41bis: novità, divieti e nodi irrisolti di Stefano Anastasia Il Manifesto, 25 ottobre 2017 Un codice penitenziario speciale: questa sembra essere l’ambizione della recente circolare con cui l’Amministrazione penitenziaria ha dato nuove disposizioni per l’organizzazione del circuito detentivo previsto dall’art. 41bis. Nel merito, la disposizione più significativa pare essere quella che consente ai minori di dodici anni di partecipare al colloquio familiare stando dalla parte del padre o del nonno detenuto per tutta la sua durata, mentre gli altri parenti sono dall’altra parte del vetro divisorio. Non solo: la perquisizione del detenuto che vada o torni dal colloquio dovrà essere eseguita con il metal detector e solo in casi eccezionali (e sulla base di motivazioni scritte) attraverso il suo denudamento. Piccole cose, ma non irrilevanti in un sistema che mantiene prescrizioni legali e amministrative incomprensibili, se il fine è quello di impedire comunicazioni verso i gruppi criminali di appartenenza. Restano così senza spiegazione, per esempio, le limitazioni all’acquisto di beni o generi alimentari o al possesso di foto, libri, colori e quant’altro. Questo articolo, per esempio, non potrà essere letto nelle sezioni 41bis: questo giornale, infatti, così come l’Avvenire o il Mattino, il Foglio o il Dubbio, non può esservi acquistato. D’altro canto, non potrà essere neanche ascoltato tramite Radio radicale o qualche altra emittente, stante il divieto di ricezione delle radio in modulazione di frequenza. Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura nella sua ultima relazione sull’Italia, resa pubblica il mese scorso, formula alcune raccomandazioni sul 41bis. Salvo la possibilità di cumulare due ore di visita non usufruite (il minimo che si poteva concedere alla richiesta di accumulare tutte quelle non utilizzate), la circolare non interviene su ciò che gli è precluso per legge (un’ora di colloquio settimanale senza vetro divisorio, salvo rischio individuale e motivato; una telefonata al mese, indipendentemente dal fatto che il detenuto abbia o non abbia fatto il colloquio con i familiari), ma neanche su ciò che avrebbe potuto disciplinare, come lo svolgimento di almeno quattro ore di attività fuori dalla cella, o modalità tempestive ed efficaci di attuazione delle decisioni dei magistrati di sorveglianza. Tra le inadempienze c’è anche quella che avrebbe potuto disciplinare a termini di legge i colloqui con i Garanti, di cui ha scritto in questa rubrica Franco Maisto all’indomani di un provvedimento giurisdizionale che ha disapplicato una circolare che parificava i Garanti ai familiari nelle forme e nel numero dei colloqui, di fatto privando i detenuti in 41bis della possibilità di incontrarli, se non rinunciando all’unico colloquio mensile loro consentito con i familiari. Vi si fa riferimento solo in un articolo riguardante le modalità di esecuzione delle “visite del garante”, in cui si riconosce al Garante nazionale la facoltà di incontrare riservatamente e senza limiti di tempo i detenuti in 41bis in quanto “Meccanismo nazionale di prevenzione previsto dal Protocollo aggiuntivo alla Convenzione Onu contro la tortura” e ai garanti territoriali di incontrarli durante la visita accompagnata dal personale dell’Istituto, con la superflua specificazione che questi “incontri” non incideranno sul numero di colloqui con i familiari cui essi hanno diritto. Nulla si dice, invece, su quanto giudicato illegittimo dai giudici di Terni e di Sassari, e cioè che i veri e propri colloqui con i garanti, espressamente previsti per legge, siano assimilati a quelli con i familiari, conteggiati con essi, effettuati con il vetro divisorio e, se del caso, ascoltati e videoregistrati. Un’occasione persa, cui speriamo che la riforma penitenziaria in via di approvazione voglia mettere riparo. “Da Orlando un grande contributo per uscire dal sovraffollamento” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 ottobre 2017 Plauso del Segretario generale aggiunto del Consiglio d’Europa, Gabriella Battaini Dragoni. “L’Italia ha compiuto un passo quasi storico, nel senso che si è riusciti a chiudere la procedura sulla questione Torreggiani”. Per la quale, l’ 8 gennaio 2013, era arrivata la condanna della corte europea. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando incassa un plauso dal Consiglio d’Europa per i suoi sforzi nel migliorare la situazione penitenziaria del nostro Paese. È avvenuto ieri in occasione della firma su una convenzione dei reati legati ai beni culturali, che ha l’obiettivo di combattere i traffici illeciti di beni archeologici, compresa la lotta al finanziamento del terrorismo. “L’Italia ha compiuto un passo quasi storico, nel senso che si è riusciti a chiudere la procedura sulla questione Torreggiani”, ha detto il segretario generale aggiunto del Consiglio d’Europa, Gabriella Battaini Dragoni. “Erano anni che se ne parlava e non si riusciva a uscire da questa situazione. Uno dei più grandi contributi del ministro Orlando - ha spiegato sempre Dragoni - è essere riuscito a creare una mobilitazione generale attraverso gli Stati generali di tutti coloro che a livello italiano potevano dare un contributo su come uscire dal tunnel della sovra- popolazione carceraria”. Dragoni ha aggiunto che il Consiglio d’Europa continuerà ad “accompagnare, non dico sorvegliare, gli sforzi che il ministero della Giustizia potrà mettere in atto per controllare la situazione e garantire un minimo di 4 metri quadri per coloro che si trovano in cellule con altri condannati”. La sentenza Torreggiani, ricordiamo, pronunciata l’8 gennaio 2013, costituì una pesante condanna nei confronti dell’Italia e del suo sistema penitenziario. Il caso Torreggiani e altri, sottoposto all’attenzione della Corte nell’agosto del 2009, venne depositato da sette ricorrenti contro lo Stato italiano per violazione dell’articolo 3 della Convenzione Europea, ovvero la proibizione di trattamenti inumani e degradanti. Dalla sentenza Torreggiani sono ormai trascorsi più di quattro anni, durante i quali il legislatore italiano ha adottato diverse misure per arginare il problema del sovraffollamento carcerario e della sistematica violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti imposto dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Gli sforzi fatti dall’Italia avevano ricevuto una valutazione positiva da parte del comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, che ha permesso una proroga per l’esame finale dei risultati ottenuti. Il guardasigilli, durante l’incontro con i giornalisti, ha detto che i decreti attuativi della riforma dell’ordinamento penitenziario - importante anche per ridurre il sovraffollamento visto che valorizza le pene alternative - sono in dirittura d’arrivo. “Sono in fase di invio - ha spiegato Orlando, ci siamo. Siamo al drafting (alla redazione finale, ndr) e poi verranno inviati a Palazzo Chigi. Il ritardo è stato determinato dalla decisione di attenderli per dare precedenza al decreto sulle intercettazioni, perché la delega aveva una scadenza di tre mesi”. Un plauso al ministro Orlando viene anche da Rita Bernardini e Deborah Cianfanelli del Partito Radicale, che sono in sciopero della fame da 10 giorni proprio per incoraggiare e aiutare il guardasigilli a rendere attuativa la riforma dell’ordinamento penitenziario. “Una pena che corrisponda a quanto prescritto dalla nostra Costituzione - spiegano - è un obbligo per uno Stato che voglia definirsi democratico e, per un partito come il Partito Radicale che il carcere ha imparato a frequentarlo da decenni grazie all’opera di Marco Pannella, corrisponde ad un “dover essere” che ci impegna quotidianamente perché conosciamo la sofferenza di tutta la comunità penitenziaria e perché siamo convinte che una “pena legale”, ispirata all’umanità scritta in costituzione, rende anche più sicura la vita di tutti i cittadini”. L’Italia se ne frega della Corte europea dei diritti umani di Andrea Fioravanti linkiesta.it, 25 ottobre 2017 Siamo il primo paese europeo con sentenze Cedu non eseguite. Dal sovraffollamento delle carceri alla detenzione illegale nei Cie, il nostro Pase non si adegua abbastanza per tutelare i diritti umani. Almeno diminuiscono i processi e i risarcimenti. Subiamo condanne per non aver rispettato i diritti umani, accumuliamo milioni di risarcimento ogni anno, non li paghiamo in tempo, né aggiorniamo velocemente le nostre leggi. E il “gioco” ricomincia. L’Italia è il primo paese con più sentenze della Corte europea dei diritti umani non eseguite. Secondo una tabella elaborata da Politico, su 9944 sentenze Cedu non implementate, 2219 riguardano l’Italia: il 22,3%. Per capirci, una su cinque. Distanza siderale rispetto a Francia con 56 sentenze non eseguite e Germania con solo 17. Stati non proprio famosi per il rispetto dei diritti umani come Russia (1540) e Turchia (1342) sono più virtuosi di noi. Insomma, facciamo peggio di tutti e 47 i Paesi che fanno parte del Consiglio d’Europa. Dal 1949 l’Italia fa parte di questa organizzazione internazionale, che non c’entra nulla con l’Unione europea, creata per tutelare i diritti umani in Europa. E la Cedu, dal 1959, è la sua corte di giustizia alla quale tutti i cittadini dei 47 Paesi membri possono adire quando credono di aver subito una violazione dei propri diritti. Come ha fatto Silvio Berlusconi ricorrendo contro la Legge Severino che lo ha interdetto dai pubblici uffici dopo la sua condanna per frode fiscale. La corte con sede a Strasburgo pronuncia le sentenze basandosi sulla convenzione europea dei diritti dell’uomo firmata a Roma il 4 novembre del 1950. L’articolo 46 vincola gli Stati ad adeguarsi alle sentenze della Cedu: risarcendo con una “equa compensazione” chi vince la causa e, nel caso, imponendo ai governi di modificare o aggiornare una legge per tutelare in futuro chi subirà una violazione del diritto umano in questione. Non importa come nel dettaglio, purché lo faccia. Lo Stato deve conformarsi quindi e anche velocemente e ha al massimo sei mesi per comunicare quali misure ha adottato o intende adottare. Se non lo fa, interviene il comitato dei Ministri, l’organo decisionale del Consiglio d’Europa, con dei richiami. Il 94% delle sentenze non eseguite (2105) sono o classificate come “enhanced” cioè hanno bisogno di azioni urgenti o riguardano cambi fondamentali nel sistema. Lo stesso comitato dei Ministri ci ha inserito nel gruppo di Paesi con problemi strutturali, alcuni non risolti da oltre dieci anni. Con noi ci sono anche Russia, Ungheria e Moldavia. Nel nono rapporto sull’implementazione delle sentenze Cedu, pubblicato a giugno, il cdm segnala le sentenze italiane più gravi non eseguite. Non si tratta solo di leggi non approvate. Spesso il governo italiano è intervenuto modificando delle o adottando dei provvedimenti per rispondere alle sentenze della Cedu, ma non ha fatto abbastanza. Come nel caso del sovraffollamento delle carceri. Per il Consiglio d’Europa nonostante la legge Sono ancora tanti gli istituti di pena che “operano al di sopra delle loro capacità”. A partire dal caso Richmond Yaw e altri c. Italia del 6 ottobre 2016 sull’ingiusta detenzione presso i Cie (centri di identificazione ed espulsione). Secondo la Corte manca una legge adeguata perché i risarcimenti si possono solo chiedere in un processo penale e sono troppo lenti i tempi di attesa per decidere se un rifugiato debba restare o meno nel Cie. Non si tratta solo di leggi non approvate. Spesso il governo italiano è intervenuto modificando o adottando dei provvedimenti per rispondere alle sentenze della Cedu, ma non ha fatto abbastanza. Come nel caso del sovraffollamento delle carceri. Il comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa aveva applaudito alla riforma voluta dal ministro Orlando per rimediare alle dure condizioni dei detenuti dopo la sentenza Torreggiani v Italia del 2013, definendola addirittura un “modello da seguire”. Ma secondo un report del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt), pubblicato l’8 settembre il problema del sovraffollamento nelle carceri non sembra risolto. Sono ancora tanti secondo il report, gli istituti di pena che “operano al di sopra delle loro capacità”. Non solo carceri. Dal 5 luglio l’Italia ha finalmente una legge sul reato di tortura e il Governo ha risarcito quasi tutti i 163 ricorrenti che hanno subito delle violenze nella caserma Diaz durante il vertice G8 di Genova del 2001. Ma non basta. La stessa presidenza del Consiglio dei ministri ammette nella relazione presentata al Parlamento il 1° settembre, che bisogna ancora adeguarsi perfettamente alla sentenza Cestaro del 2015, per evitare un’altra condananna legata alla violazione del reato di tortura (Art.3). Negli ultimi tre anni il governo italiano sta cercando di smaltire l’enorme mole di sentenze non attuate. Secondo la relazione siamo finalmente usciti dalla classifica dei dieci Stati del Consiglio d’Europa con più condanne. Con “sole” 15 sentenze nel 2016, siamo passati da decimi a quindicesimi. Se diminuiscono i processi contro l’Italia, lo fanno anche i risarcimenti: dai 77 milioni di euro versati nel 2015, l’Italia è scesa a quasi 16 milioni nel 2016. Ci sono ambiti dove il Governo si è finalmente adeguato alle sentenze della corte di Strasburgo. Per esempio sulle espulsioni di massa dei migranti verso la Libia, giudicate dalla Cedu una violazione dell’articolo 3 della Convenzione di Roma. Il faldone Italia è ancora corposo (i casi contro il nostro Paese sono il 7,8% del totale) ma secondo il Governo italiano la maggior parte riguarda l’eccessiva durata dei processi o l’insufficienza degli indennizzi Pinto, la legge che regola il risarcimento nei casi di violazione dei diritti umani. I provvedimenti in questo caso sono stati aggiornati e i casi simili saranno progressivamente chiusi. Intercettazioni. Le novità del decreto: la polizia non gestirà da sola le “ bobine” di Errico Novi Il Dubbio, 25 ottobre 2017 L’agente dovrà indicare al pm l’oggetto delle intercettazioni non trascritte. Con le nuove norme sulle intercettazioni tutto il “potere” sarà nelle mani della polizia giudiziaria? Non è detto. Anzi: non dovrebbe essere così, almeno nelle intenzioni del ministro Andrea Orlando. Che ha integrato la prima bozza del decreto sugli ascolti anche con una precisazione relativa alle conversazioni per le quali è vietata la sbobinatura. Nella versione del provvedimento che sarà discussa venerdì prossimo in Consiglio dei ministri, anticipata alcuni giorni fa da Repubblica, è sì previsto che gli agenti addetti materialmente all’ascolto e all’eventuale verbalizzazione delle telefonate debbano evitare la trascrizione di quelle riguardanti dati “sensibili” per la privacy, o comunque relative a persone e circostanze estranee alle indagini. Ma in questi casi, oltre a data, ora e dispositivo intercettato, l’agente dovrà indicare anche l’”oggetto” dei colloqui. Informazioni che vengono trasmesse al pubblico ministero, come già previsto oggi dal quarto comma dell’articolo 268 del Codice di procedura penale. Il magistrato potrà dunque avere almeno un’idea di massima, seppure “per titoli”, dei contenuti di tutte le conversazioni. Anche di quelle destinate a finire nell’archivio riservato e a non essere utilizzate negli atti delle indagini. Giacché sarà lo stesso pm a custodire il materiale, compresi i file con registrazioni dei colloqui e testi dei messaggi, potrebbe fin da subito verificare personalmente i contenuti sui quali ha un margine di dubbio. Dovrebbe poter operare, insomma, un controllo agevole sulla selezione effettuata dalla polizia. I “casi Scafarto” oggi ci sono, eccome - Basterà a evitare che gli agenti su muovano con eccessiva disinvoltura, che “nascondano”, elementi utili a rafforzare le ipotesi d’accusa o anche a scagionare un indagato? Sicuramente le “annotazioni per titolo” eviteranno che la situazione si sbilanci più di quanto avviene con le norme vigenti. Già oggi in realtà è la polizia giudiziaria ad ascoltare materialmente i nastri, almeno in prima battuta. Durante le indagini “napoletane” su Consip, Henry John Woodcock non ha avuto modo di accorgersi che il capitano del Noe Gian Paolo Scafarto aveva attribuito ad Alfredo Romeo la frase “l’ultima volta che ho visto Renzi”, pronunciata in realtà da Italo Bocchino. E anche nella clamorosa vicenda di Seregno (a cui è dedicato un altro servizio del giornale, ndr) , il pm non ha potuto certo rendersi conto dei “fraintendimenti” operati dalla polizia giudiziaria durante l’ascolto di alcuni colloqui. È stato il difensore a rilevare le anomalie e a costruirci sopra il ricorso al Riesame. Sembra così venire meno una delle principali ragioni di preoccupazione manifestate dagli stessi magistrati. È stata sempre Repubblica a dar voce all’ex segretario dell’Anm Giuseppe Cascini, che ieri, in un’intervista rilasciata a Liana Milella, aveva notato: “Mi pare che affidare in via esclusiva alla polizia il compito di selezionare, al momento del primo ascolto, il materiale intercettato riduca il controllo sull’operato della stessa polizia e comprima la possibilità per la difesa di accedere a informazioni che potrebbero rivelarsi utili per l’indagato”. Anche questo secondo rischio dovrebbe risultare almeno in parte attenuato dalla norma sulle “annotazioni” che dovrebbero accompagnare l’indicazione di data, ora e dispositivo di ciascun “ascolto”. Colloqui dei difensori: i limiti del “divieto” - Proprio la norma che consente al pm di orientarsi nel materiale intercettato e “non trascritto” dagli rivela però i limiti del passaggio che riguarda le conversazioni tra difensore e assistito. Da una parte la modifica dell’articolo 103 del Codice di rito pare assolutamente rispettosa della funzione difensiva. Nella versione finale del decreto, infatti, resta il divieto di trascrivere le comunicazioni dell’avvocato. Si tratta dell’unico caso in cui neppure il pm può dare indicazione opposta: se ci sono di mezzo la privacy o “persone non coinvolte nelle indagini”, il magistrato potrebbe comunque, con decreto motivato, disporre la trascrizione; se a essere intercettato è un difensore, il divieto di sbobinatura non ammette deroghe. Nello stesso tempo però il pm potrebbe comunque ascoltare le telefonate dell’avvocato, e conoscere così indebitamente la strategia difensiva. Una distorsione che sarebbe stato possibile evitare solo con l’esplicito “divieto di ascolto” sollecitato dall’avvocatura. Perché una democrazia dei creduloni finisce ostaggio della repubblica giudiziaria di Annalisa Chirico Il Foglio, 25 ottobre 2017 Lo scorso venerdì, nelle stesse ore in cui il presidente dell’Anni Eugenio Albamonte apre il congresso senese con un appello alla politica affinché regolamenti i cosiddetti “nuovi diritti”, il Centro studi Livatino tiene un convegno, a pochi passi dalla Camera, dal titolo “Giudici senza limiti?”. Albamonte considera la supplenza togata inevitabile conseguenza della paralisi legislativa: “Le domande di giustizia ci sono e il giudice non può non rispondere”. Fine vita, nuove famiglie, droghe leggere, ius soli: si moltiplicano le zone grigie in cui il legem dicere non sembra più prerogativa appannaggio di organi democraticamente legittimati. “Se una volta il giudice era considerato la bocca della legge, oggi viviamo un tempo in cui la bocca del giudice sembra essere diventata essa stessa la legge”, dichiara Domenico Airoma, vicepresidente del think tank ispirato alla parabola del “giudice santo”, Livatino, assassinato in un agguato mafioso nel 1990. Secondo il giurista statunitense Robert Bork, i giudici, approfittando del ruolo interpretativo, si trasformano in “attivisti con lo scopo di creare libertà e diritti nuovi e senza fondamento, aggirando l’autorità democratica”. È la vittoria della “giuristocrazia”. C’è la polemica con il diritto mite, versione giuridica del pensiero debole; c’è il patologico gigantismo della giurisdizione ammantato di aspettative etiche ed extragiudiziarie (il magistrato come “sensore sociale”, copyright Zagrebelsky). Ma c’è soprattutto l’influenza crescente delle corti sovranazionali che tendono a costituire un “sistema multilivello integrato di diritti”, fondato sulla centralità della Corte di Strasburgo in quanto suprema interprete della Convenzione europea dei diritti umani. Al fondo dei “nuovi diritti” si scorge il principio di autodeterminazione inteso come libertà senza limiti, l’idea che a ogni desiderio corrisponda un diritto da codificare, con il risultato di creare conflittualità e nuovi soggetti deboli. “Esiste un limite oltre il quale non si può andarè, insiste Airoma. Tra gli ospiti, interviene Francisco Javier Borrego Borego, già giudice della Corte di Strasburgo, brillante contestatore della cosiddetta ‘interpretazione dinamica”, ultima frontiera dell’attivismo togato: “I giudici progressisti accusano gli altri di essere statici, così pretendono di stiracchiare le norme e inventarne di sana pianta”. Non manca la critica al politicamente corretto in voga tra le toghe: “A Strasburgo - racconta Borrego Borego - hanno abolito le formule di genere, Madame e Monsieur, nel contempo insistono per arruolare più giudici donne. Ma, domando, se volete rendere il tribunale un luogo asessuato, perché siete così ossessionati dalla presenza femminile?”. Per Anthony Borg Barthet, giudice della Corte di giustizia dell’Unione europea, “l’interpretazione deve essere improntata al pragmatismo. Esistono giudici che, incapaci di tenere a freno il proprio ego, non si limitano a regolare il singolo caso ma ambiscono a rendere il mondo un posto migliore da abitare”. Per Antonio Mura, sostituto procuratore generale in Cassazione, “lo scenario europeo è costellato da luci e ombre. Sul fronte della ragionevole durata dei processi o del sovraffollamento carcerario, la legislazione europea ha esercitato un’influenza benefica. La figura del nuovo procuratore europeo invece appare depotenziata per la scarsa incisività dei poteri attribuiti. L’Italia è stata l’unica voce critica in Europa, adesso anche la Francia, e non solo, condivide la nostra posizione”. Di enorme impatto è la testimonianza di Luis Alberto Petit Guerra, giudice del Venezuela, il quale sfata l’ennesima ipocrisia sul regime bolivariano di Maduro: “Dal 2003 i concorsi pubblici per la selezione dei giudici sono sospesi. Di fatto, nel nostro paese il principio del giudice naturale precostitutito dalla legge non viene più rispettato. Assistiamo a un chiaro processo di distruzione dell’indipendenza giudiziaria. Nella maggior parte dei casi siamo in presenza di giudici snaturalizzati, nel senso che non sono stati designati nella forma prevista dalla Costituzione, non godono di vera indipendenza né di autonomia. Sono giudici perché godono dei favori del potere politico e vengono usati come pezzi di un triste puzzle”. Una deriva autoritaria che passa per la neutralizzazione dell’ordine giudiziario. “Quella venezuelana è una sopraffazione mediaticamente e istituzionalmente ignorata - conclude Alfredo Mantovano, già senatore e vicepresidente del Centro studi. È singolare che, mentre sulla sorte dei magistrati turchi si sia levato una coro di indignazione, ciò è totalmente assente per il Venezuela. Quasi che il colore politico dei persecutori abbia un peso”. Gli anni di carcere si conteggiano per il titolo di soggiorno nell’Ue di Enrico Bronzo Il Sole 24 Ore, 25 ottobre 2017 Dopo cinque anni, la permanenza in uno Stato membro dà ai cittadini europei il diritto al permesso di soggiorno permanente e dopo altri cinque anni questo viene rafforzato col divieto di allontanamento “a meno che non sussistano motivi gravi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza”. Secondo il parere dell’avvocato generale (figura simile a quella del procuratore) della Corte europea, Macjel Szpunar, per il calcolo dei dieci anni che danno diritto alla protezione rafforzata del diritto di soggiorno vanno inclusi quelli che vengono eventualmente passati in prigione in caso di condanne per reati commessi nel Paese ospitante. Il parere non vincola il giudizio della Corte, che si esprimerà con sentenza tra qualche mese. L’avvocato generale si è espresso su due casi simili. Uno riguarda un italiano che nel 1985 si trasferì nel Regno Unito con la moglie, nel 1998 si separò e andò a vivere con un uomo che poi uccise nel 2001. Condannato a otto anni nel 2002, nel 2006 è uscito. Ed ha avuto ragione nel ricorso contro la sua espulsione decisa nel 2007. Condotte risarcitorie, nodo congruità di Caterina Malavenda Il Sole 24 Ore, 25 ottobre 2017 Risale a qualche settimana la decisione di un Gup, che ha ritenuto congrua un’offerta risarcitoria modesta, che la persona offesa non aveva accettato ed ha, perciò, dichiarato estinto il reato di stalking, del quale l’imputato avrebbe dovuto rispondere, applicando l’istituto, previsto dal nuovo articolo 162 ter del Codice penale (“estinzione del reato per condotte riparatorie”) introdotto dalla legge 103/2017. Lo scalpore che la notizia ha suscitato, però, non deve mettere in discussione l’utilità di una norma, il cui evidente scopo deflattivo si coniuga con la volontà di bilanciare la comprensibile aspettativa risarcitoria delle persone offese e la necessità che essa non assuma fini speculativi, paralizzando la definizione del processo. Se si procede a querela di parte, il giudice dichiara estinto il reato, sentite le parti e la persona offesa, quando l’imputato abbia integralmente risarcito il danno ed eliminato, se possibile, le conseguenze dannose o pericolose della sua condotta, anche se l’offerta sia stata rifiutata dall’interessato, ma ritenuta congrua dal giudice. Tale soluzione può essere adottata fino all’apertura del dibattimento, non è chiaro se persino all’esito delle indagini preliminari, visto che la norma non lo prevede espressamente, probabilmente per le obiettive difficoltà di sentire la persona offesa, se non fissando un’apposita udienza in camera di consiglio. Se le parti raggiungono un accordo, nessun problema si frappone all’esito processuale previsto, mentre non poche sono le questioni da risolvere, quando l’estinzione del reato dipenda dalla valutazione di congruità del giudice. L’imputato deve formulare offerta reale, ai sensi degli articoli 1208 e seguenti del Codice civile, una procedura tutt’altro che semplice e che può essere ancor più difficoltosa, se l’offerta non viene accettata e si debba, perciò, ricorrere al deposito, che spiega i suoi effetti solo quando sia stato ritenuto valido con sentenza passata in giudicato. Si potrà probabilmente ovviare, effettuando l’offerta reale risarcitoria “banco iudicis”, cioè depositando in udienza apposito assegno circolare, come già previsto, a tutela dell’imputato, in casi in cui particolari effetti positivi dipendano dalla effettiva messa disposizione dell’avente diritto della somma risarcitoria, ad esempio per il riconoscimento dell’attenuante di cui all’articolo 62, n. 6 del Codice penale. Più complessa è la devoluzione al giudice della valutazione di congruità, spesso in assenza di qualunque parametro obiettivo o tabella di riferimento. Se il problema, infatti, è meno stringente in relazione ad alcuni reati, ad esempio le lesioni semplici, per le quali è possibile usare anche le tabelle milanesi, esso diventa più complicato in relazione ad altri reati, perseguibili a querela, primo fra tutti la diffamazione, specie se a mezzo stampa o con altri mezzi di pubblicità, in presenza dei quali gli indici di quantificazione, pure individuati dalla giurisprudenza, non garantiscono risultati omogenei. La vexata quaestio del risarcimento a carico di giornalisti ed editori ha formato oggetto di attenzione, anche da parte della Corte europea, che ne ha rilevato l’efficacia deterrente sulla circolazione delle informazioni, essendo più facile che un giornalista abbandoni un caso, se rischia indennizzi importanti, piuttosto che per la paura del carcere. Aver svincolato l’estinzione del reato dai desiderata delle persone offese, spesso incapaci di una valutazione obiettiva delle conseguenze patite, è un passo avanti notevole, cui dovrebbe affiancarsi una equa considerazione delle caratteristiche della persona offesa, compresa la professione svolta, evitando così valutazioni esorbitanti, che possano apparire un ingiustificato privilegio. Per la quantificazione, il giusto rilievo potrà esser dato alla pubblicazione di una rettifica, solo se, per modalità e contenuto, sarà visibile, fungendo così da risarcimento in forma specifica e non se, seminascosta, risulterà quasi inutile; all’intensità del dolo, distinguendo fra l’eventuale errore, spesso incolpevole, del giornalista e la pervicace volontà di offendere, magari con una mirata e falsa campagna stampa; alle conseguenze, effettivamente derivate dal reato, tenendole distinte da quelle, artificiosamente costruite, mediante il ricorso a consulenze e testimonianze inaffidabili; alla identificabilità del diffamato, spesso neppure citato o irriconoscibile, se non dai parenti più stretti e alla sua notorietà che, garantisce il libero accesso ai mezzi di informazione, dunque una replica più efficace di una rettifica e, quindi, la riduzione del danno. Una soluzione auspicabile per chiudere rapidamente centinaia di processi, evitando, che diventi una lotteria, il cui esito rimanga affidato a una discrezionalità che, senza parametri certi e, soprattutto, la sensibilità necessaria, potrebbe diventare arbitrio, non importa a favore di quale parte processuale. Solo l’imprevedibilità del pedone diminuisce la responsabilità dell’automobilista di Domenica Carola Il Sole 24 Ore, 25 ottobre 2017 Corte di Cassazione - Sezione IV - Sentenza 5 ottobre 2017 n. 45795. La Corte di Cassazione Penale sez. IV, con la sentenza n. 45795 del 5 ottobre 2017 esamina la vexatia questio del comportamento del pedone e della responsabilità dell’automobilista in un incidente stradale . Un automobilista appella la sentenza del Tribunale di Nola che l’aveva condannato per il reato di omicidio colposo aggravato per aver causato la morte di un pedone, per imperizia, negligenza e imprudenza consistite nella circostanza che percorrendo una strada con limite di velocità di 50 km/h viaggiava a velocità quasi doppia al limite imposto. La Corte territoriale ha parzialmente riformato la decisione del Tribunale ritenendo le già concesse attenuanti generiche prevalenti sulla contestata aggravante e rideterminato la pena, revocando le statuizioni civili e confermando nel resto. Anche avverso detta sentenza l’imputato ha proposto ricorso per Cassazione deducendo sia vizio della motivazione con riferimento al metodo espositivo utilizzato dal giudice avuto riguardo alle doglianze formulate con il gravame, anche con riferimento alla invocata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, finalizzata alla verifica della condizione di tossicodipendenza della vittima sia violazione di legge, con riferimento alla valutazione degli elementi di prova, con specifico riferimento alla velocità, avendo la Corte ritenuto approssimata per difetto quella di 94 Km/h individuata dal consulente del pubblico ministero, a fronte delle conclusioni del consulente dell’imputato che aveva attestato la stessa a 74 Km/h, sia con riferimento alla valutazione della percepibilità dell’auto da parte del pedone. La decisione della corte - Gli Ermellini dichiarano inammissibile il ricorso ricordando che la Corte ha già chiarito che è legittima la motivazione per relationem della sentenza di secondo grado, che recepisca in modo critico e valutativo quella impugnata, limitandosi a ripercorrere e ad approfondire alcuni aspetti del complesso probatorio oggetto di contestazione da parte della difesa, ed omettendo di esaminare quelle doglianze dell’atto di appello, che avevano già trovato risposta esaustiva nella sentenza del primo giudice. Per quanto concerne la pretesa apoditticità ritenuta dalla Corte territoriale che la velocità tenuta dall’imputato fosse, cioè, addirittura superiore a 94 km/h, oltre ad essere smentita dagli elementi fattuali ai quali i giudici hanno agganciato le proprie conclusioni, violenza dell’impatto e sue conseguenze sulla vittima, è del tutto irrilevante, alla luce dello stesso parere del consulente della difesa, in base al quale la velocità del mezzo era tale da superare considerevolmente quella prevista in quel tratto di strada. Con riguardo alla percepibilità dell’auto in tema di reati commessi con violazione di norme sulla circolazione stradale il comportamento colposo del pedone investito dal conducente di un veicolo costituisce mera concausa dell’evento lesivo, che non esclude la responsabilità del conducente e può costituire causa sopravvenuta, da sola sufficiente a determinare l’evento, soltanto nel caso in cui risulti del tutto eccezionale, atipico, non previsto né prevedibile, cioè quando il conducente si sia trovato, per motivi estranei ad ogni suo obbligo di diligenza, nella oggettiva impossibilità di avvistare il pedone ed osservarne per tempo i movimenti, che risultino attuati in modo rapido, inatteso ed imprevedibile, poiché l’utente della strada deve regolare la propria condotta in modo che essa non costituisca pericolo per la sicurezza di persone e cose, tenendo anche conto della possibilità di comportamenti irregolari altrui, sempre che questi ultimi non risultino assolutamente imprevedibili. Campania: il programma di lavoro del Garante regionale dei diritti dei detenuti Ansa, 25 ottobre 2017 “Sono felice che il Consiglio regionale abbia eletto Ciambriello come Garante dei detenuti perché è un uomo di trincea, da sempre impegnato nel sociale, che saprà affrontare le gravi problematiche di questo settore e particolarmente quelle che riguardano i minori”. È quanto ha affermato la Presidente del Consiglio Regionale della Campania, Rosa D’Amelio, nella conferenza tenuta stamni in Consiglio regionale insieme con il Garante dei Detenuti Samuele Ciambriello per la presentazione del programma di attività. “Ho chiesto al Garante dei detenuti un impegno per i minori perché, in una regione che ha un’elevata percentuale di delinquenza minorile, dobbiamo lavorare per prevenzione e per il recupero di questi ragazzi” - ha sottolineato D’Amelio - che ha aggiunto: “nel carcere va certamente scontata la pena in condizioni umane e dignitose ma bisogna lavorare per il reinserimento lavorativo e sociale perché il problema più grave è quello delle recidive. Per questo dobbiamo lavorare in sinergia con il Ministero della Giustizia e con le Associazioni di volontariato per affrontare questo grande tema che impatta sull’intera società”. “Ringrazio il Consiglio regionale per avermi eletto - ha detto Ciambriello - da quattro settimane sono Garante dei Detenuti e abbiamo già dato vita a colloqui con quindici detenuti a Secondigliano e dieci a Poggioreale; tra i principali problemi che stiamo riscontrando c’è quello della sanità: i detenuti aspettano dai sei ai dieci mesi per ottenere una visita cardiologica e fino a due anni per un intervento chirurgico, gran parte di questi ritardi dipendono dalla difficoltà di garantire il personale necessario per l’accompagnamento in ospedale e dalla disponibilità degli specialisti ospedalieri. Sarebbe, invece, opportuno, attivare le cure presso le stesse strutture carcerarie e l’acquisto di adeguate strumentazioni mediche in carcere”. Per Ciambriello, la difficoltà nell’accesso alle cure mediche dipende anche dalla problematica relativa alla carenza di agenti di Polizia Penitenziaria: “in Campania abbiamo 4100 poliziotti penitenziari e ne mancano 400, il problema del sotto organico è gravissimo, così come quello del sovraffollamento: negli istituti penitenziari campani abbiamo 7219 detenuti a fronte di 6120 posti, è chiaro che ci sono 1190 persone che sono in sovrannumero e che, quindi, versano in condizioni invivibili”. Sul problema dei minori, Ciambriello ha ricordato che nel carcere minorile di Nisida vi sono 57 detenuti minori e che, a 200 metri, c’è un altro carcere che ospita sei giovani detenute e, nel carcere minorile di Airola ce ne sono 32. Nel 2016 sono stati 5000 i minori in Campania che hanno ricevuto denunce penali e amministrative, un numero molto elevato che evidenzia quanto sia importante agire per la prevenzione e per il recupero di questi giovani, un problema centrale sul quale si concentrerà l’azione del Garante dei detenuti”. Infine, altro tema centrale, ha aggiunto Ciambriello, “è quello determinato dalla chiusura degli Opg che ha provocato il riversamento dei detenuti psichiatrici nelle carceri comuni: nella nostra regione abbiamo solo quattro Rems che ospitano 80 pazienti con patologie mentali, tutti gli altri sono impropriamente nelle carceri di Secondigliano, Pozzuoli e Sant’Angelo dei Lombardi e questo costituisce una ulteriore emergenza che abbiamo intenzione di contribuire ad affrontare”. Infine, la necessità della territorialità della pena: “migliaia di detenuti sono nelle carceri fuori regione, agiremo nei confronti dei Ministeri competenti affinché si possano realizzare nuovi istituti penitenziari in Campania e porre fine alle deprivazione degli affetti che attualmente i detenuti campani devono subire”. Milano: il carcere di San Vittore intitolato al maresciallo Di Cataldo, il ricordo del figlio di Alberto Di Cataldo Corriere della Sera, 25 ottobre 2017 “Ciao, caro papà Grazie a te oggi si lavora in cella”. “Scesi le scale in tempo per vedere i tuoi occhi verde azzurro sgranati, mentre un lenzuolo bianco ti copriva”. Scrive così Alberto, figlio del maresciallo della polizia penitenziaria Francesco Di Cataldo, vicecomandante del carcere milanese di San Vittore, ucciso dalle Brigate Rosse sotto casa il 20 aprile del 1978. Nei suoi quasi trent’anni di servizio tra i raggi del penitenziario, il maresciallo si prodigò perché il lavoro entrasse in carcere e favorisse il recupero dei detenuti. “Per questo ti hanno ucciso - continua il figlio, e tu avevi ragione, l’occupazione abbatte la recidiva. E anche se manchi da 40 anni, sei un padre ancora presente”. Il 20 aprile 1978 il vicecomandante del carcere di San Vittore, Francesco Di Cataldo, classe 1926, sposato con due figli, venne ucciso da due terroristi delle Brigate rosse mentre camminava verso la fermata del filobus per andare a lavorare. Nei suoi 28 anni di servizio nel penitenziario milanese, Di Cataldo si prodigò per migliorare le condizioni sanitarie dei detenuti e, soprattutto, per dare loro la possibilità di svolgere un lavoro. Da oggi (cerimonia alle 11) il carcere di San Vittore sarà intitolato a Di Cataldo. Pubblichiamo la lettera con cui lo ricorda il figlio Alberto, che all’epoca aveva 19 anni. Caro papà, quella sera entrasti in casa con un grosso interruttore elettrico. Lo passavi da una mano all’altra e lo guardavi felice come un bambino. Perché quell’euforia? Cominciai a capirlo mesi dopo. E precisamente da quando, alle 7 e 10 del 20 aprile 1978 mi affacciai al balcone e ti vidi disteso per terra, supino. Scesi le scale appena in tempo per vedere i tuoi occhi verde azzurro sgranati. Un lenzuolo bianco scese sul tuo corpo e noi due non potemmo più parlarci. Tutta colpa di quell’interruttore. E delle prime lavorazioni manuali che dall’esterno si introducevano in carcere. Nelle mani impazienti dei detenuti di San Vittore, il carcere di cui eri vicecomandante e punto di riferimento per molti, l’assemblaggio manuale rafforzava la tua convinzione di sempre: il lavoro. Il lavoro è la principale attività per la rieducazione dei condannati. Molti tuoi colleghi condividevano, qualcuno diffidava ma tu andasti avanti. Caparbio come solo tu sapevi essere e come ben dissimulavi, metodico, col tuo atteggiamento gentile e disponibile verso tutti: detenuti e agenti, magistrati, avvocati e operatori del carcere. Potevi tu in quei giorni, con quell’interruttore in mano e con Aldo Moro “in prigione”, duellare con chi aveva aperto la campagna contro le carceri? Con chi, misero e fanatico, ti spacciava torturatore di detenuti come scrissero nel volantino di rivendicazione le Brigate rosse? Che smarrimento e che disperazione nei mesi successivi. In casa nostra come a San Vittore. Noi figli con la mamma barcollammo parecchio e alcuni agenti non ressero il trauma e si congedarono. Pareva tutto perduto. Poi iniziammo a ricostruire, perché poco sapevamo visto quanto eri riservato, i tuoi 28 anni ininterrotti a San Vittore. Dal viaggio di studio penitenziario in Inghilterra, Portogallo e Spagna nel maggio del 1953 alla paziente realizzazione di migliori condizioni sanitarie dentro il carcere. Sei stato maresciallo e hai anche diretto la farmacia, hai preso il diploma di infermiere e pure il brevetto di tecnico radiologo. E poi il lavoro in carcere: gli apparati elettrici, le biro e le altre lavorazioni. Un’attività incessante, con cui tu, insieme a molti tuoi colleghi del tempo, hai gettato le basi solide per il dopo. È stato un crescendo, papà. A fianco di San Vittore è nato il carcere di Opera e poi quello di Bollate. Dentro le carceri milanesi ci sono panettieri, florovivaisti e liutai. Meccanici, muratori e falegnami. E cuochi, naturalmente. Con tanto di ristorante dentro il carcere di Bollate. Addirittura, e sicuramente sorrideresti divertito, le detenute di San Vittore cuciono le toghe per i magistrati. Non è stato facile e moltissimo resta ancora da fare. Ma avevi ragione tu. Il lavoro ai detenuti abbatte la recidiva da oltre il 70% a meno del 19%. In alcuni casi al 12%. A Milano. Lavoro vuol dire meno detenuti in carcere. Minor spesa pubblica e più sicurezza. Che onore al concittadino Cesare Beccaria, ai suoi delitti e alla sua concezione delle pene. Milano... la tua amata Milano. E dove potevi sbarcare se non qui, nel 1950, appena 24enne provenendo da Barletta? Da quella città pugliese dove ogni estate abbiamo trascorso vacanze di indimenticabile allegria ma sempre dominate dal solito imperativo: il lavoro! Noi, da milanesi in vacanza, ci scappava di fermarci a rimirare il mare o il magnifico Castello Svevo. Subito zii e cugini ci riprendevano stupiti: uagliò, embè, che stai a fare? Bisognava cimentarsi comunque in qualcosa: lavorare in campagna, aiutare lo zio in negozio o fare la spesa. Per forza. Quella forza originaria fatta di intelligenza e di tanta perseveranza che hai portato dentro San Vittore. Un lavoro tenacissimo e silenzioso, lontano da quei gesti eclatanti e momentanei, spacciati come risolutivi di cui tanto diffidavi. Il lavoro di lunga durata, l’unico che lascia tracce che altri, dopo di noi, non possono cancellare. Per me, dirigente pubblico, è tuttora l’insegnamento più potente che mi hai lasciato. Oggi Milano è un esempio, non solo nazionale, del tentativo permanente di rieducare i detenuti. Vi partecipano le carceri, gli altri enti pubblici e un numero impensabile di associazioni, cooperative e singoli volontari. Dentro questo immenso, faticoso e necessariamente incompleto lavoro trovo sempre una traccia di te. Passando da Piazza Filangieri 2, un simbolo di Milano come il Carcere di San Vittore si chiamerà, da oggi, San Vittore-Francesco Di Cataldo. Credo che tu te lo sia meritato. Sei stato sicuramente un bravo funzionario dello Stato. E sei stato un buon padre. Assente da quarant’anni, ma sempre presente. Fino a togliere il respiro. Cagliari: la cooperativa Elan e i detenuti minorenni impiegati in lavanderia di Giorgia Daga L’Unione Sarda, 25 ottobre 2017 Ci sarà anche la cooperativa sociale Elan con il suo progetto di inclusione sociale portato avanti nella lavanderia del carcere minorile di Quartucciu, alla quarantottesima edizione della Settimana Sociale dei Cattolici Italiani, che si terrà a Cagliari da venerdì a domenica. La cooperativa è stata selezionata per presentare la sua esperienza, con lo scopo di trasmettere il valore del lavoro e la sua valenza educativa, favorendo il recupero sociale e l’accrescimento personale. La coop avrà uno spazio venerdì pomeriggio al teatro Sant’Eulalia dove gli operatori racconteranno com’è nata la cooperativa e quali sono i suoi progetti, focalizzando l’attenzione sull’inserimento lavorativo dei minori sottoposti a provvedimenti penali. Tutti i giovani detenuti che lavano, stirano, piegano, imbustano e smacchiano, sono impiegati attraverso un regolare contratto di tirocinio formativo e di orientamento e durante le attività lavorative e formative sono affiancati da un tutor di accompagnamento. Alla conclusione della detenzione i ragazzi più meritevoli, grazie ad un progetto denominato “Io Sono pulito”, finanziato dal Centro di Giustizia Minorile e realizzato dal Consorzio Solidarietà, hanno la possibilità di proseguire l’esperienza lavorativa in altre lavanderie all’esterno, dislocate nella provincia di Cagliari. Torino: oggi la consegna ai detenuti della Guida ai diritti e del vademecum cr.piemonte.it, 25 ottobre 2017 Mercoledì 25 ottobre, a partire dalle ore 9, la guida ai diritti e il vademecum con i riferimenti utili per la comunità penitenziaria saranno presentati e consegnati ai detenuti della Casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino. All’incontro saranno presenti la vicepresidente del Comitato regionale per i Diritti umani Enrica Baricco, con il garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Bruno Mellano e la direttrice del dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino Laura Scomparin. “Nato da un’idea del Comitato, condivisa dal garante dei detenuti - dichiara Baricco - il vademecum si propone come strumento conoscitivo e informativo che, insieme alla guida ai diritti realizzata dal dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino, intendiamo consegnare ai detenuti ristretti nelle tredici carceri del Piemonte per fornire loro informazioni e contatti utili come, ad esempio, i recapiti delle associazioni di volontariato che operano nelle carceri regionali. Il Comitato ha sostenuto fin dall’inizio il progetto nella convinzione che le sinergie tra istituzioni siano fondamentali per raggiungere obiettivi importanti come aiutare i detenuti italiani e stranieri a essere consapevoli dei propri diritti e a trovare opportunità di reinserimento nella società”. Giovedì 26 e venerdì 27 ottobre Mellano prende inoltre parte a una serie di proiezioni tra Torino e Asti del docu-film “Spes contra spem - Liberi dentro” di Ambrogio Crespi, che affronta temi legati all’ergastolo e alle pene ostative. Si comincia il 26 alle 10 nella Sala delle Colonne del Comune di Torino per proseguire alle 13 nella Casa circondariale Lorusso e Cutugno con una proiezione chiusa al pubblico ma aperta alla stampa e alle 17 nell’Aula A1 del Campus Einaudi di Lungo Dora Siena 100/A nell’ambito della rassegna “eVisioni 2017 - Prove di libertà”, curata dal professor Claudio Sarzotti del dipartimento di Giurisprudenza. Si prosegue il 27 alle 9 alla Casa di reclusione ad alta sicurezza di Asti, frazione Quarto Inferiore 266, anche in questo caso con la partecipazione dei detenuti e degli operatori dei media. All’iniziativa - proposta e realizzata dal garante in collaborazione con l’Amministrazione penitenziaria, il Comune e l’Università degli studi di Torino - intervengono Sergio D’Elia e Sergio Segio, rispettivamente segretario e componente del direttivo dell’Associazione Nessuno tocchi Caino ed Elisabetta Zamparutti, rappresentante italiana del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti. Prodotto dall’Associazione Nessuno tocchi Caino e Indexway, presentato con successo alla 73esima Mostra internazionale del cinema di Venezia e alla Festa del cinema di Roma su stimolo e impulso del ministro della Giustizia Andrea Orlando, “Spes contra spem” è il frutto del dialogo e della riflessione comune di detenuti e operatori penitenziari della Casa di reclusione di Opera (Mi): dalle testimonianze raccolte emerge l’immagine di un carcere che, rendendo possibili ai detenuti percorsi individualizzati di cambiamento e di revisione critica del proprio operato, riesce - in alcuni casi - ad avvicinarsi alla previsione costituzionale dell’art. 27, contribuendo a rendere le persone coinvolte protagoniste di un profondo cambiamento e, quindi, autenticamente libere. Mantova: progetto “Sapori di libertà”, entro marzo la nuova mensa del carcere di Barbara Rodella Gazzetta di Mantova, 25 ottobre 2017 In cucina e nel laboratorio del pane la formazione dei detenuti. Una nuova cucina e un laboratorio di panificazione nell’ex legatoria. Al piano di sopra, nell’auditorium, ci sarà invece la nuova mensa. Procede nella Casa circondariale di via Poma il progetto “Sapori di libertà”. L’iniziativa, promossa dall’associazione Libra grazie a un contributo di 250mila euro delle Fondazioni Cariverona, Banca del Monte Lombardia e Comunità Mantovana e di altri donatori, punta a dare nuova vita ai 147 metri quadrati di una palazzina, interna al perimetro del carcere, che dà su via Grioli. La scelta non è casuale. “La cucina - spiega Alessandra Morselli vice presidente di Libra - si trova sotto l’auditorium. Una sala che, sempre grazie a un nostro progetto realizzato tra il 2015 e il 2016 con un finanziamento di 110mila euro delle fondazioni Cariverona e Comunità Mantovana, è stata ristrutturata e dotata di tutti gli arredi per trasformarsi in mensa, servizio che al momento manca alla struttura di via Poma dove i detenuti consumano i pasti in cella. Per collegare i due locali, la mensa e la cucina, presto inizieranno i lavori per fare il montacarichi per il cibo”. Per agevolare il percorso dei detenuti sarà costruito un passaggio coperto e riparato che unirà la sezione maschile alla palazzina. Il progetto, denominato “Cassa ammende”, è partito a settembre - grazie a un fondo di 50mila euro del Ministero della giustizia - e sarà terminato a fine anno. Gli interventi per l’iniziativa “Sapori di libertà” sono iniziati invece a luglio. Dopo quattro mesi i primi risultati: è stata abbattuta la parete che separava l’ex legatoria dalla palestra ed è stata ricostruita a distanza di qualche metro per dare più spazio al nuovo locale; è stato costruito un muro tra cucina e laboratorio e sono state realizzate nuove divisorie per creare spazi adibiti a bagno e spogliatoio. Conclusi anche i lavori per il riscaldamento che prevede un sistema radiante a soffitto. Innovativo, visto che funge anche da controsoffitto e rivestimento antincendio. Il completamento delle opere di edilizia e impiantistica è previsto per fine gennaio. A fine marzo la struttura dovrebbe essere operativa con tutta l’attrezzatura, dai forni ai frigo, ai carrelli, alle macchine impastatrici. Gli interventi di ristrutturazione vedono rimboccarsi le maniche, accanto ai professionisti, sette detenuti che, affiancando gli esperti, acquisiscono competenze, certificate da un attestato, che saranno spendibili una volta fuori dal carcere. Proprio la formazione dei detenuti è tra gli obiettivi di “Sapori di libertà”. “Sia in cucina che nel laboratorio di panificazione partiranno dei corsi per dare competenze certificate per un facile reinserimento nella società - spiega la Morselli - c’è anche l’idea di dare vita a una cooperativa in cui lavorino detenuti qualificati che produrrà pane a km zero in via Poma per fornire mense scolastiche, case di riposo e ospedali”. Torino: “Spes contra spem. Liberi dentro”, immagini e testimonianze dal “fine pena mai” lettera21.org, 25 ottobre 2017 “Spes contra spem - Liberi dentro” è il titolo del docu-film diretto da Ambrogio Crespi che verrà proiettato il 26 ottobre e 27 ottobre prossimi in diverse location istituzionali, a Torino e ad Asti. Il programma, infatti, prevede per giovedì 26 ottobre una prima proiezione a Palazzo di Città, in Sala delle Colonne, organizzata dai Garanti delle persone detenute del Comune e della Regione Piemonte; seguirà un altro appuntamento, questa volta non aperto al pubblico ma ai detenuti ed alla stampa, alle 13.00 presso la Casa circondariale “Lorusso e Cutugno” in via Adelaide Aglietta n.35. Chiude la giornata l’evento di presentazione al CLE (Campus Luigi Einaudi) di Lungo Dora Siena 100/A, alle 17.00 in Aula A1, all’interno del programma della rassegna “eVisioni 2017 - Prove di libertà” curato dal professor Claudio Sarzotti del Dipartimento di Giurisprudenza. Venerdì 27 ottobre è infine prevista una proiezione presso la Casa di reclusione ad alta sicurezza di Asti, frazione Quarto Inferiore n. 266, anche in questo caso per i detenuti e con la partecipazione degli operatori dei media. L’iniziativa - proposta dal Garante delle persone detenute della Regione Piemonte e realizzata in collaborazione con l’Amministrazione penitenziaria, il Comune e l’Università degli studi di Torino - intende offrire, attraverso la presentazione dell’interessante pellicola, spunti di riflessione sulle realtà dell’ergastolo e delle pene ostative. In tutti gli appuntamenti il film sarà introdotto e il dibattito animato dagli interventi di Sergio d’Elia e Sergio Segio, rispettivamente segretario e componente del direttivo dell’Associazione Nessuno tocchi Caino e vedrà la partecipazione di Elisabetta Zamparutti, rappresentante italiana nel CPT (Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti). Prodotto da Nessuno tocchi Caino e Indexway, presentato con successo alla 73esima Mostra internazionale d’Arte cinematografica di Venezia e alla Festa del Cinema di Roma su stimolo e impulso del Ministro della Giustizia Andrea Orlando, “Spes contra spem” è il frutto del dialogo e della riflessione comune di detenuti e operatori penitenziari della Casa di reclusione di Opera (Mi) e si compone d’immagini e interviste con detenuti condannati all’ergastolo, il direttore del carcere Giacinto Siciliano, agenti di polizia penitenziaria e il Presidente del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Santi Consolo. Dalle testimonianze raccolte nel film emerge l’immagine di un carcere che, rendendo possibili percorsi individualizzati di cambiamento e revisione critica dei ristretti, riesce - in alcuni casi - ad avvicinarsi alla previsione costituzionale dell’art. 27, contribuendo a rendere le persone coinvolte protagoniste di un profondo cambiamento e, quindi, autenticamente libere. Foggia: al liceo artistico “Perugini” percorsi di legalità con il libro “Colpevoli” Ristretti Orizzonti, 25 ottobre 2017 Gli studenti del liceo foggiano coinvolti in produzioni artistiche, reading e progetti sul tema. Si parte giovedì 26 ottobre, in Biblioteca Provinciale, con la presentazione del libro di Annalisa Graziano. Avvicinare gli studenti alla realtà penitenziaria perché il carcere diventi parte integrante della vita sociale, contribuendo a costruire il senso di legalità e l’etica della responsabilità. Questo l’obiettivo del progetto “Il carcere fra immaginario e realtà, per superare gli stereotipi dell’immaginario comune legati a chi sta dentro e chi sta fuori dal carcere”, ideato per gli studenti del Liceo Artistico “Perugini” di Foggia dai docenti Angela Favia, Maria Grifoni e Michele Sisbarra. Il progetto, che vedrà impegnati in percorsi di legalità gli studenti delle quarte e quinte classi per 5 mesi, prenderà il via il prossimo 26 ottobre, alle ore 9.00, presso l’Auditorium della Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia, con la presentazione del libro “Colpevoli” di Annalisa Graziano. Interverranno, oltre all’autrice, Giuseppe Trecca, Dirigente scolastico dell’I.I.S.S. “Lanza-Perugini”; Claudia Lioia, Assessore all’Istruzione del Comune di Foggia; Roberta Jarussi, bibliotecaria della “Magna Capitana”; Maria Aida Episcopo, Dirigente dell’Ufficio scolastico provinciale; Roberto Lavanna, del CdA della Fondazione dei Monti Uniti di Foggia; Pasquale Marchese, Vicepresidente del CSV Foggia e Michele D’Errico, regista. L’evento, a cui sono stati invitati rappresentanti istituzionali della Casa Circondariale di Foggia, sarà moderato da Michele Sisbarra. “Colpevoli”, edito da la Meridiana con prefazione di don Luigi Ciotti e postfazione di Daniela Marcone, è un viaggio nelle sezioni dell’Istituto Penitenziario foggiano, tra le celle, le aule scolastiche, i passeggi, nella cucina e in tutti i luoghi accessibili. È, soprattutto, la rivelazione delle storie che ci sono dietro i nomi e le foto segnaletiche cui ci hanno abituati la cronaca nera e giudiziaria. Non solo rapinatori, omicidi, ladri e spacciatori, ma anche uomini, padri, figli e mariti con storie che nessuno aveva ancora raccolto. “Colpevoli” alcuni detenuti si sentono fino in fondo, altri in parte. Ma tutti si sono messi in discussione, raccontandosi e hanno “scritto” alcune pagine del libro insieme all’autrice, giornalista, dipendente del CSV Foggia e assistente volontario del carcere. E proprio presso la Casa Circondariale di Foggia è prevista, a febbraio, l’ultima fase del progetto, con il trasferimento degli alunni delle classi V del “Perugini”, che visiteranno la struttura e presenteranno i loro elaborati ai detenuti, partecipando alla Reading Performance curata da Michele D’Errico. Gli studenti, che nel corso dei prossimi mesi saranno impegnati nella lettura del libro, in visioni di film sul tema, in incontri con esperti del settore e di produzione artistica, con strumenti espressivi peculiari dei diversi indirizzi di studio, saranno coinvolti in performance artistiche ispirate al libro “Colpevoli”. Il progetto del Liceo “Perugini” è patrocinato dalla Fondazione dei Monti Uniti di Foggia, Comune di Foggia, Biblioteca provinciale e CSV Foggia. Segreteria CSV Foggia L’antisemitismo, cioè il padre infame degli odii di Piero Sansonetti Il Dubbio, 25 ottobre 2017 Bisogna chiamare le cose con il loro nome. In questo caso il nome è una parola di 13 lettere: antisemitismo. L’antisemitismo è la forma più antica e resistente del razzismo. Si presenta nelle forme più “naturali” nella società moderna. È estesissimo. E può spingere un gruppetto di ragazzi nazisti a pensare che la morte di Anna Frank sia un gioco. L’antisemitismo nasce nel clima di odio, nel linguaggio dell’odio. L’odio come segno di appartenenza, come diritto e gratificazione. E l’odio lo formano i giornali, l’intellighenzia, gli intellettuali, la Tv. Che tra i tifosi di calcio - e non solo tra loro - si annidassero gruppetti di nazisti, si sapeva: non è una grande scoperta. A indignarci più di altre volte, evidentemente, è quel modo orripilante di manifestarsi, oltraggiando la memoria di una ragazzina di 15 anni - dolcissima e famosissima uccisa barbaramente nel lager di Bergen Belsen nel 1945. E autrice di un libro meraviglioso e fondamentale per la nostra cultura, e cioè il suo diario in clandestinità. Oltraggiarla con il sorriso tra le labbra, come se si stesse canticchiando una canzonetta fatta solo per deridere un avversario. È questo che ci colpisce: questa semplicità, normalità, allegria di un pensiero orrido. Questo pensiero orrido ha un nome, e il nome va pronunciato: antisemitismo. L’antisemitismo è l’origine e anche il cuore di tutti i razzismi. Ed è il cuore e l’origine dell’odio, l’odio come sentimento di massa e come modo per esprimere la propria identità e la propria forza. L’antisemitismo è molto più diffuso di come si vuol far credere, e ancora oggi, settant’anni dopo l’atrocità dell’olocausto, resiste, è vivo, condiziona settori molto ampi dell’opinione pubblica. La gravità di quel gesto imbecille, di raffigurare Anna con la maglietta di una squadra di calcio, per chiedere la morte e lo sterminio dei tifosi avversari, sta solo qui: nella normalità dell’antisemitismo e nel rifiuto di guardarlo in faccia. Molte volte si sente dire: “Siete degli ipocriti, volete la burocrazia algida del politically correct, non vi piace la naturalezza e la genuinità del linguaggio colorito. Temete la realtà. Amate i luoghi comuni” . Ecco, è da qui che bisogna partire: dal rifiuto di una semplificazione del linguaggio e del suo significato che autorizza a considerare il disprezzo, l’odio, l’incitamento alla violenza e alla discriminazione, come delle virtù. Il politically correct non è nato per la manie perbenista di qualche pezzo di vecchia borghesia ottocentesca. Tutt’altro. È nato come reazione, esattamente, al razzismo e all’odio. Quando i neri d’America ottennero che non si usasse più il termine nigger, per definirli, perché in quel termine c’era una carica fortissima di rancore e di spregio, non compivano una azione burocratica ma mettevano un mattoncino alla costruzione di un’America moderna, non più schiavista, non più razzista, non più ingiusta e arrogante. Era una operazione del tutto contraria alla burocrazia. La burocrazia era la burocrazia di quelli che dicevano nigger e ritenevano di avere il diritto a dire nigger. Il politically correct era la reazione liberale e moderna a un mondo incivile e antico. E la stessa cosa vale per la modifica del linguaggio nei confronti delle donne, dei deboli, dei disabili, degli appartenenti a minoranze etniche, e naturalmente degli ebrei. Non esiste nessuna possibilità di spingere l’opinione pubblica verso idee liberali e di solidarietà, se il linguaggio resta quello troglodita dei razzisti. Anche perché quel linguaggio, persino quando sfugge la parola, è il segno di un modo profondo di pensare. Contagioso: contagiosissimo. Se uno in Tv dice “mongoloide” (è successo a un giornalista uso a fustigare i costumi) o se un altro dice “negretti” (è successo a un politico uso anche lui ad ergersi a difesa degli oppressi) c’è qualcosa che non va. Non va nel loro pensiero, e questo pensiero fa breccia nell’opinione pubblica. Così come c’è qualcosa che non va nel linguaggio che ogni giorno riempie i giornali. Vi cito un paio di titoli di ieri, copiati dai più importanti quotidiani italiani. Ce n’è uno, per esempio, che definisce il Pd il partito dei dementi. Proprio così: sottile ironia, raffinata polemica? No, semplicemente linguaggio osceno. Un altro dice esattamente così: “Gli immigrati sono matti: lo dicono gli scienziati”. Ti fanno cader le braccia. Ecco, io dico solo questo: se i maggiori opinion leader italiani sono abituati a discutere in questo modo, e a considerare l’insulto, l’improperio, l’offesa come il loro normale metodo di espressione, e di autogratificazione, dobbiamo poi stupirci se l’antisemitismo, e tutti gli altri fenomeni di odio che l’accompagnano, cresce, e si sente legittimato, e considera persino spiritosi certi giochetti con la memoria di Hitler e di Mengele? Donatella Di Cesare e i migranti. In crisi la centralità degli Stati di Donatella Di Cesare Corriere della Sera, 25 ottobre 2017 Serve una nuova politica dell’ospitalità per attuare i diritti umani. La prefazione del nuovo volume della filosofa “Stranieri residenti”, edito da Bollati Boringhieri. Il mondo attuale è suddiviso in una molteplicità di Stati che si fronteggiano e si fiancheggiano. Per i figli della nazione, che sin dalla nascita hanno condiviso l’ottica statocentrica, ancora ben salda e dominante, lo Stato appare un’entità naturale, quasi eterna. La migrazione è allora devianza da arginare, anomalia da abolire. Dal margine esterno il migrante rammenta allo Stato il suo divenire storico, ne scredita la purezza mitica. Ecco perché riflettere sulla migrazione vuol dire anche ripensare lo Stato. Una “filosofia della migrazione” viene qui delineata per la prima volta. Neppure la filosofia ha riconosciuto sinora al migrante diritto di cittadinanza. Solo di recente lo ha ammesso al proprio interno, ma per tenerlo sotto stretta sorveglianza, pronta a respingerlo con il primo foglio di via. Nel primo capitolo di questo libro (Stranieri residenti, Bollati Boringhieri) è stato ricostruito il dibattito, molto acceso nel contesto angloamericano e in quello tedesco, tra i partigiani dei confini chiusi e i promotori degli open borders. Si tratta di due posizioni che rientrano nel liberalismo e, anzi, ne rivelano l’impasse: l’una sostiene l’autodeterminazione sovrana, l’altra rivendica un’astratta libertà di movimento. Da entrambe si prende distanza. Non si vuole contemplare il naufragio dalla riva. Una filosofia che muove dalla migrazione, che dell’accoglienza fa il suo tema inaugurale, lascia che il migrare, sottratto all’arché, al principio che fonda la sovranità, sia punto d’avvio, e che il migrante sia protagonista di un nuovo scenario anarchico. Il punto di vista del migrante non potrà non avere effetti sulla politica come sulla filosofia, non potrà non movimentare entrambe. Migrare non è un dato biologico, bensì un atto esistenziale e politico, il cui diritto deve essere ancora riconosciuto. Questo libro vorrebbe essere un contributo alla richiesta di uno jus migrandi in un’età in cui il tracollo dei diritti umani è tale, che appare lecito chiedersi se non sia stata suggellata la fine dell’ospitalità. Nei libri di storia, che non asseconderanno la narrazione egemonica, si dovrà raccontare che l’Europa, patria dei diritti umani, ha negato l’ospitalità a coloro che fuggivano da guerre, persecuzioni, soprusi, desolazione, fame. Anzi l’ospite potenziale è stato stigmatizzato a priori come nemico. Ma chi era al riparo, protetto dalle frontiere statali, di quelle morti, e di quelle vite, porterà il peso e la responsabilità. Oltre alla terra, uno spazio importante ha in queste pagine il mare, frammezzo che unisce e separa, passaggio che si sottrae ai confini, cancella ogni traccia d’appropriazione, serba memoria di un’altra clandestinità, quella di opposizioni, resistenze, lotte. Non la clandestinità di uno stigma, bensì di una scelta. La rotta del mare indica il risvolto dell’ordine, la sfida dell’altrove e dell’altro. Troppo a lungo la filosofia si è crogiolata nell’uso edificante della parola “altro”, avallando l’idea di un’ospitalità intesa come istanza assoluta e impossibile, sottratta alla politica, relegata alla carità religiosa o all’impegno etico. Ciò ha avuto effetti esiziali. Anacronistico e fuori luogo, il gesto dell’ospitalità, compiuto dagli “umanitari”, quelle anime belle che credono ancora nella giustizia, è stato spesso bersaglio di scherno e denuncia. Anzitutto da parte della politica che crede di dover governare obbedendo allo sciovinismo del benessere e al cinismo securitario. In questo libro il migrante entra nelle porte della Città come straniero residente. Per capire quale ruolo possa svolgere in una politica dell’ospitalità si è percorso un cammino a ritroso, che non segue però un ritmo cronologico. Le tappe sono Atene, Roma, Gerusalemme. Tre tipi di città, tre tipi di cittadinanza ancora validi. Dall’autoctonia ateniese, che spiega molti miti politici di oggi, si distingue la cittadinanza aperta di Roma. L’estraneità regna invece sovrana nella Città biblica, dove cardine della comunità è il gher, lo straniero residente. Letteralmente gher significa “colui che abita”. Ciò contravviene alla logica di saldi steccati che assegnano l’abitare all’autoctono, al cittadino. Il cortocircuito contenuto nella semantica di gher, che collega lo straniero all’abitare, modifica entrambi. Abitare non vuol dire stabilirsi, installarsi, stanziarsi, fare corpo con la terra. Di qui le questioni che riguardano il significato di “abitare” e di “migrare” nell’attuale costellazione dell’esilio planetario. Senza recriminare lo sradicamento, ma senza neppure celebrare l’erranza, si prospetta la possibilità di un ritorno. A indicare la via è lo straniero residente che abita nel solco della separazione dalla terra, riconosciuta inappropriabile, e nel vincolo al cittadino che, a sua volta, scopre di essere straniero residente. Nella Città degli stranieri la cittadinanza coincide con l’ospitalità. Nell’epoca post-nazista è rimasta salda l’idea che sia legittimo decidere con chi coabitare. “Ognuno a casa propria!” La xenofobia populista trova qui il suo punto di forza, il criptorazzismo il suo trampolino. Spesso si ignora, però, che questo è un lascito diretto dell’hitlerismo, primo progetto di rimodellamento biopolitico del pianeta che si proponeva di stabile i criteri della coabitazione. Il gesto discriminatorio rivendica per sé il luogo in modo esclusivo. Chi lo compie si erge a soggetto sovrano che, fantasticando una supposta identità di sé con quel luogo, reclama diritti di proprietà. Come se l’altro, che proprio in quel luogo l’ha già sempre preceduto, non avesse alcun diritto, non fosse, anzi, neppure esistito. Riconoscere la precedenza dell’altro nel luogo in cui è dato abitare vuol dire aprirsi non solo a un’etica della prossimità, ma anche a una politica della coabitazione. Il complicato nel coabitare va inteso nel suo senso più ampio e profondo che, oltre a partecipazione, indica anche simultaneità. Non si tratta di un rigido stare l’uno accanto all’altro. In un mondo attraversato dal concorrere di tanti esili coabitare significa condividere la prossimità spaziale in una convergenza temporale dove il passato di ciascuno possa articolarsi nel presente comune in vista di un comune futuro. Le nuove droghe fanno “impazzire” i ragazzi: aumento di psicosi Corriere della Sera, 25 ottobre 2017 Sempre più frequente l’associazione fra consumo di sostanze psicoattive e patologie psichiatriche: maggiore rischio di suicidio e di comportamenti violenti, che portano a complicanze legali e derive sociali (disoccupazione, divorzi, ed emarginazione. Cocaina, cannabis “rafforzata” e anfetamine, nelle loro ormai infinte varianti, sono il vero dramma della società giovanile. Troppo facili da trovare, troppo “democratiche” per il loro basso costo, troppo difficili da identificare per il continuo mutamento delle formule che le compongono. Troppo web “cattivo” e poca educazione in famiglia. La psichiatria chiede aiuto e risorse per supportare le sempre maggiori richieste di emergenza e di aiuto nei più giovani, ma non solo, che giungono ai dipartimenti di salute mentale. I ricoveri - Le cifre parlano da sole. Le dimissioni ospedaliere dai dipartimenti di salute mentale con diagnosi di disturbi mentali associati a disturbi da uso di sostanze (doppia diagnosi), hanno avuto un incremento di oltre il 2 per cento in questi ultimi quattro anni, con numeri assoluti molto alti (circa 40 mila) e soprattutto con un aumento dei tassi di incidenza nella fascia di età più giovane, 15-24 anni, che è arrivato allo stesso livello degli adulti di 25-44 anni. L’allarme è anche maggiore per i ricoveri di urgenza, con diagnosi principale o secondaria relative a uso di droghe ed è sempre nella fascia d’età 15-24 anni che si registra la crescita più veloce dei consumi . Lo studio - In generale, nel nostro Paese il numero complessivo di accessi al Pronto Soccorso per motivi psichiatrici è pari a 585.087, e rappresenta circa il 2% del totale di accessi al PS . Il 6,8 per cento degli accessi psichiatrici (39.785 accessi) è riconducibile a casi di alcolismo e tossicomanie. E questi dati trovano conferma anche in uno studio sui 273 clienti, tra i 18 e i 30 anni, di cinque club romani: il 78% riferiva un pregresso utilizzo delle cosiddette “nuove sostanze psicoattive” (Nps), mentre l’89% parlava di utilizzo corrente di cocaina. Carta dei Servizi - Di tutti questi numeri e problemi si è parlato oggi al convegno di presentazione della nuova “Carta dei Servizi dei pazienti in condizioni cliniche di comorbilità tra disturbi mentali e disturbi da uso di sostanze e addiction (doppia diagnosi)”, organizzato da Federsed (Federazione Italiana degli operatori dei Dipartimenti e dei Servizi delle Dipendenze), SIP (Società Italiana di Psichiatria) e Sinpia (Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza), che si è svolto a Roma. “La contemporanea presenza di disturbo mentale e disturbo da uso di “sostanze”, usualmente definita condizione di ‘doppia diagnosi’ - spiega Bernardo Carpiniello, che dirige il Dipartimento di salute mentale all’Università di Cagliari - è oggi particolarmente frequente”. I bisogni - “I numeri - precisa Claudio Mencacci, past president della Società Italiana di Psichiatria e direttore del Dipartimento di Neuroscienze dell’ASST Fatebenefratelli-Sacco di Milano - ci dicono che nell’ambito dell’urgenza psichiatrica (ma non solo) serve intervenire molto in fretta. I servizi devono essere impostati e coordinati per rispondere a nuove emergenze e nuovi bisogni. A tanti anni dalle leggi di riforma per le tossicodipendenze (42 anni) e la psichiatria (39 anni) serve pensare a nuovi percorsi che rispondano meglio alla realtà di oggi. Ricordando che le sostanze stupefacenti non sono più quelle tradizionali: l’attenzione deve andare alle nuove sostanze psicoattive. Sono le Novel Psychoactive Substances, spesso non note alle forze dell’ordine, non rilevabili ai comuni test tossicologici. Si tratta di un’amplissima categoria che comprende principalmente: cannabinoidi sintetici (spice), catinoni (mefedrone e derivati), fenetilamine, e altre minori ma non meno pericolose. Sono estremamente potenti - continua Mencacci - e causa di gravi alterazioni psicopatologiche in un’ampia percentuale di utilizzatori. Spesso vendute su Internet, poco note nella popolazione generale ma estremamente popolari tra i giovani e i giovanissimi”. Rischi raddoppiati - “I dati che provengono dagli studi sulle persone che fanno uso di sostanze, assistite nei Servizi per le Dipendenze (SerD) o le comunità terapeutiche, sono preoccupanti - aggiunge Carpiniello - I tassi di comorbidità con disturbi mentali oscillano fra il 30 e il 60 per cento dei casi. Nella maggioranza dei soggetti siamo in presenza di disturbi di personalità e/o disturbi psicotici e dell’umore. La evidente frequenza con cui disturbi mentali e da uso di sostanze sono associati indica con molta chiarezza una loro interdipendenza. Essere affetti da un disturbo mentale aumenta infatti significativamente il rischio di sviluppare un uso patologico di sostanze e, viceversa, l’uso di sostanze è effettivamente un importante fattore di rischio di sviluppo di una patologia mentale”. Conseguenze drammatiche - Le conseguenze di tale comorbilità sono gravi, talora drammatiche. Aggiunge Mencacci: “Peggior decorso e minore risposta ai trattamenti sia del disturbo psichico, sia dell’uso di sostanze, maggiore rischio di suicidio e di comportamenti violenti, incrementato rischio di patologie fisiche, di complicanze legali, e di deriva sociale (disoccupazione, divorzi e separazioni, stigmatizzazione ed emarginazione). Per questo la Società Italiana di Psichiatria, attraverso la sua Sezione Speciale SIP-Dip (Società Italiana di Psichiatria delle Dipendenze) da anni si batte per la sensibilizzazione dell’opinione pubblica e gli enti governativi e regionali su tali problemi, per la formazione degli operatori e la promozione di studi e ricerche, ma soprattutto per un cambiamento profondo dell’organizzazione sanitaria attuale, che affida il settore della cura dei disturbi mentali e dei disturbi da uso di sostanze a servizi separati ed indipendenti, quasi sempre operanti in modo scollegato fra di loro”. Innovazioni indispensabili - Consapevole della dispendiosità e inefficienza di un tale sistema, la SIP ritiene fondamentali per affrontare questa nuova emergenza sanitaria una serie di innovazioni: l’elaborazione di linee-guida per l’organizzazione degli interventi ed una gestione “modernizzata” e integrata dei servizi; una politica di programmazione basata sulle evidenze scientifiche prodotte dalla letteratura di ricerca e clinica; l’implementazione di programmi di trattamento specifici e integrati per i pazienti dei Dipartimenti di salute mentale affetti da disturbi mentali gravi (schizofrenia, disturbi bipolari e disturbi gravi della personalità) che impiegano sostanze e viceversa per i pazienti dei Servizi per le tossicodipendenze affetti da disturbi mentali; programmi operativi più precisi e univoci in ambito nazionale in merito alla gestione delle condizioni di emergenza/urgenza con particolare riferimento ai ricoveri ospedalieri, volontari e in Tso (trattamento sanitario obbligatorio); l’organizzazione di protocolli di intesa, basati su linee guida nazionali, tra Dipartimento di salute mentale e Servizi per tossicodipendenze almeno per quelle realtà regionali che non si avviano alla “fusione” dei servizi nell’alveo del Dipartementi; una costante rafforzamento dei programmi di formazione, anche reciproca, per gli operatori. Grecia. “Tsipras trasferisca i richiedenti asilo in terraferma”, l’appello di 19 Ong di Riccardo Noury Corriere della Sera, 25 ottobre 2017 Diciannove organizzazioni per i diritti umani e per l’aiuto umanitario hanno chiesto, con una lettera aperta, al primo ministro della Grecia Alexis Tsipras di porre fine alla “politica di contenimento” adottata dal governo di Atene per trattenere i richiedenti asilo sulle isole dell’Egeo. Migliaia di persone, tra cui bambini, donne sole o in gravidanza e persone con disabilità, sono bloccate sulle isole greche in condizioni terribili proprio mentre si approssima la stagione fredda. Costringere i richiedenti asilo a sopportare condizioni che violano i loro diritti umani e pregiudicano il loro benessere, la loro salute e la loro dignità non può essere giustificato dall’attuazione dell’accordo tra Unione europea e Turchia. Dal marzo 2016, quando l’accordo è entrato in vigore, le isole greche di Lesbo, Chio, Samo, Coo e Lero sono diventate luoghi di confino a tempo indeterminato, in alcuni casi già da 19 mesi. Migliaia di donne uomini e bambini sono intrappolati in condizioni deprecabili e precarie a molti di loro viene negato l’accesso a un’adeguata procedura d’asilo. Il recente aumento degli arrivi ha incrementato la pressione sui già sovraffollati “hotspot”, ossia i centri d’accoglienza e d’identificazione, delle isole greche. Il numero dei nuovi arrivi è ancora relativamente basso e dovrebbe essere pienamente gestibile tanto dalla Grecia quanto dall’Unione europea, ma la proporzione di donne e bambini è elevata. La situazione è particolarmente critica a Samo e Lesbo, dove oltre 8300 richiedenti asilo e migranti sono trattenuti in “hotspot” che potrebbero accoglierne solo 3000. Il recente annuncio del prossimo trasferimento di 2000 richiedenti asilo da due isole verso la terraferma come misura d’emergenza per decongestionare la situazione, è un passo positivo ma non sarà sufficiente ad alleviare il sovraffollamento e non affronterà i problemi di fondo che la “politica di contenimento” ha causato. Con l’approssimarsi del terzo inverno da quando sono iniziati gli arrivi su grande scala, è evidente che le autorità greche non sono in grado di venire incontro ai bisogni essenziali e di proteggere i diritti dei richiedenti asilo finché questi rimarranno sulle isole dell’Egeo. I richiedenti asilo dovrebbero essere trasferiti sulla terraferma in modo da poter ricevere un’accoglienza adeguata e tutti i servizi necessari ai loro bisogni e da poter accedere a procedure d’asilo eque. Brasile. Estradizione Battisti: la Corte Suprema rinvia la decisione di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 25 ottobre 2017 Ora la battaglia è sull’estradizione. Il caso verrà esaminato la prossima settimana, ma di fatto i giudici brasiliani hanno negato l’“habeas corpus”. Per ora l’ex terrorista rimarrà libero, ma dovrà rispettare tre misure cautelari. Il destino di Cesare Battisti non è stato ancora deciso. Lo sarà, forse, la prossima settimana. Il presidente della Prima sezione del Tribunale Supremo Federale (Tsf), Luiz Fux, chiamato a pronunciarsi su una richiesta di “habeas corpus” presentata dalla difesa dell’ex militante dei Pac, ha annullato l’udienza per un difetto nella procedura. A suo parere, la richiesta di libertà non ha più i presupposti che aveva invece il 5 ottobre scorso quando Battisti era stato fermato e poi arrestato al confine tra Brasile e Bolivia per violazione della legge valutaria. Il fatto che il nostro connazionale si trovi in libertà, sebbene condizionata da una serie di misure restrittive come l’obbligo di risiedere a Cananeia, sulla costa atlantica meridionale dello Stato di San Paolo, di presentarsi ogni mese in Tribunale e di portare, se sarà disponibile, un braccialetto elettronico, rende superata l’istanza del collegio difensivo. Così, dopo una breve udienza, il presidente Fux ha deciso di modificare l’habeas corpus in un semplice esposto e ha ordinato la fissazione di una nuova udienza per la prossima settimana. La scelta puramente tecnico-giuridica dell’alto magistrato viene interpretata con diverse letture. C’è chi sostiene che si tratta di un atto dovuto proprio per non violare il codice di procedura; c’è invece chi afferma che la sentenza ha svilito la mossa della difesa e aperto la strada verso un giudizio sfavorevole a Battisti. Non si tratta dell’ennesimo rinvio tra i tanti che hanno costellato questa vera odissea giudiziaria. Ogni iniziativa deve seguire in modo ineccepibile i codici di procedura per evitare dei ricorsi che annullerebbero i diversi pronunciamenti e farebbero ricominciare daccapo l’intera vicenda. Il Tribunale Supremo Federale ha solo deciso di affrontare il vero nodo della questione: la nuova richiesta di estradizione sollecitata dall’Italia per far rimpatriare l’ex militante dei Pac, condannato a due ergastoli per omicidio e concorso in omicidio di quattro persone. Dovrà ribadire una decisione già presa nel 2009 a stretta maggioranza (3 voti contro; 4 a favore), respinta dall’ex presidente Lula e vedere se è modificabile dall’attuale Capo dello Stato. Nella prossima udienza, il giudice Fuz, assieme agli altri quattro componenti della sezione, Alexandre de Moraes, Luís Roberto Barroso, Rosa Weber e Marco Aurélio Mello, avrà tre opzioni: accogliere il ricorso, respingerlo perché infondato, trasmetterlo al plenum del Supremo, composto da 11 membri. Nella sua valutazione terrà conto anche delle valutazioni espresse dall’Ufficio della Procura generale e dal ministro della Giustizia. Il primo, proprio ieri, aveva sostenuto il diritto del presidente Michel Temer a rivedere la decisione dell’allora presidente Inácio Lula da Silva che nel 2010 aveva negato l’estradizione richiesta dall’Italia. “Si tratta”, aveva motivato la Procura generale, “di un atto altamente politico. Il margine di discrezione è dunque ampio, vi è una chiara libertà di scelta e una flessibilità di giudizio. Visti gli interessi legati alla vicenda e l’attuazione dei trattati internazionali, esiste una possibilità di revisione. Le circostanze sulla mancata consegna della persona da estradare possono mutare nel tempo e rendere possibile una nuova valutazione da parte dello Stato”. La Procura ha anche suggerito di affidare al plenum l’ultima parola. Il ministro della Giustizia si era espresso a favore dell’estradizione. Aveva definito il tentativo di fuga di Battisti come “un’offesa” al Brasile e “una violazione della fiducia” che il paese aveva offerto al nostro connazionale concedendogli asilo sette anni fa. Nervoso e preoccupato, Cesare Battisti è rimasto le ultime due settimane chiuso nella casa dove viene ospitato da una coppia di suoi amici. Ha concesso qualche intervista e rilasciato dichiarazioni volanti. Rompe l’attesa scrivendo il suo ventiduesimo romanzo. Un poliziesco. Ieri si è lasciato andare a uno sfogo quasi surreale. Ha detto di temere per la sua vita. “Ho paura della violenza fisica da parte dell’Italia. Lo ha dimostrato in diverse occasioni. Hanno cercato di rapirmi nel 2015 e lo stesso tentativo c’è stato adesso a Corumbá. Non temo la giustizia, temo un’operazione illegale da parte di mercenari italiani. Quelli che dovrebbero prendersi cura di me in Italia sono gli stessi che vogliono uccidermi”. Il suo sogno sarebbe quello di continuare a stare in Brasile. “Voglio finire di costruire la mia casa qui a Cananeia e vivere con la mia famiglia”. La nuova moglie di Battisti, Priscila Pereira, con la quale ha un bambino, il terzo, ha scritto una lettera-appello alla presidente del TSG, Cármen Lúcia. “La prego di consentire a Cesare di continuare a vivere in questo paese”, scrive la donna, “così come gli è stato consentito già una volta. In questo modo avrà il diritto ad esercitare il ruolo di padre e il nostro bambino a crescere in una casa supportato da entrambi i genitori”. La decima sezione del Tribunale provinciale di San Paolo in mattinata aveva confermato all’unanimità l’ordine di scarcerazione emesso dal giudice dieci giorni fa. “Una violazione delle leggi valutarie”, hanno motivato i giudici, “non è un reato che prevede il carcere. L’imputato dovrà comunque assolvere agli obblighi previsti della libertà condizionata”. Una sentenza che nei fatti ha annullato la domanda per l’habeas corpus presentata dalla difesa. Tunisia. Ex detenuti in fuga via mare verso l’Italia: “la Guardia costiera ci lascia passare” di Niccolò Zancan La Stampa, 25 ottobre 2017 Da luglio 2.500 indultati, molti tentano la traversata: “Bastano 400 euro, la metà di un mese fa”. Lo scafista: “È un gioco politico, il presidente chiederà soldi all’Italia per chiudere la rotta”. Alcuni pescatori tunisini usano le loro imbarcazioni per trasportare migranti. “A volte sono direttamente quelli italiani in mare a caricare qualche ragazzo per arrotondare”, dice uno scafista. Quelle laggiù sono le luci di Pantelleria. Radio2 sta trasmettendo l’ultimo notiziario sul referendum in Lombardia e Veneto, mentre un vento freddo alza sul mare una spuma biancastra che unisce le sponde fra Europa e Africa. L’Italia è vicinissima, l’Italia è in saldo: 400 euro per un viaggio di sola andata. La barca di Hamed ne porta trenta alla volta. È di nuovo pronta. Ognuno avrà il suo giubbotto di salvataggio. È l’ottavo carico di ragazzi per questo pescatore trafficante obeso, che dopo aver mandato i suoi scagnozzi a controllare anche nel bagagliaio della nostra auto e pattuito tutte le sue regole di riservatezza, infine si concede. “In questo momento i viaggi costano poco perché la Guardia costiera ci fa passare”, dice sotto un cappellino da baseball dei New York Yankees. “È un gioco politico. Lo sanno tutti. Noi facciamo la nostra parte”. Hamed tiene in faccia un paio di occhiali da sole assurdi, con inserti dorati che luccicano nel buio. “Sono loro che decidono se il mare è aperto o è chiuso. Adesso è aperto. E noi andiamo. Ogni dieci ragazzi che carico, due sono appena usciti di prigione”. Il 23 luglio in Tunisia sono stati liberati 1645 carcerati, altri 1027 il 13 ottobre. Sono usciti dalle carceri di Mournaguia, Borj Amri e Siliana, troppo affollate per garantire anche solo condizioni di vita minimamente accettabili. Il presidente della repubblica tunisina Beji Caid Essebsi, un ex avvocato, concede indulti ogni anno. Non può essere soltanto questa la causa dell’incremento esponenziale delle partenze dalla Tunisia verso l’Italia. “Porto ragazzi giovanissimi, anche un quindicenne. Ho portato diverse giovani donne e un uomo di 45 anni che voleva ricongiungersi alla sua famiglia. La maggior parte, però, sono ventenni. Quelli che escono dal carcere sono quasi tutti consumatori di droga. Nessuno li prende più a lavorare, per questo se ne vogliono andare”. Lo scafista Hamed adesso ride da solo, soddisfatto dei suoi pensieri, mentre si accende un’altra Marlboro. “Certe volte porto anche casse di sigarette per voi italiani, altre volte sono direttamente i vostri pescatori a caricare qualche ragazzo migrante per arrotondare. Questo è un piccolo tratto di mare molto trafficato”. Ragazzi che bruciano - La Tunisia è un Paese sull’orlo della disperazione. La disoccupazione giovanile è al 40 per cento, quella dei laureati al 31%. Ogni anno 100mila ragazzi escono dal percorso scolastico e si perdono. Lo stipendio di un poliziotto corrisponde a 327 euro. La corruzione è endemica. Pochi giorni fa a Sfax, 200 chilometri a sud, sono stati arrestati due agenti per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: prendevano mazzette per lasciare passare i migranti. Li chiamano “haragas”. Quelli che bruciano. Quelli che non sopportano più di aspettare. Quelli che devono partire a ogni costo. “Il crollo del dinaro, alla fine di luglio, è una delle cause di tutte queste partenze”, dice Valentin Bonnefoy del Forum tunisino per i diritti economici e sociali. “Un’altra è la delusione patita dai movimenti nati sul territorio, le aspettative frustrate di un’intera generazione. Nelle regioni interne la povertà è assoluta. Non c’è alcuna prospettiva. E poi dall’Italia rimbalzano i racconti di quelli che ce l’hanno fatta, che subito vengono inviati sui social network”. L’industria criminale dei trafficanti si è immediatamente rimessa al lavoro. Durante la Primavera Araba, nel 2011, erano stati 30 mila i tunisini sbarcati in Italia. Oggi, secondo le stime ufficiali, 3 mila solo fra settembre e ottobre, ma in realtà sarebbero già almeno 6 mila quelli che sono riusciti a passare. Non sembra un deterrente sufficiente nemmeno l’inasprimento delle pene deciso dal governo, di cui lo scafista con il cappellino dei New York Yankees è perfettamente consapevole. “Rischio fino a 20 anni di carcere. Prima me la cavavo al massimo con 7. Ma il clima è ancora favorevole. Le richieste sono continue. E il governo non ha mezzi sufficienti per controllare tutto il mare”. Traffici via social - Su Facebook c’è una pagina che si chiama “Haraka Jamaia” con 2100 iscritti, il cui titolo significa: “Immigrazione illegale collettiva”. L’obiettivo è cercare di organizzare partenze simultanee da diversi punti della costa tunisina, in modo da rendere impossibile il lavoro delle motovedette della guardia costiera. Sempre su Facebook c’è il video girato da un migrante in cui, in mezzo al mare, riceve il via libera da una motovedetta. Gli haragas partono alle 3 del mattino e navigano al buio, almeno fino alle acque internazionali. Quasi invisibili ai radar. Ma non sempre è andato tutto liscio, in questo autunno arabo. La notte fra il 7 e l’8 di ottobre, piccole barche avevano fatto confluire il loro carico umano su un’altra imbarcazione più grande che aspettava al largo dell’isola di Kerkennah. Il viaggio era considerato più sicuro. Ogni migrante aveva pagato in quel caso 2.500 dinari: 858 euro. Quando le acque internazionali erano ormai raggiunte, l’imbarcazione è stata speronata nel buio da una motovedetta della Guardia costiera tunisina. I cadaveri recuperati sono già 45. Alcuni sopravvissuti hanno accusato la Guardia costiera di aver provocato apposta l’incidente, ma ci sono video in cui si sentono spari in aria e urla. Ci sarebbero anche delle conversazioni radio con la Guardia costiera italiana che intima a quella tunisina di fermare i migranti. Quella barca voleva passare a ogni costo. Quando l’elenco delle vittime è diventato ufficiale, si è capito ciò che molti sapevano già. Erano tutti ragazzi giovani di Kebili, Ben Guerdane, Kasserine e Jendouba, piccoli centri dell’interno, dove la miseria regna sovrana e il tasso di radicalizzazione è alto. Ma la cosa più impressionate è stata scoprire che dodici vittime erano partite da Sidi Bouzid. È il paese dell’entroterra meridionale dove, il 17 dicembre del 2010, il venditore abusivo di frutta e verdura Mohamed Bouazizi si diede fuoco davanti al palazzo governativo in segno di protesta perché gli era stato sequestrato il carretto. Fu il suo gesto estremo a dare inizio alla Primavera Araba. Giovani senza futuro - È come se la storia fosse arrivata allo stesso punto sei anni dopo. Avvitata su se stessa. I ragazzi bruciano ancora. Ed è in questo contesto che il governo tunisino incontrerà nuovamente quello italiano per parlare degli haragas. “La legge finanziaria prevede nuovi tagli sui servizi sociali, aumento delle tasse, aumento dei prezzi, non ci sono più soldi in cassa per gli stipendi pubblici e per onorare i debiti internazionali, sarà un autunno difficilissimo”, dicono Mounib Baccari e Farouk Sellami dell’associazione Watch the Med. Sono ragazzi tunisini. Ragazzi che lottano per la democrazia. “Ecco perché stanno usando i migranti”, dicono entrambi. “Li fanno partire, ne riprendono indietro 40 alla settimana. Fanno capire che vorrebbero fare di più, ma non possono. Presto chiederanno aiuto all’Italia”. Su questo crinale lo scafista Hamed fa i suoi affari. Adesso è notte. C’è odore di mare e di stelle. Alla radio tunisina passa una canzone su un vecchio amore rimpianto. “Vieni anche tu, giornalista, con 3 mila dinari ti porto avanti e indietro. Partiamo finché siamo in tempo”. Come finirà? “Come con la Libia di Gheddafi. Come con la Libia adesso. È solo un gioco politico, te l’ho già detto, non devi dimenticarlo mai. La Tunisia chiederà soldi all’Italia per chiudere il mare”. Libia. Reportage dalla sezione femminile del Centro di detenzione di Abu Salim Vanity Fair, 25 ottobre 2017 Kuduyaz ha nove anni, due intensi occhi neri e un sorriso velato di malinconia. Cammina a piedi scalzi e indossa una tuta malconcia. Un pezzo di stoffa rosso le avvolge la nuca. Kuduyaz l’ha messa per non mostrare il capo rasato: due soldati libici le hanno tagliato tutti i capelli perché nel centro di detenzione dove vive ormai da un anno sono comparsi i pidocchi. Kuduyaz è la prima persona che ho notato mentre Bishar, la guardia carceraria addetta alla sicurezza dei tre cancelli che separano l’entrata del centro di detenzione dalle celle della sezione femminile, mi suggeriva di non credere alle parole delle donne. “Inventano”, mi ha detto, “perché vogliono mangiare di più, non fanno altro che chiedere di uscire”. Mentre Bishar apre i lucchetti e il suono del ferro che scatta rimbomba nel corridoio alle nostre spalle, le donne tacciono e si fermano, tutte insieme, come se quel suono fosse l’eco di una minaccia imminente. Kuduyaz no, non si ferma. Cammina avanti e indietro nello stanzone scarno, con capo chino e mani nei pantaloni della tuta. Sembra distante, non cerca lo sguardo di nessuno, come se non avesse bisogno di conforto. La sezione femminile del centro di detenzione di Abu Salim, a Tripoli, è un grande camerone di cemento. Dentro ci vivono duecento donne e decine di bambini. Molti di loro arrivati in Libia da soli dopo aver attraversato il deserto e da soli sono finiti in prigione. A terra ci sono decine di materassi, sporchi, stesi l’uno accanto all’altro, alcuni recipienti d’acqua, qualche asciugamano. Il centro di Abu Salim è uno dei circa trenta centri di detenzione ufficiali gestiti dal ministero dell’Interno libico che dipende dal governo di Fayez al Sarraj, appoggiato dalla comunità internazionale. Ma in Libia ci sono decine di altri centri di detenzione, illegali, gestiti dalle mafie locali, dalle milizie armate che controllano le città, le campagne e soprattutto controllano le coste e sono in affari sia con guardie corrotte, sia con il personale delle prigioni. Per questo, spesso, i migranti recuperati dalla guardia costiera libica spariscono per mesi in garage e capannoni adibiti a carceri, finché le famiglie spediscono altri soldi, pagando un riscatto per dar loro la possibilità di provare di nuovo ad attraversare il mare. Tutte le donne che incontro ad Abu Salim sono state arrestate dai soldati libici mentre tentavano di imbarcarsi sui gommoni per attraversare il Mediterraneo o mentre erano già in mezzo al mare, su mezzi spesso in difficoltà, con motori in avaria già a poche miglia dalla costa. Molte di loro hanno vissuto anche l’esperienza delle prigioni illegali. Lo sguardo smarrito di Kuduyaz viene da lì. Lei, sua madre e suo fratello sono stati catturati un anno fa a Sabratha, a settanta chilometri a ovest di Tripoli, dalla guardia costiera della zona. Da allora, da quando il sogno di arrivare in Europa si è infranto, i centri di detenzione sono la nuova casa. Kuduyaz non sa quando uscirà, non sa nemmeno perché ci è finita in una prigione. Come tutte le donne che incontro dice solo: “Non ho fatto niente, quando potrò uscire di qui?”. “Prima di andare via dalla Nigeria ho detto a mia madre che avrei voluto diventare un medico e mia madre mi ha promesso che una volta lì, in Europa, avrei potuto studiare come tutti i bambini del mondo”, dice, dopo aver raccolto il fratello minore da terra e averlo stretto a sé. “Nostro padre è morto per una bomba di Boko Haram. Mamma ci ha portato via pochi giorni dopo”. Così, con il sogno di diventare medico e il dolore per il padre ucciso, al mercato, una mattina qualunque di un anno e mezzo fa, Kuduyaz attraversa il deserto, patisce la fame e la sete, vede morire un uomo nel camion che portava lei e altre quaranta persone dalla Nigeria alle coste della Libia. Vede il suo corpo gettato dal finestrino del camion, senza nemmeno la dignità di una sepoltura. Una volta arrivate sulle coste della Libia, Kuduyaz e sua madre, invece di essere consegnate ai trafficanti per imbarcarsi verso l’Italia, sono state vendute ad altri trafficanti: miliziani armati, le mafie libiche, che le hanno tenute per cinque mesi in un garage di Sabratha, dove la bambina ha vissuto e visto sofferenze inimmaginabili. “La sera arrivavano gli uomini, i libici, e portavano via le donne a gruppi di quattro, cinque, poi quando il giorno dopo le riportavano, piangevano per giorni, gridavano e le altre cercavano di consolarle”, dice Kuduyaz, inconsapevole che la cronaca di quelle lacrime sia la cronaca delle violenze e degli abusi quotidiani che le donne subiscono nelle carceri libiche. “C’era una ragazza incinta e quando ha partorito non c’era nemmeno l’acqua, io ero accanto a lei con mia madre e i libici ci hanno portato solo un po’ di acqua salata, l’acqua del mare. L’abbiamo aiutata a partorire e abbiamo lavato sia lei che il bambino con l’acqua salata. Non c’erano medicine, non c’erano dottori, non c’era nessuno”. Chiedevano pane e medicine, e ottenevano percosse e minacce. Il tempo nei centri di detenzione libici non esiste, esiste solo uno stato di sospensione, tra il desiderio di una vita migliore e il mare. Il tempo è un istante sempre uguale, fatto di gabbie, grate, silenzio, buio e solitudine. Il tempo è l’attesa di una risposta che non arriva mai alle domande: quando uscirò? Perché sono in prigione? Domande ascoltate mille volte, in tutti i centri visitati, e ogni volta ascoltare le stesse preghiere: sto scappando dalla guerra, dalla fame, volevo solo una vita migliore. Domande ascoltate mille volte perché la durata della detenzione dei migranti in Libia è del tutto arbitraria, queste donne non sanno quanto a lungo sono costrette a vivere in una prigione. Non sanno quando usciranno di lì, né per andare dove. Turchia. Al via il processo ai capi di Amnesty, rischiano 15 anni di carcere sda-ats, 25 ottobre 2017 Si apre oggi a Istanbul il processo nei confronti della direttrice di Amnesty International in Turchia, Idil Eser, e altri 9 attivisti per i diritti umani, che rischiano fino a 15 anni di carcere con accuse di “associazione terroristica”. Alla sbarra ci sono anche due stranieri, il tedesco Peter Steudtner e lo svedese Ali Gharavi, detenuti da inizio luglio insieme ad altri sette imputati, tra cui la stessa Eser, dopo un blitz in una riunione sull’isola di Büyükada, al largo di Istanbul. Secondo la procura, avrebbero avuto in programma di fomentare il caos “con violenze simili a quelle di Gezi Park” durante la “marcia per la giustizia” da Ankara a Istanbul, condotta tra giugno e luglio dall’opposizione turca. Avrà invece inizio domani a Smirne il processo al presidente di Amnesty in Turchia, Taner Kilic, accusato di “associazione terroristica” per sospetti legami con la presunta rete golpista di Fethullah Gülen. Anche lui rischia 15 anni. Amnesty respinge con forza tutte le accuse ai suoi membri. “È stato chiaro sin dal momento dell’arresto che siamo di fronte a procedimenti di natura politica aventi l’obiettivo di ridurre al silenzio le voci critiche della Turchia”, ha dichiarato il direttore per l’Europa dell’ong, John Dalhuisen. “Le autorità turche hanno cercato di montare un caso contro gli 11 difensori dei diritti umani con accuse prive di sostanza e di fondamento. Tre mesi dopo l’arresto, la pubblica accusa non ha portato alcuna prova. Non ci dovrebbe volere neanche mezz’ora al giudice per archiviare tutto”, ha aggiunto Dalhuisen. Secondo Amnesty, i magistrati userebbero come presunte prove normali attività in favore dei diritti umani. Per quanto riguarda Kilic, i magistrati lo accusando di aver scaricato ByLock, un app di messaggistica per smartphone ritenuta prova di legami con i gülenisti. Una circostanza che Amnesty nega, portando come prova due perizie “indipendenti” sul cellulare di Kilic, che fu anche legale del blogger italiano Gabriele Del Grande durante il suo fermo nella scorsa primavera. “Questi due processi costituiranno una prova decisiva per il sistema giudiziario turco e il loro esito ci dirà se stare dalla parte dei diritti umani sia diventato o meno un reato in Turchia. Gli occhi del mondo osserveranno i processi di Istanbul e Smirne”, ha concluso Dalhuisen. Nelle ultime settimane è cresciuta la pressione internazionale a sostegno degli imputati. Oltre a diverse Ong, anche il Consiglio d’Europa e il Parlamento europeo hanno chiesto il loro rilascio. Appelli analoghi sono giunti da Germania e Svezia per i loro cittadini detenuti e da altre istituzioni internazionali. Egitto. Il presidente Al Sisi: “non ci sono detenuti politici nelle nostre carceri” Nova, 25 ottobre 2017 Il presidente egiziano, Abdel Fatah al Sisi, ha negato che ci siano detenuti politici nelle carceri egiziane. Intervistato dall’emittente televisiva “France 24” in occasione della sua visita a Parigi, il presidente egiziano ha affermato che “in Egitto non c’è un solo detenuto politico. Le carceri egiziane rispettato la legge. Le organizzazioni per i diritti umani dovrebbero conoscere quel che accade davvero nel nostro paese”. Per al Sisi il terrorismo resta “la vera sfida che dovrà affrontare l’Egitto e il mondo”. Per quanto riguarda la crisi in corso tra i paesi del Golfo, per al Sisi “il Qatar deve rispondere alle richieste avanzate dai nostri fratelli dell’Arabia Saudita, degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrein”.