Ingiusta detenzione: in 30 anni indennizzate 25mila persone, su 4 milioni di vittime di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 ottobre 2017 Domani alle 10 manifestazione a Montecitorio del Comitato per il diritto al risarcimento. Un fenomeno che riguarda tanti cittadini italiani arrestati e successivamente rilasciati (dopo tempi più o meno lunghi) perché risultati innocenti. Indennizzo per ingiusta detenzione, un diritto che viene spesso negato. Soprattutto quando, a questo, va a sommarsi il periodo dei cosiddetti “anni di piombo” dove numerosi militanti della sinistra extraparlamentare, accusati ingiustamente di aver partecipato alla lotta armata, non sono stati risarciti. Tra questi c’è Giulio Petrilli che a vent’anni subì sei anni di carcere speciale, per poi essere assolto in appello e definitivamente in Cassazione dall’accusa di “partecipazione a banda armata (Prima Linea) con funzioni organizzative”, ma mai risarcito. Il suo peccato originale del mancato risarcimento è stato, secondo la giustizia, la sua frequentazione con gli esponenti di Prima Linea: le sue frequentazioni avrebbero tratto in inganno gli inquirenti. L’altra motivazione, non di poco conto, è perché la sentenza di assoluzione è arrivata prima della riforma del codice di procedura penale, che nel 1989 ha introdotto la riparazione per ingiusta detenzione, senza però prevedere la retroattività. Per questi motivi, il Comitato per il diritto al risarcimento per l’ingiusta detenzione, presieduta dallo stesso Petrilli, ha promosso una manifestazione davanti al Parlamento nella mattinata di domani, a partire dalle ore 10. Le prime adesioni provengono da Giovanni Russo Spena (giurista ed ex senatore, attuale responsabile giustizia Prc), Marcello Pesarini (socio Antigone Marche), Italo Di Sabato (responsabile Osservatorio contro la repressione), Haidi Gaggio Giuliani, Francesca Scopellitti (presidente fondazione Enzo Tortora), Maurizio Acerbo (segretario Rifondazione Comunista), Gianni Melilla (deputato Si) e Piero Sansonetti. La lunga battaglia di denuncia ed informazione politica nel Paese iniziata dopo il 2000 - quando si sono avvicinati a Petrilli militanti di sinistra, volontari nel campo della giustizia, giuristi e avvocati, con l’intenzione di permettere a chi ne avesse diritto di avere risarcita almeno in parte la sofferenza subita, e a coloro la cui assoluzione era giunta prima del 1989, anno di revisione dell’ordinamento penale, di usufruire della retroattività - ha evidenziato che su ben 4 milioni di persone vittime ingiusta detenzione ed errori giudiziari, solo 25.000 hanno ottenuto il risarcimento. Grazie alla proposta di legge promossa da Rita Bernardini del Partito Radicale, nel 2012 Petrilli si è visto prima concedere e poi negare qualsiasi risarcimento per i motivi sopraddetti. Dopodiché si è giunti, grazie all’onorevole Gianni Melilla di Sinistra Italiana, con il ddl 2871 recante “Modifiche agli articoli 314 e 643 dell’ingiusta detenzione” a quello che potrebbe essere l’atto costruttivo e risanatore di tante sofferenze e parzialità. L’intenzione dei promotori della manifestazione è che “venga ripreso in considerazione un capitolo particolare della giustizia e della storia italiana negli anni 70”. L’ingiusta detenzione si tratta di un fenomeno che riguarda tanti cittadini italiani arrestati e successivamente rilasciati (dopo tempi più o meno lunghi) perché risultati innocenti. E non sempre vengono risarciti. In media risulta che su settemila domande annue presentate per risarcimento da ingiusta detenzione, ne vengono accolte al massimo mille e cinquecento. Questo solamente per quanto riguarda la riparazione per ingiusta detenzione. È necessario, infatti, distinguere quest’ultima dagli errori giudiziari. Nel primo caso si fa riferimento alla detenzione subita in via preventiva prima dello svolgimento del processo e quindi prima della condanna eventuale, mentre nel secondo si presuppone invece una condanna a cui sia stata data esecuzione e un successivo giudizio di revisione del processo in base a nuove prove o alla dimostrazione che la condanna è stata pronunciata in conseguenza della falsità in atti. Nel caso di ingiusta detenzione, l’indennizzo consiste nel pagamento di una somma di denaro che non può eccedere l’importo di 516.456 euro. La riparazione non ha carattere risarcitorio ma di indennizzo. Nel caso dell’errore giudiziario, invece, c’è un vero e proprio risarcimento. Il caso più eclatante di risarcimento è avvenuto un anno fa. Si tratta del più alto risarcimento per un errore giudiziario riconosciuto in Italia. Sei milioni e mezzo per ripagare 22 anni di carcere da innocente e circa 40 anni vissuti con una spada di Damocle sulla propria esistenza, tra galera e attesa delle decisioni dei giudici. Parliamo di Giuseppe Gulotta che era stato accusato, quando aveva 18 anni, dell’omicidio di due carabinieri, Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, trucidati il 26 gennaio 1976 ad Alcamo Marina, in provincia di Trapani. Arrestato, è stato costretto sotto tortura a confessare un reato mai commesso. Dopo 36 anni, di cui 25 trascorsi dietro le sbarre, Gulotta ha ottenuto la revisione del processo grazie alla confessione di un carabiniere. È stato assolto - come gli altri dei quali due sono morti e altri due fuggiti - definitivamente nel 2012. Dopo il riconoscimento della sua innocenza e del diritto al risarcimento, a febbraio del 2016 è arrivato il momento del pagamento da parte dello Stato. Suicidi in carcere, punizioni disciplinari per chi sopravvive di Chiara Penna chiarapenna.it, 24 ottobre 2017 Il numero dei suicidi in ambito penitenziario è di molto superiore rispetto alla frequenza con cui purtroppo si tolgono la vita le persone libere. In alcuni casi è vero che molti detenuti erano affetti da malattie invalidanti e ricoverati in Centri Clinici Penitenziari, ma sono stati registrati molti casi di suicidio anche tra soggetti non gravemente malati. Cercare la giustificazione di tali gesti nel disturbo mentale o nella tossicodipendenza non è, dunque, la strada giusta per affrontare il problema, così come poco efficaci appaiono gli interventi punitivi nei confronti di chi sopravvive. Il tentativo di suicidio compiuto in carcere è, infatti, punito disciplinarmente (come avviene anche per gli atti di autolesionismo, il tatuaggio, il piercing), riconducendo l’azione a quanto stabilito dall’art. 77 del Regolamento esecutivo Ord. Pen. e prevedendo sanzioni ex art. 39 Ord. Pen. come il richiamo, l’isolamento e l’esclusione dalle attività. Al fine di rispondere adeguatamente al fenomeno, si dovrebbe piuttosto ragionare sulle motivazioni che spingono al compimento di tali azioni, sul momento in cui si verificano, sulla ragione per cui un soggetto è ristretto e sulle condizioni delle carceri italiane. Se infatti l’ingresso in carcere ed i giorni immediatamente seguenti sono un momento nel quale il rischio suicidio appare molto elevato, restano alti anche i numeri dei suicidi di chi paradossalmente è giunto a fine pena, poiché l’elemento che accomuna i suicidi è la mancanza totale di prospettive nell’animo del detenuto. Non solo, i detenuti per omicidio (che sono il 2,4% di tutti i detenuti, tra attesa di giudizio ed espiazione pena) rappresentano ben il 13% dei casi di suicidio registrati, con un numero di suicidi più alto tra i soggetti autori di omicidi in famiglia e quasi inesistente tra i responsabili di delitti maturati nell’ambito della criminalità organizzata. Ancora, si uccidono più gli italiani che gli stranieri se si considera che su una presenza straniera del 30% circa sul totale dei detenuti, i suicidi degli stranieri sono il 16%. Tuttavia questa percentuale potrebbe essere sottostimata, in considerazione della maggiore difficoltà a raccogliere notizie sulle morti dei detenuti stranieri, spesso privi di qualsiasi rete di sostegno. Del resto anche il numero complessivo dei suicidi è probabilmente sottostimato, dal momento che tra i detenuti esiste ad esempio la pratica del drogarsi inalando il gas delle bombolette per alimenti e l’esito mortale di tale condotta viene spesso considerato dall’amministrazione penitenziaria come atto involontario, anche se non di rado si tratta di suicidio. Si dovrebbe agire, pertanto, per tutti i detenuti ed all’interno di tutti gli Istituti, in termini di prevenzione poiché la mancanza di prospettive che si ingenera in chi è ristretto è data dalla sensazione di non poter trascorrere utilmente la detenzione. Il tempo della pena è, infatti, spesso tempo vuoto, vissuto in Istituti sempre più cadenti e affollati, dove i progetti formativi vengono ostacolati e dove si sopravvive senza alcuna dignità sociale, che dovrebbe invece essere garantita soprattutto a chi è ancora giudicabile. Al contrario proprio il nome di queste persone è pubblicamente ed inesorabilmente associato a vicende criminali che restano impresse nella memoria della gente anche dopo una sentenza di assoluzione. Non a caso circa un terzo dei soggetti suicidi aveva un’età compresa tra i 20 e i 30 anni e, più di un quarto, un’età compresa tra i 30 e i 40 (in queste due fasce d’età il totale dei detenuti è, rispettivamente, il 36% e il 27%) forse proprio per l’incapacità di affrontare una vita carceraria vissuta in questi termini e per l’impossibilità di intravedere un futuro dopo la detenzione. Nel dettaglio le statistiche dei suicidi in carcere mostrano i seguenti numeri: dal 2009 al 31 agosto 2016: 423 suicidi. Di cui: 326 per impiccagione, ?64 con il gas, 20 con l’avvelenamento, 6 con il soffocamento. La fascia di età su cui le sofferenze del carcere hanno avuto maggiore incidenza è quella tra i 30 e i 44 anni: 66 i casi di suicidi in età compresa tra i 30 e i 34 anni, 66 tra i 25 e i 29 anni, 65 tra i 35 e 39, 63 tra i 40 e i 44. Le fasce meno colpite sono quelle tra i 17 e 19 anni (5 casi) e dai 60 in su (9 casi). Elemento che incide, poi, in maniera direttamente proporzionale sul tasso di suicidi è il sovraffollamento carcerario. L’unico modo per migliorare le condizioni di vita all’interno del carcere sarebbe, dunque, oltre l’affrontare il complesso problema del sovraffollamento, incentivare il ruolo e la presenza degli educatori al fine di garantire il reinserimento del detenuto, la risocializzazione e l’umanità della pena secondo quanto previsto dal dettato costituzionale di cui all’art. 27. La tutela della salute di questi soggetti è, infatti, preciso dovere etico, oltre che giuridico, poiché la condanna a pena detentiva non deve implicare la compromissione dei diritti umani fondamentali. Cosa ci fa un bambino in carcere? di Vanna Iori* huffingtonpost.it, 24 ottobre 2017 La colpa - se così si può definire quando si parla di bambini che hanno pochi mesi di vita o al più qualche anno - è stata quella di nascere o vivere i primi anni nel momento sbagliato. Quello che ha visto la propria madre, in molti casi giovanissima, varcare le porte del carcere, che si sono chiuse alle sue spalle per scontare una pena detentiva. In braccio o accompagnati per mano, anche loro sperimentano, quotidianamente, la vita dietro le sbarre, dove la libertà si percorrere gli spazi domestici o i luoghi esterni, i prati, i marciapiedi, i tragitti, è assente e dove, soprattutto, non può esservi quella spensieratezza che anima i luoghi tradizionali dell'infanzia, dall'ambiente familiare a quello scolastico. Come ha recentemente ricordato un'inchiesta del Corriere della Sera, basata sui dati del Ministero della Giustizia, sono 60 i bambini, da 0 a 6 anni, che vivono da detenuti insieme alle loro madri nelle carceri italiane. Sono 31 madri straniere e 21 italiane. Un numero importante perché quei 60 bambini vivono restrizioni che peseranno nella loro crescita e nella loro vita da adulti. Questi bambini non vanno dimenticati. Per loro va costruita necessariamente un'alternativa anche se spesso questa alternativa si rende più difficile perché il padre è in carcere o assente o non è in condizione di accudire il figlio per motivi diversi. Fatto sta che questi bambini crescono sì con la presenza quotidiana della propria madre, ma allo stesso tempo hanno a che fare con una realtà che non è la negazione stessa dellinfanzia: la detenzione. Da dove ripartire? Il modello delle Icam (Istituti a custodia attenuata per madri detenute), conosciuti costituisce sicuramente un primo passo in avanti ma non ovunque presente. Inoltre sono delle strutture detentive più leggere, ma pur sempre strutture penitenziarie. Istituite in via sperimentale nel 2006 per permettere alle detenute madri che non possono beneficiare di alternative alla detenzione, di tenere con sé i figli, sembrano "quasi" asili, magari con corridoi colorati, agenti in borghese e senza celle. Ma restano pur sempre un carcere, dato che non si può uscire e ci sono le sbarre alle finestre. E di notte ridiventano celle. Occorre potenziare le forme alternative alla detenzione. È necessario, per esempio, che il giudice abbia la possibilità di estendere la permanenza in case protette alla madre con figli anche di età superiore ai dieci anni per assicurare un più equilibrato sviluppo del minorenne che necessiti di ulteriori cure materne. Le case-famiglia protette devono poi essere realizzate fuori dagli istituti penitenziari e organizzate con caratteristiche che tengano conto in modo adeguato delle esigenze psico-fisiche dei bambini, ispirandosi ai criteri prioritariamente desunti della prospettiva educativa e rieducativa. In primo luogo è quindi evidente la necessità, all'interno di queste strutture, di personale con competenze pedagogiche e psicologiche per l'infanzia, per garantire la priorità degli aspetti educativi. In secondo luogo s'individua la necessità di un ambiente interno (arredi, abbigliamento, spazi) adatto alle esigenze dei bambini e al rapporto materno, comprendente aree ricreative dedicate al gioco, anche all'aria aperta, strumenti di controllo compatibili con la prevalente esigenza di tutela del minore e, per quanto possibile, non visibili o percepibili dallo stesso: adozione di vestiario adeguato da parte del personale operante nelle strutture, con esclusione dell'utilizzo di divise e uniformi. Devono essere inoltre assicurati i rapporti con strutture educative esterne e la frequentazione di coetanei, stipulando anche apposite convenzioni con gli enti locali, i Comuni o le associazioni di settore per accompagnare i bambini presso asili nido, scuole dell'infanzia o scuole primarie. Le strutture educative che consentono di giocare e apprendere nei luoghi condivisi costituiscono importanti momenti di contatto con il mondo extracarcerario dove il diritto fondamentale all'educazione trova momenti di arricchimento e, in molti casi, di tregua serena nella precoce durezza esistenziale. Tutti i ministri della giustizia che si sono succeduti hanno promesso di eliminare questa situazione disumana. Ma nessuno ancora lo ha realizzato. Quanti bambini dovranno ogni anno ancora passare dietro le sbarre i primi anni della loro esistenza nel precoce contatto con il dolore e la rabbia della detenzione? *Deputata Pd-responsabile minori, docente universitaria I detenuti scrittori di Luigi Accattoli Corriere della Sera, 24 ottobre 2017 Nella Casa di reclusione Due Palazzi di Padova un riconoscimento alle pagine di sette carcerati. La voglia di raccontarsi, la capacità di analizzare se stessi e gli errori commessi, le speranze di futuro. Come Valerio, ergastolano: “La galera come il deserto è luogo di educazione del cuore”. È incredibile il bisogno di raccontarsi dei detenuti. Ai concorsi di scrittura che vengono proposti da varie associazioni partecipano omicidi, spacciatori, mafiosi, scafisti, bancarottieri, ladri a vita e d’occasione, carcerati definitivi o in attesa di giudizio. Ecco sette storie sorprendenti ascoltate venerdì 6 ottobre nella palestra del carcere “Due Palazzi” di Padova, dove si è svolta la premiazione del “Premio Castelli”. Valerio Sereni uccide un uomo ma nessuno lo sa, non è ricercato, i media non hanno mai fatto il suo nome ma egli spontaneamente si costituisce 17 anni dopo il delitto. “Il carcere, come il deserto, è luogo di educazione del cuore” scrive, narrando di essere riuscito a ritrovarsi quando ha smesso di “nascondersi” a se stesso. Il primo classificato si chiama Alberto, è all’ergastolo: “Queste mie mani sono sporche di sangue”. Nel suo testo, intitolato “Libero dentro”, riconosce che “dolore è fecondo” in quanto “ti costringe al faccia a faccia con te stesso” e può aiutarti a rimediare all’errore originario che fu quello di “restare solo” e “soli si sbaglia”. Guardando avanti, Alberto si propone di “farsi aiutare” da quanti operano nelle carceri “senza giudicare”. Per la prima volta è uscito dal carcere di Como, dov’è da molto, per venire qui. Stringe mani sotto lo sguardo della scorta e ringrazia per l’esercizio di libertà che gli è stato concesso: “Tra poco mi rimetteranno le manette”. Daniele Carli è condannato per bancarotta e s’ingegna come può a convivere con il carcere, che prova a interpretare come una liberazione dalla routine quotidiana che già non sopportava quand’era nel mondo: “Sono in vacanza fino a data da destinarsi”. Tra chi sale sul palco a leggere il proprio testo, chi più conquista i trecento presenti (tra i quali un centinaio di detenuti) è Antonio Papalia, condannato “alla pena perpetua”: “Quando sono entrato in carcere, un quarto di secolo fa, ero analfabeta, cresciuto tra le capre che portavo al pascolo. “L’uomo analfabeta ora scrive”: così ho intitolato il lavoro che voi avete premiato perché è la scrittura che mi sta salvando. I volontari che venivano a parlarmi sono stati la svolta e ho preso un diploma, incontro studenti. Sono un altro”. Diego Zuin racconta di “oppio lacrime whisky e sesso” che l’hanno reso “assassino della mia anima”. “Mubasa” si firma uno che è condannato come scafista, anche lui sbloccato dai volontari: “Già lavoro e mando i soldi alla famiglia”. Angelo Meneghetti è un ergastolano - “fine pena 31.12.9999” - che ha un fratello anche lui all’ergastolo: “L’ho rivisto per qualche ora a causa di un lutto familiare”. Abbiamo ascoltato il suo lamento su questa “mostruosa pena” che “uccide anche il desiderio della libertà”. Perché parlarne? Abbiamo udito storie di spari e ruberie e cocaina e di chi guida i gommoni dei migranti: che c’entrano qui le “Buone Notizie”? Tutte le storie premiate a Padova hanno in comune una maglia rotta nella rete che imprigiona ed è il varco della comunicazione con l’esterno, la presenza dei volontari, l’aiuto a risalire da tutti i burroni che può venire da chi ti dà la mano e chiede come ti chiami. Il Due Palazzi di Padova - direttore Ottavio Casarano - è una delle carceri più aperte ai volontari che collaborano nella gestione di un teatro, una biblioteca, una rivista (“Ristretti orizzonti”), dieci tra officine e laboratori. Tra essi la Pasticceria Giotto, di ottimo nome e qualità. Società di San Vincenzo de Paoli. Dieci edizioni per il premio nelle carceri Il “Premio Castelli” è un concorso annuale di scrittura per detenuti, che ha dietro la Società di San Vincenzo de Paoli. È intestato a Carlo Castelli (1924- 1998), che è stato un pioniere del volontariato carcerario. Il Premio è giunto alla decima edizione e la premiazione, seguita da un convegno, avviene sempre in un carcere diverso: quest’anno - com’è detto nel servizio qui accanto - al Due Palazzi di Padova, mentre le precedenti premiazioni si erano svolte a Palermo, Poggioreale, Cagliari, Reggio Calabria, Forlì, Mantova, Bari, Bollate, Augusta. Sempre in carceri che sperimentano forme nuove di contatto con l’esterno e con i volontari. La giuria assegna tre premi in denaro (1.000, 800, 600 euro) e segnala altri dieci lavori come “meritevoli”. I manoscritti premiati vengono pubblicati e il sito della San Vincenzo (sanvincenzoitalia.it/) ha una pagina dedicata al premio. La San Vincenzo ha 750 mila soci nel mondo e 13 mila in Italia. La Federazione italiana ha sede a Roma in via della Pigna. (sanvincenzoitalia.it) Premio “Goliarda Sapienza”: per i detenuti il primo laboratorio di e-Writing di Maria Cristina Fraddosio La Repubblica, 24 ottobre 2017 Al via la settima edizione del Premio Goliarda Sapienza. Quest’anno numerose le novità: un laboratorio telematico di scrittura creativa per i detenuti aspiranti scrittori. Tra i tutor autori di grande successo. Il vincitore sarà premiato presso il Salone del Libro di Torino. La rivoluzione digitale coinvolge anche il mondo penitenziario. Il metodo e-learning in diretta sarà lo strumento utilizzato per la settima edizione del Premio Goliarda Sapienza che, a differenza degli anni precedenti, questa volta consiste in tre mesi di corso di scrittura creativa online. “Ho sentito l’esigenza di ampliarlo e di dargli un senso diverso” - fa sapere la curatrice Antonella Bolelli Ferrera di InVerso Onlus, promotore del premio assieme al Dap, Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, e alla Siae. Quattro i penitenziari coinvolti nell’iniziativa. Quindici donne di Rebibbia Femminile vi prenderanno parte, assieme agli aspiranti scrittori degli istituti penali di Rebibbia, Santa Maria Capua Vetere e Salluzzo. Tutti connessi contemporaneamente. Sessanta in totale i partecipanti - alcuni del reparto Alta Sicurezza - beneficiari nella fase di svolgimento del corso di un pc portatile con cui seguire in diretta-video le lezioni dei tutor. A lezione con i grandi scrittori. Nella lista dei precettori di quest’edizione, Dacia Maraini, già madrina del premio negli anni passati, Romana Petri, Serena Dandini, Antonio Pascale, Paolo Di Paolo, Maria Pia Ammirati, Erri De Luca, Marcello Simoni, Pino Corrias, Andrea Purgatori, Federico Moccia, Gianrico Carofiglio, Massimo Lugli, Nicola Lagioia e Giulio Perrone. Quest’ultimo sarà anche l’editore della raccolta dei 20 elaborati ammessi alla finale, che verrà poi distribuita nelle librerie italiane. Tra le novità c’è la partecipazione, per la prima volta, del vincitore al Salone del Libro di Torino, di cui Lagioia è direttore. Il progetto “eWriting l’arte dello scrivere” avrà una durata di tre mesi e mezzo, fino a gennaio 2018. Quindici incontri di due ore settimanali ciascuno, la cui prima parte è stata affidata a Cinzia Tani. La scrittura a servizio della Costituzione. Gli argomenti variano dall’autobiografia ai dialoghi, dall’intreccio alla presentazione editoriale. Partner ufficiale del progetto è l’Università telematica eCampus, nella cui sede romana hanno già preso avvio gli incontri. Numerosi gli spunti di riflessione. Alcuni anche molto fantasiosi, come l’idea di una detenuta svizzero-brasiliana di far narrare la sua storia a Peter Tosh, il suo bassotto. L’obiettivo è di applicare, attraverso la scrittura, l’art. 27 della Costituzione: “Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. Il valore terapeutico del raccontare aiuta a riconciliarsi anche con quel bagaglio di vita che ciascun uomo porta con sé; perché del resto come scriveva Proust “il libro essenziale esiste già in ciascuno di noi”. Allo scrittore tocca “tradurlo”. Toghe in politica, il Senato prepara la stretta di Liana Milella La Repubblica, 24 ottobre 2017 Toghe in politica, il Senato inasprisce il testo della Camera. E mette paletti per l'ingresso in lista (sei mesi di aspettativa), in caso di mancata elezione (5 anni senza poter essere né giudici né pm), per il ritorno in ruolo (5 anni senza fare il capo di un ufficio). Poi la norma Sinisi-Minzolini, astensione obbligatoria o eventuale ricusazione se chi si rimette la toga si trova di fronte un avversario politico. Per chi siede in Parlamento oggi - 5 tra deputati e senatori come ricorda la Pd Ferranti - cade la possibilità di approdare automaticamente in Cassazione o alla procura nazionale antimafia. Le nuove regole varranno anche per il magistrato che ha affiancato un uomo politico in ruoli di governo, come un capo di gabinetto, o per il presidente di una Authority. In quel caso si torna per un anno, ma forse per tre, dipende dagli emendamenti, nello stesso ufficio di provenienza, senza avere funzioni di capo. Dopo una guerra a distanza tra le commissioni Giustizia di Camera e Senato, per via delle presenze di toghe da una parte e dall'altra, votato l'11 marzo 2014 dal Senato, approvato solo il 30 marzo 2017 dalla Camera, il ddl aspetta l'ultima parola da palazzo Madama sulle "sliding door" tra magistratura e politica. In commissione Giustizia arriva domattina, col pacchetto degli emendamenti già concordato tra governo e opposizione, e con l'idea di inasprire molti punti. Ma l'ultima parola spetta al Guardasigilli Andrea Orlando, perché il rischio, con le modifiche, è che il ddl "muoia" alla Camera. E così finirà. L'intenzione dei senatori - ex toghe come Felice Casson, Mdp, che è relatore, il forzista Giacomo Caliendo, l'ex Guardasigilli, forzista pure lui Nitto Palma - è di rendere ancora più stringenti le "sliding door". Chi lascia una carica elettiva - la nuova legge le mette tutte sullo stesso piano, dal consigliere di circoscrizione, al sindaco, al parlamentare italiano o europeo - resta professionalmente congelato, né pm o giudice per 5 anni, né capo di un ufficio. Norma transitoria per chi è già in politica adesso, può diventare avvocato dello Stato, o fare il giudice per non meno di tre anni, né Cassazione, né procura antimafia. Ancora ieri mattina, a Circo Massimo di Giannini su Radio Capital, il vice presidente del Csm Giovanni Legnini insisteva sulla necessità che “chi lascia un incarico elettivo o di governo è bene che non torni a fare il giudice o il pm”. Ma dalla Camera, dove presiede la commissione Giustizia, Donatella Ferranti ribatte che “allo stato la Costituzione all'articolo 51 garantisce il pieno diritto a tutti di candidarsi e conservare il posto di lavoro”. Al congresso dell'Anm, appena chiuso a Siena, la voce prevalente è stata che candidarsi è un diritto, ma chi oltrepassa la porta della magistratura non può più tornare indietro. Assimilare la corruzione alla mafia è sbagliato giuridicamente e pericoloso sul piano morale di Giuseppe Gargani Il Dubbio, 24 ottobre 2017 L’intervento su Il Mattino di qualche giorno fa di Isaia Sales ha destato meraviglia e perplessità non solo in me ma in tutti quelli che riconoscono in lui grande sensibilità democratica e spirito liberale. Sales dà un giudizio positivo sulla legge approvata nelle ultime settimane che prevede la confisca dei beni per gli indagati di reati contro la pubblica amministrazione. La legge, invece, contraddice i principi fondamentali della civiltà giuridica che hanno una tradizione consolidata nel nostro paese: le misure di prevenzione applicate prima di qualunque prova e di qualunque contraddittorio è la ' negazione della certezza del diritto' come ha detto Valerio Onida, e compromette il diritto della difesa: il contrario di quello che stabilisce la Carta Costituzionale. Il Parlamento ha approvato questa norma è ha segnato una pagina nera che peserà nella storia del Parlamento. Le norme contenute nella legge sono tecnicamente sbagliate e qualunque amante del diritto non può non ritenerle pericolose e al tempo stesso inutili. Carlo Nordio ha rilevato che “equiparare la corruzione al reato associativo” mostra l’incapacità di trovare un equilibrio tra le sanzioni per i reati, che debbono essere proporzionali per essere efficaci, altrimenti nella fattispecie di cui discutiamo riduciamo la gravità di chi è indagato per mafia e camorra. Ho citato Onida e Nordio, ma l’elenco dei costituzionalisti e dei giuristi che si sono mostrati indignati è lungo e per fortuna rappresentano l’anima democratica del paese che si ribella!. A me interessa in questa sede dare un giudizio e una spiegazione del perché si sono potute verificare queste aberrazioni giuridiche e istituzionali da parte del Parlamento italiano. Da anni, i partiti e il Parlamento hanno accettato supinamente il prevalere del potere giudiziario e non avendo l’autorità e la capacità morale di risolvere i problemi hanno dato delega al magistrato: di conseguenza la magistratura ha assunto un ruolo anomalo, un ruolo etico, che si è discostato profondamente da quello previsto dalla Costituzione. La Carta Costituzionale aveva immaginato un giudice “bocca della legge” e oggi la giurisdizione è cosa diversa. Potrei citare tante leggi (che non hanno avuto il mio voto in Parlamento!) che hanno di fatto subordinato il potere politico a quello giudiziario. Il professore De Giovanni con acutezza sostiene che il nostro sistema è stato distrutto "dal metodo con cui la magistratura operato da Mani pulite in poi". Come è potuto capitare tutto questo?! La politica ha perduto il suo primato e ci troviamo in presenza di una “Repubblica giudiziaria" dove il codice penale si è sostituito al codice etico e deontologico che dovrebbe essere la misura dei comportamenti per la credibilità di ogni individuo all’interno di una comunità. La povertà della politica priva di autorevolezza e di credibilità ha consentito che la questione morale diventasse solo questione penale: i comportamenti e i codici deontologici, vengono di volta in volta criminalizzati: non sono rilevanti solo i reati commessi ma anche le omissioni e i peccati. Tutto arriva in capo ai magistrati ed il giudice è diventato riferimento etico per garantire la legalità, stabilire che cosa è il bene e che cos’è il male, fuori dalle fattispecie giuridiche. Questa analisi obiettiva e realistica impone di ricercare le ragioni e i perché. Una dialettica tra politica e magistratura vi è sempre stata e non solo in Italia, ma qui ha caratteristiche peculiari e specifiche. Dal 1992 in poi, dopo l’abolizione dell’articolo 68 della Costituzione che garantiva la indipendenza e l’autonomia del Parlamento e del singolo parlamentare vi è stata una corsa a delegare tutto al magistrato, fino a stabilire per fare solo pochi esempi, un reato per "traffico di influenze", reato incerto e inqualificabile, che dà carta bianca alla magistratura; a stabilire con la legge cosiddetta "Severino" la decadenza del pubblico amministratore applicata anche retroattivamente; fino ad attribuire al magistrato il potere di confiscare beni patrimoniali preventivamente per il semplice sospetto di corruzione. Le norme sull’equiparazione della corruzione alla mafia si inseriscono nella logica della delega ampia al magistrato il quale fa giustizia sommaria più che applicare il diritto. Assimilare la corruzione alla mafia è sbagliato giuridicamente ed è pericoloso sul piano morale. Non è vero che le due cose stanno insieme, come dice Sales, e solo immaginarlo significa non dare un giudizio disvalore drastico nei confronti della mafia. La quale, è una "cappa" come giustamente ritiene il procuratore Nazionale antimafia Franco Roberti che interessa gruppi sociali sempre più vasti, che entra nei gangli della società come una sorta di concussione collettiva e sociale sul piano economico e sulla vita delle persone. Si spiega in questo modo sia pure con tanta perplessità il "concorso esterno" di cui si parla da anni, che non ha una fattispecie precisa ma che la sua ragione d’essere appunto per la "cappa" che imperversa a volte anche in maniera inconsapevole sulla testa dei cittadini. Sappiamo bene che vi sono intere zone del paese, intere comunità che vivono con questa “cappa” che fanno crescere l’omertà e la partecipazione silenziosa. La corruzione è un reato con una sua precisa fattispecie e il reato di mafia è ben più grave e allarmante perché investe blocchi sociali che sono succubi. La corruzione è una deviazione e una piaga sociale che non investe la “struttura” di una intera comunità. La corruzione è un crimine occasionale anche se diffuso, ma non è un “sistema” come dice Sales e può essere limitato o estirpato non con aumenti di pena né con misure patrimoniali preventive, ma con l’esempio, l’impegno morale la cultura e con la buona politica che sono tutte prerogative che dovrebbero avere le classi dirigenti. Bisognerebbe rileggere gli atti parlamentari di qualche anno fa, quando si stabilì la confisca per gli indagati di mafia. Appare chiaro in quel dibattito la sofferenza del legislatore che faceva una eccezione alle norme della Costituzione perché si rendeva conto che il fenomeno criminale meritava appunto una eclatante eccezione. Una norma eccezionale non può essere utilizzata per fattispecie diverse proprio perché la eccezionalità sta ad indicare la estrema pericolosità di quella devianza sociale. La conclusione è che il legislatore ha rinunziato al suo compito di legiferare con adeguati rimedi o per stabilire misure preventive ma in armonia con l’ordinamento. Al mio amico Isaia dico che l’intransigenza morale, che certamente anima la sua azione, non può mai mettere in dubbio la garanzia dei diritti. Diritto all'oblio sul web, frattura Italia-Ue: no da Strasburgo, sì dal Senato di Liana Milella La Repubblica, 24 ottobre 2017 Per la Corte dei diritti umani e la Fnsi, nulla deve essere cancellato. Ma Palazzo Madama va in direzione opposta, con un emendamento per affidare le decisioni al Garante della privacy. "Diritto all'oblio", un no netto da Strasburgo e, giusto in contemporanea, un sì, altrettanto netto, dal Senato italiano. Su un tema sensibile e assai discusso - come il diritto del singolo di chiedere la definitiva cancellazione di una notizia che lo riguarda, e che egli ritiene diffamatoria, dagli archivi dei giornali e quindi anche dalle pagine web - arriva una doppia e opposta lettura. La prima è quella del 19 ottobre, contenuta in una decisione della Corte dei diritti umani di Strasburgo (la 71233/13), che esamina il ricorso di un uomo d'affari ucraino, Fuchsmann, residente in Germania, che si riteneva diffamato da un articolo su di lui del New York Times, in cui si parlava di suoi rapporti con la criminalità, e chiedeva ai giudici della Corte internazionale di cancellare la notizia. Fuchsmann aveva rivolto la stessa richiesta alle toghe tedesche che gli avevano risposto picche. E picche è arrivato anche da Strasburgo che, nel bilanciamento di interessi tra diritto alla libertà di stampa e diritto alla reputazione, ha ritenuto vada privilegiato il primo. Soprattutto perché gli archivi dei giornali sono un bene da proteggere, per il loro valore educativo e in quanto fonte di presenti e future ricerche storiche. Ha vinto il cronista, ma ha vinto anche il partito di chi ritiene che, soprattutto in assenza di una decisione del giudice che attesti la diffamazione, dal web, e quindi dagli archivi dei quotidiani, non si può cancellare niente. Come ha scritto Marina Castellaneta, docente di diritto internazionale a Bari, che ha scoperto la sentenza di Strasburgo, "gli archivi dei giornali sono beni da proteggere per le ricerche storiche e per il valore che rivestono". Quindi non vanno azzerati. La Fnsi, con il segretario Raffaele Lorusso, la considera una vittoria, tant'è che la notizia della sentenza campeggia sul sito della Federazione. Ma purtroppo in Italia si va esattamente nella direzione opposta, perché al Senato, in commissione Giustizia, dov'è ancora in discussione il disegno di legge sulla diffamazione, la settimana scorsa è stato annunciato un emendamento della relatrice Rosanna Filippin, che vuole incaricare il Garante della Privacy Antonello Soro di decidere sulle notizie ritenute diffamatorie da cancellare, anche in assenza di un condanna definitiva che attesti l'effettiva diffamazione. In commissione ha fatto sentire la sua voce contraria l'ex giudice istruttore Felice Casson, vice presidente della commissione ed esponente di Mdp. Per Casson, in linea con Strasburgo, "va tutelata la libertà di stampa e la garanzia di poter fare ricerche storiche". Quindi, al massimo, la cancellazione è possibile solo dopo una sentenza di condanna definitiva. Il Garante Soro, già ad agosto, aveva ordinato la cancellazione di un articolo che riguardava una notizia resa ormai inattuale dalla decisione di un giudice. Per cui l'articolo scritto a ridosso dei fatti doveva essere soppresso. In questo caso, a suggerire cautela, era intervenuta l'avvocato Caterina Malavenda, esperta di diritto dell'informazione, che distingueva tra l'uomo pubblico e un qualsiasi cittadino. "Il passato diventa rilevante e l'interesse pubblico prevale se il soggetto sale su un palcoscenico pubblico. Ad esempio, un politico condannato in passato per droga, se si candida con una campagna contro le droghe leggere, non può invocare il diritto all'oblio". È assai improbabile che il testo sulla diffamazione possa essere definitivamente approvato dal Senato e poi anche dalla Camera, ma rimane politicamente il via libera del Pd, con l'emendamento Filippin, ad affidare a Soro il compito di cancellare per sempre delle notizie. Dopo 20 anni di iniziative parlamentari c’è ancora il carcere per i giornalisti notiziario.ossigeno.info, 24 ottobre 2017 Il Segretario di Ossigeno Giuseppe F. Mennella ricorda inoltre che “legislativo ed esecutivo ignorano la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti Umani”. Questa è la sintesi dell’intervento di Giuseppe F. Mennella, segretario di Ossigeno per l’Informazione, al convegno del 23 ottobre “Giornalisti aggrediti, colpevoli impuniti” che si è svolto il 23 ottobrer 2017 a Roma presso il Senato. Dobbiamo prendere atto, con rammarico e con preoccupazione che anche questa legislatura sta per concludersi senza che le Camere abbiano approvato le norme per abolire le pene detentive per i giornalisti e per introdurre misure certe e praticabili per contrastare l’abuso delle liti temerarie e delle querele pretestuose. Questa è la quarta legislatura consecutiva che discute disegni di legge di riforma dei codici penale e civile e della legge sulla stampa senza approdare ad alcun risultato. Una storia iniziata nella XIV legislatura, anno 2001, e non ancora conclusa. Sono trascorsi sedici anni di inutili tentativi. I poteri legislativo ed esecutivo continuano a fingere di ignorare che la Corte europea dei Diritti umani ha ripetutamente ribadito il principio che “le pene detentive non sono compatibili con la libertà di espressione”, perché “il carcere ha un effetto deterrente sulla libertà dei giornalisti di informare con effetti negativi sulla collettività che ha a sua volta diritto a ricevere informazioni”. Dunque, quando si ostacola il dovere del giornalista a informare, si colpisce il diritto del cittadino a essere informato. Questo è il principio cardine che dovrebbe ispirare e guidare le proposte e le azioni dei giornalisti e delle loro istituzioni per indurre Parlamento e governo a cancellare finalmente dall’ordinamento norme che ostacolano la libertà di espressione. No alla liberazione anticipata "speciale" per Marcello Dell’Utri di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 ottobre 2017 Nessuno sconto speciale della pena a Marcello Dell’Utri. Ieri la Cassazione ha definitivamente chiuso la possibilità di fargli ottenere il beneficio della liberazione anticipata speciale. La suprema corte ha confermato il “no” alla scarcerazione anticipata deciso dal tribunale di sorveglianza di Bologna, quando Dell’Utri era ancora recluso nel carcere di Parma. I legali di Dell’Utri avevano fatto richiesta della liberazione speciale anticipata quando era stata inserita nel cosiddetto “decreto svuota carceri” varato nel 2013 per far fronte al sovraffollamento carcerario. Com’è noto, l’art. 4 del decreto estendeva i benefici della liberazione anticipata speciale (aumento, da 45 a 75 giorni per ogni semestre di pena scontata) anche ai condannati per reati ostativi (nei quali rientra l’ex senatore) sia per il futuro (per un periodo di due anni) che per il passato (“a decorrere dal 1° gennaio 2010”, recitava l’articolo del decreto legge), a condizione che avessero “dato prova, nel periodo di detenzione, di un concreto recupero sociale, desumibile da comportamenti rivelatori del positivo evolversi della personalità”. Nel frattempo, nel 2014, il decreto è stato poi convertito in legge escludendo però la liberazione anticipata speciale ai condannati per reati ostativi. Ecco perché il tribunale di sorveglianza aveva rigettato l’istanza di liberazione anticipata presentata dai legali di Dell’Utri sotto la vigenza del decreto svuota carceri. “In sostanza - spiega a Il Dubbio l’avvocato difensore Adelmo Bartolini - la disposizione dell’art 4 del decreto legge, eliminata in sede di conversione in legge, non può più quindi applicarsi”. La Cassazione non fa altro che confermare tutto questo, ricordando che il concorso esterno in associazione mafiosa - reato per il quale è stato condannato Dell’Utri - è escluso dall’ottenimento di sconti di pena. La suprema corte ha anche sottolineato come i magistrati di sorveglianza hanno ricordato “correttamente” che “la fattispecie di concorso esterno in associazione di tipo mafioso non costituisce un istituto di creazione giurisprudenziale bensì è conseguenza della generale funzione incriminatrice dell’art. 110 c. p., che trova applicazione al predetto reato associativo qualora un soggetto, pur non stabilmente inserito nella struttura organizzativa del sodalizio, fornisce alla stessa un contributo volontario, consapevole, concreto e specifico, che si configuri come condizione necessaria per la conservazione o il rafforzamento delle capacità operative dell’associazione”. Ricordiamo che non esiste nel diritto penale italiano una norma che prevede il concorso esterno in associazione di tipo mafioso: il reato si ricava dal combinato disposto dell’art. 110 e 416bis del codice penale. Un reato che la Corte europea dei diritti umani, esprimendosi sul caso dell’ex numero 2 del Sisde Bruno Contrada, ha considerato inesistente prima del 1994, anno della sua creazione giurisprudenziale. Quindi, secondo i giudici europei, il reato non può essere retroattivo. Ed è proprio su questa sentenza europea che si giocherà la partita su Dell’Utri: al fondatore di Forza Italia vengono contestati fatti precedenti al 1994. Inoltre resta in sospeso la decisione del Tribunale di sorveglianza di Roma sull’istanza di ammissione alla detenzione domiciliare per motivi di salute, presentata un anno fa. L’udienza era stata fissata per la fine della settimana scorsa, ma per un ritardo nel deposito della perizia è stato concordato, sia dalla procura che dalla difesa dell’ex senatore, un rinvio e il giudice dovrebbe decidere non prima del 5 dicembre. Dopo il carcere lo stalker inviato in terapia per proteggere la sua ex compagna di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 24 ottobre 2017 Milano, le minacce dopo dieci anni in cella. L’”ingiunzione terapeutica” del Tribunale all’uomo affinché acconsenta a seguire in un centro specializzato (quello del criminologo Paolo Giulini) un “trattamento terapeutico” che lo avvii alla “comprensione del disvalore delle proprie condotte”, al “contenimento delle pulsioni” e alla “razionalizzazione degli avvenimenti”. Nella sorveglianza speciale, misura di prevenzione basata sulla spesso scivolosa nozione di “pericolosità sociale”, nei casi di violenza di genere o di atti persecutori di solito vengono prescritti il divieto di frequentare i luoghi (casa, lavoro, scuole) frequentati dalla vittima, l’obbligo comunque di stare ad almeno un chilometro di distanza da lei, il divieto di scriverle o telefonarle. Qui, invece, i giudici di prevenzione Roia-Tallarida-Pontani, nell’accogliere la proposta di sorveglianza speciale avanzata dalla divisione anticrimine della Questura di Milano, ritengono di aggiungere “una sorta di “ingiunzione terapeutica”“: e cioè “di prescrivere” all’uomo “di seguire un piano di intervento trattamentale che lo porti, attraverso indicazioni di tipo clinico-terapeutico realizzate dagli esperti incaricati, a prendere coscienza del forte disvalore delle condotte violente poste in essere soprattutto nei confronti di almeno tre donne, una delle quali uccisa, in una prospettiva di contenimento delle pulsioni e di razionalizzazione degli avvenimenti”. La scelta di quale metodologia viene affidata dai giudici al servizio che, “per la particolare competenza ed esperienza nell’osservazione criminologica degli autori di reati di genere”, viene individuato a Milano nel “Cipm-Centro italiano per la promozione della mediazione” diretto dal criminologo Paolo Giulini, che in 12 anni ha trattato in carcere 248 condannati per reati sessuali con una recidiva (8 casi) assai inferiore a quella degli ex detenuti che in carcere siano stati solo parcheggiati a far scorrere il fine pena. La misura di prevenzione, con la sua prescrizione terapeutica basata sul consenso dell’uomo difeso dall’avvocato Roberta Cardinetti (consenso “già acquisito ma che dovrà essere costantemente monitorato”), partirà appena scadrà la custodia cautelare in carcere, ma i giudici apprezzerebbero che iniziasse “su base volontaria e anticipata” già “in regime intramurario” (cioè già ora in cella). Inedita, inoltre, la scelta del Tribunale di far notificare questo decreto (benché ciò non sia previsto dalla legge) alla stalkizzata parte lesa del delitto di atti persecutori “in attuazione della direttiva sulle vittime di reato 2012/29/Ue”, che prevede la necessità che la vittima di questo genere di reati “venga messa sempre a conoscenza della situazione della libertà personale dell’aggressore”. Perché? Per due ragioni: “Al fine di potersi tutelare sul piano comportamentale concreto”, ma “anche in un’ottica di benessere psicologico”. Estesa la procedibilità a querela di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 24 ottobre 2017 Pacchetto giustizia al prossimo Consiglio dei ministri. Sul tavolo del Governo, questa settimana, approderanno tre provvedimenti penali di spessore: due decreti legislativi, in attuazione della delega di agosto, su intercettazioni e procedibilità a querela e un disegno di legge sulle agro-mafie frutto del lavoro della commissione Caselli. Sul tema delle intercettazioni, nel definire l’area della rilevanza processuale facendo confluire in un archivio tutto il materiale registrato (con possibilità di accesso da parte degli avvocati), il testo sembra essere ormai definito dopo un confronto con Anm e Camere penali, mentre il ministero della Giustizia scopre ora le carte su un altro aspetto della riforma che ha come obiettivo una sensibile riduzione dei casi che approdano in giudizio, senza toccare l’obbligatorietà dell’azione penale. L’intervento punta ad allungare la lista dei delitti perseguibili a querela, inserendo i reati contro la persona puniti con la sola pena pecuniaria o con la pena detentiva non superiore nel massimo a 4 anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, con l’eccezione della violenza privata e i reati contro il patrimonio previsti dal codice penale. La procedibilità d’ufficio viene in ogni caso conservata quando: 1) la persona offesa è incapace per età o infermità; 2) ricorrono circostanze aggravanti ad effetto speciale oppure le circostanze indicate nell’articolo 339 del codice penale; 3) nei reati contro il patrimonio, il danno prodotto alla persona offesa è di rilevante gravità. Per i nuovi reati perseguibili a querela commessi prima della data di entrata in vigore del decreto, il termine per presentare la querela decorre dalla medesima data, se la persona offesa ha avuto in precedenza notizia del fatto costituente reato; se è pendente il procedimento, il pubblico ministero o il giudice informa la persona offesa dal reato della facoltà di esercitare il diritto di querela e il termine decorre dal giorno in cui la persona offesa è stata informata. Il decreto va poi letto in parallelo alla norma prevista dalla medesima legge delega, in realtà operativa già da agosto, che introduce una nuova causa di estinzione del reato a vantaggio di chi mette in atto condotte riparatorie (senza che peraltro la persona offesa possa opporsi). La nuova causa infatti è applicabile ai soli casi di reati soggetti a querela di parte. Il “combinato disposto” delle due misure allora dovrebbe raggiungere un effetto non tanto di depenalizzazione, quanto comunque di alleggerimento dei carichi di lavoro dei tribunali. Misure di prevenzione: la pericolosità sociale alle Sezioni unite di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 24 ottobre 2017 Corte di cassazione - Ordinanza 48441/2017. Per il via libera alla misura di prevenzione personale nei confronti di un soggetto indiziato di appartenere a un’associazione mafiosa serve una motivazione “rafforzata” sull’attualità della pericolosità sociale o si può dare per presunta? La Cassazione per sciogliere i dubbi sul punto ha chiesto l’intervento delle Sezioni unite (ordinanza 48441). Oltre ai contrasti interpretativi a rendere opportuni i chiarimenti, c’è anche la sentenza De Tommaso, con la quale la Corte dei diritti dell’Uomo, il 27 febbraio scorso, ha condannato l’Italia per la vaghezza delle prescrizioni del “vivere onestamente” e “rispettare le leggi”, imposte dal Codice antimafia con la misura di prevenzione della sorveglianza speciale. Rapido è stato sul punto il rimedio delle Sezioni unite (si veda il Sole 24 Ore del 6 settembre 2017) che hanno negato il rilevo penale dell’inosservanza delle due generiche previsioni. Tuttavia quell’intervento non basta a fronte della necessità, segnalata dalla sentenza De Tommaso, di ancorare l’applicazione delle misure di prevenzione a principi di chiarezza e precisione. Una certezza che manca in presenza di tesi discordanti. Il collegio remittente parte dal procedimento esaminato in cui ad un commercialista, indiziato di appartenere ad un’associazione mafiosa, era stata applicata la sorveglianza speciale (articoli 4 e 6 del Dlgs 159/2011, “codice antimafia”), in base alla cosiddetta pericolosità qualificata. Che è stata data per “scontata”, in virtù degli indizi di appartenenza pur senza una specifica condanna penale e malgrado i “precedenti” fossero risalenti nel tempo. Il collegio remittente aderisce alla tesi secondo la quale, quando, come nella vicenda esaminata, non c’è un giudicato penale e gli indizi sono lontani nel tempo rispetto alla decisione di applicazione della misura, il giudice deve fornire una motivazione “in positivo” per giustificare la sua scelta. La Cassazione ricorda però che in un consistente numero di pronunce, anche recenti, si è affermata la tesi opposta. In caso di emersione di indizi che rendono possibile inquadrare il soggetto nella categoria prevista dall’articolo 4 del codice antimafia, per l’applicazione dalla misura non servirebbe alcuna particolare motivazione in tema di attualità della pericolosità. Né sarebbe influente il fattore della distanza del tempo tra l’emersione degli indizi e il momento della decisione di limitare la libertà personale. Per i sostenitori di questa tesi esiste, infatti, una “presunzione relativa ex lege”, che sarebbe onore del diretto interessato incrinare, dimostrando il suo recesso dal “clan” o la disintegrazione del sodalizio. Con una sostanziale inversione dell’onere delle prova. Ora la parola passa alle Sezioni unite. Può integrare un reato complesso l'omicidio stradale aggravato dall’uso di stupefacenti di Fabio Piccioni Il Sole 24 Ore, 24 ottobre 2017 Tribunale di Grosseto - Sentenza 28 agosto 2017. A seguito dell'entrata in vigore della legge 41/2016 è esclusa l'ipotesi di concorso di reati tra l'articolo 589-bis del codice penalee la fattispecie di cui all'articolo 187 del codice della strada (e, mutatis mutandis, di cui all'articolo 186 del Cds). Nel caso esaminato l'indagato veniva, inizialmente, iscritto nel registro delle notizie di reato per rispondere in concorso di reati del delitto di “omicidio stradale” e della contravvenzione di guida in stato di alterazione psicofisica per uso di sostanze stupefacenti. A seguito di stralcio, nel procedimento de quo, il Gpp di Grosseto, con decreto in data 28 agosto 2017, ha disposto, a seguito di apposita richiesta presentata dal Pm - sebbene per motivi diversi - l'archiviazione della notitia criminis in ordine al reato di cui all'articolo 187 del codice della strada. La pronuncia - L'archiviazione è disposta perché la contravvenzione prevista dall'articolo 187 del Cds resta assorbita nel delitto di cui all'articolo 589-bis del Cp aggravato ai sensi del comma 2. Secondo la giurisprudenza relativa all'interpretazione dell'articolo 589 previgente, in caso di omicidio colposo e di contemporanea violazione delle norme sulla circolazione stradale, si configurava un concorso tra il delitto e la contravvenzione (in tal senso, Cass. Pen., sez. IV, 28/1/2010, n. 3359 e Cass. Pen., sez. IV, 30/11/2012, n. 46441). La Suprema Corte, infatti, aveva osservato che la circostanza aggravante prevista dall'allora vigente comma 3 dell'articolo 589non riguardava solo i “conducenti” di un veicolo in stato di ebbrezza o di alterazione da stupefacenti ma anche tutti quei soggetti i quali “pur non direttamente impegnati nella fase della circolazione intesa come guida di un veicolo, sono tuttavia anch'essi obbligati al rispetto di norme relative alla disciplina della circolazione stradale, a garanzia della tutela degli utenti della strada”. In relazione alle nuove ipotesi di omicidio stradale aggravate dall'uso di sostanze, invece, le cose cambiano: l'impostazione data dal legislatore alle fattispecie aggravate di cui all'articolo 589-bis commi 2, 3 e 4 del Cp, grazie allo specifico richiamo costruito sul proprium delle fattispecie contravvenzionali del codice della strada, si riferisce solo a chi si ponga “alla guida di un veicolo a motore”. Ne deriva che la nuova formula “potrebbe” integrare l'ipotesi di reato complesso (in tal senso, anche Cass. Pen., Sez. IV, 18 gennaio 2017, n. 2403). Gli elementi positivi di concessione delle attenuanti generiche. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 24 ottobre 2017 Reato in genere - Circostanze del reato - Circostanze attenuanti generiche - Elementi positivi di concessione - Giudizio discrezionale - Motivazione. La concessione delle attenuanti generiche deve essere fondata sull'accertamento di situazioni idonee a giustificare un trattamento di speciale benevolenza nei confronti dell'imputato, richiamando anche eventuali precedenti penali, seppur risalenti, l'intensità del dolo, la reiterazione delle condotte. Le circostanze attenuanti generiche hanno infatti lo scopo di estendere le possibilità di adeguamento della pena in senso favorevole all'imputato sulla base di situazioni che incidano effettivamente sull'apprezzamento dell'entità del reato e della capacità delinquenziale dell'incolpato: il riconoscimento o meno di tali circostanze richiede un giudizio di fatto che compete alla discrezionalità del giudice e che è sottratto al controllo di legittimità in presenza di congrua motivazione. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 20 ottobre 2017 n. 48341. Sentenza - Requisiti - Motivazione - Circostanze attenuanti generiche - Mancata concessione delle attenuanti generiche nella massima estensione di un terzo - Motivazione - Contenuto. La mancata concessione delle attenuanti generiche nella massima estensione di un terzo non impone al giudice di considerare necessariamente gli elementi favorevoli dedotti dall'imputato, sia pure per disattenderli, essendo sufficiente che nel riferimento a quelli sfavorevoli di preponderante rilevanza, ritenuti ostativi alla concessione delle predette attenuanti nella massima estensione, abbia riguardo al trattamento sanzionatorio nel suo complesso, ritenendolo congruo rispetto alle esigenze di individualizzazione della pena, ex articolo 27 Cost. • Corte di cassazione, sezione VII, ordinanza 22 settembre 2016 n. 39396. Reato - Circostanza - Circostanze attenuanti generiche - Giudice di merito - Articolo 133 c.p.- Concessione del beneficio - Personalità del colpevole. Ai fini della concessione o del diniego delle circostanze attenuanti generiche basta che il giudice del merito prenda in esame quello tra gli elementi indicati nell'articolo 133 cod. pen., che ritiene prevalente e atto a consigliare o meno la concessione del beneficio; e anche un solo elemento che attiene alla personalità del colpevole o all'entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può essere sufficiente per negare o concedere le attenuanti stesse. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 10 ottobre 2016 n. 42804. Potere discrezionale del giudice nell'applicazione della pena - Concessione o diniego delle circostanze attenuanti generiche - Parametri di riferimento - Motivazione. Il riconoscimento o il diniego delle circostanze attenuanti generiche è rimesso al potere discrezionale del giudice di merito, il cui esercizio deve essere motivato nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente la sua valutazione circa l'adeguamento della pena alla gravità effettiva del reato e alla personalità del reo, la ratio dell'articolo 62-bis del Cp non imponendo, d'altronde, al giudice di merito, in caso di diniego, di esprimere una valutazione su ogni deduzione difensiva, essendo sufficiente che indichi gli elementi di prevalente rilevanza che ostano alla concessione. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 13 ottobre 2016 n. 43242. Ascoli Piceno: detenuti impegnati nella sistemazione della nuova chiesa di Teresa Valiani Redattore Sociale, 24 ottobre 2017 Il carcere di Ascoli Piceno e la parrocchia di Piane di Morro impegnati nelle opere di pulizia e giardinaggio in vista dell’inaugurazione della nuova chiesa di Santa Lucia. Tre detenuti coinvolti in un'ottica di giustizia riparativa, al lavoro volontario tutti i giorni per una settimana. Detenuti al lavoro per consegnare ai fedeli una nuova chiesa in grado di accogliere tutti i parrocchiani. Accade a Piane di Morro, frazione di Folignano, un piccolo comune della provincia di Ascoli Piceno. La chiesa è quella di Santa Lucia ed è stata ricostruita ex novo perché il vecchio edificio non era più in grado di ospitare tutti i fedeli. La realizzazione della struttura volge al termine e per i lavori di pulizia e giardinaggio, un mese fa si è pensato di coinvolgere il carcere di Ascoli Piceno e di chiedere aiuto ai suoi detenuti. È così che 3 persone, in articolo 21 (lavoro esterno) sono state impegnate per una settimana, dal lunedì al venerdì, dalla mattina al tardo pomeriggio, nelle opere di manutenzione in vista dell’apertura ufficiale. “L’idea - spiega don Giuseppe Bianchini, parroco di Santa Lucia - è partita da don Domenico Poli, il cappellano del carcere, e per noi è stata un’esperienza molto positiva e sicuramente da ripetere. È la nostra prima collaborazione con il carcere e, al di là del valore sociale dell’opera, ha rappresentato un momento significativo per tutti. Per me, perché parlando con questi ragazzi ho capito di avere davanti le stesse gabbie, sia pure di natura psicologica: è stato un po’ come guardarsi allo specchio e vedere che spesso il problema non sono gli altri ma siamo noi. E poi mi interessava anche misurarmi con il pregiudizio che avrei potuto avere rispetto a persone che comunque hanno commesso qualcosa. Per loro, invece, è stato importante perché hanno avuto la possibilità di confrontarsi con l’esterno e quelle che ci siamo trovati davanti sono state persone molto disponibili, educate e che si sono impegnate al massimo”. Don Domenico Poli è il nuovo cappellano del carcere di Ascoli Piceno. Al lavoro al Marino da marzo è alle prese con “un’esperienza nuovissima, una nuova mentalità, una sincronia nuova da trovare. Essendo un giudiziario, poi, i detenuti cambiano spesso e ogni volta c’è bisogno di ricominciare e ascoltare, con attenzione”. “I detenuti - racconta la direttrice del carcere, Lucia Di Feliciantonio - stanno svolgendo con grande impegno il lavoro di volontariato in un’ottica di giustizia riparativa rispetto al reato commesso, fieri di essere utili alla collettività e al nostro territorio così duramente provato dal terremoto”. “Per noi è sempre positivo uscire dal carcere - sottolinea Alessandro, uno dei 3 ragazzi al lavoro - perché ci sentiamo coinvolti in progetti utili, possiamo dare una mano all’esterno e confrontarci con persone nuove. Ci hanno detto che questa esperienza potrebbe ripetersi in vista dell’11 novembre, quando la chiesa sarà inaugurata. E speriamo proprio che sarà così”. Bologna: l’allarmismo sociale dei giornalisti in occasione della visita del Papa di Bledar Shehi bandieragialla.it, 24 ottobre 2017 Mercoledì 11 ottobre. Come ogni giorno apro e leggo "Il Resto del Carlino". Dopo qualche pagina trovo un titolo che attira la mia attenzione: “Detenuti a tavola con il papa sono evasi dopo il pranzo”. Proseguo curioso. L’articolo spiega che si trattava di detenuti della casa di lavoro di Castelfranco (MO). Sfoglio ancora le pagine della Gazzetta e trovo un altro titolo e articolo: “Due detenuti fuggiti il 1° ottobre all’uscita da San Petronio. La polizia in curia”. Vado avanti con Il Giornale e ancora un altro articolo: “La grande fuga. Caccia ai due detenuti: sorveglianza attenuata” ecc. Penso che il direttore de Il Resto del Carlino non avesse altri argomenti per riempire le pagine del giornale. Giovedì 12 ottobre. Il Resto del Carlino riempie due pagine al riguardo. “Evasi dopo il pranzo con il Papa: adesso indaga l’anticrimine” ecc. Il sig. Durante (del Sappe): “Gli internati sono soggetti socialmente pericolosi e andrebbero sorvegliati con maggiore attenzione”. Dimentica il sig. Durante che solo in Italia - a differenza del resto d’Europa - esiste la Casa di lavoro, il cosiddetto “ergastolo in bianco”: un detenuto, dopo aver scontato la pena, se viene dichiarato dal giudice “delinquente abituale” viene spedito alla casa di lavoro per uno, due, tre anni e ogni volta che sbaglia la condanna alla Casa di lavoro inizia daccapo. Per questo si chiama “ergastolo bianco”. Parla ancora il direttore della Casa di lavoro: “I carcerati ogni giorno escono e rientrano, ma nessuno ne parla mai. È stato il contesto, ovvero la visita del Papa a scatenare l’allarme. Non facciamo allarmismo sociale”. L’arcivescovo Zuppi aggiunge. “Per la sicurezza è stato fatto il massimo. Le procedure sono state rispettate. Come se fossi il capo di una squadra multe”. Accendo la TV e girando per i canali mi fermo al TG5. Inizia il telegiornale. Il titolo di apertura: “Rocambolesca fuga di due detenuti dal pranzo con il Papa”. Per un attimo ho pensato che a fuggire sia stato Nazzareno, uno del penale qui della Dozza, ritratto nella foto con il Papa durante il pranzo. “Strano - ho pensato - era già andato tante volte in permesso”. Poi mi sono ricordato le parole del cappellano, padre Marcello: “I detenuti erano 19 in tutto e tutti permessanti". Capisco che ogni fatto di cronaca fa notizia. Ma quale “rocambolesca fuga” se i detenuti erano liberi come negli altri giorni di permesso? Per poco non davano la colpa al Papa: perché il Papa è venuto a Bologna? Perché la messa con i poveri? Perché con i detenuti? perché, perché, perché? Conclusione: il Papa è colpevole. (D’altronde, Zuppi si è “discolpato”: “Per la sicurezza è stato fatto il massimo”. Lo arresteranno?). Alcuni giornalisti fanno “terrorismo sociale” e diffondono paura come fossimo in un film. Che si fumano certi giornalisti? La fantasia cavalca oltre la realtà. Alleluia! D’altronde, siamo in Italia e le cose belle (come in carcere) durano poco e poco se ne parla e si getta il discredito su quanto c’è di buono, come la visita e i gesti di papa Francesco. Comunque sia, io dico. “Benvenuto Papa Francesco, ovunque tu vada”. Roma: ripartono gli “Incontri Celimontani” con una riflessione su carcere e giustizia acistampa.com, 24 ottobre 2017 Gli interventi di un’esponente politica di lungo corso, di una biblista, di un monaco patrologo, di un filosofo e di un artista ex-ergastolano in conversazione tra loro. E ancora; le testimonianze di due cappellani, di un giurista, la tavola rotonda con tre esponenti di partiti, associazioni, istituzioni. E infine, ma tutt’altro che ultimo per importanza e spessore, un dialogo tra un familiare di una vittima e due ex terroristi. Per conoscere, capire, riflettere. Giovedì 26 ottobre alle 18 riprendono gli “Incontri Celimontani”, la serie di seminari mensili, di taglio volutamente non accademico e rivolti a tutti, che le comunità monastiche dei monaci e delle monache camaldolesi di Roma promuovono ogni anno nella cornice del monastero di San Gregorio al Celio. Quest’anno la riflessione è incentrata sul tema “Il carcere e la giustizia: redenzione e riconciliazione?” e intende svilupparsi come una meditazione collettiva a più voci sul tema dell’amministrazione della giustizia e sulle sue ripercussioni sulla vita reale delle persone. Un tema costante nell’apostolato della Chiesa e del ministero dei Pontefici romani. Basterebbe solamente ricordare, nel secolo appena trascorso, le udienze, le celebrazioni nelle carceri e le visite dei Papi ai detenuti, da San Giovanni XXIII a Papa Francesco, passando per Paolo VI e Benedetto XVI. O gli appelli a provvedimenti di clemenza, come quello di Papa Wojtyla al Parlamento italiano nel 2002 o quello recente di Papa Francesco in occasione del Giubileo della Misericordia. Pensando alle “centinaia di migliaia di famiglie che, soltanto in Italia, sono profondamente segnate dai problemi della giustizia - scrivono i curatori degli incontri, padre Innocenzo Gargano e madre Michela Porcellato - non abbiamo le cifre precise, ma certamente esse sono molto alte, nonostante che certe verità non abbiano mai o quasi mai l’onore di apparire in qualunque pagina dei nostri giornali o dei mass media in generale. È grave - proseguono i due religiosi - constatare la condizione assolutamente disumana in cui il carcerato viene ridotto”, così come “di coloro che sono finiti in simili situazioni personali nonostante la propria innocenza o il cattivo funzionamento dei vari livelli di amministrazione della giustizia”. Da questa premessa nasce un interrogativo. “È proprio impossibile trovare soluzioni alternative al carcere quando ci si trova di fronte a situazioni oggettivamente lesive della giustizia, non riuscendo a trovare una strada che permetta di realizzare il principio della distinzione tra peccato e peccatore, che pure sembra aver fatto da sempre parte dell’annunzio ebraico cristiano in questa nostra terra martoriata?”. “Di fronte a questa sfida - concludono padre Gargano e madre Porcellato - abbiamo cercato di raccogliere i pareri di persone che sanno cosa sia realisticamente oggi un carcere, ma anche di persone che osservano l’intera problematica a partire dalla tradizione ebraico-cristiana e dalle conquiste dell’illuminismo, che sono alla base dell’attuazione pratica della giustizia in Italia e in gran parte del mondo occidentale”. A inaugurare gli “Incontri”, giovedì 26 ottobre, sarà Rita Bernardini, esponente storica del Partito Radicale, che farà il punto sulla situazione carceraria oggi in Italia. Della “prassi che va sotto il nome di RIB nell’Antico Testamento” parlerà il 16 novembre la biblista Pina Scanu, mentre il 21 dicembre sarà padre Gargano a inquadrare la questione nel Nuovo Testamento e nel Vangelo di Matteo. Un dialogo possibile fra vittime e responsabili sarà quello fra Agnese Moro, figlia del Presidente della DC ucciso dalle Brigate Rosse nel 1978, e gli ex terroristi Adriana Faranda ed Ernesto Balducchi, il 18 gennaio 2018. Del carcere e della necessità di liberarsene, espresso in forma dubitativa, parleranno il filosofo Franco Miano e l’attore ex detenuto Cosimo Rega, giovedì 15 febbraio. A confrontarsi sul disagio giovanile e sulle alternative al carcere saranno padre Gaetano Greco e don Giovanni Carpentieri, il 15 marzo, e a riflettere su processi ed esperienze giuridiche sarà, il 19 aprile, il giurista Antonio Mantello. Infine, il 17 maggio 2018, una tavola rotonda con Stefano Anastasia Giagni (Associazione Antigone), Ida del Grosso (Ministero della Giustizia) e Rita Bernardini concluderà il ciclo degli incontri. Urbania (Pu): le Scene Universitarie per il Teatro in Carcere smtvsanmarino.sm, 24 ottobre 2017 Con il titolo "Le Scene Universitarie per il Teatro in Carcere", torna ad Urbania, il 4 e 5 novembre 2017, il Convegno Internazionale Teatri delle Diversità, organizzato dall’Associazione Teatro Aenigma in collaborazione con il CNTiC Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, con il patrocinio dell’Università di Urbino “Carlo Bo”, con il sostegno del MIBACT Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, della Regione Marche, e con la partecipazione del Ministero della Giustizia, Dipartimento Amministrazione Penitenziaria. La XVIII edizione sarà ospite del Comune di Urbania, che offre il suo patrocinio mettendo a disposizione la Sala Paolo Volponi e il Teatro Bramante e si svolgerà sotto l’egida dell’ITI-UNESCO International Theatre Institute dell’UNESCO. Vedrà inoltre la partecipazione di: AITU-IUTA International University Theatre Institute, ANCT Associazione Nazionale dei Critici di Teatro e Labirinto Cooperativa Sociale. Nutrito il programma del convegno i cui lavori inizieranno sabato 4 novembre, ore 15, alla Sala Volponi, e che vedranno alternarsi al tavolo dei relatori, professori, studiosi, registi teatrali ed operatori sociali da tutto il mondo. Ad introdurre i lavori Vito Minoia, neo presidente eletto della AITU-IUTA, che relazionerà sui lavori del 35esimo Congresso Mondiale dell’ITI-UNESCO di Segovia, in Spagna, dove lo scorso luglio fu invitato a parlare dell’esperienza italiana di Teatro in Carcere. A seguire, gli ospiti internazionali: Jean-Marc Larrue (Belgio), Chiwoon Ahn (Corea del Sud), Maria S. Horne (USA), Chelsea L. Horne (USA), Ouriel Zohar (Israele), Elka Fediuk (Messico), Isabel C. Flora Hernandez (Messico) e Graciela Muñoz (Argentina). Nel corso del pomeriggio si svolgerà la cerimonia di assegnazione del Premio Internazionale Gramsci per il Teatro in Carcere (seconda edizione), a cura della rivista europea “Catarsi-Teatri delle Diversità”, il cui vincitore sarà proclamato durante il Convegno. Alla cerimonia sarà presente la regista libanese Zeina Daccache, già vincitrice del Riconoscimento lo scorso anno. La giornata si concluderà al Teatro Bramante, dove alle ore 21 andrà in scena la documentazione / performance Esodo - un richiamo simbolico alla ricerca di nuove progettualità dell’esistenza curata dal regista Francesco Gigliotti, che vedrà coinvolta la Compagnia teatrale Lo Spacco, formata da detenute e detenuti della Casa Circondariale di Pesaro, insieme ai ragazzi della IIIB dell’Istituto Comprensivo Statale Galilei di Pesaro. A seguire il concerto della Scaramuzzino Family, che allieterà i presenti con le Musiche per Mandolino, spaziando dal Repertorio classico a quello etnico. Domenica 5 novembre i lavori inizieranno alle 9.30 alla Sala Volponi, dove si alterneranno interventi di Nicola Savarese, Mariano Dolci, Mimmo Cuticchio, Michalis Traitsis e Frà Stefano Luca. Particolare attenzione sarà data alla presentazione della IV edizione della Rassegna Nazionale di Teatro in Carcere Destini Incrociati che si svolgerà a Roma dal 15 al 17 novembre, a cura del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere in cooperazione con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e l’Università Roma Tre, uniti da un Protocollo d’Intesa per la promozione e il coordinamento delle attività teatrali in carcere. A chiudere i lavori del XVIII Convegno Internazionale di Urbania sarà Somud U Ahlam - Resistenza e Sogni, monologo di teatro reportage di Annet Henneman, basato sui suoi ultimi viaggi in Iraq e Palestina nel 2016 e 2017. Quella paura dei simboli fascisti di Roberto Saviano L'Espresso, 24 ottobre 2017 La polemica sull’architettura del ventennio dimostra come abbiamo smarrito il filo che ci lega al passato. Sono nato nel 1979 quindi gli anni Ottanta, con i loro eccessi, hanno profondamente segnato il mio immaginario. Eccessi frivoli, talvolta, ma anche e soprattutto di impegno civile e politico, un impegno che non conosceva mezze misure. Negli anni Ottanta faceva il suo ingresso nel dibattito pubblico italiano una espressione che in realtà esisteva già da qualche decennio, quel “politicamente corretto” che aveva il compito di fissare regole per una civile discussione su alcuni temi delicati su cui lo scontro o talvolta l’offesa spesso incombeva. Al tempo era necessario darsi delle regole, anche regole che fossero semplicemente linguistiche. Se è vero, come è vero, che le forme del linguaggio modificano le forme del pensiero, allora l’operazione di “decontaminazione linguistica” iniziata negli anni Ottanta e definitivamente compiutasi negli anni Novanta ci ha aiutati a prendere coscienza piena dell’esistenza di condizioni umane che meritano non solo attenzione ma anche delicatezza nell’approccio. Nessun rimpianto sul ritardo, nessuna pretesa che questo passaggio avvenisse prima: tutto era troppo vicino, vicina era l’esperienza del fascismo, vicini e attuali gli anni di piombo. Non c’era spazio per le mezze misure, non c’era spazio per nulla che non fosse bianco o nero. Eppure gli anni Ottanta sono stati un momento di crescita: forse il vero passaggio di secolo c’è stato proprio tra il 1989 e il 1990, nei mesi della riunificazione tedesca. L’anno che in qualche modo ha sancito la fine di una separazione dolorosa e la celebrazione dell’unità, coronata dalle “notti magiche” dei mondiali giocati in Italia nel 1990. Ma unificazione significa anche attenzione ai motivi che hanno portato alla disgregazione, significa studio e ragionamento, significa approfondimento. Gli anni Novanta hanno progressivamente trasformato l’utopia del politicamente corretto nel compimento della falsità istituzionale. Oggi si ritiene che il politicamente corretto appartenga a chi non ama il parlar chiaro, a chi vuole gettare fumo negli occhi dell’interlocutore. Quindi dal rispetto delle minoranze si è tornati a pretendere rispetto per le maggioranze perché ciò che non appartiene a tutti e che non riguarda tutti è perdita di tempo. Quasi una coazione a ripetere: più ci si allontana dal nucleo che genera sofferenza, più si perde la necessità di approfondire, di studiare e di ricordare le cause che quella sofferenza l’hanno prodotta. Più i testimoni oculari della sofferenza tacciono (alcuni muoiono, altri dimenticano, qualcuno cambia idea) più il simbolo perde significato e perde anche la funzione necessaria di monito. Dopo la Seconda guerra mondiale e durante tutto il periodo della Guerra fredda i simboli fascisti rimasti in Italia ci ricordavano un momento buio della nostra storia, un periodo che non dovevamo dimenticare. Pensando all’Eur ho spesso riflettuto su cosa significasse vivere in un quartiere di monoliti bianchi e giganteschi. L’uomo che cammina tra quelle strade è un uomo piccolo, schiacciato, che può fare la differenza solo se si unisce ad altri uomini, solo se crea un fascio. L’architettura fascista genera un forte senso di impotenza, quindi alla prepotenza dell’apparato statale corrispondeva in modo uguale e contrario l’impotenza del singolo uomo. È importante non smettere mai di riflettere sulla stratificazione architettonica che ospita le nostre vite; è importante perché ci consente di vivere in continuità con ciò che siamo stati, con ciò che di buono abbiamo prodotto ma anche con ciò che di estremamente negativo si è sperimentato. Ruth Ben-Ghiat, storica statunitense profonda conoscitrice della storia italiana, dalle colonne del New Yorker pone una questione sulla quale ci interroghiamo poco: quanto condizionano la nostra vita i simboli che ci circondano? E quanto la condizionano quei simboli dei quali non siamo più in grado di cogliere il messaggio? Cosa rappresentano oggi i simboli fascisti rimasti in Italia, un monito o memoria da rispolverare? Le riflessioni di Ruth Ben-Ghiat hanno generato in Italia una polemica sul valore dell’architettura fascista e sulla necessità di stigmatizzarne la genesi, una polemica che forse nasce dalla paura di aver smarrito il filo, interrotto quel dialogo fondamentale con un passato vicinissimo e che invece appare remoto, un dialogo che genera consapevolezza. Migranti. La piazza di sabato è stata solo l’inizio di Filippo Miraglia Il Manifesto, 24 ottobre 2017 L’estate del Codice per le Ong, dell’entrata in vigore della legge discriminatoria e anticostituzionale Orlando-Minniti, degli accordi con la Libia e della campagna di criminalizzazione della solidarietà meritava una risposta pubblica. La risposta è arrivata sabato scorso con i ventimila in marcia a Roma contro il razzismo, per la giustizia e l’uguaglianza. Una grande soddisfazione l’essere riusciti a realizzare quel bellissimo e colorato corteo che sabato scorso è partito da piazza della Repubblica e si è concluso a Piazza Vittorio, dove hanno preso la parola le ragazze i ragazzi di #italianisenzacittadinanza e alcuni testimoni di quel che accade in Libia e nel sistema d’accoglienza italiano. Un nuovo inizio, per una stagione di protagonismo del movimento antirazzista che costruisca un’alleanza nel Paese reale, dal basso, tra chi subisce le conseguenze pesanti della crisi globale e di un modello di sviluppo che crea disuguaglianze e coloro che, come ha detto don Luigi Ciotti su queste pagine, rappresentano la nostra speranza: i migranti, i rifugiati. Nonostante le difficoltà e i timori con cui è nata questa manifestazione, possiamo dire di avercela fatta. La maggioranza degli italiani e delle italiane che sono dalla parte giusta, quella dei diritti e della solidarietà, ma che da tempo non prendevano la parola, hanno potuto finalmente rendersi visibili e dire forte, in piazza, che migrare non è reato, la solidarietà non è reato e non lo è l’accoglienza dignitosa. Le vertenze che abbiamo rilanciato nell’appello di convocazione, pubblicato da il manifesto, che ha raccolto centinaia di adesioni di organizzazioni sociali, locali e nazionali, sono tutte questioni centrali per la nostra democrazia. Lo è l’approvazione della riforma della cittadinanza, ferma al Senato da più di due anni dopo l’approvazione alla Camera, che rischia di essere affossata se il Pd non troverà il ‘coraggio’ di farla approvare prima della fine della legislatura. Mancano poche settimane ormai allo scioglimento delle Camere e sarebbe un errore imperdonabile regalare una simile vittoria alla destra xenofoba di Salvini e Meloni e al populismo grillino, che di ius soli non vogliono sentir parlare. L’altra grande ferita aperta alla nostra democrazia è l’esternalizzazione delle frontiere, attraverso gli accordi con governi fantocci o dittatoriali. E le testimonianze che abbiamo sentito dal palco di Piazza Vittorio sabato scorso impongono a questo governo, all’Unione europea e al nostro Parlamento un intervento urgente perché cessi la violenza, sottraendo le persone chiuse nei lager ai loro aguzzini, a quei trafficanti che gli accordi ora finanziano perché complici del blocco dei flussi. Oggi è diventato difficile se non impossibile accedere al diritto d’asilo in Europa. Poche sono le persone che riescono ad arrivare per chiedere protezione e, se le politiche del governo italiano e dell’Unione europea non cambieranno, il diritto d’asilo verrà cancellato in maniera definitiva, perché i richiedenti non potranno arrivare alle nostre frontiere. Sarebbe come se per sconfiggere una malattia avessimo deciso di uccidere i malati. È stato bello sabato vedere in piazza tante esperienze di accoglienza diffusa, tanti rifugiati che reclamavano il diritto ad essere considerati esseri umani e non numeri. Si tratta di una battaglia culturale difficile e di lungo periodo. Noi dell’Arci, che ci abbiamo creduto e non abbiamo mai smesso di stare dalla parte di chi chiede protezione, vogliamo considerare la manifestazione come una tappa di un percorso che sarà lungo e difficile. È sicuramente necessario coinvolgere altre realtà che lavorano per gli stessi nostri obiettivi e che sabato non erano in piazza. Rilanciare l’idea che la lotta al razzismo riguarda tutti e non solo le persone di origine straniera. La piazza di sabato scorso ci consegna la responsabilità e la forza di andare avanti. Partire dai territori, dare la parola ai protagonisti, costruire alleanze e mobilitazioni dal basso, mettere in campo una ampia campagna di contro informazione. Non è che l’inizio. *Vicepresidente nazionale Arci Migranti. Perquisita la nave di Save the Children di Marina Della Croce Il Manifesto, 24 ottobre 2017 Gli agenti hanno aspettato che entrasse in porto a Catania, poi sono saliti a bordo e l’hanno perquisita su ordine della procura di Trapani che da mesi conduce un’inchiesta in cui si ipotizza il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Nel mirino questa volta è finita la nave Vos Hestia della Ong Save the Children, una delle più attive in passato nella ricerca e salvataggio dei migranti nel Mediterraneo centrale. Operazioni che la Ong ha sempre dichiarato di aver svolto coordinandosi con la sala operativa della Guardia costiera a Roma, ma che secondo i pm trapanesi Andrea Tarondo e Antonio Sgarella, che hanno firmato l’ordine di perquisizione, si sarebbero svolte in seguito ad contatti tra alcuni membri del personale che si trovava a bordo e i trafficanti di esseri umani in Libia. Contatti dei quali adesso i pm sperano di trovare traccia nel materiale sequestrato a bordo: due computer portatili, due tablet, i computer della nave, un telefono satellitare, un cellulare e un hard disk esterno, oltre al giornale di bordo della Vos Hestia dall’agosto 2016 a oggi e al brogliaccio di navigazione dal 1 gennaio 2017 a oggi. Materiale che si trovava sia in plancia di comando che in alcune cabine ed era in possesso del comandante Paolo Alfonso Russo, del team leader di Save the Children Roman Lasjuilliarias, al vice leader Javier Garcia Cortes, all’addetta alla logistica Paloma Gonzales Fernandez e al mediatore culturale Hassan Ali Sayed Salem. Al termine della perquisizione, l’organizzazione si è detta completamente estranea ai fatti che hanno portato i militari a bordo della sua nave. La documentazione oggetto della ricerca - spiega Save the Children in una nota - “come si evince dallo stesso decreto di perquisizione” è “relativa a presunte condotte illecite commesse da terze persone”. L’inchiesta dei magistrati trapanesi è la stessa che ha già portato ad agosto al sequestro della nave Iuventa della Ong tedesca Jugend Rettet e nata dalle dichiarazioni rese ai magistrati dal alcuni addetti alla sicurezza che so trovavano proprio a bordo della nave di Save the Children, che avevano inviato una mail ad un funzionario dei servizi segreti italiani segnalando che alcune Ong avrebbero in qualche maniera favorito l’immigrazione clandestina. A bordo della stessa nave si trovava però anche un agente infiltrato del Servizio centrale operativo (Sco) che aveva filmato e fotografato alcune fasi dei soccorsi in mare della Juventa e della stessa Vos Hestia. “Tutte le operazioni sono state sono state condotte in strettissimo coordinamento con la Guardia costiera italiana e nella massima collaborazione con le autorità”, ha ribadito ieri Save the Children, annunciando la sospensione delle operazioni di salvataggio nel Mediterraneo. Migranti. Che fine ha fatto la “giungla” di Calais? di Stefano Lorusso Il Manifesto, 24 ottobre 2017 Un anno dopo. Il 24 ottobre 2016 le autorità francesi sgomberavano la più grande bidonville d’Europa. Ma i migranti non sono mai andati via. Enayatollah muove i suoi passi su una spianata di terra umida della rugiada di primo mattino, lì dove un anno fa il terreno fangoso tremava al passaggio dei bulldozer. Lui, migrante afghano, conosce bene la storia di questi luoghi. Trecentosessantacinque giorni fa era qui, quando il governo francese radeva al suolo la “giungla” di Calais, la più grande bidonville d’Europa, che ha ospitato fino a 10.000 persone. Il 24 ottobre dello scorso anno, debuttavano all’alba le spettacolari operazioni di sgombero. Centinaia di CRS (agenti della Compagnie Républicaine de Sécurité) furono mobilitati. Più di 7.400 persone, di cui circa 2.000 minorenni, furono spostate nei CAO (Centri d’accoglienza e d’orientamento) sparsi su tutto il territorio francese. Secondo l’Ofii, l’agenzia governativa che gestisce le domande d’asilo, il 46% degli abitanti della bidonville aspetta ancora una risposta definitiva, il 42% ha ottenuto l’asilo, il 7% è stato rifiutato. Ma cosa ne è, un anno dopo, della “giungla” di Calais? Prova a spiegarlo il prefetto del Pas-de-Calais Fabien Sudry, che constata come “la pressione migratoria è nettamente diminuita. Oggi ci sono 500 migranti, l’anno scorso ce n’erano 8.000. Non ci sono più né squat, né campi, né intrusioni nell’Eurotunnel”. Tuttavia, la situazione sembra essere differente. I migranti, in realtà, non sono mai andati via. Già due mesi dopo lo sgombero i primi esiliati cominciavano a riaffacciarsi in città, il punto più vicino al Regno Unito. Dal 24 ottobre 2016, secondo una stima delle associazioni, sono stati distribuiti più di 236.000 capi di abbigliamento, più di 7.000 scarpe e circa 8.000 sacchi a pelo. “Ero qui un anno fa. Sono di nuovo qui un anno dopo. Prima era difficile passare, ma adesso è praticamente impossibile. La polizia ci bracca ogni giorno”, sospira grave Enayatollah, incamminandosi verso il nuovo accampamento di migranti in rue des Verrotières, nella zona delle Dune, a poche centinaia di metri dalla vecchia bidonville. La chiamano già “la nuova giungla”. Secondo le associazioni 700 migranti trovano riparo in questo bosco nella zona industriale di Calais. Dopo lo sgombero della bidonville il solo a sparire è stato lo stato francese che non propone alcun dispositivo di accoglienza, nonostante le sollecitazioni del Consiglio di Stato - la più alta autorità amministrativa francese - e delle Nazioni unite, che in un recente rapporto aggiunge duramente che i migranti dispongono di “un accesso limitato all’acqua potabile, alle docce e ad altri dispositivi sanitari”. Per la sopravvivenza quotidiana, i migranti si appoggiano alle associazioni. Finanziata dal governo, l’associazione La vie active distribuisce quotidianamente l’acqua potabile, che sgorga dalla bocca di una decina di rubinetti mobili trasportati su di un furgoncino, sistemati a pochi centimetri dal suolo e accessibili per sole sei ore al giorno. “Mi vergogno di non poter fare di più per loro”, sussurra Juliette, volontaria della Vie active. Delle docce, installate a qualche chilometro dal campo, sono accessibili quattro giorni a settimana con un sistema di navette. Un collettivo di associazioni - Refugee Community Kitchen, Utopia56, l’Auberge des migrants e Salam - si occupa dell’alimentazione quotidiana. Terminato il pasto caldo, zaini sulle spalle, un gruppetto di migranti etiopi si dirige verso il canale che attraversa il centro città. Si inginocchiano sulla riva, e sapone di Marsiglia alla mano, iniziano a strofinare pantaloni, felpe e giacconi. Mentre uno di loro affonda un jeans nel canale, una grossa chiazza di benzina galleggia sull’acqua inquinata. “I tentativi di salire sui camion sono diminuiti di 3,5 volte” afferma il prefetto, grazie alla moltiplicazione dei dispositivi di sicurezza presenti in tutta la città. Centinaia di metri di recinzioni e filo spinato percorrono le strade. Un muro - finanziato da Londra e costato 2,7 milioni di euro - lungo un chilometro e alto quattro metri prolunga le griglie già presenti sulla circonvallazione che conduce al porto. I parcheggi all’ingresso della città e in periferia, come il Polley secured Lorry Park, sono disseminati di telecamere di sorveglianza e di filo spinato, lì dove i tir sostano, in attesa di imboccare il lungo Eurotunnel che, scorrendo sotto l’acqua della Manica, collega Calais a Cheriton, nel Kent. Nottetempo, approfittando del buio, alcuni ragazzi eritrei sfidano i controlli e tentano di salire nel retro di un camion, in uno spiazzo non lontano dai boschi dove si rifugiano. Con la luce del telefono illuminano il mezzo pesante, vi cercano un varco nel corpo metallico. Sembrano trovarlo, quando la torcia del conducente li illumina alle spalle. Si sbraccia con foga, “andate via, chiamo la polizia” urla in inglese, quanto basta per farli fuggire. “Ci riproveremo fino ad arrivare a Londra. Qui siamo trattati come bestie. Dopo tutto, cosa abbiamo da perdere?”, dice ancora affannato e con il cuore in gola Tamir, eritreo poco più che maggiorenne. Ma la tensione securitaria prende anche altre forme. “La polizia ci sequestra tende e sacchi a pelo. A volte anche le scarpe, e inizia a fare freddo”, denuncia Asrat, partito l’anno scorso da Addis Abeba, in Etiopia, mentre il gelido freddo del nord della Francia gli azzanna le cosce come un cane affamato. Con il pretesto di effettuare delle operazioni di pulizia legate alle condizioni di insalubrità, le forze dell’ordine, così come racconta Youssef, volontario dell’associazione Utopia56, “non lasciano il tempo ai migranti di recuperare i loro effetti personali. Secondo i nostri calcoli, al 76% dei migranti sono stati sequestrati anche i sacchi a pelo”. Nelle scorse settimane, le associazioni hanno distribuito 400 sacchi a pelo a settimana per 700 migranti presenti a Calais. Questa estate, durante una visita nella cittadina portuale, il ministro degli interni Gerard Collomb aveva dichiarato: “Non voglio che nasca un’altra giungla”, invitando le forze di polizia ad evitare la creazione di ogni “point de fixation”. La neolingua ministeriale si è tradotta in una strategia di tensione permanente da parte delle forze dell’ordine. Per evitare la formazione di nuovi campi, la polizia non lesina sull’utilizzo di manganelli e gas lacrimogeni, ed è presente quotidianamente alla stazione di Calais, in città e nei pressi della “nuova giungla”. “La consegna del governo è di scoraggiare i migranti. Sembra di essere ritornati indietro di quindici anni”, denuncia combattivo François Guennoc, vice-presidente dell’Auberge des migrants riferendosi alla formazione della prima bidonville nel 2002. Gli fa eco Vincent de Coninck, direttore del Secours Catholique di Calais: “Nei fatti, lo Stato nega la presenza degli esiliati, li maltratta. Sono molto pessimista, non cambierà niente, qui a Calais”. “Non voglio che nessuno viva per strada da qui alla fine dell’anno”, aveva dichiarato il presidente della repubblica Emmanuel Macron a fine luglio in un discorso sull’accoglienza dei rifugiati. Così come Cristo si è fermato a Eboli, le promesse di Macron non sono mai arrivate a Calais. Terrorismo. Droga e psicosi, i ritratti segreti dei miliziani italiani dell’Isis di Marta Serafini Corriere della Sera, 24 ottobre 2017 Chi sono, che droghe usano e di quali malattie soffrono i 130 dell’Isis che si teme tornino da Siria e Iraq. Il caso delle donne e dei bambini spariti. Nome per esteso o puntato, fotografia, precedenti penali, problemi psichiatrici se diagnosticati, eventuale uso di droga, appartenenza religiosa, presenza in rete e livello di indottrinamento, attuale localizzazione, se nota. Sono queste alcune delle informazioni contenute nel database dei foreign fighters italiani profilati dal ministero degli Interni e dall’intelligence. Sono centotrenta i nomi di reduci del Califfato di nazionalità italiana (o che abbiano legami con l’Italia per motivi di parentela o di residenza) profilati in oltre tre anni. Di questi, la maggior parte è già nota perché oggetto di indagini della magistratura. Ma più di una ventina sono nomi “nuovi” sui quali è stato attivato il monitoraggio e su cui sono in corso indagini. Tra i deceduti, quelli più giovani, in genere adolescenti come il genovese Giuliano Del Nevo o il bresciano Anas el Abboubi. A preoccupare sono i vivi, perché, come dichiarato più volte anche dal ministro degli Interni Marco Minniti, c’è la possibilità che i sopravvissuti ai combattimenti possano tentare il rientro in Italia. Gli hub del reclutamento - Il profilo tipo del foreign fighter italiano è maschio, sui 35 anni, convertito, proveniente dal Nord Italia, senza precedenti. I miliziani infatti sono per lo più partiti dagli hub dell’Isis del Nord Italia e della Svizzera italiana: Lecco, Como, Erba, Bologna, Veneto. Tutti luoghi dove le reti di reclutamento, come dimostrato dalle indagini delle diverse procure, sono state più attive a partire dal 2014. Le donne - Tra i files non mancano le donne, compresa Maria Giulia Sergio alias Fatima indicata come ancora “attiva” insieme al marito, l’albanese Aldo Kobuzi, che nel giugno 2016 ha passato il confine tra la Siria e la Turchia. Stessa dicitura per Valbona Berisha, la casalinga albanese di 34 anni di Barzago partita per la Siria a fine 2014 con il figlio Alvin di 6 anni, senza che il padre Afrimm ne sapesse nulla. Oltre agli adulti, nel database rientrano i casi di minori, inghiottiti dalla guerra siriana dopo che le madri o i padri li hanno trascinati nel loro viaggio. Tra questi c’è anche Ismail David Mesinovic, 6 anni, scomparso dopo che il padre Ismar se l’è portato in Siria a insaputa della madre Lidia Herrera. “C’è stata un’indagine della procura di Belluno ma è tutto archiviato. E ora nessuno cerca più mio figlio”, si dispera ancora oggi la donna. I minori scomparsi - E mancano all’appello anche Ismail di 8 anni, Ossama di 6 anni e S’ad di 4, figli di Alice Brignole, alias Aisha, e Mohamed Koraichi, partiti da Bulciago in provincia di Lecco nel marzo 2016. Le ultime foto dal profilo WhatsApp della madre, dopo la denuncia di scomparsa della nonna Fabienne Schirru, li davano a Raqqa, in tuta mimetica, nascosti in una grotta buia, mentre inneggiavano ad Allah con l’indice rivolto verso il cielo. Poi anche di loro, come conferma il procuratore di Milano Francesco Cajani, si sono perse le tracce.Fa parte della categoria dei minori inghiottiti dal Califfato, anche A. di 10 anni, figlio di Ahmed Taskour, l’impiegato marocchino partito da Bresso per l’Iraq nel dicembre 2014. E che una volta arrivato nel Califfato ha prestato il figlio alla macchina di propaganda dell’Isis, con il risultato che l’ultima traccia di A. sono i fotogrammi di un video, in cui, occhio fisso di fronte alla telecamera, lo si può vedere inneggiare allo Stato Islamico. Ma anche di Taskour e della sua famiglia, a distanza di un anno, come conferma il pm Enrico Pavone, non si hanno più notizie. E se rientrano? - Se i profili degli italiani dell’Isis sono dettagliati, resta da capire che linea terrà il governo italiano nei confronti dei returnees (i miliziani stranieri che rientrano dal fronte). “I numeri non sono alti come in Francia e Belgio”, sottolinea Lorenzo Vidino, esperto di terrorismo dell’Ispi. Ma al di là delle cifre sono molti i fronti che restano aperti. In primis quello delle responsabilità penali, perché nel caso delle donne, ad esempio, non è sempre facile stabilire se si possa definirle combattenti o totalmente affiliate all’Isis.Ed è tutto ancora da capire come verranno giudicati i foreign fighters dalle autorità siriane, curde, irachene e turche che in questi mesi ne hanno catturati oltre 300. “In Iraq, ad esempio, vige la pena di morte per i reati di terrorismo. Cosa accadrebbe se per alcuni prigionieri non dovesse essere avviata l’espulsione o l’estradizione nei Paesi di origine?”, conclude Vidino. Una domanda che potrebbe riguardare anche dei cittadini italiani. Zimbabwe. Mugabe non sarà più ambasciatore dell’Oms di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 24 ottobre 2017 Alla fine l’Oms ci ha ripensato. Ha capito che la nomina del presidente-dittatore dello Zimbabwe Robert Mugabe ad ambasciatore di buona volontà per le malattie non trasmissibili era stata un errore madornale. È stato lo stesso direttore generale dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus ad annunciare la marcia indietro. Proprio lui che, mercoledì scorso nell’annunciare il conferimento del titolo, si era dichiarato convinto che Mugabe avrebbe potuto usare il suo ruolo “per influenzare i suoi pari nella regione” e aveva descritto lo Zimbabwe come un “Paese che mette la salute dei cittadini al primo posto” nonostante vanti il triste primato mondiale di mortalità infantile e l’aspettativa di vita più bassa al mondo. “Negli ultimi giorni ho riflettuto sulla mia nomina del presidente Robert Mugabe come ambasciatore di buona volontà dell’Oms in Africa per le malattie non trasmissibili. Ho dunque deciso di ritirare la nomina”, ha scritto Tedros in una dichiarazione pubblicata su Twitter. A fargli cambiare idea sono state le critiche arrivate dai donatori e dai gruppi a tutela dei diritti umani. A cominciare dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna per finire con Human Rights Watch e Amnesty International. “Ho ascoltato attentamente tutti coloro che hanno espresso le loro preoccupazioni - ha fatto sapere Ghebreyesus in una nota - e le diverse questioni che hanno sollevato. Mi sono anche consultato con il governo dello Zimbabwe e abbiamo concluso che questa decisione è nel migliore interesse dell’OMS”. Lo Zimbabwe è un Paese al collasso. Gli ospedali mancano di medicine e attrezzature, il personale medico è regolarmente lasciato senza stipendio. Lo stesso presidente si è recato tre volte a Singapore per ricevere cure mediche quest’anno evitando di varcare la soglia di un nosocomio in patria. La situazione, tra l’altro non fa che peggiorare: rispetto ai primi anni ’90 la mortalità infantile è aumentata del 50% e colpisce 81 nati su 1.000 come anche la speranza di vita che era di 60 anni all’inizio del 2000 e ora è di 43. Questo spaventoso calo è dovuto anche alla diffusione dell’Aids, che negli ultimi tempi si è fatta massiccia: un terzo della popolazione ne è colpita, il quarto più alto tasso di diffusione del mondo. Anche la malaria è sempre più presente e il rischio di epidemie è alto, visto il peggioramento delle condizioni igieniche e sanitarie. Per ragioni economiche il governo ha anche eliminato le vaccinazioni. Il presidente è accusato in Occidente di avere distrutto l’economia del Paese e nel 2004 è stato dichiarato “persona non grata” in Europa e negli Stati Uniti. Amnesty International lo ha a più riprese accusato di pianificare deliberatamente la violazione dei diritti umani, mentre nel 2008 Human Rights Watch parlava di “terrore organizzato e torture contro gli attivisti dell’opposizione e di comuni cittadini”. “È il mio obiettivo costruire un movimento mondiale per la salute globale. Questo movimento deve funzionare per tutti e includere tutti. Per me ciò che è importante è costruire la leadership politica e creare unità intorno all’obiettivo di portare la salute a tutti, basandosi sui valori fondamentali dell’Oms” ha detto Ghebreyesus. Sicuramente la nomina di Mugabe non andava in questa direzione. Iran. Pena capitale per lo scienziato iraniano Djalali Il Manifesto, 24 ottobre 2017 Ahmadreza Djalali è stato condannato a morte. A darne notizia è la moglie Vida: la pena capitale è stata comminata allo scienziato iraniano - arrestato a Tehran un anno e mezzo fa e accusato di essere una spia - sabato 21 ottobre. Per lui a marzo si erano mossi i colleghi italiani dell’Università del Piemonte Orientale, dove Djalali aveva lavorato come esperto di medicina d’urgenza e dei disastri per quattro anni, dal 2012 al 2015. Si sono mobilitati non appena la moglie Vida ha rotto il silenzio, perseguito all’inizio nella speranza di una chiusura rapida e positiva del caso. Così non è stato e l’arresto di Djalali è arrivato a marzo fino al Senato italiano. Ieri, dopo che la notizia della condanna a morte ha cominciato a circolare, il ministro degli esteri Alfano ha ribadito di aver “sollevato il caso più volte, a livello diplomatico con il nostro ambasciatore e a livello politico come Farnesina”. “Continueremo a sensibilizzare gli iraniani su questo caso fino all’ultimo”, ha aggiunto. La speranza è che abbiano qualche effetto le oltre 220mila firme raccolte in questi mesi da Amnesty in tutto il mondo. Ahmadreza Djalali, 45 anni, stava lavorando come dottore di ricerca al Karolinska Institute di Stoccolma prima di essere arrestato nell’aprile 2016 a Tehran, dove si trovava per un ciclo di convegni. Gli avvocati hanno venti giorni per fare appello contro la sentenza, comminata sulla base del reato di “collaborazione con un governo ostile” (sembra che l’accusa parli di Israele). A nulla è valso lo sciopero della fame in carcere. Che ora ricomincia: Djalali sta di nuovo rifiutando il cibo per protesta.