative propense ai relativi esborsi; per finire con i 2,7 miliardi di euro nello scandalo Consip per servizi nei palazzi più importanti dello Stato. Rispetto a Tangentopoli le differenze sono sensibili, anche se il risultato è il medesimo. Ci furono in quel periodo ruberie che farebbero impallidire molti degli scandali più recenti: vedi la maxi tangente Enimont da 150 milioni di euro di oggi e lo scandalo della metropolitana di Milano costruita per un prezzo al chilometro superiore da due a quattro volte a quello che si pagava nel resto dell’Europa. Di diverso è che Tangentopoli era “un sistema di corruzione allargata, con scambi molteplici, complessi e sistematici, tra cartelli di imprese private, clan di uomini politici e amministratori pubblici, intermediari e, talvolta, boss mafiosi” (enciclopedia Treccani). Un fenomeno riconducibile anche alle necessità di finanziamento dei partiti dopo l’abolizione dei loro fondi statali. Risulta, quindi, quanto mai significativo il fatto che la maggioranza degli intervistati ha oggi individuato, come destinatari delle bustarelle, soggetti appartenenti al mondo giudiziario! Da un rapporto dell’anticorruzione Ue emerge un quadro confortante. Cito i dati più significativi: il 42% degli italiani si dice colpito dalla corruzione (media Ue 26%); l’Italia è terz’ultima tra i 28 membri Ue, seguita solo da Grecia e Bulgaria; siamo 60esimi su 176 Paesi in quanto ad indice di corruzione percepita; il 49% degli imprenditori italiani e stranieri ritiene che la corruzione è un problema serio per la propria azienda quando fa affari in Italia. È diffusa la convinzione che corrompere è una necessità ineludibile, sia per collocare il proprio prodotto, sia per assecondare una moda di carattere generale. Nell’ultimo decennio si è passati dall’economia delle mazzette all’economia dei favori. Secondo Davigo il 98% delle condanne per corruzione non vengono eseguite perché inferiori ai due anni di reclusione: in Finlandia ci sono più condanne rispetto all’Italia, nonostante la Finlandia sia percepita come un Paese meno corrotto rispetto all’Italia. Che fare? Intanto rendere non conveniente il delinquere e alimentare ad ogni livello la cultura della legalità, agendo sul fronte della repressione e contemporaneamente sul fronte preventivo-educativo. La corruzione va combattuta e respinta, sia perché “spuzza” (parola di Papa Francesco), sia perché nemica della sana concorrenza, sia perché sperpero di danaro pubblico e per ciò stesso della collettività, sia perché altera il principio dell’equilibrio delle chances che è il fondamento di ogni Stato democratico, sia perché sfrutta le opportunità concesse da una legislazione a maglie larghe trasformando l’eccezione in regola. Importante è il codice degli appalti e l’azione della struttura che fa a capo a Raffaele Cantone. Non bisogna però illudersi. La repressione è importante ma ancora di più è il recupero del pauroso gap educativo in cui si è impantanata da qualche decennio la società italiana. È un’opera alla quale tutti dobbiamo sentirci chiamati. *Presidente Aggiunto Onorario Corte di Cassazione L’allarme dei magistrati: nei palazzi di giustizia la sicurezza è a rischio di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 26 ottobre 2017 Il tormentone dei metal detector agli ingressi è lungi dall’essere risolto: il 14% delle toghe fa presente di lavorare in palazzi di giustizia che ne sono sprovvisti. I palazzi dello Stato in teoria più sicuri sono luoghi davvero sicuri? I magistrati italiani ne dubitano. E non tanto per i casi limite pur moltiplicatisi negli ultimi anni, dalla strage familiare nel Tribunale civile di Reggio Emilia a quella di Claudio Giardiello nel Tribunale di Milano, fino al recente accoltellamento di due giudici a Perugia. Quanto, invece, proprio per l’esperienza ordinaria dei magistrati, quale risulta dalle risposte che 2.998 di loro (il 36,8% della categoria) hanno dato al primo specifico questionario della loro Associazione nazionale, illustrato a Siena dal giudice Marcello Basilico. Non una planimetria scientifica, dunque, ma nemmeno solo una percezione grossolana, e neppure un semplice sondaggio, piuttosto una fotografia della quotidianità. Tra coloro che hanno risposto, così, si apprende che il tormentone dei metal detector agli ingressi è lungi dall’essere risolto: non solo perché il 14% delle toghe fa presente di lavorare in palazzi di giustizia che ne sono sprovvisti, ma anche perché, pur dove esistono, il 30,6% segnala che non funzionano o funzionano a singhiozzo, e che sono assenti controlli effettivi a tutti gli ingressi. Una volta dentro, non va molto meglio: il 50,7% dei magistrati lamenta che nel proprio palazzo di giustizia (talvolta condiviso con altri enti, qualcuno persino un ex cinema) non ci siano forze dell’ordine che vigilino fuori dalle aule o nei corridoi (ad esempio per fermare il Giardiello di turno dopo il primo colpo). E proprio uno dei problemi emersi nel caso milanese non pare affrontato se ben l’88% di toghe non ha strumenti per chiamate d’emergenza e videocitofoni per identificare chi bussi in ufficio. Dalla sicurezza alla logistica, il 34,4% (che sale al 44% al Sud) segnala mancanza o inadeguatezza degli accessi per i disabili, il 38,5% dice di non poter contare sul riscaldamento per l’intera giornata lavorativa, il 31,5% non ha aria condizionata, il 50,1% non ha un assistente di cancelleria in via prevalente, e il 72,7% nemmeno l’ufficiale giudiziario in udienza. A Bolzaneto fu tortura, Strasburgo condanna Italia La Repubblica, 26 ottobre 2017 La sentenza per le azioni dei membri delle forze dell’ordine e perché lo Stato non ha condotto un’indagine efficace. Fiano (Pd): “Pagina orribile della nostra storia”. Gli atti commessi dalle forze dell’ordine a Bolzaneto nei giorni del G8 del 2001 sono atti di tortura. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti umani che ha condannato l’Italia per le azioni dei membri delle forze dell’ordine, e perché lo Stato non ha condotto un’indagine efficace. Parti civili una quindicina di persone di 8 diverse nazionalità, riconosciute come vittime di torture da parte delle forze dell’ordine durante i giorni del G8 a Genova, nel luglio del 2001. Si tratta in particolare di persone che furono rinchiuse fra il 20 e il 22 luglio nel carcere di Bolzaneto. I giudici hanno riconosciuto ai ricorrenti il diritto a ricevere tra 10mila e 85mila euro a testa per i danni morali. “Bolzaneto è stata una pagina orribile della nostra storia - commenta il responsabile Sicurezza del Pd, Emanuele Fiano - non ci possono essere giudizi diversi, questa sentenza lo conferma, ancora una volta”. Sessantacinque cittadini - tra italiani e stranieri - hanno fatto ricorso alla Corte europea dei diritti umani. Ricorsi in cui si sostiene che lo Stato italiano ha violato il loro diritto a non essere sottoposti a maltrattamenti e tortura e si denuncia l’inefficacia dell’inchiesta penale sui fatti di Bolzaneto. Nei giorni del G8 del 2001, secondo quanto ricostruito dal processo sulla base anche delle testimonianze di decine di vittime, oltre 300 persone vennero private della possibilità di incontrare i loro legali, umiliate, picchiate, minacciate. Tra le mura della caserma risuonarono a più ripresa inni fascisti, molti dei ragazzi vennero costretti a rimanere immobili per ore, le donne subirono violenze fisiche e morali. Il processo di appello per le violenze di Bolzaneto si era concluso, nel giugno 2013, con sette condanne e quattro assoluzioni. La quinta sezione penale della corte aveva assolto Oronzo Doria, all’epoca colonnello del corpo degli agenti di custodia, e gli agenti Franco, Trascio e Talu. Erano invece state confermate le 7 condanne che erano state inflitte dalla Corte d’Appello di Genova il 5 marzo 2010 nei confronti dell’assistente capo di Pubblica sicurezza Luigi Pigozzi (3 anni e 2 mesi) - che divaricò le dita della mano di un detenuto fino a strappargli la carne - degli agenti di polizia penitenziaria Marcello Mulas e Michele Colucci Sabia (1 anno) e del medico Sonia Sciandra. Per quest’ultima la Cassazione aveva ridotto la pena, assolvendola solo dal reato di minaccia. Pene confermate a un anno per gli ispettori della polizia Matilde Arecco, Mario Turco e Paolo Ubaldi che avevano rinunciato alla prescrizione. La pene erano però quasi integralmente coperte da indulto. La Cassazione aveva anche bocciato il ricorso della procura di Genova che chiedeva di contestare il reato di tortura, cosa che appunto avrebbe evitato l’estinzione del reato. Reato che come già era stato evidenziato nella sentenza Diaz non è contemplato dal nostro ordinamento. Nell’aprile scorso il governo italiano aveva riconosciuto i propri torti nei confronti di sei cittadini per quanto subito nella caserma di Bolzaneto il 21 e 22 luglio 2001, ai margini del G8 di Genova, e gli verserà 45 mila euro ciascuno per danni morali e materiali e spese processuali. Lo rende noto la Corte europea dei diritti umani in due decisioni in cui “prende atto della risoluzione amichevole tra le parti” e stabilisce di chiudere questi casi. Il governo italiano, secondo quanto reso noto a Strasburgo, ha raggiunto una “risoluzione amichevole” con sei dei 65 cittadini - tra italiani e stranieri - che hanno fatto ricorso alla Corte europea dei diritti umani. Ricorsi in cui si sostiene che lo Stato italiano ha violato il loro diritto a non essere sottoposti a maltrattamenti e tortura e si denuncia l’inefficacia dell’inchiesta penale sui fatti di Bolzaneto. I sei ricorrenti che hanno accettato l’accordo sono Mauro Alfarano, Alessandra Battista, Marco Bistacchia, Anna De Florio, Gabriella Cinzia Grippaudo e Manuela Tangari. “Io, beffato dopo un anno in carcere da innocente” di Angela Pederiva Il Gazzettino, 26 ottobre 2017 “Tutto sulla base di dichiarazioni di un pentito. Ora anche la beffa del mancato risarcimento, ma ricorrerò alla Corte europea”. Sono trascorsi dieci anni da quella notte. Erano le 3.30 del 22 ottobre 2007, quando Diego Olivieri smetteva di essere uno stimato imprenditore della concia di Arzignano e diventava, secondo la Dia di Roma e le polizie europee e americane (Fbi compreso), il terminale veneto del clan italo-canadese Rizzuto, accusato insieme ad altri 18 indagati di associazione per delinquere di stampo mafioso, traffico internazionale di stupefacenti e riciclaggio di denaro sporco. “L’uomo da 600 milioni di dollari” è, non a caso, il titolo dell’incontro pubblico in cui stasera a Padova il 69enne racconterà la sua storia di vittima della mala-giustizia, che prima sbaglia e poi non chiede neanche scusa, anzi si permette pure di presentare il conto: finito in carcere per un anno ed in seguito assolto con formula piena, il vicentino non sarà indennizzato per l’ingiusta detenzione e dovrà perfino pagare duemila euro allo Stato. Di quell’arresto in casa sua Olivieri ricorda ogni dettaglio: il fascicolo di 164 pagine sbattuto sul tavolo della sala da pranzo, la moglie Elisa che viene invitata dai poliziotti a preparargli una borsa con i vestiti, i primi accenni ad un giro di cocaina spedita dal Sudamerica all’Italia a bordo di container contenenti pellame e smerciata ad affiliati alla famiglia mafiosa Rizzuto che coordina il narcotraffico da Montréal, il figlio Christian che vedendolo salire sulla “gazzella” dei carabinieri cerca di rassicurarlo, la figlia Cristina che è incinta della sua primogenita e spera si tratti solo di un brutto scherzo. “Non posso dimenticare niente - confida l’imprenditore - perché se anche poi ti assolvono da ogni accusa, cosa rimane di te, che intanto ti sei fatto un anno dietro le sbarre e hai vissuto un autentico calvario giudiziario? Grazie a Dio la mia famiglia mi ha sostenuto in tutto e anche gli amici mi hanno sempre creduto, ma la macchia su di me è rimasta: le prime pagine dei giornali, le chiacchiere in paese, il dolore e l’angoscia dentro il mio cuore”. Un dramma di cui Olivieri, insieme ai suoi familiari, ha parlato anche nel corso della trasmissione Io sono innocente su Rai 3. I primi due mesi al San Pio X di Vicenza, il trasferimento a Rebibbia nella vana illusione di poter smontare più rapidamente il clamoroso errore giudiziario in corso, la quotidianità nel braccio di massima sicurezza dentro ad una cella di quattro metri per due e mezzo, le minacce di qualche galeotto, l’amicizia con il pluriergastolano “Angelo, di nome e di fatto”, il rispetto degli altri detenuti ottenuto solo fingendo di essere davvero il delinquente ritratto dai telegiornali. E poi l’umiliazione di camminare in manette nel centro della Capitale per recarsi al primo interrogatorio, l’ostilità mostrata dagli inquirenti, la scoperta di essere stato pedinato e intercettato per tre anni, il disperato tentativo a suon di perizie di dimostrare che espressioni come “pellette”, “wet blue” e “crust” non erano criptiche parole del codice criminale ma semplicemente termini tecnici della concia. “Sulla base delle dichiarazioni di un presunto pentito e dei miei rapporti di lavoro con un fornitore italo-canadese - spiega il 69enne - avevano costruito un teorema e volevano che confessassi quello che non avevo mai commesso e di cui non sapevo assolutamente nulla, com’è finalmente stato accertato dai giudici”. La completa assoluzione “per non aver commesso il fatto”, alla pari di tutti gli altri imputati, è arrivata il 23 maggio 2012. Da allora Diego ha cominciato la sua battaglia per vedere riparata l’ingiusta detenzione subita attraverso la carcerazione preventiva, che fra l’altro gli è pure costata la sospensione della procedura di conferimento del titolo di cavaliere del lavoro, com’era suo padre Giovanni da cui ha ereditato l’azienda Olivieri Pellami. “Ma con un’ordinanza del 2015 - riferisce l’avvocato Vincenzo Zahora - la Corte d’Appello di Roma ha respinto la nostra richiesta di indennizzo, non ravvisando alcuna colpa grave nell’emissione del provvedimento cautelare, ritenuto giustificato dalla documentazione in possesso dei magistrati in quel momento”. Nelle scorse settimane il ricorso contro quella decisione è stato ritenuto inammissibile dalla Cassazione, che ha contestato la tardività dell’impugnazione e ha condannato il 69enne a pagare sia le spese processuali che ulteriori duemila euro, destinati alla cassa delle ammende. “Dopo il danno, pure la beffa - commenta l’imprenditore - contro cui continuerò a combattere davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Probabilmente il massimale di 516mila euro previsto dalle tabelle, moltiplicato per 19 innocenti che hanno visto fallire le loro aziende e crollare la loro dignità, dà un risultato troppo alto per lo Stato”. Con quei soldi Olivieri sogna di costruire un ospedale in Africa, attraverso la Onlus “Futuro per tutti” che ha fondato insieme alla sua famiglia e ai suoi amici quand’è risalito dall’inferno in cui era precipitato. “Nel momento in cui sono uscito dal carcere - rivela - ho capito quali sono i valori che contano davvero nella vita e ho deciso che da quell’istante in avanti avrei dedicato il resto della mia esistenza all’impegno in favore dei più deboli”. Come il vicentino Luigi Sartorio, condannato a 20 anni di reclusione dalle autorità di Cuba e detenuto dal 2014 al Due Palazzi, con l’accusa di corruzione di minori per aver partecipato a presunti festini a luci rosse sull’isola caraibica. Gravemente malato, l’ottico chiede da tempo la revisione del processo in forza di prove che lo scagionerebbero. “Ho letto molto attentamente le carte del processo - premette Diego - altrimenti non mi permetterei di prendere posizione. Ebbene, sono perfino i timbri sul passaporto a dire che nei giorni in cui sarebbero avvenuti gli episodi contestati, Luigi era in Italia. Non ho ancora ottenuto il permesso di fargli visita, per cui non lo conosco personalmente. Ma conosco la sua sofferenza, perché è precisamente quella che ho iniziato a vivere io esattamente dieci anni fa: quella di un innocente che si trova ingiustamente in prigione. Per questo farò di tutto per tirarlo fuori di lì”. Trojan per intercettazioni nelle indagini, via libera dalla Cassazione di Carola Frediani La Stampa, 26 ottobre 2017 Una sentenza sul caso Occhionero apre all’uso dei software spia per più reati e funzioni. È una vicenda dove i trojan sono protagonisti. Utilizzati dagli indagati per spiare sulle loro vittime - almeno secondo l’ipotesi dell’accusa - ma anche dagli inquirenti. E poi finiti al centro di uno scontro legale, con tanto di esposto degli indagati contro il pm e la polizia postale, e ora una sentenza della Cassazione. Stiamo parlando dell’indagine su una campagna di cyber-spionaggio condotta contro un gran numero di professionisti e politici italiani, il caso Eyepyramid, dal nome del software malevolo utilizzato. Una vicenda che aveva portato lo scorso gennaio a un provvedimento di custodia cautelare nei confronti di Giulio e Francesca Maria Occhionero, noti da allora sui media come i fratelli Occhionero e accusati di essere dietro tale campagna di intrusioni informatiche e raccolta di informazioni. I due però avevano respinto gli addebiti. E avevano anche impugnato l’ordinanza di custodia cautelare su una serie di questioni, inclusa la legittimità dell’utilizzo di un trojan sul computer degli indagati da parte degli inquirenti. In sostanza, secondo i fratelli Occhionero, nel loro caso i trojan di Stato non si potevano utilizzare e di conseguenza i risultati raccolti dovevano considerarsi inutilizzabili. Stiamo parlando di quei software - definiti spesso dagli inquirenti anche captatori informatici, agenti intrusori, virus autoinstallanti - utilizzati da anni dalle forze dell’ordine e dalle procure nel corso delle indagini, come abbiamo raccontato più volte. Di fatto sono software malevoli, spyware, software spia a tutti gli effetti: dopo aver infettato un dispositivo (smartphone, tablet, pc) sono in grado di accedere a tutta la sua attività (comunicazioni telefoniche, mail, chat, foto, Skype, navigazione web, file); di scattare foto dello schermo; di attivare microfono e videocamere per effettuare intercettazioni ambientali. Uno strumento potente e invasivo su cui in questi ultimi anni si stanno giocando varie partite. Con tentativi di legiferare al riguardo, regolamentandolo, da parte del Parlamento, che però alla fine sono stati ridotti a una delega al governo, che rischia di tagliare con l’accetta molte complessità tecniche e giuridiche del mezzo. E con sentenze che ne inquadravano magari solo dei pezzi, delle funzioni specifiche, tralasciando altri aspetti (vedi quella) dell’aprile 2016 delle sezioni unite della Cassazione). Ora l’ultima novità è che la corte di Cassazione, in una sentenza depositata il 20 ottobre, ha ritenuto infondato il motivo del ricorso di Occhionero, di fatto aprendo a ulteriori utilizzi delle funzioni dei trojan. Ed estendendo il loro impiego per più tipologie di reato. Ma che cosa contestavano gli Occhionero? Che i risultati raccolti col trojan fossero inutilizzabili per due motivi: 1) il trojan era stato usato nel computer di casa dell’indagato, ma secondo loro una precedente pronuncia delle sezioni unite della Cassazione, la “Scurato”, permetteva simile utilizzo (in casa, luogo particolarmente protetto dalla nostra legge) solo per reati di criminalità organizzata; 2) che il trojan non era stato utilizzato per intercettare flussi telematici (non era dunque intercettazione telematica come prevista dall’art 266-bis del codice di procedura penale), cioè non captava i dati in transito dal pc alla rete, bensì dei dati in tempo reale in un certo schermo o supporto, facendo ad esempio screenshot, fotografie del monitor. La differenza è che nel primo caso si parla di intercettazione telematica, nel secondo di perquisizione/ispezione. Allora, la sentenza della Cassazione ha risposto così: 1) Sul primo punto la pronuncia delle Sezioni Unite (“Scurato”) si riferiva solo a una funzione specifica del trojan, che non riguardava l’intercettazione telematica effettuata nel caso Occhionero, bensì l’intercettazione delle comunicazioni tra presenti. Cioè quella funzione del trojan che attiva il microfono del dispositivo trasformandolo in una cimice ambientale e registrando l’audio attorno. Inoltre, anche stando a quella pronuncia, la Corte limitava sì l’uso dentro casa di quella funzione del trojan solo a delitti di criminalità organizzata. Ma non escludeva comunque l’utilizzo del trojan nei casi in cui il reato fosse compiuto in casa, in cui l’abitazione fosse sede dell’attività criminale. Soprattutto, quella pronuncia non escludeva l’utilizzo del trojan per le intercettazioni telematiche, sottolinea ora la sentenza. Che fa anche un riferimento al disegno di legge di riforma del processo penale che ha dato delega al governo di rivedere le intercettazioni, incluso l’uso dei trojan: anche in quel caso, sostiene la sentenza, si disciplinano solo le intercettazioni di comunicazioni o conversazioni tra presenti mediante trojan, perché sarebbe la modalità ritenuta “più invasiva”. Ricapitolando: quella pronuncia delle Sezioni Unite riguardava solo l’intercettazione tra presenti, di tipo ambientale, e non “la captazione che ha interessato l’Occhionero”. E non si può trarre da quella pronuncia un principio generale sulle intercettazioni telematiche. 2) Sul secondo punto la sentenza della Cassazione replica semplicemente che il trojan sarebbe stato usato nell’indagine sia per fare intercettazioni telematiche (del flusso di comunicazioni) sia captazioni (screenshot) di contenuti del pc. E che spettava all’indagato specificare quali di questi ultimi dati (quelli captati sul pc) fossero inutilizzabili e quanto pesassero sull’insieme degli indizi. “Il che non risulta essere stato fatto”, dice la sentenza. Insomma, secondo questa sentenza l’uso del trojan - anche con diverse funzioni - nell’indagine era lecito. Ma, al di là della vicenda giudiziaria specifica, può avere anche ripercussioni più in generale su come verranno utilizzati i trojan? “Sì purtroppo - risponde l’avvocato Fulvio Sarzana, il primo a segnalare pubblicamente la sentenza - Perché la sentenza affronta proprio il tema delle intercettazioni telematiche attraverso i trojan. Ora sappiamo che questi strumenti si possono usare anche per tutti i reati che prevedono intercettazioni telematiche (art 266-bis), ovvero anche reati commessi con l’impiego di tecnologie informatiche o telematiche”. “È una sentenza che fa giurisprudenza ma il problema sono le premesse perché la pronuncia “Scurato” delle sezioni unite si preoccupava proprio dell’invasività delle altre attività del trojan”, commenta l’avvocato Stefano Aterno. “Non è vero che le intercettazioni audio, fatte tra presenti, siano più invasive di una captazione di dati non comunicativi fatta da remoto, che di fatto è una perquisizione occulta. E in tal caso non si tratta di una intercettazione telematica ma di una attività di ispezione/perquisizione che dovrebbe essere poi notificata all’indagato”. “Il punto è che questa sentenza considera solo l’intercettazione tra presenti, senza riprendere le preoccupazioni delle sezioni unite sull’invasività dello strumento e della sua incidenza sulle libertà fondamentali”, ribadiscono anche gli avvocati Giovanni Battista Gallus e Francesco Micozzi. “È un punto che contrasta col principio di proporzionalità della misura sottolineato anche dalla Corte europea dei diritti umani sulle intercettazioni. E poi azzera le differenze tra perquisizione e intercettazione, dicendo che è onere della difesa dimostrare se certe prove sono state prese in un modo o nell’altro”. Ma se capti dati dentro il dispositivo, e non un flusso di comunicazioni tra due apparecchi, quella è una ispezione o perquisizione, notano ancora Gallus e Micozzi. Che ribadiscono: “Soprattutto la sentenza apre all’uso dei trojan per reati meno gravi ma commessi con mezzi informatici, inclusa anche la diffamazione online”. Migranti, dopo 6 mesi stop al rinvio al Paese di ingresso di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 26 ottobre 2017 Corte di giustizia Ue, sentenza 25 ottobre 2017 sulla causa C-201/16. Le autorità competenti di uno Stato Ue, che decidono il trasferimento del richiedente protezione internazionale nel Paese membro di primo ingresso, devono procedere all’esecuzione del provvedimento entro sei mesi. In caso contrario, la competenza passa dallo Stato di primo ingresso al Paese che dispone il trasferimento ma non lo esegue. E questo in modo automatico, senza che le autorità del Paese di entrata nello spazio Ue esprimano il rifiuto a riprendere in carico l’interessato. È la Corte di giustizia dell’Unione europea a stabilirlo con la sentenza depositata ieri (nella causa C-201/16, Shiri) con la quale gli euro-giudici, seppure indirettamente, danno una mano agli Stati di primo ingresso. A richiedere l’intervento di Lussemburgo è stata la Corte amministrativa austriaca alle prese con il ricorso di un iraniano entrato in Europa dalla Bulgaria. L’uomo era arrivato in Austria e aveva presentato una domanda di protezione internazionale. L’Agenzia per l’immigrazione e l’asilo aveva chiesto alle autorità bulgare di riprendere in carico il caso. Tuttavia, a fronte della risposta affermativa dell’amministrazione bulgara, le autorità austriache non avevano proceduto al trasferimento del profugo. Di qui la richiesta del cittadino extra Ue di poter presentare nuovamente la domanda alle autorità austriache. Prima di tutto, la Corte di giustizia ha precisato che il regolamento Dublino III n. 604/2013 prevede che uno Stato membro non competente a decidere sulla domanda di asilo debba procedere al trasferimento del richiedente entro sei mesi dall’accettazione della richiesta dell’altro Stato Ue di riprendere in carico l’istanza. In caso contrario, la competenza è trasferita allo Stato membro in origine non competente. Di conseguenza, il Paese competente secondo il regolamento di Dublino “è liberato dall’obbligo di prendere o riprendere in carico l’interessato”. Si tratta di un trasferimento di competenza - osserva la Corte - che scatta in modo automatico perché l’articolo 29 del regolamento non subordina il passaggio sulla decisione della richiesta a ulteriori condizioni. In questo modo, poi, non è posto un altro onere sullo Stato di primo ingresso ed è garantito un esame rapido delle domande di protezione internazionale. Questo anche a vantaggio del richiedente che non deve essere danneggiato dall’inerzia dello Stato di secondo ingresso. Non solo. Il richiedente, decorso il termine di sei mesi, acquisisce il diritto di rivolgersi al secondo Stato membro in forza del trasferimento automatico di competenza provocato dalla mancanza del rispetto del termine. Con il diritto del richiedente, in linea con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, di usufruire di un ricorso effettivo e rapido e di far valere in giudizio la scadenza del termine anche dopo la decisione sul trasferimento. Il padre deve risarcire la figlia “abbandonata” di Giorgio Vaccaro Il Sole 24 Ore, 26 ottobre 2017 Tribunale di Roma, Prima sezione civile, sentenza 19 maggio 2017. La violazione dei doveri genitoriali può portare anche a un maxi-risarcimento da pagare a chi l’ha subita. Se la violazione lede diritti costituzionalmente protetti, alle sanzioni tipiche previste dal diritto di famiglia si aggiunge il risarcimento dei danni non patrimoniali ex articolo 2059 del Codice civile. Come i 70mila euro che la Prima sezione civile del Tribunale di Roma (sentenza del 19 maggio 2017, relatore Velletti) ha riconosciuto a una figlia cui il padre aveva sempre negato cura, istruzione e mantenimento. Il tema incandescente dei danni non patrimoniali e della loro risarcibilità nel contesto degli obblighi del diritto di famiglia ha visto la giurisprudenza evolvere, sino a prevedere la nozione di illecito endo-familiare. “A seguito della decisione delle Sezioni unite della Suprema Corte, la n. 26972/2008 - ricorda il Tribunale di Roma - in base ad una interpretazione costituzionalmente orientata dell’articolo 2059 del Codice civile, può essere disposta la risarcibilità del pregiudizio di natura non patrimoniale, quando il fatto illecito abbia violato in modo grave diritti inviolabili di una persona, che abbiano tutela costituzionale”. Le Sezioni unite avevano citato “il totale disinteresse del genitore nei confronti del figlio, estrinsecatosi nella violazione degli obblighi connessi alla responsabilità genitoriale (cura, istruzione, educazione e mantenimento)”, precisando che ciò lede i diritti fondamentali sanciti dagli articoli 2 e 30 della Costituzione e nelle norme di diritto internazionale, che riconoscono “un elevato grado di riconoscimento e tutela”. Nella vicenda di Roma, il Tribunale ha ritenuto provato che il padre ha violato i diritti fondamentali della figlia, “pur essendo a conoscenza del possibile legame di filiazione”. Il giudice non ha ritenuto ammissibile il danno patrimoniale, per mancanza di prova specifica. Ma ha ritenuto raggiunta la prova del danno “al corretto sviluppo psicofisico”, violato “dalla mancata presenza del genitore nel percorso evolutivo”. Il danno deriva “dal dolore del figlio, dal suo turbamento, derivante dalla mancanza della figura paterna nell’arco della vita”. Tutto ciò, secondo il giudice, va valutato col “parametro della liquidazione equitativa di cui agli articoli 1226e 2056 del Codice civile” e in particolare coi criteri di liquidazione connessi alla morte di un genitore, diminuiti perché rispetto a questo caso il rapporto umano non è perduto per sempre. Il calcolo si basa sulle tabelle per la liquidazione del danno non patrimoniale in uso nel Tribunale di Roma: nel 2017, 9.443,50 euro per ogni punto. La morte del genitore è valutata 20 punti, aumentati di 5 per i minori. Applicando tali parametri, si è giunti ad una valutazione di 263.087,05 euro (compresi gli interessi). La somma senza interessi è stata poi abbattuta del 70% perché l’assenza dalla vita della figlia ne ha riguardato solo una parte. Riciclaggio di denaro, confisca non limitata al profitto personale Il Sole 24 Ore, 26 ottobre 2017 Corte di cassazione - Sentenza 25 ottobre 2017 n. 49003. Sì alla confisca per equivalente di una somma pari all’intera cifra “ripulita” attraverso le operazioni di riciclaggio a prescindere da quanto l’imputato abbia effettivamente trattenuto per sé. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza n. 49003 del 25 ottobre 2017, respingendo il ricorso di un uomo, esecutore delle operazioni, contro la sentenza del Gup di Messina che aveva disposto “la confisca per equivalente, dei beni oggetto di sequestro preventivo, fino ad 1,42 mln di euro, pari alle somme oggetto della contestazione di riciclaggio”. Secondo l’imputato invece siccome il profitto personale realizzato non superava il 3% dell’importo complessivo delle varie operazioni di riciclaggio perché il resto veniva restituito al dominus, il giudice “non poteva disporre il sequestro per equivalente dell’intera somma oggetto di riciclaggio”. Di diverso avviso la Suprema corte che nel respingere il ricorso ha chiarito che nel riciclaggio di denaro “il profitto del reato è costituito dall’intero ammontare delle somme “ripulite”. Per cui, il fatto che l’imputato abbia goduto solo in parte - nella misura del 3% - del profitto del riciclaggio, che sostanzialmente è stato incamerato dal dominus dell’operazione, suo coimputato, “non cambia la sostanza delle cose, vale a dire che l’intera somma riciclata costituisca il profitto del reato, di cui l’imputato ha goduto in concorso con gli altri coimputati”. Pertanto, conclude la decisione “correttamente il Gup ha disposto il sequestro per equivalente in misura pari all’ammontare delle somme riciclate”. Del resto, continua, la Cassazione ha statuito che “in caso di concorso di persone nel reato, la confisca “per equivalente” prevista dall’art. 648 quater cod. pen. può essere disposta per ciascuno dei concorrenti per l’intera entità del profitto”. Questo sulla base “sia del principio solidaristico che uniforma la disciplina del concorso di persone e che, di conseguenza, implica l’imputazione dell’intera azione delittuosa in capo a ciascun concorrente, sia sulla scorta della natura della confisca per equivalente, a cui va riconosciuto carattere eminentemente sanzionatorio”. Responsabilità enti: anche la società unipersonale “sanzionata” dalla 231 di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 26 ottobre 2017 Corte di cassazione - Sentenza 25 ottobre 2017 n. 49056. La natura unipersonale non “salva” la Srl, dall’applicazione della norma sulla responsabilità da reato dell’ente. Nè può evitare la condanna, prevista dalla legge 231/2001, l’assoluzione dal reato di corruzione dell’ex consigliere comunale che ha preso una mazzetta per influire con il suo voto, sul piano del governo del territorio, per rendere edificabili i terreni della società, cambiando la destinazione d’uso. La Cassazione (sentenza 49056) accoglie il ricorso del Pm e ribalta la sentenza di appello per la parte in cui aveva escluso la responsabilità dell’ente in virtù dell’assoluzione in secondo grado (annullata dalla Cassazione) dell’amministratore che aveva aiutato la società a beneficiare del plusvalore che i terreni in questione avevano acquisito “trasformandosi” da agricoli a edificabili. Una lettura corretta della 231, impone, infatti, di escludere che il legislatore abbia scelto un criterio di imputazione di “rimbalzo” dell’ente rispetto alla persona fisica. Né l’applicazione della norma può essere esclusa dalla forma unipersonale della società. La 231 è, infatti, riferita agli enti, definizione nella quale si devono comprendere tutti i soggetti di diritto non riconducibili alla persona fisica. Un’interpretazione che vale indipendentemente dal conseguimento o meno della personalità giuridica e a prescindere dall’esistenza di uno scopo lucrativo. A supporto della sue lettura la Cassazione cita l’articolo 1 comma secondo della norma che si riferisce agli “enti forniti di personalità giuridica e... associazioni anche prive di personalità giuridica”. E, se il presupposto per sanzionare gli enti è l’esistenza di un soggetto “meta-individuale” come centro di interessi e rapporti giuridici, tra i destinatari deve rientrare anche la società che fa capo a un unico socio. Genova: record sovraffollamento nel carcere di Marassi, 680 detenuti su 465 previsti di Stefano Origone La Repubblica, 26 ottobre 2017 La denuncia arriva dal sindacato Uil della polizia penitenziaria: “Poca sicurezza, gli agenti sono 258 e dovrebbero essere 452”. Il carcere di Marassi torna a raggiungere un record per quanto riguarda il sovraffollamento nel 2017: 680 i detenuti presenti nella struttura, a fronte di una capienza massima di 456. A lanciare l’allarme il sindacato Uil della polizia penitenziaria: “L’incremento medio è di circa 30 unità ogni 15 giorni. Il drammatico sovraffollamento incide anche negativamente sulla sicurezza interna che non può essere certamente garantita dall’esiguo contingente di agenti. Dovremmo essere in 452, ma invece siamo solo 258 - ha spiegato Fabio Pagani, segretario Uil - ed è per questo che chiediamo il reintegro immediato dei colleghi che sono stati distaccati senza motivo”. Celle stracolme significano anche tentativi di suicidio. “Un detenuto ha provato a darsi alle fiamme. Chiediamo al ministro Orlando un intervento - ha concluso Pagani -, se dovessimo registrare ancora silenzio ed indifferenza quella della protesta sarebbe un percorso inevitabile. Aggiungo che l’amministrazione penitenziaria impone servizi straordinari e poi non provvede a pagarli”. Asti: fu tortura, dopo 13 anni la Cedu ripristina la giustizia di Andrea Oleandri* Ristretti Orizzonti, 26 ottobre 2017 Al carcere di Asti fu tortura. A chiarire definitivamente ciò che Antigone ha sempre sostenuto, anche come parte civile, è stata oggi la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che, per l’ennesima volta, ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 della Convenzione europea sui diritti umani, per le violenze e le torture subite da due detenuti nell’istituto di pena del capoluogo piemontese. Il caso oggetto della sentenza odierna risale a ben 13 anni fa. Nel dicembre 2004 infatti i due detenuti vennero condotti nelle celle di isolamento prive di vetri nonostante il freddo intenso, senza materassi, lenzuola, coperte, lavandino, sedie, sgabello. Gli venne razionato il cibo, impedito di dormire, furono insultati e sottoposti nei giorni successivi a percosse quotidiane anche per più volte al giorno con calci, pugni, schiaffi in tutto il corpo e giungendo, nel caso di uno dei due, a schiacciargli la testa con i piedi. La vicenda giudiziaria ebbe inizio a seguito di due intercettazioni nel febbraio del 2005 nei confronti di alcuni operatori di polizia penitenziaria sottoposti a indagine per altri fatti. Il 30 gennaio 2012 si arrivò alla sentenza di primo grado. Il giudice scrisse nelle motivazioni che i fatti avvenuti nel carcere erano vere e proprie torture, ma non essendoci in Italia una legge che le punisse si dovette procedere con la contestazione di reati di più lieve entità e quindi verso i colpevoli di queste violenze, per varie ragioni, non si poté procedere. Nel frattempo uno dei due detenuti è deceduto. “Per lunghi anni in Italia non c’è stato modo di avere giustizia - dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. Ancora una volta abbiamo dovuto aspettare una decisione europea. Questo è un caso di tortura in prigione. Ci auguriamo che ci sia una presa di coscienza e che non ci sia impunità per i responsabili. Ricordiamo - prosegue Gonnella - che nei prossimi giorni l’Italia andrà sotto osservazione dinanzi al Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura. Al di là di questo caso singolo noi chiediamo: che sia adottato un codice di condotta per i comportamenti in servizio di tutti gli appartenente alle forze dell’ordine; che ci sia sempre l’identificabilità di tutti coloro che svolgono compiti nei settori della sicurezza e dell’ordine pubblico; che si interrompano le relazioni sindacali con quelle organizzazioni che difendono, anche in sede legale, i responsabili di questi comportamenti; che dinanzi a questi casi lo stato si costituisca parte civile”. Nei mesi scorsi Antigone aveva ricostruito il caso del carcere di Asti attraverso una time-line con i passaggi più importanti della vicenda *Ufficio Stampa Associazione Antigone Biella: “evasioni evitate solo grazie ai detenuti”, e scoppia la bagarre politica di Stefano Zavagli La Stampa, 26 ottobre 2017 I detenuti del carcere di Biella “non sono evasi perché non volevano evadere”. La frase, pronunciata provocatoriamente dalla consigliera Greta Cogotti per riassumere quanto esposto dalla garante dei detenuti Sonia Caronni in commissione consiliare a Biella, ha sollevato un caso politico ma ha anche riacceso i riflettori sulla mancanza di sicurezza nelle carceri in Italia e nella fattispecie su quanto accade nella casa circondariale di Biella. Secondo Andrea Delmastro (Fratelli d’Italia) “con questa affermazione è stato svilito il ruolo della polizia penitenziaria, e la garante dei detenuti farebbe bene a dimettersi. Non è possibile che in Italia i detenuti non evadano per scelta”. Tutto parte da un incontro in Comune a Biella sulla situazione del carcere. Durante il mese di agosto tra ferie, agenti in mutua, altri in sciopero per protesta e carenze di organico, ci sarebbero stati turni di notte in cui per 400 detenuti erano in servizio due soli agenti di polizia penitenziaria. “Abbiamo rasentato momenti di vera crisi - spiega la garante dei detenuti Sonia Caronni, e in commissione ho spiegato che i detenuti hanno evitato di far succedere un disastro. La mia frase è stata però strumentalizzata, l’intento non era quello di ledere la professionalità di alcuno, ma solo di mettere in risalto la criticità che sta attraversando il carcere di Biella”. La frase ha però subito irritato i consiglieri, in primis l’ex assessore Andrea Delmastro: “Se quanto riferisce la garante corrisponde al vero è gravissimo. Ma Fratelli d’Italia non crede a quanto è stato affermato. Credo sia necessario un chiarimento urgente da parte del direttore della Casa circondariale per confortare i cittadini di Biella sulla tenuta del carcere”. La grave carenza di organico della polizia penitenziaria è un tema trattato a più riprese dalla Lega Nord a livello parlamentare e in particolare dal deputato Roberto Simonetti che annuncia, dopo quanto è emerso in commissione a Biella, di presentare una nuova interrogazione a Roma: “Siamo giunti al punto che si tessono le lodi dei detenuti che non sono evasi nonostante, a detta della Caronni, ci fossero solamente due agenti di custodia di fronte a 400 reclusi. Non si può più tollerare una così marcata mancanza di rispetto per le forze dell’ordine che in perenne sotto-dimensionamento di organico devono sopperire personalmente alle falle organizzative e politiche del governo. Mi auguro che il ministro risponda all’interrogazione e che adotti provvedimenti per aumentare la sicurezza del nostro carcere”. Napoli: gli ex detenuti ripuliscono Poggioreale e Gianturco di Fabrizio Ferrante napolitoday.it, 26 ottobre 2017 Partito ieri mattina il progetto di Antonio Cardone che coinvolge gli ex detenuti organizzati di Pietro Ioia. Spesso si dice che quando la mano pubblica non basta, è necessario che il terzo settore dia una mano. È quanto sta accadendo a Napoli dove l’iniziativa di un’associazione sta contemporaneamente portando in dote riqualificazione del territorio e reinserimento sociale degli ex detenuti. Antonio Cardone, responsabile di “I bar academy”, associazione che si occupa di formazione nel campo della ristorazione a tutto tondo, ha messo a disposizione una quota residuale di fondi impiegati per precedenti progetti (svolti assieme alla Regione) investendoli in un’iniziativa che coinvolge anche gli ex detenuti organizzati di Pietro Ioia. Da Stamattina e fino a martedì 31 ottobre, infatti, sette cittadini ex ristretti ripuliranno e riqualificheranno le vie e le aree verdi del quartiere di Poggioreale e della zona di Gianturco, a cominciare dal rione Luzzatti. “Èuna bellissima iniziativa che dimostra come prima o poi qualcosa di buono può arrivare se ci si continua a impegnare e se non si perde la speranza”, ci ha detto un entusiasta Pietro Ioia che ha posto in evidenza come il lavoro dei sette ex detenuti sia retribuito e come ciò contribuisca a favorire non solo il reinserimento sociale ma anche un recupero di autostima in chi è coinvolto in un progetto simile. “La paga - ha spiegato Antonio Cardone - è di circa 30 euro al giorno per mezza giornata lavorativa. Si comincia alle 8 e si finisce alle 11:30. Ho fortemente voluto questo progetto, dopo altri già messi in campo con il patrocinio della Regione e della Fondazione di Comunità, per garantire sia una pulizia ordinaria delle strade del nostro quartiere che per andare incontro alle esigenze di persone bisognose”. Il discrimine per scegliere i lavoratori si è infatti basato su chi avesse maggiori difficoltà e necessità di partecipare, in virtù della propria condizione. Cardone ha inoltre spiegato che l’attività avrà luogo a giorni alterni da questa mattina fino a martedì 31 ottobre, per quello che può essere considerato un esperimento che sarebbe da copiare e da esportare in altre zone della città, dove pure non vengono garantiti spazzamento e in generale decoro urbano. I sette ex detenuti, ha inoltre spiegato Cardone: “Sono regolarmente pagati e contrattualizzati, dunque ricevono ogni forma di tutela. Di fatto è come se fossi un imprenditore e loro i miei dipendenti, con contratti stipulati con la mia associazione, ritenute d’acconto, tutte le coperture del caso e un compenso di circa 30 euro al giorno”. Un progetto che durerà sì pochi giorni ma nelle intenzioni di Cardone potrebbe portare alla nascita di una cooperativa col fine di mantenere impegnati i lavoratori ex detenuti anche a iniziativa conclusa. Di sicuro questo progetto non risolverà l’annoso problema degli spazzamenti per le vie di Napoli, né della zona tra Gianturco e Poggioreale, cara a Cardone e allo stesso Ioia, da cui si è partiti stamattina. Tuttavia, è la dimostrazione di quanto occorra un reinserimento socio-lavorativo sia per dare un futuro a persone in difficoltà che per evitare ritorni ad attività i cui esiti riportano spesso al punto di partenza: il carcere. Al momento, però, la politica fa orecchie da mercante lasciando l’onere a poche associazioni e a un volontariato sempre generoso ma pur sempre insufficiente per raccogliere le tante sfide della post detenzione, in una città come Napoli dove il lavoro (come la sanità e altro) sono un problema anche per chi in carcere non c’è mai finito. Verbania: “molti detenuti chiedono di lavorare”, il punto con la Garante Silvia Magistrini di Mauro Rampinini Corriere di Novara, 26 ottobre 2017 Sono 67 i detenuti ospiti del carcere in via Castelli. Di questi, 34 sono comuni, in prevalenza residenti a Verbania e provincia; 12 gay condannati per reati sessuali, 11 stalker, 10 ex-appartenenti alle forze dell’ordine. Di questi soltanto 13 lavorano: 5 alla pasticceria della “Banda Biscotti” o al ristorante sociale di villa Olimpia gestito dalla cooperativa “Divieto di Sosta”, 8 in lavori interni (pulizia, piccole manutenzioni) all’interno del carcere. A fornire i numeri, venerdì durante la serata informativa “Parliamo di carcere. Il punto sulla situazione dell’esecuzione penale in Italia”, è stata la garante dei detenuti del comune di Verbania, Silvia Magistrini. “La gran parte detenuti - ha spiegato - chiede di poter lavorare. Purtroppo, sia per la crisi economica che per i tagli all’amministrazione penitenziaria, le possibilità sono ridotte al minimo”. Il carcere di Verbania, inoltre, ha un’altra particolarità, ha aggiunto Magistrini: “In controtendenza con la media nazionale, e in forma più accentuata rispetto a quella piemontese, i detenuti a Verbania sono in maggioranza italiani. E, fra gli stranieri, prevalgono gli ucraini e altre nazionalità dell’ex-Unione sovietica. Non i magrebini o nazionalità africane come nel resto d’Italia”. Questo facilita l’integrazione fra condannati a diverse pene, è intervenuto il comandante del carcere, Domenico La Gala. Non fra i comuni e gli altri, che devono essere per legge separati, ma tra quelli che la normativa impone vivano separatamente dagli altri: “È accaduto ad esempio che un sex offendere e uno stalker abbiano deciso di dividere la cella. Certo, la condivisione degli spazi con i detenuti comuni non è possibile”. Che la situazione a Verbania sia migliore rispetto alla media l’ha riconosciuto Bruno Mellano (Radicali Italiani), già consigliere regionale e deputato (lista Bonino), oggi garante dei detenuti della Regione Piemonte: “Qui è stato possibile ristrutturare le celle dotandole di docce, a differenza di altri istituti in cemento armato i cui bagni versano in condizioni tali che l’Asl responsabile di quei territori, se facesse un sopralluogo, li dichiarerebbe inagibili. Il problema è quello della mancanza di spazi per poter svolgere attività all’interno del carcere che il personale di custodia non è in grado di risolvere”. A dare una mano ci sono i volontari dell’associazione “Camminare insieme”. “Noi - ha raccontato la presidente, Anna Maria Gadda - facciamo quel che possiamo. Forniamo i generi di prima necessità ai più indigenti che non hanno nemmeno i ricambi d’abito. Organizziamo la biblioteca, il cineforum, cerchiamo di portare il carcere fuori dalla città. Di combattere il pregiudizio dei più che ci dicono “Ma con tutto il bene che c’è da fare, proprio a quelli dovete dare una mano!”. Ogni tanto arriva qualche soddisfazione. Come quel sex-offender che, dopo un colloquio con la psicologa m’ha detto, e mi scuso per il linguaggio forte ma sono le sue esatte parole: “Finalmente ho capito che le donne sono solo da picchiare e da f…”. Mi piace pensare che quando tornerà libero ne terrà conto”. A portare i saluti del comune, a inizio serata, Marinella Franzetti, vicesindaco e assessore alle Politiche sociali, che da presidente del Gruppo Abele di Verbania ha al suo attivo diversi anni di volontariato all’interno del carcere. Cagliari: Caligaris (Sdr) denuncia “a Uta mancano anche i farmaci per le piattole” cagliaripad.it, 26 ottobre 2017 “Gli antiparassitari sono farmaci indispensabili in comunità in cui vige la convivenza forzata. Non dovrebbero mai mancare quindi in un Istituto Penitenziario. La loro disponibilità per un’immediata somministrazione evita infatti che possano verificarsi situazioni che determinano la necessità di ricorrere all’isolamento delle persone. Nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta però alcuni farmaci, compresi gli antiparassitari, non sono costantemente disponibili con conseguenze negative per tutti”. Lo sostiene la presidente di “Socialismo Diritti Riforme”, Maria Grazia Caligaris, che si è fatta interprete del grave disagio segnalato all’associazione dai familiari dei detenuti e dai reclusi. “Le carenze degli antiparassitari - precisa Caligaris - si aggiungono a quelle, peraltro già segnalate, dei preparati destinati a contenere i disturbi dell’umore come stabilizzatori o tranquillanti. La vita dei cittadini privati della libertà all’interno delle strutture penitenziarie è particolarmente esposta al vacillare di equilibri spesso raggiunti con grande difficoltà. Basta poco quindi per generare situazioni critiche che talvolta diventano a catena. La disponibilità non costante dei farmaci di fascia C, a cui i detenuti hanno diritto, e degli antiparassitari, genera situazioni di profondo disagio, coinvolgendo talvolta l’intera comunità che contempla gli operatori penitenziari nella loro interezza”. “È necessario quindi - conclude la presidente di Sdr - prevedere adeguate scorte di questi farmaci e antiparassitari ed evitare che si debba incorrere in situazioni di emergenza costringendo chi lavora agli acquisti all’ultimo secondo per evitare conseguenze peggiori. Anche se la spesa sanitaria regionale è sempre fuori quota non ci risulta che su questi aspetti si sia potuto pensare di fare risparmi”. Avellino: il Garante regionale in visita al carcere di Sant’Angelo dei Lombardi avellino.zon.it, 26 ottobre 2017 Il Garante dei diritti dei detenuti campani, Samuele Ciambriello, si è recato ieri, insieme a due collaboratrici dell’ufficio del garante, in visita al carcere di Sant’ Angelo dei Lombardi, dove attualmente sono ristretti 157 detenuti. Ha incontrato il direttore Massimiliano Forgione, i tre nuovi educatori dell’area educativa e il comandante della polizia penitenziaria. Successivamente ha visitato tutte le sezioni del carcere incontrando i detenuti, con alcuni dei quali ha avuto colloqui individuali. Alla fine della visita ufficiale all’istituto penitenziario ha dichiarato: “Un plauso, per le attività lavorative interne al carcere, dove ci sono 70 lavoranti e 15 detenuti in art 21 ammessi a lavorare all’esterno della circondariale, per i quali c’è una sezione dedicata, che offre spazi collettivi e possibilità di relazionarsi con umanità. L’immissione delle tre educatrici, assegnate da oggi all’istituito, offre un vantaggio trattamentale per i reclusi”. “Ho saputo dalla direzione della richiesta fatta al Provveditore regionale penitenziario, per la possibilità di accogliere altri 30 detenuti, da istituti in sovraffollamento per un progetto di formazione, che vede coinvolti i ristretti fino al 29anno di età, di orientamento al lavoro attraverso Garanzia giovani. Sant’Angelo Dei Lombardi è una struttura di reclusione a misura d’uomo” chiude la nota il Garante. Bollate (Mi): il detenuto e l’occasione di riscatto dall’incontro con un cavallo di Roberta Rampini Il Giorno, 26 ottobre 2017 La storia di un 42enne e il percorso di “empatia”. “Sicuramente il lavoro con i cavalli ha avuto benefici sul mio stato d’animo. Quando me lo hanno proposto ero un po’ scettico, ma in questi mesi ho acquisito una capacità di prendermi cura e relazionarmi con i cavalli che mi ha aiutato molto”. Quarantadue anni, italiano, Marco (nome di fantasia) è arrivato nel carcere di Bollate lo scorso gennaio. Marco è uno dei 12 detenuti che hanno partecipato allo studio sull’empatia finanziato dall’Università Statale di Milano, realizzato in collaborazione con il Sert della casa di reclusione milanese, che aveva come obiettivo dare una “veste” scientifica a quello che succede nell’interazione tra detenuti e cavalli. “Fuori dal carcere non ho mai avuto nessun tipo di rapporto con i cavalli - racconta il detenuto - qui per tre mesi, sei ore al giorno, ho lavorato nel maneggio dove mi hanno insegnato a relazionarmi con l’animale, capire le sue emozioni, prendermi cura di lui. Ma anche a collaborare con gli altri detenuti che lavorano con me, rispettare regole e orari”. A portare i cavalli in carcere, dieci anni fa, è stato Claudio Villa, presidente dell’Associazione Oltre il Muro. Il suo progetto ancora oggi è unico in Europa. Qualcuno lo ha definito “l’uomo che sussurrava ai cavalli” e lui con un certo orgoglio racconta: “Sono entrato in carcere con i cavalli con l’idea di proporre dei corsi di formazione professionale per i detenuti, ma poi sono rimasto affascinato e colpito dalle relazioni che si stabilivano tra detenuti e cavalli - racconta Villa. Lo dico da anni che si tratta di una relazione con moltissimi aspetti positivi per entrambi e sono contento che oggi anche gli studi confermino la mia intuizione”. E così ieri mattina la scuderia è diventata un’aula universitaria dove per qualche ora studenti, addetti ai lavori e professori, hanno ascoltato come è stato condotto lo studio e le considerazioni finali. Dodici i detenuti che durante i tre mesi sono stati “osservati” e ripresi con video, prima e alla fine del corso di maniscalco. Lo studio ha registrato anche i cavalli: i cambiamenti ci sono stati per entrambi, sia nelle modalità di approccio, sia a livello individuale che di gruppo. E per esempio i detenuti “non fanno le cose perché devono farle, ma cambiano emozioni e comportamenti”. L’empatia tra detenuti e cavalli, dietro alle sbarre, da sensazione intuitiva è diventata un dato clinico-scientifico che fa scuola. Roma: Sara e le altre, i tanti volti della violenza sulle donne alla Festa del Cinema di A.B. giustizia.it, 26 ottobre 2017 Film, documentari, dibattiti, incontri con autori, registi e protagonisti nella finzione e nella realtà: la XII Festa del Cinema di Roma, al via oggi all’auditorium Parco della musica e in altri luoghi della capitale, dedica uno spazio speciale al tema della violenza sulle donne a testimoniare un impegno sentito e continuo nella lotta ad un fenomeno dalle dimensioni preoccupanti, nonostante gli interventi normativi degli ultimi anni. Tre le opere, diverse per generi e approccio narrativo, in programma negli “Altri eventi “ al Maxxi di Via Guido Reni, 4. Prevalente la chiave giudiziaria nel cortometraggio Uccisa in attesa di giudizio, regia di Andrea Costantini con Ambra Angiolini e Alessio Boni, ispirato alla campagna “Stop alle donne che muoiono in attesa di giudizio” promossa dalla Fondazione Doppia Difesa di Giulia Bongiorno e Michelle Hunziker. Dopo la proiezione di mercoledì 1 novembre alle 11, si svolgerà un incontro con le promotrici della campagna e con altre donne impegnate nella lotta contro la violenza di genere. La vicenda di Sara Di Pietrantonio, la studentessa strangolata e bruciata dal suo ex fidanzato nel maggio 2016, è invece ricostruita nel documentario Sara diretto da Stefano Pistolini e Massimo Salvucci. Attraverso interviste e testimonianze gli autori cercano non solo di descrivere i fatti ma anche di individuarne le cause. Al termine della proiezione, che si terrà domenica 29 ottobre alle 17, Concetta Raccuia (mamma di Sara),la scrittrice Dacia Maraini, la senatrice Francesca Puglisi (Presidente Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio), Daniele Autieri (coautore della sceneggiatura) commenteranno il documentario con il pubblico. Elisabetta Lodoli in “Ma l’amore c’entra?”, in programma il 3 novembre alle 21,30, esplora il tema sul piano psicologico e relazionale di uomini maltrattanti ma che hanno scelto di affrontare il proprio lato oscuro. Paolo, Luca, Giorgio (persone reali con nomi di fantasia), diversi per età, origine e carattere, si incontrano nel centro Ldv (Liberiamoci dalla violenza) - Azienda Usl di Modena a cui si sono rivolti perché le loro compagne, dopo i primi gesti violenti, non hanno ceduto a pentimenti e scuse, ma hanno preteso da loro un impegno concreto a cambiare. Durante le interviste, i tre ripercorrono gli stati d’animo e i comportamenti che, in un crescendo di tensione, li hanno portati a varcare il limite. Da una parte, dunque, donne consapevoli e determinate, dall’altra uomini che hanno riconosciuto e temuto il proprio potenziale distruttivo. Una strada terapeutica resa possibile da un servizio ancora considerato innovativo, benché “Liberiamoci dalla violenza”, prima struttura pubblica per il trattamento degli uomini maltrattanti, sia stata aperta nel 2011. Oggi questi centri in Italia sono ancora solo venti (di cui quattro in Emilia Romagna e cinque in Lombardia), nonostante l’esperienza dimostri quanto l’intervento terapeutico, precedente o complementare a quello repressivo, sia utile nel prevenire gesti di violenza o ridurre condotte recidivanti. È di pochi giorni fa la notizia che due giudici di sorveglianza milanesi hanno emesso un’“ingiunzione terapeutica” ad un sorvegliato speciale, obbligandolo a seguire un percorso clinico terapeutico presso il Cipm-Centro italiano per la promozione della mediazione diretto dal criminologo Paolo Giulini (che in dodici anni ha trattato in carcere 248 condannati per reati sessuali) per prendere coscienza dell’offensività e del disvalore sociale dei suoi comportamenti nei confronti di alcune donne. Iniziative in tema anche nell’istituto penitenziario femminile di Roma Rebibbia, nuovo spazio cittadino raggiunto dalla Festa del Cinema. Nella sala “Melograno”, il 3 novembre alle 11, sarà proiettato il cortometraggio SalviAmo la faccia, realizzato dalle donne recluse con la regia di Giulia Merenda, nell’ ambito dell’omonimo progetto contro la violenza di genere e per l’empowerment femminile, sostenuto dal Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio, dal Cpia 1 di Roma (Centro Provinciale Istruzione Adulti) e da Ossigeno per l’informazione A ricordare la violenza subita sono donne provenienti dall’Africa, dall’Europa dell’Est, dall’America Latina ma anche da un quartiere romano. Raccontano come in passato non si sono “salvate la faccia” subendo soprusi e di come invece “se la salvano oggi - dice la regista - conquistando consapevolezza, solidarietà e forza”. L’evento rientra nel programma di proiezioni, incontri, spettacoli in live streaming per il pubblico esterno della Festa del Cinema a Rebibbia 2017, realizzata per il secondo anno da La rIbalta - Centro Studi Maria Salerno in collaborazione Ministero di Giustizia e l’Università Roma Tre. Ad inaugurarla, il 30 ottobre alle 20,30, lo spettacolo teatrale Hamlet in Rebibbia, interpretato dai detenuti attori guidati da Fabio Cavalli, che sarà trasmesso in diretta live dal Carcere di Roma Rebibbia N.C., alla Sala del Maxxi, e in numerosi teatri e istituti penitenziari italiani. E, se protagonista è un Amleto di oggi “emblema universale della dialettica fra Vendetta e Giustizia”, chissà che anche l’Ofelia oppressa per obbedienza e amore estremi; non conservi un tratto di sconsolante attualità. “Reclusi. Il carcere raccontato alle donne e agli uomini liberi” di Cristiana Chiej stateofmind.it, 26 ottobre 2017 Recensione del libro di Anna Paola Lacatena e Giovanni Lamarca, edito da Carocci (2017). Obiettivo e merito del volume sono di dare accesso a una realtà spesso esclusa dalla società, relegata ai margini e ad icone stereotipiche. Il carcere è un luogo fuori dal mondo, un non-luogo che diventa contenitore del disagio, di ciò che la società tende a espellere, spesso senza interrogarsi troppo su quale davvero dovrebbe essere la sua funzione. Ho lavorato in carcere per sette anni e quello che ho imparato a conoscere è un mondo molto diverso da quello che mi aspettavo di trovare quando, con una certa diffidenza, sono entrata la prima volta. Quello che ho scoperto è un mondo fatto innanzi tutto di persone: sembrerà banale ma stupisce camminare per quegli infiniti corridoi tetri e spogli e incontrare non carcerati e carcerieri ma persone come tutti noi alle prese con piccoli e grandi problemi del vivere di tutti i giorni. Obiettivo e merito del volume Reclusi. Il carcere raccontato alle donne e agli uomini liberi sono di dare accesso a una realtà troppo spesso esclusa dalla consapevolezza della società e relegata ai margini, ad icone stereotipiche o a notizia sensazionalistica solo quando qualche evento drammatico costringe il mondo a confrontarvisi. Attraverso le pagine scritte da Lacatena e Lamarca, rispettivamente sociologa del Dipartimento Dipendenze Patologiche dell’ASL di Taranto e Comandante del Reparto di Polizia Penitenziaria della casa circondariale “Carmelo Magli” di Taranto, emerge un quadro di vita quotidiana in cui tutta la schiera di vissuti umani è rappresentata. I detenuti e gli operatori che lavorano in carcere vivono ogni giorno confrontandosi con necessità che vanno dalle più banali legate alla sopravvivenza a quelle più squisitamente esistenziali, costretti a trovare una dimensione possibile in un contesto in cui la libertà di cui si viene privati non è solo quella di uscire dalle mura, ma riguarda quasi ogni decisione, ogni aspetto del vivere. Gli autori cercano di far conoscere questo mondo “altro” con le sue complessità, le sue regole, il suo linguaggio e i suoi attori, andando oltre una visione semplicistica in cui il detenuto è concepito come pericoloso criminale o vittima del sistema. Il volume è organizzato in due parti: la prima narra cos’è il carcere, quali sono le sue dinamiche, la sua organizzazione anche in relazione a particolari categorie di detenuti, come sono strutturati gli istituti, chi lavora nel carcere e quali sono le peculiarità e criticità del mondo penitenziario. In questa prima parte vengono anche approfonditi alcuni temi critici legati a particolari categorie di detenuti: soggetti con una dipendenza da sostanze, donne e stranieri. La seconda parte dell’opera dà invece voce ai protagonisti attraverso gli strumenti che hanno a disposizione: domandine, rapporti, reclami, lettere. Tutto ciò che concerne la vita intramuraria, come il lavoro, l’istruzione e le attività culturali, sportive e ricreative, la sfera religiosa, gli spazi fisici, la salute fisica e psicologica, la necessità di coniugare bisogni e diritti delle persone recluse con le esigenze di ordine e sicurezza, fino al delicato tema dei legami affettivi e della sessualità negati, viene raccontato dagli autori e poi attraverso documenti scritti da detenuti e operatori alla prese con la difficile gestione della quotidianità in un ambiente come quello penitenziario. Il volume, nei suoi ultimi capitoli, affronta poi il tema di come il carcere trova rappresentazione nel mondo esterno: non solo vengono proposti elenchi di film, opere d’arte e canzoni che in qualche modo raccontano il carcere, ma viene anche raccontata la progressiva attenzione che il giornalismo gli ha dedicato, anche nella sua dimensione deontologica nel trattare informazioni riguardanti persone che necessitano di una tutela privilegiata, come quelle private della libertà. In appendice gli autori inseriscono alcuni interessanti documenti che illustrano ulteriormente il mondo “dentro”: un glossario che aiuta ad orientarsi nella vita del penitenziario attraverso il suo specifico linguaggio, una guida elaborata da alcune detenute del carcere di Rebibbia con espedienti utili alla vita quotidiana per fronteggiare l’indisponibilità di alcuni prodotti all’interno del carcere, la “Carta dei diritti e dei doveri dei detenuti e degli internati” e il documento finale degli Stati Generali sull’esecuzione penale del 2016. Un’opera del genere non può non partire da una riflessione sul ruolo del carcere nella società: il compito della giustizia non è la vendetta e il carcere non può e non deve essere concepito solo come punizione, ma soprattutto, come recita anche la nostra Costituzione, come occasione di rieducazione e reinserimento sociale, nel rispetto della dignità umana. È necessario prima di tutto occuparsi di persone e dei loro bisogni, anche in considerazione del fatto che un’ottica puramente coercitiva non è e storicamente non è mai stata efficace per affrontare e prevenire la devianza alle norme che reggono una società. Cosa significa vivere in carcere e quali sono i suoi effetti sulle persone? Nonostante sia il sistema più usato nel corso della storia per far fronte alla devianza, l’analisi sociologica ci illustra come da sempre il carcere non svolga un ruolo di deterrente dal commettere reati né abbia un reale potere rieducativo, ma al contrario tenda a produrre criminali ancora più incalliti, funzionando come vera e propria scuola di criminalità. L’effetto è, infatti, quello di “prigionizzare” i detenuti, spingendoli ad assumere tradizioni, modi e abitudini propri unicamente della cultura penitenziaria, nettamente separati e in contrasto con i modelli promossi nel mondo esterno. Lacatena e Lamarca portano dati e considerazioni che sottolineano come solo attraverso un programma teso a ristabilire le capacità di interazione sociale, incentivando il lavoro e altre attività tese ad un processo di recupero e di empowerment della persona reclusa, favorendo le relazioni con l’esterno sarà possibile una piena rieducazione e risocializzazione. Altrimenti il carcere rimarrà un contenitore in cui gettare soprattutto piccoli delinquenti e persone provenienti da fasce più disagiate della popolazione con l’effetto di sedare le ansie e permettere, più che una reale sicurezza, la maggiore percezione della stessa da parte del mondo esterno. Le politiche degli ultimi anni, con fasi altalenanti, hanno portato, infatti, ad una composizione particolare della popolazione detenuta, costituita da una significativa percentuale di stranieri e persone tossicodipendenti, contribuendo al problema del sovraffollamento. Nonostante i dati reali non giustifichino eccessivi allarmismi e paure, di fatto esiste una discriminazione che deriva dalla povertà economica, sociale e culturale che spinge alla marginalità. Gli stranieri sono puniti per reati meno gravi rispetto agli italiani, sono maggiormente sottoposti a custodia cautelare e hanno minore accesso a misure alternative. Allo stesso modo il ricorso alla pena detentiva è ancora troppo praticato per persone tossicodipendenti, nonostante sia stata introdotta ormai dagli anni ‘80 la misura alternativa di affidamento in prova ai Servizi Sociali. Il senso di queste misure non è e non deve essere quello di uno sconto di pena o premio, ma di uno strumento di riabilitazione e rieducazione più idoneo per questi soggetti. Il carcere, inoltre, non rappresenta un deterrente per questo tipo di reati, anzi l’effetto criminogeno dell’ambiente penitenziario si combina alla diminuzione della sensibilità rispetto all’afflittività della pena, tanto che si registra un tasso del 68% di recidive, a fronte del 18% di chi ha usufruito di pene alternative. Per questo il maggior ricorso a misure alternative avrebbe indubbi vantaggi economici e di sicurezza per la società. Gli spazi in carcere rappresentano una questione centrale e spinosa. Nel 2013 la “Sentenza Torreggiani” ha condannato l’Italia per la violazione dell’art.3 della Convenzione europea che stabilisce il divieto di tortura, pene o trattamenti inumani o degradanti, imponendo un adeguamento delle strutture per far fronte in maniera idonea e sufficiente al problema del sovraffollamento. Nonostante nel corso degli anni successivi siano stati emanati provvedimenti e norme a tale proposito, di fatto non hanno ancora trovato piena attuazione e il sovraffollamento resta una seria difficoltà per la popolazione detenuta. Non è solo una questione di metri quadri a disposizione: l’ambiente fisico e sociale ha un’enorme influenza su pensieri, sentimenti e percezioni. Gli spazi angusti, la convivenza forzata, le condizioni in termini di igiene, illuminazione, ecc. in cui i reclusi trascorrono la loro vita sono spesso all’origine di reazioni crescenti di collera, disagio, paura, infelicità che possono esitare in aggressività verso se stessi e gli altri. Secondo gli autori “ridefinire l’architettura delle nostre carceri e contenere il più possibile il numero dei detenuti presenti al loro interno è una priorità ineludibile per ragioni umane e, non ultima, di spesa sanitaria” (p. 240). Le numerose criticità del sistema penitenziario emergono prepotentemente quando si considera la questione della salute fisica e mentale. La vita della prigione, con i suoi spazi, la promiscuità, accentuata dal sovraffollamento, il più difficile accesso alle cure, la scarsa igiene, oltre alla privazione della libertà, comporta spesso gravi conseguenze per la salute dei detenuti. La detenzione è un evento altamente stressante che priva la persona di risorse basilari, generando vissuti di impotenza e mancanza di speranza per il futuro. L’ambiente carcerario può amplificare precedenti disagi fisici e psichici, orientandoli verso condotte autolesive, ma anche il solo trovarsi in tale contesto genera grandi sofferenze. Il carcere è un luogo che crea, infatti, rischio suicidario: la percentuale dei suicidi in carcere è di 12 volte superiore a quella della vita libera. Nonostante dopo la “sentenza Torreggiani” qualcosa sia cambiato e da diversi anni sia stato istituito un servizio atto ad accogliere tutti i nuovi giunti per individuare più facilmente i detenuti a rischio, l’ambiente carcerario rappresenta una grande sfida per le capacità di adattamento di una persona e il corpo rischia di diventare l’unico elemento attraverso cui esercitare controllo contro il senso di impotenza e passività. Ciò che gli autori del volume sottolineano con forza è la necessità di rafforzare l’intero sistema di ascolto e attenzione alle esigenze della persona detenuta. Non un criminale, non un recluso, non qualcuno da “gestire” per le sfide che comporta alle esigenze di ordine e sicurezza dell’organizzazione penitenziaria, ma una persona con sentimenti, pensieri, bisogni e fragilità. Solo attraverso un maggiore ascolto orientato al bisogno, incentivando il lavoro e la percezione di utilità e riparazione attraverso la pena, coltivando le relazioni col mondo esterno e privilegiando le misure alternative alla detenzione sarà possibile mirare davvero alla rieducazione del reo, creando le condizioni di sicurezza per un rilascio alla vita libera. La pena, compresa la reclusione, può davvero essere occasione di riabilitazione, a patto però che non venga intesa come spazio in cui riversare ciò che la società non riesce ad integrare, ma come momento in cui permettere al condannato di intraprendere un processo di recupero, creando un ponte con il “dopo” e favorendo la reintegrazione a fine pena. Una simile prospettiva, che privilegia la reale efficacia alla spettacolarità della punizione, avrebbe indubbi vantaggi in termini di sicurezza e costi soprattutto per la società nel suo insieme. Dal carcere al set di Suburra: la vita (incredibile) di Adamo Dionisi di Giacomo Di Stefano radiocolonna.it, 26 ottobre 2017 Intervista a Manfredi Anacleti di Suburra, lo “zingaro” sanguinario della serie prodotta da Netflix. Lo chiamavano “er Marchese” per quel modo un po’ galante di esprimersi e di vivere la vita. La militanza come capo ultras della Lazio, le trasferte, poi il buio, l’arresto, la detenzione e la rinascita con il teatro, il cinema e Suburra. La vita di Adamo Dionisi, classe 1965, romano della Magliana è già un film. Cadute e risalite che forse non sarebbe stato in grado di affrontare neanche il tostissimo e sanguinario Manfredi Anacleti, lo “zingaro” di Suburra interpretato proprio da Dionisi. Il ragazzotto spavaldo che girava l’Italia con gli Irriducibili ha sempre scritto sceneggiature, recita a teatro ed è un cultore e uno studioso della musica popolare. Odia i riflettori ed è da sempre attento al sociale, anche se non ci tiene a farlo sapere troppo in giro. Ha deciso di raccontarsi a Radiocolonna in un’intervista esclusiva. È nel cast di una serie tv vista in 190 Paesi come Suburra. Per strada la gente la ferma e vuole una foto con Manfredi Anacleti. La notorietà è impegnativa? “Quando mi fermano per strada è divertente e imbarazzante, soprattutto per me che vorrei essere invisibile e lontano da passerelle e riflettori. Io non sono un attore sociale, sono un attore e basta”. Rispetto al ragazzo della Curva Nord della Lazio e dell’arresto ora Adamo Dionisi è un’altra persona? “Sì, sono una persona diversa anche perché ho il terzo occhio, visto che sono stato nell’inferno carcerario. Per questo adesso dedico parte della mia vita ad aiutare gli ultimi, come nella campagna di sensibilizzazione ‘Belli come il Solè per i bambini detenuti”. La passione per la sceneggiatura non è mai venuta meno, neanche quando è finito in carcere... “La prima sceneggiatura l’ho scritta a 20 anni e in carcere ho studiato e mi sono occupato di attività culturali. Ma la mia indole ribelle non l’ho mai abbandonata e continuo a coltivarla, seppur in forme diverse”. Ad esempio incarnando l’ideale dell’antidivo per eccellenza, un attore internazionale che non ama la ribalta mediatica e i social network... “Esatto, i social network li concepisco come un modo sbagliato per entrare nella mia vita. Essere invisibile ti permette di vivere a pieno la tua vita artistica senza dipendere da nessuno. Quando voglio vado a cantare con l’Orchestraccia, non vado mai ai festival e frequento pochi attori, a meno che non siano persone con una grande umanità. Non faccio l’attore, sono un attore. I grandi attori del passato mica avevano Instagram”. Beh se Mastroianni fosse stato di un’altra generazione forse sarebbe iscritto a Instagram.. “Forse Mastroianni sì ma Nino Manfredi no, per non parlare dei fratelli Citti. Io vengo da quella scuola lì, quella di Sergio Citti e del film più bello del mondo, “Ostia”. Secondo me anche meglio di “Accattone” di Pier Paolo Pasolini, che conoscono un po’ tutti”. Ci saranno degli attori e dei registi con cui ha un rapporto di amicizia... “Valerio Mastrandrea è un grande amico, come del resto anche Ivano De Matteo che è stato il regista di Codice a Sbarre, un documentario sul mondo carcerario. E poi c’è Mirko Frezza, con cui giriamo per l’Italia a fare seminari sul bullismo. Sono due anni che andiamo alla Comunità di Capodarco a seguire i ragazzi con traumi emotivi, molti dei quali ora stanno bene, mi chiamano e vogliono girare un film. Una soddisfazione immensa” Perché le istituzioni si occupano poco della condizione dei detenuti nelle carceri italiane? A parte alcune battaglie del Partito Radicale, gran parte della politica sembra indifferente... “I politici al massimo si fanno vedere nelle prigioni solo in periodo elettorale e quando escono dal penitenziario si lavano le mani tre volte. Guai a toccare un detenuto! Tra i politici ammiro i grandi oratori, sarebbe stato bello sedersi a un tavolo insieme a Marco Pannella e a Giorgio Almirante. Personalità che sarebbero in grado di dare lezioni a tutti, visto il livello attuale della politica”. Torniamo al cinema. Che ne pensa del film in uscita sul caso di Stefano Cucchi? “È passato troppo poco tempo dalla morte di Stefano Cucchi per farci un film. Mi dispiace per la sorella che ci tiene tanto a Stefano, ma vorrei leggere nei titoli di coda ‘non si ringraziano le Forze dell’Ordinè, visto che l’hanno ammazzato. Non sono d’accordo neanche con l’idea di Romanzo Criminale, con i nipoti dei protagonisti dell’epoca che magari vanno ancora a scuola e potrebbero risentirne”. Quali sono i tuoi progetti artistici presenti e futuri? “Ora sto girando il film di Matteo Garrone Dogman, sulla storia del canaro della Magliana e la seconda stagione di Rocco Schiavone che andrà in onda su Rai Due. Sto scrivendo un lavoro sul mondo carcerario di produzione francese e poi ovviamente ci sarà la seconda stagione di Suburra, visto che abbiamo firmato tutti”. Esistono dei sogni nel cassetto di Adamo Dionisi? “Innanzitutto fare bene il mio lavoro, quando andavo a rapinare le banche nessuno mi diceva bravo ma ora sì e sono contento (sorride). E poi continuare a darmi da fare nel sociale, perché aiutare una persona in difficoltà che poi per riconoscenza ti sorride è la cosa più bella che possa capitare”. Quei valori da difendere e i qualunquismi di giornata di Aldo Masullo Il Mattino, 26 ottobre 2017 Dunque, se un imbecille deride qualcuno o qualcosa di serio, non c’ è da fare altro che riderne come dinanzi ad una curiosità della natura. Ben sa ciò qualche scaltro politico che, fingendo di dire seriamente cose da ridere, conta di non essere giudicato imbecille dagli intelligenti ma di essere preso sul serio e applaudito da molti, che per difetto d’informazione o per rabbiosa reattività a vere o presunte ingiustizie, sono pronti a seguirlo. Di siffatta scaltrezza il mondo è, non dico pieno, ma assai ben fornito. Il fatto è che oggi il mondo non ha Dio, cioè un valore supremo, ma neanche dèi, cioè pluralità di valori conviventi. L’idea di un politeismo dei valori, come la pensava Max Weber, non appartiene al mondo presente, per la semplice ragione che i valori tutti uniformemente ridotti al significato originario di capacità di qualcosa di essere scambiata con un’altra, e dunque essere connotata da un prezzo. Cominciò nel Seicento Tommaso Hobbes col dire che “il valore o pregio di una persona coincide, come per tutte le cose, col suo prezzo, cioè con quanto si sarebbe disposti a dare per l’uso del suo potere”, e “perciò non è un valore assoluto, ma dipendente dal bisogno e dalla stima d’altri”. Intesi così i valori come semplici prezzi, e reso ciò corrente con il linguaggio dell’economia sempre più sviluppata, la laicizzazione del mondo ha finito per significare che il mondo non ha più come punti di riferimento altro che i prezzi. Tutto si compra, tutto si vende, e non ci si vergogna più, come un tempo almeno avveniva, di comprare o vendere ciò che allora si considerava non commerciabile come, ad esempio il sesso, la giustizia, il sapere. Dunque, al limite, la corruzione non esiste, perché non ha più senso parlarne. Il presidente Cantone può tornare alla giurisdizione, un giorno il più lontano possibile bisognosa anch’essa di essere difesa da un normale mercimonio. A questo punto l a laicità, come mondo di puri prezzi, e quindi esposta alla relatività della esposizione al mercato, potrebbe trovarsi minacciata da chi per un qualsiasi motivo la contrasta, cioè non solo la contesta teoricamente ma ne minaccia l’esistenza. Potrebbe, per esempio, una civiltà fondata sull’assolutezza di certi suoi valori, aggredire e tentar di cancellare la laicità dalla nostra vita fin qui vuota di valori, per riempirla forzosamente con i suoi valori. Che fare Vale o no la pena di difendere, e fin a quale prezzo, la nostra laicità senza valori. In altri termini la laicità è essa stessa barattabile, in cambio della vita o di maggior benessere materiale. Insomma la laicità senza valori è a sua volta un valore, e un valore supremo, non relativo, per la cui sopravvivenza si è disposti a tutto, dunque qualcosa che potremmo chiamare “sacro”, intangibile. In caso contrario noi, che convintamente pratichiamo la laicità senza valori, entreremmo in flagrante contraddizione con noi stessi. E non ci resterebbe che essere tanto miserabili da rinnegare la nostra più stringente convinzione. Acconciarci a vivere, incorporando vilmente la contraddizione logica sarebbe l’ultima abiezione della nostra umanità. Dal dilemma non si esce: o si approfitta della sbandierata laicità senza valori per non avere il disturbo di difenderla, o si sta saldamente in essa e si è pronti, difendendola, a riconoscerla come valore. Io credo che un primo e non piccolo aiuto a superare la difficoltà dell’inquietante dilemma stia nel restaurare una corretta terminologia. Se il termine “valore” si afferma nella cultura moderna con significato economico, come corrispettivo di “prezzo”, è linguisticamente igienico restaurare il bel nome antico, che ancora il nostro Vico adoperava per significare ciò che vale in senso non economico: “dignità”. Si tratta di nominare ciò che è “degno” di essere venerato, o almeno onorato, ma soprattutto, in termini laici, “rispettato”. Il rispetto è l’unico assoluto umano, che includa il riconoscimento della relatività dei punti di vista, e perciò i l riconoscimento dell’inviolabile autonomia di ogni persona. La dignità è assoluta. Ma il conflitto dei valori, pur sempre “economici”, cioè al servizio di un interesse particolare, solo il rispetto consente di risolverli. A differenza della dignità, i valori possono entrare in conflitto tra loro e, come scriveva Carl Schmitt nel piccolo libro del 1960, significativamente intitolato “La tirannia dei valori”, questi conflitti non possono essere risolti se non con la mediazione, cioè con il coraggio del dialogo e del coinvolgimento nel gioco non ingannevole della ragione. In conclusione, il laico non può esimersi con alcun pretesto dal dovere di difendere la laicità, che tutti nel suo orizzonte comprende, anche chi l a combatte e che perciò va combattuto. Il laico coerente non può non riconoscere alla laicità la dignità, in quanto essa è l’orizzonte entro il quale come dèi minori possono rivivere i valori e rifiutata la corruzione. La mediazione proposta da Schmitt va ripresa. Essa si può esercitare variamente, secondo le circostanze: di volta in volta è il silenzio che disarma chi urlando s’attende un urlo che amplifichi il suo; o è la sfida dialogica della ragionata polemica; o è il lavoro paziente e penetrante per educare a quella ragione che sola aiuta a far convivere valori diversi; comunque è il mostrare con fermezza di non essere disposti ad arrendersi ai qualunquismi di giornata. Migranti. È lui o non è lui? Intanto Medhanie resta ancora in carcere di Saul Caia Il Fatto Quotidiano, 26 ottobre 2017 La Procura di Palermo insiste: “Per noi è lo scafista”. Dall’Eritrea arriva la madre, garantita dal test del Dna. “Mio figlio non è Mered, perché lo chiamano con quel nome, lui è Medhanie Tesfamariam Behre. Non devono chiamarlo Mered”. Meaza Zerai Weldai ha intrapreso un lungo viaggio dall’Eritrea a Palermo, per provare a salvare il figlio detenuto al Pagliarelli. Il giovane ventisettenne è stato estradato da Khartoum nel maggio 2016, dopo un’operazione internazionale sull’asse Italia- Inghilterra-Sudan, con l’accusa di essere Medhanie Yehdego Mered, il trafficante di esseri umani conosciuto come “il Generale”. “Sono in Italia per sottopormi al test del Dna - racconta con commozione Mea- za al Fatto - per dimostrare che quello è mio figlio, non è un trafficante”. Medhanie è il quartogenito, il più piccolo, i suoi fratelli vivono tutti rifugiati all’estero, mentre la madre ormai vicina alla sessantina è rimasta sola ad Asmara, dove lavora con alcuni docenti italiani che insegnano nella capitale eritrea. Il processo continua da quasi un anno e mezzo, inizialmente alla IV sezione del Tribunale di Palermo, che dopo aver dichiarato la propria “incompetenza per materia” ha passato il testimone alla seconda sezione della Corte d’Assise, presieduta dal giudice Alfredo Montalto; intanto Medhanie resta in carcere. L’avvocato Michele Calantropo ha presentato numerosi documenti per dimostrare che il suo assistito non è la persona accusata dai magistrati palermitani, tra questi lo stato di famiglia, i certificati d’identità e d’istruzione. Persino il passaporto eritreo del vero Mered, detenuto negli Emirati arabi uniti perché in possesso di un documento falso, nello stesso periodo in cui il giovane Behre veniva catturato a Khartoum. L’ultimo atto è la relazione di consulenza genetica presentata ieri, in cui risulta che “la signora Meaza Zerai Weldai è la madre biologica di Medhanie Tesfamariam Berhe”, con una “probabilità di maternità pari al 99,99%”. “Il dato del Dna è una prova regina, un elemento tangibile dell’identità del mio cliente, - spiega l’avvocato Calantropo, in più c’è il verbale di Seifu Haile che dimostra che il mio cliente non è il trafficante”. La Procura di Palermo però resta fermamente convinta che l’imputato sia il vero scafista, accusato di essere stato uno degli organizzatori del viaggio naufragato il 3 ottobre 2013 al largo di Lampedusa, in cui persero la vita 368 persone migranti, 155 furono i superstiti. I pm si sono opposti all’acquisizione di tutti gli atti presentati dalla difesa, compresi i documenti prodotti dai colleghi romani in cui sono presenti le dichiarazioni spontanee dell’eritreo Seifu Haile, e- stradato dalla Svezia e oggi detenuto a Rebibbia, con l’accusa di traffico di esseri umani. Seifu ha lavorato per il vero Mered in una mezra, magazzino-prigione, in Libia, e nel corso di un interrogatorio con il pm Carlo Lasperanza, ha riconosciuto “il Generale” nell’uomo che “indossa anche una catenina con una grossa croce”, “con i capelli lunghi e un po’ stempiato”. Lo scatto è stato estrapolato dal profilo Facebook di Mered, e usata nel corso delle indagini dalle autorità olandesi, svedesi e dalle procure italiane. I magistrati palermitani, però, ritengono non rilevante il test del dna, perché riferiscono che la loro indagine “non si basa su dati genetici, ma su dati di altra natura”, che si avvalgono delle intercettazioni telefoniche e delle perizie foniche. Nelle prossime udienze si attende, per la seconda volta, il vicequestore aggiunto di Palermo Carmine Mosca, presente a Khartoum nel corso dell’estradizione di Behre, che aveva espresso “delle perplessità” e “dei dubbi sull’identità dell’imputato”, perché “rispetto alla foto la persona consegnata (dalle autorità sudanesi, ndr) non aveva quelle fattezze”. Tra qualche giorno Meaza farà ritorno in Eritrea, e si commuove mentre guarda il figlio seduto nella cella di protezione: “È un ragazzo gentile e buono, l’ho educato con sani principi - racconta la madre - e quando ho visto le immagini del suo arresto mi sono sentita male, sono quasi svenuta”. Romania. 530 detenuti liberati in seguito a nuova legge contro sovraffollamento Nova, 26 ottobre 2017 In Romania quasi 530 detenuti sono usciti dalle carceri e più di 3.300 potrebbero farlo in seguito alla nuova legge del governo di Bucarest per contrastare il sovraffollamento carcerario e adeguarsi a quanto chiesto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu), applicando così la legge sul ricorso compensativo. Nello scorso aprile, la Cedu ha rilevato in Romania un sovraffollamento delle carceri, raccomandando alle autorità nazionali misure supplementari di tipo logistico, o di politica penale, e concedendo un periodo di sei mesi per presentare un piano coerente per migliorare le condizioni di reclusione dei detenuti. La Corte decideva inoltre di sospendere l’esame di tutti quei dossier, in cui sono state depositate le denunce verso l’inadeguato stato di alcuni istituti di pena in Romania. Per diretta conseguenza, lo scorso 19 ottobre in Romania è entrata in vigore la legge sul ricorso compensativo, secondo la quale per ogni 30 giorni di detenzione in condizioni inadeguate, i reclusi ricevono una diminuzione della pena di 6 giorni. Secondo quanto riferito dal ministro romeno della Giustizia, Tudorel Toader, in seguito all’applicazione della legge, sono state liberate quasi 530 persone e oltre 3.300 hanno avuto la possibilità di ottenere la liberazione condizionale. “Ciò significa che questi detenuti possono rivolgersi alle commissioni dei penitenziari e ai tribunali, e il giudice deciderà se concedere loro o meno la liberazione condizionale”, ha spiegato Toader. I detenuti che hanno scontato integralmente la pena, ma i cui processi sono ancora in via di svolgimento alla Cedu, potrebbero ricevere dallo Stato risarcimenti pari a somme comprese tra i 5 e gli 8 euro per ogni giorno passato in carcere in condizioni non adeguate. Turchia. Alla sbarra 11 attivisti dei diritti umani e 6 reporter di Dimitri Bettoni Il Manifesto, 26 ottobre 2017 La Procura chiede il carcere per Idil Eser, direttrice di Amnesty. I giornalisti accusati di avere rivelato mail di un ministro corrotto. Si aprono in Turchia altri processi a carico di giornalisti e attivisti, dopo mesi di attesa in prigione. Era ancora in corso ieri a notte inoltrata, dopo 113 giorni di detenzione, la prima udienza del processo a carico di 11 attivisti arrestati il 5 luglio scorso sull’isola di Buyukada (Istanbul) mentre tenevano un workshop sulla protezione e la sicurezza informatica per i difensori dei diritti umani. Mentre scriviamo la procura ha chiesto la scarcerazione di sette attivisti e invece la conferma della galera per altri due imputati. In aula alla sbarra ieri c’erano Ozlem Dalkiran e Nalan Erkem della Assemblea dei cittadini, gli attivisti Ali Gharavi e Peter Steudtner, Gunal Kursun; inoltre Veli Acu dell’associazione Agenda per i diritti umani e la direttrice di Amnesty Turchia Idil Eser per i quali è stato richiesta dalla procura la conferma del carcere. Tutti detenuti nel carcere speciale di Silivri, oltre a Nejat Tastan dell’Associazione per il monitoraggio dell’uguaglianza dei diritti e Seyhmus Ozbekli di Iniziativa per i diritti, ad oggi in libertà in attesa di giudizio. lknur Ustun di Women’s Coalition, detenuta nel carcere femminile di Sincan, e Taner Kilic, presidente di Amnesty Turchia, hanno partecipato solo in videoconferenza. L’accusa per tutti loro è associazione terroristica e sostegno al terrorismo pur senza essere membri di un’organizzazione. Gli avvocati difensori hanno richiesto per tutti la scarcerazione immediata e contestato duramente l’infondatezza e l’incoerenza delle prove della procura, ma la sensazione che si raccoglieva ieri in aula è che i giudici preferiranno rinviare l’udienza senza acconsentire alla liberazione degli attivisti. Un messaggio in loro sostegno è arrivato anche da Edward Snowden, ricercato dagli Usa per divulgazioni di informazioni riservate della Nsa e in asilo politico in Russia. Su twitter Snowden ha scritto: “Amnesty si è mossa in mio favorein un momento in cui era difficile. Ora è tempo che siamo noi a batterci per loro”. Si è conclusa intanto la prima udienza di un procedimento che vede sei giornalisti, Derya Okatan, Tunca Ogreten, Mahir Kanaat, Omer Celik, Metin Yoksu, Eray Sargin, tutti imputati di violazione di segreto di stato e di aver screditato le politiche energetiche del paese. Tre di loro hanno atteso per mesi l’udienza in carcere e solo per Omer Celik è arrivata la sospirata scarcerazione, con il divieto di lasciare il paese. Sono accusati di aver divulgato alcune mail che un gruppo hacker noto con il nome di RedHack ha sottratto a Berat Albayrak, ministro dell’energia e genero del presidente Tayyip Erdogan, per poi divulgarle in rete. I giudici hanno concentrato le loro domande sui rapporti in rete tra i giornalisti e il gruppo hacker, in particolare tramite Twitter e gruppi Whatsapp per la circolazione dei documenti sottratti. Nelle mail il ministro viene associato anche ad un’azienda di distribuzione petrolifera, Powertrans che, operando nel Kurdistan iracheno, avrebbe agevolato il trasferimento di petrolio verso la Turchia. I giornalisti si sono difesi sostenendo l’autorevolezza del loro lavoro giornalistico, per il quale si sentono perseguitati. Ma sotto la lente della procura sono finiti anche articoli sulle operazioni militari nel sudest turco a maggioranza curda. I giornalisti sono accusati di creare, con i loro scritti, un clima favorevole al terrorismo. Omer Celik, traduttore che ha voluto sostenere la sua causa in tribunale in lingua curda, ha detto: “In qualsiasi altro paese dove vige lo stato di diritto, le nostre attività professionali sarebbero state premiate e non causa di torture e processi in tribunale”. Djalali. “Messo a morte per non aver voluto spiare l’occidente per l’Iran” di Michele Catanzaro La Repubblica, 26 ottobre 2017 In un documento la ricostruzione del ricercatore che lavorava a Novara, condannato alla pena capitale a Teheran. “La mia unica colpa è stata rifiutare di usare la fiducia dei miei colleghi e delle università europee per spiare per i servizi segreti iraniani”. Così spiega la sua condanna a morte Ahmadreza Djalali, ricercatori iraniano detenuto a Teheran da 18 mesi, dopo aver vissuto e lavorato in Italia per tre anni. È questa la versione contenuta in un documento attribuito al ricercatore e spedito ad alcuni dei suoi colleghi da una fonte a lui vicina (che preferisce mantenere l’anonimato), a cui Repubblica.it ha avuto accesso in esclusiva. Djalali (46 anni) è un esperto in medicina delle catastrofi. I progetti di ricerca che aveva realizzato all’Università del Piemonte Orientale (Novara) fra il 2012 e il 2015 riguardavano temi come la risposta degli ospedali ad attacchi terroristici Cbrn (chimici, biologici, radiologici o nucleari). A Novembre 2015, Djalali si era trasferito in Svezia per lavorare al Karolinska Institutet, il centro che assegna i premi Nobel per la medicina, ma manteneva la collaborazione accademica con l’Italia. Il 25 aprile 2016, durante un viaggio in Iran, Djalali è stato arrestato e accusato di “collaborazione con un governo ostile”. Sabato scorso, la sentenza: pena di morte per aver ottenuto denaro, lavoro e progetti di ricerca, a cambio di trasferire informazione sensibile iraniana ad Israele. Ma la via crucis di Djalali sarebbe cominciata molto prima dell’arresto, secondo il documento. “Durante un viaggio in Iran nel 2014, due persone dell’esercito e dei servizi segreti mi chiesero di identificare e raccogliere dati ed informazioni: di fare spionaggio nei paesi europei, riguardo alle loro infrastrutture critiche, capacità anti-terroristiche, piani operativi sensibili[...] La mia risposta fu NO”, afferma il documento. Non era il primo contatto di Djalali con il mondo dell’intelligence, secondo il testo: già nel 2012, aveva declinato l’offerta di lavorare in un’università militare iraniana, nell’ambito dell’anti-terrorismo. Dopo il rifiuto del 2014, gli agenti avrebbero detto a Djalali di dimenticare l’offerta. Ma nel 2015 il ricercatore sarebbe stato invitato a diversi simposi organizzati da istituti di ricerca militari in Iran. “Sono solo uno scienziato, non una spia: il mio aiuto scientifico a centri di ricerca iraniani è dovuto solo dal mio amore per la mia patria”, spiega il testo. L’arresto si verificò meno di sei mesi dopo l’ultima di queste conferenze. Il documento descrive anche le drammatiche condizioni che Djalali avrebbe sofferto nella prigione di Evin, a Tehran. “Mi hanno tenuto in una cella di 3,5 metri quadrati; mi hanno torturato psicologicamente e fisicamente; mi hanno minacciato, umiliato, e ingannato; non mi hanno permesso di parlare con un avvocato per sette mesi dopo l’arresto; mi hanno obbligato a fare confessioni false”, afferma il testo, che si conclude con un appello alla comunità internazionale. I fatti descritti nel testo riecheggiano alcuni casi precedenti. Per esempio, quello di Omid Kokabee, un fisico rilasciato ad Agosto 2016 dopo 5 anni in prigione, che ha affermato che era stato punito per non collaborare a un programma nucleare militare. O quello di Hamid Babaei, un dottorando in economia che afferma di essere stato arrestato per rifiutare di trasferire informazioni sui suoi colleghi.