Oltre le sbarre. 10 anni di indulti, “svuota carceri” e misure alternative alla detenzione senato.it, 23 ottobre 2017 A che punto siamo col sovraffollamento penitenziario? La relazione in Parlamento del Garante nazionale dei detenuti, il 21 marzo scorso, aveva documentato criticità “inaccettabili” nel sistema carcerario italiano: “Situazioni in cui si ha un affollamento che è quasi del 300% rispetto alla capienza”, “preoccupante profilo qualitativo della detenzione”, “rilevante numero dei suicidi e dei tentati suicidi” a fronte di una tendenza all’aumento delle presenze e al “rallentamento delle uscite, cioè delle misure alternative”. I primi sei mesi del 2017 hanno confermato la tendenza segnalata dal Garante: con quasi 57mila detenuti al 30 giugno 2017, il tasso di affollamento è salito intorno al 113% (113 detenuti ogni 100 posti a disposizione), 5 punti in più del 2016. Otto Regioni sono oltre il 120%. La Puglia arriva al 148, molto vicino all’indice che nel 2013 ha visto la condanna dell’Italia, da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu), per i “trattamenti disumani o degradanti” inflitti ai suoi detenuti: la grave mancanza di spazio (meno di 3 metri quadri a testa), l’assenza di acqua calda, l’insufficiente ventilazione e illuminazione delle celle per i giudici europei costituiscono violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea, “proibizione della tortura”. Parlamento e governo hanno adottato molti provvedimenti, negli ultimi 10 anni, per far fronte all’emergenza: indulto, piani di edilizia penitenziaria, decreti “svuota carceri”, misure alternative alla detenzione. I risultati non sono sempre stati all’altezza delle aspettative. Quali si sono dimostrati gli interventi più efficaci? E dove sono state registrate, invece, le maggiori criticità? Nel 2006, grazie all’indulto, il numero delle persone dietro le sbarre era diminuito notevolmente (-34,5%), arrivando a 39.005 persone per una capienza di 42.824 posti. Dieci anni dopo ci sono 50.228 posti per 54.653 detenuti. I dati sono contenuti nel dossier dell’Ufficio valutazione impatto del Senato “Oltre le sbarre. 10 anni di indulti, svuota carceri e misure alternative alla detenzione”. Dalle tabelle risulta che l’annus horribilis è stato il 2010, quando risultano 67.961 persone in carcere (+74,2% rispetto al 2006), per 45.022 posti (+5,1%). In pratica ogni tre detenuti erano disponibili due posti; la drammatica situazione ha portato all’apertura di una procedura d’infrazione da parte dell’Europa. Il governo è corso ai ripari dichiarando lo stato d’emergenza e approvando il piano carceri straordinario, grazie al quale lo scorso anno il Consiglio d’Europa ha deciso di archiviare il dossier, valutando positivamente il lavoro svolto nei primi mesi. Ma i numeri mostrano che il progetto, che prevedeva la realizzazione di 21.700 nuovi posti è stato realizzato solo in minima parte: tra il 2010 e il 2014 la capienza è aumentata solo di 4.415 posti (20,3%). La relazione presentata al parlamento lo scorso marzo, si osserva nel documento dell’Uvi, “ha rilevato ancora molte criticità. Oltre al persistente sovraffollamento, alla vetustà di molte strutture, alla cronica carenza di personale” si segnala la “problematica condizione dei detenuti disabili, omosessuali, transessuali, oppure portatori di gravi patologie fisiche o psichiatriche”. Bimbi in carcere, la pena scontata da chi non ha colpe di Antonio Mattone Il Mattino, 23 ottobre 2017 “Non chiudere, non chiudere!”, urlava il bambino alla poliziotta penitenziaria che al termine della giornata doveva far rientrare in cella il minore con la madre detenuta. Una scena straziante che si ripeteva tutte le sere. Invece la figlia di una straniera, reclusa nel carcere di Avellino, appena entrata in prigione con la madre, aveva smesso di parlare e di sorridere. Comportamenti diversi di piccole esistenze che in questi anni sono state rinchiuse negli istituti di pena senza aver commesso un reato, ma che usciranno da questa esperienza con un trauma indelebile. Sono i bambini dietro le sbarre, che scontano una condanna assieme alle loro madri. Le colpe delle madri ricadono sui figli. Mai detenzione è stata così ingiusta. Una vicenda che resta nell’ombra, delle galere e delle coscienze, ma che è venuta alla ribalta il mese scorso grazie a Radio Radicale, che ha dato la notizia di un bimbo di un anno che, nel carcere di Gazzi a Messina, ha ingerito un topicida collocato da un agente, perché il reparto era evidentemente infestato dai ratti. Figlio di una donna nigeriana, condannata per il reato di immigrazione clandestina, è stato ricoverato d’urgenza in ospedale e, dopo essere stato dichiarato fuori pericolo, è potuto tornare in carcere da sua madre. Il 30 settembre scorso erano sessantacinque i bambini rinchiusi negli istituti di pena italiani, di cui trentasei stranieri, distribuiti in tredici strutture della penisola. Trentuno vivono all’interno dei penitenziari, nei reparti denominati “nido”, mentre gli altri risiedono nei quattro Icam (Istituti a custodia attenuata per le detenute madri) di Venezia, Milano, Torino e Lauro di Nola, mentre quello di Cagliari resta vuoto. Queste strutture, istituite da una legge approvata nel 2011 ed entrata in vigore nel 2014, prevedono la detenzione in un ambiente accogliente e meno oppressivo delle galere. Qui le detenute che non sono sottoposte ad esigenze cautelari dovute a gravi reati, possono tenere con se i figli fino a sei anni e non più fino a tre come invece avviene per chi resta in carcere. Tuttavia, pur avendo un aspetto esteriore più a misura di bambino, restano luoghi di contenimento, delle prigioni a tutti gli effetti. Emblematico è il caso di Lauro, dove una efficiente e funzionale struttura a custodia attenuata per tossicodipendenti è stata smantellata e riconvertita in Icam, con la modica spesa di 600mila euro, lasciando scoperto un servizio di cui c’è un grande bisogno, visto che circa un terzo dei detenuti italiani ha problemi legati all’uso di sostanze stupefacenti. Con i nuovi arrivi di pochi giorni fa l’Icam campano si è popolato di 5 madri e 6 bambini, ma è evidente che si tratta di un progetto sovradimensionato che difficilmente raggiungerà la capienza prevista di 35 posti. Era proprio necessario spendere tutti questi soldi pubblici per una struttura che non funzionerà mai a pieno regime e che ha di fatto lasciato sguarnito un importante presidio? La detenzione dei minori in strutture carcerarie è una pratica contraria ai diritti umani. Hanno volti spenti ed occhi tristi questi bambini, il loro sguardo sbatte sempre contro un muro. Vivono seguendo i ritmi del carcere e non quelli propri della loro età. Privi del calore di una famiglia, si abituano alle urla e ai rumori della galera, crescendo aggressivi e rabbiosi. Imparano i termini del linguaggio carcerario, come andare all’ora d’aria, la matricola, l’udienza e tanti non hanno mai visto il mare. “Perché mi chiudono a casa quando torno a casa?” chiedeva il piccolo Giacomo recluso a Sollicciano ad un compagno di classe. Se poi accade che si devono ricoverare in ospedale, come il piccolo di Messina, ci vanno da soli, senza madre. Anzi accompagnati dagli agenti che poi a turno gli fanno compagnia. Io non so se per i bambini è opportuna una permanenza più lunga in un luogo chiuso come gli Icam accanto alla madre, o piuttosto farli restare “solo” nei primi tre anni di vita nei nidi per poi restituirli ad una vita normale, pur senza la presenza materna. In ogni caso il distacco dalla madre a tre o a sei anni rappresenta un ulteriore trauma. Forse si potrebbe pensare ad una terza via, come la possibilità di scontare la pena in Case famiglia protette che sono pur previste dal provvedimento legislativo del 2011, di cui ne esiste solo una a Roma. Penso anche al progetto delle case di accoglienza di associazioni di volontariato e di istituti religiosi promosso dagli ispettori dei cappellani delle carceri italiane. Una iniziativa finanziata dalla Cei che in 4 anni ha coinvolto 27 donne con i loro figli e che è costata appena 30 euro al giorno per ogni mamma, e che attende nuove risorse economiche per poter continuare. Spendere i soldi in case famiglia invece che in Icam, con un esiguo numero di detenute coinvolte, che per lo più devono espiare piccoli reati, può rappresentare la fine di una condanna emessa senza una sentenza. Intanto, al quarto piano del padiglione Roma del carcere di Poggioreale campeggia ancora la scritta “passeggio bambini”, a memoria di una vergogna non ancora cancellata. Un giorno da “ospiti” in carcere ci aiuta a allontanare il razzismo di Alessandra Ballerini La Repubblica, 23 ottobre 2017 È certamente un problema di linguaggio, ma anche di naturale, primitiva, umanissima, paura e, ovviamente, di pessima politica. Il razzismo si nutre anche e soprattutto di questi fattori. Ma non solo. Anche di disagio, solitudine, disinformazione e indifferenza. A Multedo, in questi giorni, lo si sta capendo bene, mentre ci si trova, forse per la prima volta in un quartiere delle nostra Genova operaia e solidale, a dover fare i conti con un “manipolo” di cittadini, spero non completamente e di certo non dichiaratamente, razzisti, che si oppongono scompostamente all’accoglienza di una dozzina di richiedenti asilo. Avrebbero dovuto esserci anche loro nello splendido Teatro dell’Arca all’interno della casa circondariale di Marassi, ad assistere alla presentazione del libro di Luigi Manconi e Federirca Resta “Non sono razzista ma. La xenofobia degli italiani e gli imprenditori della paura” Forse, se gli xenofobi di Multedo si fossero trovati in questa eterogenea ed attentissima platea, composta da poliziotti penitenziari, giornalisti, pensionati, insegnanti, educatori, psicologi, studenti, avvocati, detenuti, magistrati e “personalità” cittadine, superato lo stupore iniziale, avrebbero potuto, in qualche modo, trovare un conforto al loro smarrimento e alla loro solitudine. Nessun politico italiano credo sia in grado di comprenderli meglio di Luigi Manconi. Non perché ne condivida il pensiero o le scelte, tutt’altro, ma perché si interroga incessantemente, da lustri, sulle cause e sui possibili vaccini e rimedi alla xenofobia. I cittadini paurosi e urlanti di Multedo non troveranno nessuno che sappia ascoltarli (seppure senza alcuna simpatia, nel senso etimologico del termine) con più preoccupata attenzione del presidente della Commissione Diritti umani al Senato. Manconi, infatti, è consapevole, a differenza di molti altri politici che o ignorano la paura, o peggio la cavalcano e strumentalizzano, che in quella frase (tipica di molti “potenziali razzisti”) - “non sono razzista ma...” - si nasconde la richiesta di aiuto di chi si trova, senza altri strumenti che non siano le catene, ad affrontare l’inquietudine “dell’altro”. In questo straordinario teatro, venerdì sera, davanti a un pubblico partecipe quanto inusuale nella sua composizione, a quelle paure e a quelle, seppure maldestre, richieste di aiuto, si è cercato, insieme al senatore Manconi, al professor Luca Borzani e all’ex sindaco Marco Doria, di trovare della reali ed efficaci risposte. Qualche risposta l’offriva già l’ambiente stesso: se i riottosi abitanti di Multedo fossero venuti ad assistere alla presentazione, si sarebbero trovati ospiti (e non “padroni”) tra le mura carcerarie, in un luogo di cultura ed arte, insieme a persone o gruppi di persone tutte, in qualche modo, tra di loro estranee, in una convivenza necessaria ma spontaneamente perfetta. Se si fossero seduti in quella sala respirandone la complicità che si andava creando, forse, i nostri xenofobi di quartiere, avrebbero potuto apprendere nozioni e dati, ascoltare ragionamenti nient’affatto scontati, ma di condivisibile ed immediato buon senso. E, forse, questa immediata complicità con persone cosi “estranee” avrebbe potuto aiutarli a combattere i loro demoni e la loro solitudine. Nessuno, infatti, come è stato ricordato, è immune dalla tentazione del razzismo. Ma per non cedervi occorrerebbe riflettere (possibilmente senza subire le manipolazioni mediatiche o politiche degli “imprenditori della paura”) e documentarsi. Si scoprirebbe cosi che non siamo “invasi” dai profughi e che la vera emergenza non sono le poche decine di migliaia di persone che riescono ad approdare vive, ma le 2700 creature inghiottite dal mare e dalla nostra indifferenza nei soli primi nove mesi dell’anno). E ci si ricorderebbe il nostro recente passato di emigrazione. Nel corso dell’incontro sono stati forniti questi e molti altri antidoti di informazione e di memoria al virus dilagante del razzismo. Toghe in politica, affondo di Legnini: non devono tornare a fare i magistrati di Valentina Errani Il Messaggero, 23 ottobre 2017 Il vicepresidente del Csm: i giudici siano imparziali anche quando esternano in televisione. Dal nodo toghe e politica, alla percezione della magistratura da parte dei cittadini. Fino alle polemiche sul ruolo delle correnti all’interno Csm. Il numero due di Palazzo dei Marescialli, Giovanni Legnini, interviene a tutto campo alla festa del Foglio a Firenze e torna ribadire la sua linea, che è anche quella dell’Anm, sui magistrati in politica: chi si candida non torni negli uffici giudiziari. O dentro, o fuori. O magistrati a tempo pieno, o magistrati, futuri ex, che decidono di “scendere in campo”. “Se un giudice decide di candidarsi - dice Legnini - se decide di accettare una carica pubblica, un incarico politico, un incarico di governo, è bene che non torni a fare il magistrato”. La polemica - È anche in vista delle prossime politiche, previste nella primavera 2018, che Legnini lancia il monito rivolto soprattutto al Parlamento: “Sono ottimista sul fatto che nella magistratura il rapporto dell’accesso a cariche pubbliche e elettive sia indirizzato verso una soluzione”, chiosa. Per il vice presidente del Csm, così come per l’Anm, ai magistrati che abbiano ricoperto ruoli elettivi o di governo dovrebbe essere precluso il reingresso negli uffici giudiziari. Una misura che invece il ddl approvato alla Camera, e in discussione al Senato, non prevede affatto. E sulle ultime polemiche, relative agli interventi dei magistrati in Tv o a incontri pubblici, ha dichiarato: “Penso che non possa essere messo in discussione il diritto, peraltro costituzionalmente garantito per tutti, dei giudici e dei pubblici ministeri, di esprimere le loro opinioni anche sui mezzi di informazione”. Ma aggiunge: “Ciò che occorre sottolineare è che i giudici e i pubblici ministeri, allorquando esternino, lo devono fare avendo sempre ben presente la necessità di essere e apparire terzi e imparziali e di essere percepiti come tali dai cittadini”. Rammaricandosi del fatto che, rispetto a eventuali violazioni, sul piano disciplinare il Csm ha le armi spuntate contro esternazioni pubbliche fuori luogo dei magistrati. Fiducia nella magistratura - Legnini cita anche uno studio promosso dalla Scuola superiore di magistratura, che riguarda la percezione che le toghe hanno di se stesse e quella, completamente differente, che ne hanno i cittadini. Soprattutto in relazione alle pressioni esterne che i magistrati subirebbero. Per il 54,7 per cento delle persone interpellate, i Media avrebbero un’influenza sulla magistratura, convinzione condivisa solo con il 18,9 per cento delle toghe. Per il 74,1 per cento dei cittadini le pressioni esterne sarebbero costituite dalla politica circostanza che si verifica solo per il 12,6 delle toghe. Le correnti - Il vicepresidente del Csm sa che i confini con la politica sono valicabili in molte forme. È così, sollecitato sul correntismo giudiziario, non lo nega e spegne subito le polemiche di chi parla di nomine del Csm “decise dalle correnti”. “Le correnti hanno un peso? - replica Legnini - Certo che hanno un peso, eccome. Le correnti nella magistratura esistono, ci sono sempre state, l’associazionismo nella magistratura è fenomeno antico, le correnti concorrono a eleggere due terzi del plenum del Csm, e gli eletti votano, incidono, è così”. Ma “cosa c’è quindi che non va? Non va la degenerazione correntizia”, ammette. E sugli sconfinamenti nel terreno della politica individua un ruolo alle correnti: “Non ci trovo nulla di improprio se la magistratura associata sollecita il Parlamento a disciplinare materie che non hanno disciplina”, ha detto. “È vero o no che i giudici sono sempre più chiamati a intervenire su diritti fondamentali che non trovano compimento nella legge? Perché il Parlamento non può o non vuole. Dunque se la magistratura associata dice: “non ci potete accusare di supplenza e poi non fate le leggi”, secondo me non dice qualcosa di in appropriato”. Cascini: “Nel decreto intercettazioni ovvietà che possono essere pericolose” di Liana Milella La Repubblica, 23 ottobre 2017 Nelle ordinanze solo i brani “essenziali”? “Un’ovvietà che può rivelarsi pericolosa”. Dice così Giuseppe Cascini, procuratore aggiunto a Roma, uno dei tre pm di Mafia Capitale, ex segretario dell’Anm ai tempi della contrapposizione dura con Berlusconi sulla giustizia, a Siena per seguire il congresso dell’Anm. Che ne pensa del nuovo decreto sulle intercettazioni? “Premesso che una valutazione compiuta potrà essere fatta solo dopo che saranno resi noti i testi della riforma, mi sembra che siano stati fatti passi avanti rispetto alle ipotesi circolate all’inizio nella ricerca di un difficile punto di equilibrio tra i molteplici valori in gioco: l’esigenza investigative, diritto di difesa, tutela della riservatezza, diritto all’informazione. Alcuni nodi però mi sembra rimangano irrisolti”. Pensa al rapporto, che lei aveva già segnalato, tra pm e polizia giudiziaria nel maneggiare le intercettazioni? “Mi pare che affidare in via esclusiva alla polizia il compito di selezionare, al momento del primo ascolto, il materiale intercettato riduca il controllo del pm sull’operato della stessa polizia e comprima la possibilità per la difesa di accedere a informazioni che potrebbero rivelarsi utili per l’indagato. Il sistema attuale, che prevede sempre la sommaria indicazione nei verbali dei contenuti di un’intercettazione, fornisce maggiori garanzie sia per la completezza delle indagini che per la difesa”. Lei teme che con il nuovo sistema sul tavolo del pm possa non arrivare il quadro completo delle conversazioni che magari contiene notizie importanti? “Non penso solo a situazioni patologiche, con le quali pure in astratto bisogna fare i conti, di volontario occultamento di prove contro o a favore di qualcuno, ma alle normali situazioni in cui la rilevanza probatoria di una conversazione o anche la sua decisività, può emergere solo in un secondo momento, e alla luce di ulteriori acquisizioni, mentre potrebbe andare dispersa con le nuove disposizioni”. Col decreto i pm potranno utilizzare nei provvedimenti solo i brani integrali delle intercettazioni necessarie ed essenziali. Un bene o un male? “Innanzitutto sono contrario a questa escalation di aggettivi, rilevante, necessario, essenziale, che disorienta l’interprete ed è ampiamente opinabile. Trovo che sia sbagliato inserire in un testo di legge un’affermazione apparentemente ovvia e banale, come quella che la motivazione deve contenere solo gli elementi “necessari” per la decisione. Si tratta di una scelta di buon senso e che attiene alla normale professionalità del magistrato, ma che, se inserita nel codice di procedura penale, può dare adito a defatiganti contenziosi sulla necessità o essenzialità di un testo. Sempre che non si pensi poi, come accade sempre più spesso, di utilizzare in chiave disciplinare le presunte violazioni di tale precetto”. Non saranno più segreti gli atti messi nel fascicolo del pm, mentre lo saranno quelli dell’archivio riservato? “La creazione di un archivio riservato accessibile alle parti, ma comunque segreto, è un buona soluzione. Certo il legislatore dovrebbe anche chiedersi come regolare il caso in cui i documenti contenuti nell’archivio riservato vengano diffusi e pubblicati”. Significa però che gli atti che non stanno nell’archivio riservato potranno essere pubblicati liberamente? “No, perché non mi pare che il divieto di pubblicare gli atti del procedimento, anche se non più coperti da segreto, sia stato modificato, anche se la sua violazione prevede una sanzione monetaria puramente simbolica”. La via europea alla giustizia sprint di Dario Aquaro Il Sole 24 Ore, 23 ottobre 2017 Un’infermiera italiana, che aveva chiesto il rilascio della tessera professionale europea per esercitare in Irlanda, s’è vista più volte rigettare la domanda dal Nursing and midwifery board of Ireland, perché alcuni documenti mancavano o non erano in lingua inglese. L’autorità irlandese ignorava però le disposizioni del regolamento Ue 2015/983, che prevedono procedure e tempi molto definiti in caso di omissioni e traduzioni di documenti: ha quindi rilasciato la tessera professionale (e adeguato i suoi sistemi interni) solo dopo l’intervento della rete Solvit. Un’azienda italiana, che aveva invece firmato un accordo con una società di Malta per distribuire lì cinque diversi prodotti, tra integratori alimentari e cosmetici, ha atteso invano - dopo due anni di istruttoria - una risposta dalle autorità maltesi: fin quando non ha fatto ricorso alla rete Ue per la soluzione dei problemi del mercato interno. Perché questo è Solvit: un servizio online (gratuito) ideato per aiutare imprese e cittadini europei a trovare un rimedio ai casi in cui l’amministrazione di un altro Paese non applichi correttamente le norme comunitarie (restano dunque esclusi i contrasti tra imprese o tra i consumatori e le imprese). Quelli appena raccontati sono solo alcuni dei recenti casi risolti da questa rete “informale”, nata 15 anni fa e a cui è possibile rivolgersi quando non sia stato già avviato un procedimento giudiziario. Il funzionamento è semplice:?si contatta il centro Solvit del proprio Paese (home centre), compilando e inviando il modulo presente sul sito. L’istanza viene quindi valutata e inoltrata al centro del Paese chiamato in causa (lead centre): il tutto per cercare una soluzione rapida, entro 10 settimane dall’apertura del reclamo. A livello complessivo, nel 2016 la maggior parte degli “ostacoli” rimossi da Solvit (2.414 casi affrontati) ha interessato la sicurezza sociale (62,4%), seguita dalla libera circolazione delle persone (19%) e dal riconoscimento delle qualifiche professionali (6,5%). E il podio si ripete - pur se in proporzioni un po’ diverse tra casi ricevuti e casi inviati - anche a livello italiano. I risultati in Italia - Il centro italiano opera presso il dipartimento delle Politiche europee e nell’ultimo anno si è dimostrato uno dei più efficienti. “Ne abbiamo fatto una nostra eccellenza - commenta il sottosegretario per le Politiche e gli affari europei Sandro Gozi - come ha riconosciuto la Commissione Ue: nel 2016 Solvit Italia è risultato tra i centri che hanno trattato il maggior numero di casi (293), risolvendone il 95%, ben al di sopra della media europea dell’89 per cento. All’Europa dei burocrati preferiamo quella delle buone pratiche come questa: concreta, dalla parte dei cittadini, che moltiplica le opportunità e tutela i diritti”. Tutti gli indicatori italiani, in effetti, sono in crescita (si veda l’articolo in basso), e le ragioni del progresso risiedono anche nella continuità del personale e della struttura al lavoro, che consente di avere uno sguardo sul lungo periodo e stringere una maggior collaborazione con le singole amministrazioni interne: basti pensare che, in campo sanitario, sono addirittura le Asl a interrogare preliminarmente il centro. D’altra parte, i dati sulle performance riassunti da Bruxelles riguardano i soli casi risolti: mentre non vengono considerati quelli appianati “in anticipo”, rifiutati o reindirizzati ad altri organismi competenti (come il mediatore europeo o il servizio di consulenza giuridica della Commissione Ue). E Solvit Italia - sottolinea il report 2016 - ha mantenuto contatti regolari con i centri d’informazione locale “Europe direct”, i servizi di consulenza “La tua Europa” e i centri europei dei consumatori. Resta però il nodo dei numeri assoluti, che restano ancora bassi soprattutto sul fronte delle imprese. Le aziende, insomma, usano ancora poco il servizio come strumento alternativo di risoluzione delle controversie (una costante generale, evidenzia la Commissione). La rete - ammettono dal Solvit Italia - è ancora scarsamente conosciuta: il dipartimento sta perciò organizzando la promozione di una serie di eventi, in collaborazione con altri organismi, tra cui l’”Enterprise Europe network”. Ed entro fine anno - assicurano - ci sarà un importante appuntamento per sensibilizzare lo strumento Solvit. Nulla la notifica all’imputato senza il secondo accesso presso il domicilio di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 23 ottobre 2017 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 28 agosto 2017 n. 39472. Nulla la notificazione del decreto di citazione all’imputato non detenuto, allorquando effettuato, da parte dell’ufficiale giudiziario, il primo accesso infruttuoso presso il domicilio, non solo non si sia proceduto al secondo accesso, ai sensi del combinato disposto degli articoli 157, comma 7, del Cpp, e 59 delle disposizioni di attuazione del Cpp, da far seguire in ipotesi, ai sensi del comma 8 del citato articolo 157, dal deposito dell’atto presso la casa comunale, l’affissione dell’avviso e la comunicazione con lettera raccomandata, ma si sia proceduto direttamente alla notifica con il rito degli irreperibili, finanche senza avere fatto precedere il decreto di irreperibilità dall’espletamento delle prescritte ricerche. Lo ha stabilito la Cassazione, sezione terza penale, con la sentenza n. 39472del 28 agosto scorso. Notificazione all’imputato detenuto - La Cassazione evidenzia che, in tema di notificazione all’imputato detenuto, allorquando sia effettuato, da parte dell’ufficiale giudiziario, il primo accesso infruttuoso presso il domicilio, si registra un contrasto nella giurisprudenza di legittimità sulla necessità che l’ufficiale giudiziario debba o no procedere a un secondo accesso e sugli effetti che conseguono all’eventuale inosservanza. Secondo un primo e maggioritario orientamento (cfr. tra le altre Sezione V, 9 giugno 1998, Tobia), non costituirebbe causa di nullità della notificazione, non rientrando fra le ipotesi tassativamente previste dall’articolo 171 del Cpp, ma darebbe luogo a semplice irregolarità, la mancata reiterazione degli accessi, in violazione di quanto previsto dall’articolo 157, comma 7, del Cpp e dall’articolo 59 delle disposizioni di attuazione del Cpp. Secondo altro orientamento (che la Corte qui sembra privilegiare), invece, la mancata osservanza delle formalità (primo accesso, secondo accesso e solo in via residuale affissione dell’avviso nella casa comunale e invio della raccomandata) determinerebbe nullità della notifica, risultandone compromesso l’esercizio del diritto di difesa dell’imputato (cfr. tra le altre Sezione VI, 27 ottobre 1997, Nardelli). Nella specie, comunque, la declaratoria di nullità della notifica è stata dichiarata essendosi assorbentemente apprezzata l’irritualità finanche della disposta notificazione col rito degli irreperibili. Per lo stalking non basta la minaccia di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 23 ottobre 2017 Lo stalking non scatta se non viene provato che l’imputato ha agito con l’intenzione di molestare la persona offesa provocandole ansia o paura. La prova di tale consapevolezza può essere desunta dalle modalità ripetute e ossessive della condotta, ma non è sufficiente la semplice minaccia o l’aver cercato ripetutamente la ex compagna per vedere i figli che convivono con lei o per motivi di gestione economica del nucleo familiare collegati alla fine di una relazione con figli. È questo il criterio di giudizio adottato da una sentenza del Tribunale di Lecce dello scorso 12 aprile (giudice de Benedictis), che ha giudicato un soggetto imputato di avere fatto stalking alla ex convivente e alla figlia di lei. La decisione è interessante perché - pur partendo dal medesimo approccio interpretativo - opera un distinguo tra le condotte sotto processo che consente di fare il punto su alcuni indici sintomatici del reato: l’imputato è stato infatti assolto dall’accusa di stalking verso la ex compagna e condannato per quella in danno della figlia di lei. Quest’ultima era stata vittima di molestie sessuali durante la convivenza e, dopo, di pedinamenti e attenzioni ossessive culminate in un episodio in cui l’imputato era stato colto mentre spiava la persona offesa quando prendeva il sole in reggiseno all’interno della propria abitazione e, nonostante fosse stato intimato ad andarsene, era rimasto a fissarla. Inutili erano stati gli inviti verbali di altri parenti a cessare le condotte e un divieto di avvicinamento prescritto dal giudice, che l’imputato aveva più volte trasgredito. Tutto ciò aveva creato alla persona offesa “dispiacere e dolore”, oltre che paura “per sé e per i propri amici poiché temeva che l’imputato potesse fare loro qualcosa”: tanto è che ne aveva allontanati alcuni “per evitare che l’uomo creasse problemi a lei o agli stessi”. Il che era la prova che si era verificato un effetto emotivo destabilizzante sulla vittima, che è uno dei cardini del reato e che può manifestarsi anche a seguito di un singolo atto persecutorio, purché sia il risultato di una condotta che, nel suo complesso, ha precedentemente provocato un accumulo progressivo del disagio. Al contrario, il giudice non ha ritenuto che rientrassero nel perimetro dello stalking i comportamenti dell’imputato di cui si doleva la ex compagna: le condotte di ripetuto avvicinamento alla donna - sfociate anche in minacce verbali - non erano infatti suffragate dall’animo di causarle ansia o paura, ma dagli obiettivi di vedere i figli non più conviventi o di gestire gli aspetti economici della famiglia. Ciò in quanto “la soggettiva percezione della vittima”, in assenza di riscontri o elementi idonei a fondare un pericolo per la sua oggettiva incolumità, non fa scattare la punibilità della condotta a titolo di stalking. Altrettanto vale per lo stato di ansia della persona offesa, che deve essere “grave e perdurante”, e non “temporaneo o circoscritto”. La persona offesa aveva infatti ammesso di avere cercato più volte l’imputato, anche se solo per risolvere questioni economiche, ma ciò poneva “quanto meno in dubbio (...) l’effettiva sussistenza del timore per la propria incolumità che, se realmente sussistente e fondato, l’avrebbe certamente portata a evitare qualsiasi contatto o incontro con l’imputato”. Sì al contraddittorio negli accertamenti a tavolino di Marcello Maria De Vito Il Sole 24 Ore, 23 ottobre 2017 Ctr Emilia Romagna sentenza 1932/14/2017. Il diritto al contraddittorio deve essere riconosciuto non solo nei casi in cui non è previsto dalla legge, ma anche quando la legge lo esclude, dovendo il giudice, in questa ipotesi, disapplicare la norma contrastante con il diritto comunitario. Quindi, il diritto al contraddittorio si applica anche per le verifiche “a tavolino” e questa interpretazione è conforme ai principi sanciti dalla Corte costituzionale con la sentenza 132/15. Sono questi i principi statuiti dalla Ctr Emilia Romagna con la sentenza 1932/14/ 2017(presidente Cocchi, relatore Labanti). La controversia - L’agenzia delle Entrate ha notificato a una Snc un accertamento, in conseguenza della scarsa redditività e delle risultanze degli studi di settore. La società ha impugnato l’atto, ma la Ctp ha rigettato il ricorso. La Snc propone appello dolendosi, fra l’altro, del mancato contraddittorio preventivo e, quindi, della mancanza dell’effetto presuntivo grave, preciso e concordante dello studio di settore. L’Agenzia si difende affermando di aver inviato, prima dell’accertamento, un questionario con il quale chiedeva documentazione ed eventuali giustificazioni difensive. Secondo il Fisco, dato che i contribuenti hanno prodotto sia la documentazione, sia una relazione giustificativa, nessuna obiezione può esser mossa. La decisione - La Ctr afferma che è principio fondamentale dell’ordinamento la regola per cui il destinatario di un atto produttivo di effetti sfavorevoli deve avere il diritto di manifestare le proprie ragioni, prima dell’emissione dell’atto. La Ctr sottolinea che con il contraddittorio si dà attuazione al diritto di difesa tutelato dall’articolo 24 della Costituzione, ai principi di imparzialità e buon andamento della Pa (articolo 97 della Costituzione) nonché all’articolo 10 dello Statuto del contribuente. Pertanto, può essere emesso un atto equo e legittimo solo all’esito di un’accurata istruttoria fondata sia sugli elementi acquisiti dall’ufficio, sia su quelli forniti dal contribuente. L’interpretazione è sancita dalla Corte di giustizia Ue, nonché, con riferimento agli accertamenti standardizzati, dalla Cassazione. Quindi, afferma la Ctr, il contraddittorio preventivo si deve applicare non solo nei casi in cui non sia previsto dalla legge, ma anche in quelli in cui la legge stessa lo esclude espressamente. In tal caso, il giudice deve disapplicare la legge contrastante con il diritto comunitario, dato che la potestà legislativa è condizionata al rispetto degli obblighi internazionali ex articolo 117 della Costituzione. Dunque il contraddittorio è obbligatorio anche per le verifiche “a tavolino” e va esercitato effettivamente. A tal fine, non è sufficiente il semplice invio di questionari o o di processi verbali di constatazione, che sono atti dell’istruttoria e non del contraddittorio. Solo in esito a quest’ultimo l’Agenzia può emettere un accertamento tenendo conto di tutti gli elementi del caso. Questa interpretazione, conclude la Ctr, è costituzionalmente orientata, poiché la Consulta nella motivazione della sentenza 132/15, ha sancito che il contraddittorio costituisce principio fondamentale immanente nell’ordinamento, anche in difetto di espressa previsione normativa, a pena di nullità dell’atto finale del procedimento. Quindi, conclude la Ctr, senza alcuna differenza tra tributi armonizzati e tributi non armonizzati. Non responsabile per lesioni colpose chi ha più i doveri di custodia di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 23 ottobre 2017 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 15 settembre 2017 n. 42307. In tema di lesioni colpose conseguenti a difetto di custodia di animali, il proprietario detentore di un cane è titolare di una posizione di garanzia che gli impone l’obbligo di controllare e di custodire l’animale adottando ogni cautela per evitare e prevenire le possibili aggressioni a terzi anche all’interno dell’abitazione. Lo ha chiarito la sezione IV penale della Cassazione con la sentenza n. 42307del 15 settembre 2017. I giudici di Piazza Cavour hanno inoltre stabilito che la responsabilità del proprietario sussiste anche quando affida temporaneamente la custodia dell’animale ad altra persona che non è in grado di adempiere adeguatamente al relativo onere. Diversa è invece l’ipotesi in cui l’affidamento a terzi dell’animale non sia transitorio e temporaneo, giacché, se si tratta di delega stabile e di assenza costante del proprietario, l’indagine da compiere, per fondare la responsabilità del proprietario, è se, invece, questi abbia comunque mantenuto effettivi poteri di vigilanza sull’animale affidato in custodia a terzi (da queste premesse, in una vicenda in cui era stato accertato l’affidamento dell’animale da parte del proprietario alla madre, è stata annullata con rinvio la condanna del proprietario stesso, con invito al giudice di accertare se si fosse trattato di affidamento transitorio - con conseguente corresponsabilità del proprietario - ovvero avente carattere di definitiva stabilità - come assunto dalla difesa - in assenza di alcun potere di effettivo controllo del proprietario delegante in ordine alla concreta gestione degli animali). Secondo assunto pacifico, il proprietario di un cane è titolare di una posizione di garanzia collegata al fatto di essere, in quanto tale, tenuto a controllare le reazioni dell’animale, cosicché può essere chiamato a rispondere, ai sensi dell’articolo 40, comma 2, del Cp, delle lesioni procurate a terzi dall’animale, qualora risulti che l’abbia affidato a persona non in grado di controllarne le reazioni rispetto alla forza fisica dell’animale, senza avere curato né controllato che l’uscita dell’animale avvenisse con le prescritte cautele (museruola, guinzaglio) (tra le tante, Sezione IV, 3 aprile 2008, Proc. gen. App. Catanzaro in proc. Morgione e altro, che, nella specie, accogliendo il ricorso del procuratore generale, la Corte ha annullato con rinvio la sentenza che, relativamente al reato di lesioni colpose provocate da un cane pitbull a un bambino, mentre aveva confermato la condanna a carico della moglie del proprietario, la quale aveva accompagnato fuori casa il cane, affidatole dal marito, aveva invece assolto il proprietario, trascurando di considerare gli obblighi cautelari sopra evidenziati). Qui peraltro la Corte affronta il tema più complesso dell’affidamento non temporaneo a terzi, dove ovviamente la (cor)responsabilità del proprietario assume aspetti differenti, non potendosi addebitare un profilo di colpa quando si sia totalmente persa la disponibilità dell’animale, col trasferimento ad altri dei poteri doveri di custodia e governo. Abruzzo: Garante dei detenuti, dopo due anni regione non fa la nomina. Si: “vergognoso” abruzzoweb.it, 23 ottobre 2017 “È una vera e propria vergogna che il consiglio regionale ad oggi non abbia provveduto ad eleggere il garante dei detenuti!”. La denuncia arriva da Domenico Capaldo e Daniele Licheri, di Sinistra Italiana (Si) e fa seguito all’appello di Mauro Nardella, vicesegretario regionale della Uil-polizia penitenziaria, e dalle ripetute prese di posizione del consigliere regionale Si Leandro Bracco, visto che in aula si è oramai da due anni all’impasse, in quanto i veti di Movimento 5 stelle e Forza Italia, impediscono la nomina di Rita Bernardini, dei Radicali Italiani, candidatura perorata dal presidente della Regione Luciano D’Alfonso. Questione tornata alla ribalta delle cronache dopo il suicidio, l’ennesimo, di un collaboratore di giustizia nel supercarcere di Sulmona. “A Sulmona purtroppo da anni sono all’ordine del giorno tragedie di questo tipo - commentano Licheri e Capaldo - e la situazione in giro nelle carceri Abruzzesi non è certo migliore. Il Consiglio regionale dell’Abruzzo adempia ai propri doveri, Oramai i tempi sono più che maturi e crediamo sia estremamente urgente che l’aula dell’Emiciclo voti una persona che vada a ricoprire il delicatissimo ruolo di Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Per questo crediamo che la Bernardini ha il profilo migliore per potersi porre come collante tra i bisogni dei detenuti quelle delle organizzazioni sindacali della polizia penitenziaria e le istituzioni”. “Non è più tollerabile - aggiungono i due esponenti di Sinistra Italiana - che l’argomento torni in auge ogni qual volta riaccada una tragedia o un diritto violato. Sinistra Italiana Abruzzo chiede nuovamente che massimo entro Novembre si possa tornare in aula per votare ed eleggere il garante dei detenuti, una misura di civiltà non più rinviabile, soprattutto perché ci sembra deprimente che anche dietro l’elezione di una figura del genere la politica faccia melina e non trovi il coraggio di prendersi le sue responsabilità”. Avellino: “carcere affollato e malsano”, la Cassazione chiede chiarezza Il Mattino, 23 ottobre 2017 Lamentavano sia il sovraffollamento nelle celle, legato all’esistenza di reparti per la detenzione con uno spazio abitabile inferiore a 3 metri quadri sia, più in generale, una situazione penitenziaria non rispettosa della dignità delle persone detenute a causa delle condizioni generali igienico-sanitarie e della gestione degli spazi disponibili. In entrambi i casi il magistrato di sorveglianza di Avellino aveva respinto la richiesta, ritenendola in un caso inammissibile e nell’altro non più attuale. Conclusioni che non sono state condivise da due diversi collegi della prima sezione penale presso il Palazzaccio. Nel primo caso (presidente Domenico Carcano, relatore Antonio Cairo) gli ermellini hanno ritenuto che “il provvedimento adottato dal Magistrato di sorveglianza, all’esito di istruzione documentale della domanda, con acquisizione della relazione della direzione della casa circondariale sulle condizioni di detenzione ivi applicate, non risponde ai requisiti per essere assimilato ad un decreto di inammissibilità della domanda, come inteso dal suo redattore”. Non sussistono infatti i necessari presupposti rappresentati dal “difetto delle condizioni di legge” o dalla “mera riproposizione di una richiesta già rigettata, basata sui medesimi elementi”. Da qui l’annullamento del decreto impugnato. Nel secondo caso (presidente e relatore Patrizia Antonella Mazzei) il collegio giudicante ha ritenuto che ai fini della riduzione della pena - che rappresenta uno dei possibili risultati risarcitori del ricorso non è necessario il presupposto della necessaria attualità del pregiudizio medesimo. Ed anche in questo caso il decreto è stato impugnato. “Ciò impone l’annullamento - scrive infatti la Cassazione in sentenza - del provvedimento impugnato per inosservanza, rilevabile anche di ufficio, del principio del contraddittorio di cui all’art. 666, commi 3 e 4, cod. proc. pen., con trasmissione degli atti per l’ulteriore corso, rispettoso delle regole anzidette, allo stesso Magistrato di sorveglianza di Avellino, il quale procederà nel contraddittorio delle parti, esteso all’amministrazione penitenziaria, e uniformandosi al principio di diritto sopra enunciato in tema di pregiudizio risarcibile”. Lecce: “il recupero dei detenuti con il lavoro”, l’esperienza raccontata dalla direttrice di Rosario Tornesello Quotidiano di Puglia, 23 ottobre 2017 Il parcheggio è diviso in due parti: a destra il personale, a sinistra i visitatori. Per scaramanzia, e non per simpatia, si va a destra. Il cancello d’ingresso è aperto. Di più: spalancato (ma sorvegliato). Quando il meccanismo di chiusura si aziona, emette un clangore che toglie fiato alla speranza. Slam! Il rumore, perentorio, sembra escludere qualsiasi appello. Entrare in carcere da visitatori provoca tempesta di emozioni. Non siamo al “lasciate ogni speranza voi ch’entrate”, ma il varco d’accesso - lungo una manciata di metri - è la rappresentazione icastica della differenza che corre tra libertà e prigionia: cancello prima, cancello dopo, gabbia metallica tutt’intorno e vetro blindato dalla parte dei sorveglianti. Se l’apertura tarda anche solo di qualche secondo, comincia a mancare l’ossigeno, per quanto grate e sbarre facciano passare l’aria. Tac! Ecco lo scatto. Si entra. Casa di reclusione di Borgo San Nicola, Lecce. La direttrice ha lo sguardo buono di Rita Russo. Magari quando serve sfodererà pure gli artigli. Anzi, senza magari. Però ora è così. Placida. Gentile. Il suo ufficio è al primo piano, in fondo a destra, lato sinistro. Deve essere giorno di festa: per dirla tutta, lo è. Sul divano un bouquet di fiori e una pianta di orchidee. Non è un caso: è appena arrivata la sua nomina a primo dirigente penitenziario, anche se di fatto ne svolge le funzioni dal 2014. Con lo stesso giro di nomine, il suo predecessore Antonio Fullone è stato promosso provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria di Toscana e Umbria. Lecce porta bene, evidentemente. Ma sono gli unici segni dell’evento. Per il resto, si lavora come sempre. Cos’altro si dovrebbe fare, qui? Il sorriso, dietro gli occhiali, incorpora domanda e risposta. L’imponente struttura ospita 978 detenuti (85 donne), divisi tra alta e media sicurezza. La capienza ottimale ne prevedrebbe 660. Ma non sarebbe Italia. Non c’è il 41-bis, in compenso al posto del carcere duro è da poco arrivata in dote la prima sezione psichiatrica di tutta la Puglia, una delle più grandi del paese. A badare alla popolazione carceraria un contingente di polizia penitenziaria composto da 543 persone in divisa, più quelle distaccate qui per varie ragioni. E tuttavia neppure un agente: si va dall’assistente capo in su. Il risvolto della medaglia è nell’età anagrafica e nell’anzianità di servizio del personale, che incentiva la corsa ai pensionamenti per evitare le trappole della burocrazia. Altro discorso. E sulla tolda di comando, in questo mare in tempesta, lei. Rita Russo, classe 1968, è arrivata a Lecce nel 2001, vicedirettrice prima con Maria Rosaria Piccinno e poi con Fullone. Per l’esattezza, è tornata a Lecce. È di Gallipoli, infatti. Nessuno in famiglia nel ramo giustizia e affini: padre ragioniere dell’Asl, madre insegnante, marito proprietario di una pescheria. Il figlio, l’unico, per ora è al quarto anno di liceo scientifico. Si vedrà. Domanda: come si arriva a fare la direttrice di un carcere, e di un carcere problematico come quello di Lecce? Pausa. Sorriso. Risposta: “Per scherzo, quasi per gioco”. Maturità classica al Quinto Ennio, il liceo della sua città. Laurea in Giurisprudenza a Bologna. Poi tre anni di pratica a Lecce, nello studio di Ernesto Sticchi Damiani. “Un’esperienza formativa di straordinaria importanza, con una qualità altissima del contenzioso trattato”, spiega. Al punto che, aggiunge, ancora oggi quel patrimonio di cause e di nozioni torna utile nel lavoro quotidiano lì in carcere. Una covata di talenti, comunque, in quegli anni: con lei nello studio a far pratica anche Loredana Capone, ora assessore regionale, e Francesco Tuccari, poi docente di Diritto amministrativo a Unisalento. Raffaele Fitto si affacciava di tanto in tanto, fresco di laurea ma già lanciato in politica, mentre Lorenzo Ria era appena andato via, sindaco tra i più giovani d’Italia e poi a lungo presidente della Provincia. “Sognavo di entrare in Magistratura, ma non volevo pesare sui miei per i corsi preparatori. Così provai su tre fronti, con altrettanti bandi: commissario di polizia, segretario comunale e dirigente penitenziario”. Andò bene con l’ultimo. Otto settembre 1997: destinazione Fossano, comune di 24mila abitanti in provincia di Cuneo e piccola casa di reclusione. Pentita? “No. Mai avuto un ripensamento. È un lavoro che ti mette alla prova. Ti porta a stretto contatto con la sofferenza. E io, di natura riflessiva, mi sono trovata a dover prendere decisioni rapide, immediate”. Volto, sguardo e sorriso non traggano in inganno. Sul davanzale della finestra due gufetti, un confratello incappucciato, una clessidra. Libera interpretazione su usi e significati possibili. Lei, la direttrice, elenca le cose fatte. Ha il sapore delle cose buone, quando parla. Della sostanza oltre la forma. Dare un volto umano al carcere deve richiedere particolare sforzo. A lei viene naturale. Senza far nulla per edulcorare la realtà. “Il carcere è brutto. Inutile prendersi in giro”. Però si illumina quando parla dei detenuti che hanno la possibilità di lavorare all’esterno: “Una ventina, grazie agli accordi con i Comuni di Caprarica, Calimera e Lequile e con la Caritas a Roca. Con l’amministrazione di Lecce, invece, non è stato possibile trovare un’intesa. Il bello è che nessuno è ritornato in carcere per recidiva, una volta espiata la pena”. Si inorgoglisce quando racconta delle professionalità cresciute dietro le sbarre: “Elettricisti, muratori, manutentori... Un’azione coordinata con la Scuola Edile, eccellente compagna d’avventura. Il risultato è nell’abbattimento del 70% delle gare una volta assegnate all’esterno. Di fatto siamo una piccola grande impresa. Ai detenuti viene insegnato un mestiere e corrisposta regolare mercede”. Si entusiasma quando parla dei progetti avviati all’interno della struttura carceraria: “Il laboratorio teatrale di “Io ci provo”: l’anno scorso cinquanta repliche con uno spettacolo su Pier Paolo Pasolini, oltre agli spettacoli fuori, occasioni che hanno avvicinato tra loro detenuti e poliziotti impegnati nei servizi di traduzione e vigilanza. E poi ancora le produzioni artigianali di “Made in carcere”, ormai un brand riconosciuto ovunque; le serre per i pomodori; le lavorazioni casearie; il laboratorio di Davide De Matteis, del Bar 300Mila, pronto a partire con i prodotti alimentari sottovuoto”. Un elenco che potrebbe proseguire non all’infinito ma a lungo e che arriva fino alla falegnameria della casa circondariale: produce arredi anche per le altre carceri e con l’Ordine degli Architetti sta per sfornare la cella “tipo”, vale a dire oggetti salvaspazio, materiale ecocompatibile e tutto quel che serve per andare oltre un regolamento datato anni Sessanta. E infine le scuole: un corso completo di Elementari e Medie e i cinque anni dell’Istituto tecnico economico “Olivetti”. Ultimo e poi basta: quattro detenuti studenti universitari, tra Scienze della Formazione ed Economia e commercio. Quando Edoardo Winspeare ha girato le scene del sindaco-insegnante che fa lezioni di poesia ai detenuti, cuore della trama del suo ultimo film, “La vita in comune”, gli deve essere venuto naturale impiantare il set qui. Applausi. Non è tutto oro, però. “Carcere e affettività non vanno d’accordo”, spiega la direttrice. “Pensa ai bambini”. Già. Una mini-rivoluzione è stata fatta, ma ancora non basta. Spazi aperti, stop con le ore infinite trascorse in cella, niente muri nelle sale colloquio per consentire i contatti, giocattoli e libri per lo svago dei minori e poi, una volta al mese, “Lo specchio di Alice”, anche questo pensato per i più piccoli, che per un giorno possono stare da soli con le mamme. In più, l’operazione “Invisibili”, con uno staff incaricato di fare visita ai detenuti che non si vedono, non si sentono, non protestano. Fasci di luce. Non è rimando al fine rieducativo della pena, che rimbalza dalla Costituzione e da solo pure basterebbe. È umanità. “Se pensi all’affettività che non sia sessualità, allora devi cambiare le strutture, creare gli spazi dove far condividere momenti intensi e profondi alle persone che si amano. Nel nord Europa lo fanno. Dovremmo farlo anche noi”. Difficile. Non impossibile. La rivoluzione è culturale. Lo scoglio è questo. Rita Russo ci riflette e tiene dentro tutto. Lavoro e passione, ideali e ostacoli. “Ci sono situazioni in cui, al di là della pena inflitta, occorrerebbe trovare il modo per dire basta col carcere. Io ho due casi: un giovane entrato in cella a 19 anni (ora ne ha 30) e la moglie di un boss della Scu al 41-bis. Sono storie in cui è evidente come l’obiettivo recupero sia stato ampiamente centrato: il carcere non serve più, non ha più nulla da dare. Eppure loro devono stare dietro le sbarre ancora per molto. Mi chiedo: perché? Non risponde ad alcuna logica. Ed è una sconfitta. Come quando muore un detenuto per suicidio. Una terribile sconfitta per tutti. Io ci credo in questo lavoro, se si dà l’anima. Ho visto persone cambiare e non ritornare più in cella. Sono per il carcere come risposta ai reati gravi, ma non mi piace una struttura detentiva utilizzata per risolvere altre emergenze sociali. Penso agli stranieri, ai tossicodipendenti, ai pazienti psichiatrici”. È il giorno della promozione, i fiori sul divano portano profumi e colori. Le identità si sovrappongono nell’omaggio tributato in modo discreto qui in ufficio: direttrice, donna, moglie, mamma. Cosa serve per portare avanti tutto? “Devi essere maschio”. Scherza, ma non troppo. “In questi ruoli apicali - spiega - è importante condividere occasioni che a una donna spesso sono precluse. Giocare a calcetto, uscire assieme per una pizza... A me manca non poter farmi conoscere al di fuori della veste istituzionale”. Questo come dirigente. E come donna? “Tranne il parrucchiere, non ho particolari esigenze. L’unico hobby che mi concedo è la lettura. Tutto il mio tempo libero, poco in verità, va alla famiglia. Ma è la mia vita. Ed è quella che ho scelto. Quella in cui credo”. Si apre il primo cancello, poi il secondo. L’uscita è più veloce. Dietro le sbarre restano storie atroci o solo disperate. Sofferenze e solitudini. Presto o tardi, il male fatto diventa male subìto. Un terribile gioco, mai a somma zero: da una parte e dall’altra è dolore per tutti. Carnefici e vittime. Uomini e donne. Grandi e bambini. E questo luogo da solo simboleggia la nostra comune miseria. Il nostro possibile riscatto. Il carcere non può servire per risolvere problemi sociali. Penso agli stranieri, ai tossicodipendenti... Credo in questo lavoro, se fatto dando l’anima. Ho visto persone uscire di qui e non fare più ritorno. Trento: agricoltura in carcere, con “Galeorto” si vogliono varcare i confini regionali ildolomiti.it, 23 ottobre 2017 La bella esperienza del progetto portato avanti dalla cooperativa La Sfera al carcere di Spini è stata presentata nel corso della fiera “Fa’ la cosa giusta!”. Tra gli obiettivi, ora, c’è l’adesione di una rete nazionale che permetterebbe di portare i prodotti coltivati a Gardolo anche nelle altre regioni d’Italia. Cavolfiori, erbe officiali come melissa, lavanda e rosmarino per arrivare poi allo zafferano, una delle poche coltivazioni in Trentino dopo quelle portate avanti da alcuni agricoltori sul Monte Baldo. Dietro le sbarre si vive anche di agricoltura vista come occasione di lavoro, opportunità per ricominciare o, più semplicemente, per riuscire a trascorrere le lunghe giornate in carcere. Lo sanno bene i 6 carcerati che stanno lavorando i terreni che nel 2015 la casa circondariale di Gardolo ha messo a disposizione in un progetto portato avanti dalla cooperativa La Sfera. Un progetto chiamato “Galeorto” diventato oggi un vero e proprio marchio di produzione biologica che dopo essere entrato in alcuni ristoranti e malghe sparse in Trentino ora sta tentando di entrare a far parte di una rete più ampia di produzioni agricole coltivate nei carceri d’Italia. “Quando il nuovo carcere si è trasferito a Spini di Gardolo - ci racconta Franco Faes della cooperativa La Sfera che in questi giorni è stata presenta alla fiera ‘Fa’ la cosa Giusta!’ - al suo interno erano presenti diversi metri quadri di verde incolto. Da qui l’idea di coltivarlo e per farlo di offrire questa opportunità ad alcuni carcerati”. Le coltivazioni scelte, come già detto, sono state quelle di cavolfiori, di erbe officinali e soprattutto zafferano. Prodotti che oggi sono marchiati “Galeorto” e che si sono fatti conoscere sul territorio. “Tutta la produzione è biologica - ci spiega Faes - e all’interno del carcere abbiamo avviato un vero e proprio laboratorio per lavorare la verdura e le erbe officinali”. Lo zafferano, pianta quanto mai preziosa, rappresenta una delle coltivazioni sul quale Galeorto punta. Da questo, infatti, è nato un accordo di collaborazione tra la cooperativa La Sfera e l’Agribirrificio Argenteum di Cortesano, con la creazione di una birra artigianale, chiamata Zafferana, aromatizzata con lo zafferano biologico del carcere. “La coltivazione della terra - ci racconta il responsabile del progetto - è fondamentale per i carcerati non solamente per l’opportunità che viene data di mettere a frutto le proprie professionalità o impararne di nuove ma anche perché è l’unica realtà lavorativa che permettere a queste persone di vedere il sole per intero”. Ovviamente, il guadagno di tutti i prodotti, viene utilizzato interamente per le attività interne al Carcere e per portare avanti le coltivazioni. I successi che i prodotti Galeorto stanno avendo sul territorio fanno guardare oltre. Come già detto, infatti, l’obiettivo ora è quello di collegarsi ad una rete nazionale di coltivazioni agricole realizzate nei carceri italiani. Un percorso che permetterebbe uno scambio di prodotti e quindi una promozione anche dell’agricoltura trentina al di fuori dai confini provinciali. Catanzaro: l’Università “Magna Graecia” inaugura nuovo corso di Sociologia in carcere di Massimiliano Lepera infooggi.it, 23 ottobre 2017 Evento di grande e significativa importanza quello che si è tenuto mercoledì scorso presso la Casa Circondariale “U. Caridi” di Catanzaro, dove è stato inaugurato con grande entusiasmo e soddisfazione il nuovo Corso di Laurea in Sociologia dell’Università “Magna Graecia” di Catanzaro, in concomitanza con l’inizio del nuovo anno accademico. L’Università, dunque, ha fatto il suo accesso ufficiale tra i detenuti: un grande passo avanti nella cultura e nella diffusione del sapere, che prevarica tutte le barriere. Per l’occasione unica, hanno preso parte all’evento Giovanbattista De Sarro, magnifico rettore dell’Università “Magna Graecia”, Cleto Corposanto, coordinatore del Corso di Laurea in Sociologia, Angela Paravati, direttrice della Casa Circondariale, e Charlie Barnao, docente di Sociologia generale e di Sociologia della sopravvivenza. Hanno portato la loro testimonianza, nel corso della mattinata, anche diversi studenti, tra i quali erano presenti anche gli studenti detenuti che già frequentano il corso di laurea e i laureati in Sociologia, nonché numerosi volontari e membri dell’associazione Consolidal, rappresentata dall’avvocato Antonio Nania, vicepresidente nazionale. L’iniziativa, unica nel suo genere e voluta fortemente dalla direttrice Paravati, sempre pronta e aperta all’integrazione e al sociale - già numerose sono le iniziative portate avanti con diversi enti e associazioni presenti nel territorio - avvia dunque un importante progetto di collaborazione e cooperazione tra l’Ateneo catanzarese e l’Istituto di detenzione, a dimostrazione del fatto che alle barriere fisiche non corrispondono sempre quelle mentali, affinché coloro che sono soggetti a misure restrittive di libertà personale abbiano concrete possibilità rieducative. Dunque, in pochi mesi, in seguito alla convenzione siglata lo scorso giugno tra la Casa Circondariale e il Corso di Laurea in Sociologia, è stato possibile portare avanti un progetto che presenta in sé elementi completamente innovativi. Infatti è previsto dalla convenzione che si possano svolgere un tot di ore curricolari in presenza, all’interno della Casa Circondariale medesima, che possono essere seguite anche dagli altri studenti all’esterno in diretta streaming, sfruttando al meglio ogni strumento tecnologico a disposizione nel XXI secolo. In aggiunta a ciò, inoltre, è possibile seguire anche un Corso di “Introduzione alla Sociologia”, il quale fornisce quattro crediti formativi universitari, sempre all’interno dell’Istituto di detenzione. A tal proposito, un gruppo di docenti scelti farà stabilmente attività di tutoraggio all’interno del “Caridi”, ovvero i professori Charlie Barnao, Umberto Pagano, Francesco Caruso e Cleto Corposanto. Come spiegato da alcuni dei docenti direttamente coinvolti e interessati, “l’intenzione è quella di creare dei percorsi formativi all’interno della Casa Circondariale, che favoriscano la partecipazione degli studenti detenuti, senza creare discrepanze con coloro che si trovano all’esterno e fornendo loro le medesime opportunità di formazione”. Insomma, un passo in avanti davvero grande, che permette di superare ogni ostacolo e concede la possibilità a tutti di usufruire del potente strumento chiamato istruzione. Nuoro: i “libri tattili” che toccano il cuore del carcere di Simone Fanti Corriere della Sera, 23 ottobre 2017 Hanno conquistato la menzione speciale Libro del cuore del premio “Tocca a te”. È il riconoscimento del lavoro svolto da ventuno detenuti del carcere di alta sicurezza di Badu e Carros a Nuoro in Sardegna. I tre libri tattili che avevano presentato al concorso organizzato dalla Federazione Nazionale delle Istituzioni Pro Ciechi, dalla Fondazione Robert Hollman e dall’Istituto per sordomuti e ciechi “Serafico” di Assisi hanno “vinto” e convinto. Tre opere speciali come raccontano la bibliotecaria, Daniela Pomata, 54 anni, e l’insegnante Cristina Berardi, 56 anni. Un’esperienza forte: “Entrare in un carcere di massima sicurezza ci ha fatto vedere un mondo escluso - racconta Daniela - un mondo di sofferenza in cui le persone che abbiamo incontrato ci hanno mostrato grande rispetto e motivazione per il lavoro proposto”. Il progetto è nato mescolando la passione per i libri per l’infanzia e l’esperienza all’interno del carcere come volontarie. La sua realizzazione, all’inizio, non era stata così scontata. L’accesso dei vari materiali necessari alla realizzazione dei libri tattili illustrati all’interno di questa struttura carceraria di massima sicurezza è infatti difficile. Molti oggetti da introdurre non erano consentiti E settimanalmente Daniela e Cristina hanno dovuto presentare l’elenco degli oggetti e dei materiali da introdurre perché fossero autorizzati. “Dopo avere ascoltato, letture e presentazioni di una selezione di libri - raccontano - per conoscere storie, strutture, formati, tipologie di rilegature di libri illustrati e tattili, i detenuti - un gruppo maschile eterogeneo per età (da 20 a 60 anni), per cultura, provenienza sociale ed etnica - hanno deciso quali storie da realizzare”. E sono nati “Gli animali della savana” che attraverso l’uso dei più svariati materiali, rappresenta nove animali della savana e le loro impronte; “La giornata di Mario”, la vita di un bimbo da quando si sveglia la mattina fino alla notte quando va a dormire; e “L’Italia e le sue 20 regioni” che rappresenta le regioni d’Italia realizzate in compensato. Il perché? “La lettura è un diritto di tutti - spiegano le organizzatrici - e in questo caso anche un modo per abbattere barriere e creare legami con fili invisibili tra persone con vite completamente diverse”. La risposta dei detenuti? “In questo mondo di esclusione che è il carcere, le persone con cui abbiamo lavorato, ci hanno mostrato grande riconoscenza, rispetto, motivazione a fare per riscattarsi e poter restituire qualcosa all’esterno, nello specifico donare ai bambini ciechi un’opportunità di vedere il mondo”. E come un seme piantato in terra fertile da questa iniziativa stanno ne nascendo altre. La prima idea è quella di riproporre e replicare la creazione di un laboratorio stabile dove, in collaborazione con la Federazione Nazionale degli Istituti pro Ciechi, per la realizzazione dei libri tattili illustrati in braille. La seconda porta la firma della Federazione Nazionale delle Istituzioni pro Ciechi Onlus ed è realizzato grazie contributo della Fondazione Cariplo. Verrà presentato venerdì 17 novembre, all’interno della programma di Bookcity 2017, alle ore 11.00 nella Sala Barozzi dell’Istituto dei Ciechi di Milano. Due libri scelti tra i vincitori delle passate edizioni del Concorso Nazionale “Tocca a te” sono stati prodotti in 400 copie cadauno e verranno distribuiti gratuitamente ad altrettante istituzioni che operano alla promozione della lettura e dell’integrazione sociale e scolastica di bambini con differenti abilità di lettura. Asti: una riflessione sull’ergastolo nella Casa di reclusione di Quarto di Silvia Musso atnews.it, 23 ottobre 2017 “Spes contra spem - Liberi dentro” è il titolo del docu-film diretto da Ambrogio Crespi che verrà proiettato ad Asti il prossimo 27 ottobre alle 9. Dopo alcune proiezioni a Torino, il documentario approderà anche nell’astigiano con una proiezione alla Casa di reclusione ad alta sicurezza di Asti, frazione Quarto Inferiore 266, aperta ai detenuti e alla stampa. L’iniziativa - proposta dal Garante delle persone detenute della Regione Piemonte e realizzata in collaborazione con l’Amministrazione penitenziaria, il Comune e l’Università degli studi di Torino - intende offrire, attraverso la presentazione dell’interessante pellicola, spunti di riflessione sulle realtà dell’ergastolo e delle pene ostative. In tutti gli appuntamenti il film sarà introdotto e il dibattito animato dagli interventi di Sergio d’Elia e Sergio Segio, rispettivamente segretario e componente del direttivo dell’Associazione Nessuno tocchi Caino e vedrà la partecipazione di Elisabetta Zamparutti, rappresentante italiana nel CPT (Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti). Prodotto da Nessuno tocchi Caino e Indexway, presentato con successo alla 73 Mostra internazionale d’Arte cinematografica di Venezia e alla Festa del Cinema di Roma su stimolo e impulso del Ministro della Giustizia Andrea Orlando, “Spes contra spem” è il frutto del dialogo e della riflessione comune di detenuti e operatori penitenziari della Casa di reclusione di Opera (Mi) e si compone d’immagini e interviste con detenuti condannati all’ergastolo, il direttore del carcere Giacinto Siciliano, agenti di polizia penitenziaria e il Presidente del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Santi Consolo. Dalle testimonianze raccolte nel film emerge l’immagine di un carcere che, rendendo possibili percorsi individualizzati di cambiamento e revisione critica dei ristretti, riesce - in alcuni casi - ad avvicinarsi alla previsione costituzionale dell’art. 27, contribuendo a rendere le persone coinvolte protagoniste di un profondo cambiamento e, quindi, autenticamente libere. Augusta (Sr): “Classici dentro”, dibattito in carcere con Caminiti sul bestseller di Abbott lagazzettaaugustana.it, 23 ottobre 2017 Si è svolto venerdì 20 ottobre, nell’auditorium “Enzo Maiorca” della casa di reclusione di Augusta, il primo evento del progetto letterario “Classici dentro”, frutto della collaborazione tra “Naxoslegge” e l’istituto penitenziario, con la presentazione del libro di Jack Henry Abbott, “Nel ventre della bestia”. Ospite lo scrittore e giornalista Lanfranco Caminiti, a cui si deve la traduzione del libro in italiano, al tavolo dei relatori insieme al padrone di casa, il direttore della casa di reclusione Antonio Gelardi, e le docenti Fulvia Toscano, direttore artistico di Naxoslegge, e Mariada Pansera, referente di Naxoslegge per la provincia. Ha aperto l’evento il direttore Antonio Gelardi, che ha da subito accolto favorevolmente il progetto di Naxoslegge che prevede, oltre quello già svolto, una serie di incontri dai generi più svariati atti sempre al coinvolgimento degli ospiti della casa di reclusione, che anche in questa occasione letteraria hanno partecipato e interagito, nell’ampia fase dedicata al dibattito. Fulvia Toscano è intervenuta presentando Naxoslegge ai docenti, al personale penitenziario e ai detenuti presenti, spiegando l’intramontabile importanza dei “classici” e dei loro messaggi attraverso le epoche storiche e letterarie. Ha sottolineato l’importanza della lettura dei classici proprio ai giorni nostri, in cui il sistema scolastico vive una profonda crisi “culturale”. Poi, Mariada Pansera ha avuto il compito di introdurre Caminiti ed il libro argomento dell’incontro. Lanfranco Caminiti, giornalista pubblicista, è anche saggista e autore di numerosi romanzi, molti dei quali dedicati alle carceri e pubblicati da importanti case editrici quali Feltrinelli, La Terza e Derive Approdi (a quest’ultima si deve la pubblicazione di “Nel ventre della bestia”). Rivolge la sua attenzione al mondo della detenzione, minorile e non, e per questo partecipa a diversi corsi di formazione professionale rivolta a “giovani difficili”, ai quali l’autore dedica non solo attività di insegnamento ma di anche di assistenza. È, inoltre, traduttore, grazie al quale il libro di Abbott, bestseller americano degli anni Ottanta, è tornato ad essere presente nelle librerie italiane dopo anni di assenza. L’opera è frutto del rapporto epistolare tra lo scrittore Norman Mailer e il detenuto Jack Henry Abbott. Proprio nei giorni in cui scriveva il suo libro Il canto del boia, tratto dalla storia vera di Gary Gilmore, primo detenuto statunitense condannato alla pena di morte dopo che la stessa era appena stata reintrodotta nel Paese (1976), Mailer ricevette una lettera con la quale il mittente intendeva soltanto fornire preziose informazioni. Il mittente era appunto Abbott, detenuto fin dalla giovinezza, che comunicava allo scrittore le sue verità circa le carceri statunitensi, i rapporti tra detenuti e secondini, i rapporti tra gli stessi detenuti. Una critica, insomma, al sistema carcerario statunitense ma sicuramente una critica anche alla società americana di quegli anni. Fin dalla prima lettera, Mailer si rese conto di trovarsi di fronte ad una personalità di spessore, preparata e colta ma soprattutto dotata di una sua propria voce, forte e possente. Decise di scegliere alcune tra le lettere più significative e di raccoglierle in un libro, Nel ventre della bestia, appunto. Il libro suscitò un grosso clamore tale da portare Mailer, appoggiato dalla società bene del quartiere newyorkese di Greenwich, a farsi garante per Abbott e chiederne la scarcerazione, sostenendo che un uomo che riusciva a fare analisi tanto lucide circa le sue condizioni di detenuto, fosse un soggetto rieducato e da reintegrare nella società. Abbott, che allora aveva circa 56 anni e che nelle celle delle carceri aveva iniziato a viverci già a 12, fu scarcerato ma non seppe approfittare a lungo di questa opportunità di riscatto e, commesso dopo poche settimane un reato, tornò nuovamente in carcere, dove si sarebbe impiccato due anni dopo. Roma: il mondo in una cella, ora il carcere va a teatro di Emilia Costantini Corriere della Sera, 23 ottobre 2017 Salvatore Striano all’Off Off con “Dentro la tempesta”. Il tassista che ci porta in via Giulia 19 è sorpreso e chiede: “Ma come mai tutta ‘sta gente qua a quest’ora? Di solito la strada è deserta”. In effetti, alle nove di sera, una piccola folla si accalca davanti all’ingresso dell’Off Off Theatre: tappeto rosso, riflettori accesi, qualche abito lungo. Così l’altra sera si è inaugurato il nuovo palcoscenico romano realizzato e diretto da Silvano Spada. Uno spettacolo piuttosto singolare per dare il via al programma, che non ospiterà solo drammaturgia ma anche musica, cinema e incontri culturali. “Dentro la tempesta”: portare il carcere in teatro e non il teatro in carcere. Ne è autore, interprete e regista Salvatore (Sasà) Striano, ex detenuto ormai da anni attore di teatro, cinema e televisione a tempo pieno. “Portare il carcere in palcoscenico per fare in modo che lo spettatore possa assistere alla quotidianità che si vive in una cella - esordisce Striano, spiegando lo spettacolo in scena fino al 29 ottobre - Due detenuti sono i protagonisti, si parlano attraverso le inferiate e si raccontano, dimostrando al pubblico come funziona la vita dietro le sbarre: i diritti, i doveri, i pericoli”. L’altro carcerato è interpretato da Carmine Paternoster, mentre Beatrice Fazi è la direttrice della sezione carceraria. Il dialogo serrato, impietoso, irriverente si sviluppa nel contesto dell’inferno carcerario. “Un luogo disgraziato - commenta Striano - che è per eccellenza una palestra del crimine, dove i criminali non sono altro che degli sfigati, sì proprio sfigati: non sopporto quando in certi film o serie tv i delinquenti vengono esaltati nel loro fascino del male. Io li conosco bene e fanno soltanto pena, io pure ero uno sfigato”. Salvatore è stato 12 anni in prigione: “Facevo parte di una banda, si chiamava “teste matte”: ci eravamo ribellati alla prepotenza della camorra locale ma siamo diventati peggio dei camorristi. Mi sono dato latitante, poi per fortuna mi hanno arrestato: se avessi continuato a scappare chissà come sarei finito. Invece a Rebibbia ho frequentato per sei anni un laboratorio teatrale e sono entrato in contatto con un mondo meraviglioso: i grandi scrittori, da Eduardo a Shakespeare, sono una via d’uscita per tutti”. Ha esordito nel cinema con “Gomorra” di Matteo Garrone, poi è approdato alla fiction con “Il clan dei camorristi”, “L’ora di Scampia”, e nel film dei fratelli Taviani “Cesare deve morire” dove impersonava Bruto. Nello spettacolo teatrale si parla della forza salvifica dei libri, grazie alla quale i due protagonisti iniziano una revisione critica dei propri atteggiamenti che li hanno portati in quello che Striano definisce il “pozzo”. “La cella è un luogo claustrofobico: sfido chiunque a fare la prova di chiudersi anche una sola ora dentro il bagno di casa propria, senza poter uscire, né aprire la finestra. È terribile. Il primo istinto è quello di evadere, ma la maggior parte degli sfigati si lascia poi andare all’alcol, e ad altro ancora... è l’autodistruzione, è la fine. L’ignoranza poi fa il resto. Io mi sono innamorato del teatro, e mi sono salvato. Un messaggio che voglio trasmettere soprattutto ai giovani”. Alba (Cn): “Cose Recluse”, una mostra fotografica degli oggetti che vivono in carcere Ristretti Orizzonti, 23 ottobre 2017 Iniziativa prevista tra gli eventi di Vale La Pena. Inaugurazione il 6 novembre presso la sede dell’Associazione Alec ad Alba. S’intitola “Cose recluse” ed è incentrata sulla quotidianità di chi vive in carcere la mostra fotografica che verrà inaugurata lunedì 6 novembre alle 18 presso la sede dell’Associazione Alec in via Vittorio Emanuele 30 ad Alba. “Cose recluse” è un progetto, un libro e una mostra fotografica che racconta il carcere “San Michele” di Alessandria. Il reportage è stato realizzato dal fotografo Daniele Robotti e dalla scrittrice Mariangela Ciceri: un “viaggio” all’interno delle celle e degli spazi comuni per cogliere - attraverso immagini e parole - emozioni e stati d’animo, difficoltà, sogni e speranze in uno spazio abitativo che non si è scelto e all’interno del quale non è sempre facile trovare la propria dimensione. Si tratta di un viaggio inconsueto: punto di partenza sono appunto le “cose recluse”, oggetti d’uso quotidiano con il loro significato simbolico e identitario; luogo d’approdo: emozioni, stati d’animo, difficoltà, sogni e speranze, di chi in carcere vive tra difficoltà e creatività quotidiane. L’esposizione, rientra all’interno delle iniziative previste all’interno di “Vale La Pena - Carcere, Lavoro, Dignità, Persone”, ed è promossa dalla Compagnia di Iniziative Sociali - CIS e dall’associazione di volontariato penitenziario Arcobaleno con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo ed in collaborazione con la Città di Alba, i Garanti regionale e comunale delle persone private della libertà personale, l’Asl CN2, la Casa di Reclusione “Giuseppe Montalto” di Alba, l’Ente Fiera Internazionale del Tartufo Bianco d’Alba, il Mercato della Terra “Italo Seletto Onlus” di Alba e la Consulta comunale del Volontariato. Nell’organizzazione sono coinvolti l’Istituto di Istruzione di Stato “Umberto I°” di Alba e Syngenta, gruppo mondiale interamente dedicato all’agribusines, impegnato a sostenere il progetto di coltivazione delle uve presso il carcere albese. All’inaugurazione parteciperanno il fotografo Daniele Robotti, il Vicesindaco e Assessore alle Politiche sociali Elena Diliddo, il Garante Regionale Bruno Mellano, il presidente di CIS Elena Saglietti, il presidente dell’Associazione Arcobaleno Domenico Albesano e Luciano Marengo dell’Associazione Alec. L’esposizione si concluderà domenica 26 novembre e sarà visitabile nei giorni di martedì dalle 17 alle 19, giovedì dalle 17 alle 19, il sabato dalle 16 alle 19 e la domenica dalle 16 alle 19. Per le visite riservate scolaresche contattare il numero 320 630 8456. Un’anteprima della mostra è visionabile all’indirizzo https://papermine.com/pub/6440271. Anche la mistica dell’unità è una forma di fanatismo di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 23 ottobre 2017 La contraddizione, il contrasto, il dissenso, il litigio non sono un vizio, sono il lievito, l’ingrediente prezioso della democrazia. Ancora una volta su “Cari fanatici”, di Amos Oz, pubblicato ora in Italia da Feltrinelli, un manuale prezioso contro il fanatismo in tutte le sue forme. Una forma di fanatismo descritta da Oz è per esempio quella apparentemente di buon senso, ragionevole e blanda, che si esprime nella mistica dell’unità, nella condanna delle divergenze che ci impediscono di agire come “un sol uomo” contro il nemico, nel fastidio per il dissenso, per la critica puntigliosa, per lo spirito polemico bollato alla fine come un tradimento. Quante volte lo abbiamo sentito: unità prima di tutto, stringiamoci, non lasciamo spiragli all’avversario, facciamo muro, facciamo fronte comune, “voto utile”, silenzio, disciplina. Ecco, spiega Oz, anche questa è una forma di fanatismo. E contro questo fanatismo light vuole rivendicare il meglio della tradizione ebraica perché “il popolo di Israele non ama obbedire” e anzi “il popolo discute incessantemente con i profeti, i profeti discutono incessantemente con Dio mentre contestualmente litigano con il popolo e con i re. Giobbe se la prende con il cielo”. E poi, spiega Amos Oz: “Siamo un popolo di mentori. Tutti amiamo insegnare, far aprire gli occhi, precisare, gettare una nuova luce, contraddire. Il clima del contrasto è non di rado quello giusto per una vita creativa, per il rinnovamento spirituale”. La contraddizione, il contrasto, il dissenso, il litigio anche, non sono un vizio, sono il lievito, l’ingrediente prezioso della democrazia. Il rifiuto dell’obbedienza a priori, il rifiuto dell’intimazione al silenzio, il rifiuto della mistica potenzialmente totalitaria dell’unità. Mentre il dissenso, la critica incessante, la discussione sono il sale indispensabile della vita creativa, dice Oz, ma anche la vita creativa di una collettività deve essere nutrita da un popolo che discute, che si accapiglia, che puntualizza, poi sceglie a maggioranza ma sempre lasciando alla minoranza lo spazio e la legittimazione per opporsi, continuare a discutere, perché nella democrazia non si deve mai mettere a tacere chi dissente. Ma nel fanatismo dell’unità questa ricchezza del dissenso non viene contemplata, viene vista addirittura come un atto di sabotaggio. Dove i comportamenti sono giudicati, anche nel dibattito politico e culturale, con il metro dell’”utilità”. L’utilità del dissenso, però, è impagabile. Una nuova cortina di ferro a destra della vecchia Europa di Paolo Garimberti La Repubblica, 23 ottobre 2017 L’attrazione per l’uomo forte è radicata nel Dna di quella parte di Europa che per decenni è stata racchiusa al di là della “cortina di ferro”, quella linea divisoria tra democrazie e totalitarismi, tra la libertà e la repressione, che dal 1945 al 1989 ha spaccato in due il continente. La caduta del muro di Berlino e, a seguire, la fine dell’Unione Sovietica e del suo impero satellitare, sembravano aver provocato una mutazione genetica, sollecitata nella coscienza popolare da una generazione di leader visionari, che avevano patito l’emarginazione e il carcere negli anni del comunismo e avevano impersonato la riscossa raccogliendo nelle piazze decine di migliaia di persone osannanti quando gli oppressori erano fuggiti in modo disonorevole. Ma le “primavere” democratiche di Walesa, di Havel e dei loro epigoni non ebbero lunga durata, nonostante l’assistenza e l’accoglienza di quell’altra Europa, che da tempo aveva voluto chiamarsi Comunità e poi Unione e che a partire dal 2004 fece diventare membri del suo club gli ex satelliti dell’Urss. L’intelligentsija liberal-democratica, che aveva preso la guida della transizione post-comunista, finì per essere travolta dalla sua stessa ingenuità politica e di un approccio amatoriale ai grandi temi dell’economia e dei bisogni della popolazione, cedendo il passo a un’ondata demagogica e populista, che ha portato al governo i partiti di personaggi improbabili, come Jaroslaw Kaczynski in Polonia, Viktor Orban in Ungheria, lo stesso Robert Fico in Slovacchia, con il denominatore comune dell’euroscetticismo e dell’ostilità agli immigrati. L’ultimo della serie è Andrej Babis, vincitore ieri delle elezioni nella Repubblica Ceca con un partito il cui nome è già un manifesto programmatico: Ano (che in ceco vuol dire “sì”, acronimo di “Azione per i cittadini insoddisfatti”). Babis è un condensato di una tipologia politica che ha forti connotati comuni con gli oligarchi che hanno popolato la galassia russa dopo la fine dell’Urss. È molto facoltoso (ma le origini della sua fortuna sono opache), tanto da essere definito “il Trump ceco”, ha un padre che faceva parte della “nomenklatura” comunista, ha tracce di servizi segreti nel suo passato, che evocano una vaga somiglianza con Vladimir Putin. E, comunque, come ha detto un giornalista ceco, è “un populista universale”. Il paradosso è che la deriva nazional-populista ed euroscettica degli ex satelliti dell’impero sovietico è cresciuta parallelamente al loro inserimento nell’Europa comunitaria. Come se il loro passaporto biologico reclamasse delle coordinate storiche insopprimibili, che si sono manifestate perfino nei dati elettorali della vecchia Germania Est, mai del tutto integrata e convinta dell’unificazione voluta da Helmut Kohl e benedetta allora da Mikhail Gorbaciov come auspicio di un’Europa che andasse davvero “dall’Atlantico agli Urali”. Il cosiddetto “gruppo di Visegrad” (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia), che era nato appunto nel segno di quella “casa comune europea” evocata dall’ultimo leader sovietico, è diventato il capofila dell’ostilità alla “euro-burocrazia”, al centralismo di Bruxelles, alla politica dell’accoglienza, e il vociante portavoce della lotta contro la “discriminazione basata sulla moneta” (l’eurozona). Con il risultato che gli ultimi arrivati dall’Est hanno sopravanzato i vecchi campioni dell’euroscetticismo, da Silvio Berlusconi a Le Pen per finire con i “brexiters”, attraendo nuovi alleati a Ovest, come Sebastian Kurz, vincitore delle recenti elezioni austriache. La vecchia Mitteleuropa diventa così il bacino dove confluiscono tutti i rivoli dello scontento, sia di quei Paesi che della Ue sono già membri, ma si sentono di “serie B” (come la Romania e la Bulgaria, sia di quelli che avrebbero voluto entrare ma sono ancora fuori dall’uscio. A cominciare dai Balcani, dove ci sono ben sei aspiranti: cinque (Albania, Bosnia, Kosovo, Macedonia e Montenegro) più la Serbia, il pesce più grosso dove il disincanto è ai più alti livelli: solo il 43 percento dei serbi dice oggi di voler entrare in Europa contro il 67 percento nel 2009. Con Putin che alimenta il fuoco, sventolando la bandiera della fratellanza slava. Così come minaccia rappresaglie verso le ex repubbliche sovietiche che dal 2009 sono oggetto delle attenzioni della Ue con un programma di “partnership”, che langue sempre di più: dall’Armenia alla Georgia per finire alla più concupita (e più minacciata da Putin), cioè l’Ucraina. Così una serie di fattori (interessi nazionali, differenti valori, divergenti visioni sul futuro) hanno reso la vecchia Mitteleuropa e le vestigia dell’impero sovietico un terreno minato per l’Unione europea. Come se la cortina di ferro, che sembrava sradicata per sempre, fosse rinata dalla sue ceneri. Stati Uniti. Un test del Dna lo ha scagionato, ma il 16 novembre sarà messo a morte di Riccardo Noury Corriere della Sera, 23 ottobre 2017 Larry Ray Swearingen è stato condannato a morte nel 2000 in Texas per l’omicidio, avvenuto due anni prima, della diciannovenne Melissa Trotter. Swearingen ha sempre sostenuto di essere innocente e ha ripetutamente chiesto che venissero effettuati test del Dna sull’arma dell’assassinio, sui mozziconi di sigaretta rinvenuti sulla scena del delitto, sui vestiti della vittima, sulle prove dello stupro che aveva subito prima di essere uccisa e della colluttazione che l’aveva preceduto. I tribunali del Texas hanno respinto quasi tutte le richieste ma quella accolta, di analizzare campioni di sangue dietro le unghie di Melissa Trotter, ha dimostrato l’estraneità di Swearingen puntando verso il profilo di uno sconosciuto. All’epoca dell’omicidio le tecniche per l’esame del Dna non erano particolarmente evolute. In seguito sono migliorate, tant’è che hanno portato, in tutti gli Usa, all’annullamento di 351 processi. Solo nel 2011 i Dna non identificati sono stati inseriti nell’archivio giudiziario. Naturalmente, se a Swearingen fossero stati accordati tutti gli esami del Dna richiesti, non sappiamo come sarebbe andata. Sappiamo solo che l’unico eseguito lo ha scagionato. Nel dubbio, le autorità del Texas dovrebbero fermare la sua esecuzione, prevista il 16 novembre. Malta. Omicidio della blogger Caruana Galizia: migliaia di persone in piazza La Repubblica, 23 ottobre 2017 Manifestazione nella capitale per chiedere giustizia. Un pool di investigatori, sostenuto da esperti Usa e olandesi, sta spulciando una serie di articoli in cui la blogger accusava alcune persone, maltesi e straniere. Alcuni articoli di denuncia, soprattutto quelli pubblicati a marzo, e due messaggi telefonici inviati in tempi recenti al suo avvocato. È su questo materiale che indaga la polizia maltese per cercare un indizio o una pista da seguire nell’inchiesta sulla morte di Daphne Caruana Galizia, giornalista e blogger uccisa lunedì scorso con un’autobomba nei pressi della sua abitazione. L’omicidio ha suscitato un’ondata di sdegno a Malta e all’estero. E oggi migliaia di persone sono scese in piazza a La Valletta per chiedere la verità e le dimissioni del commissario Lawrence Cutajar e del procuratore generale. I manifestanti si sono radunati dietro a uno striscione con su scritto “Giustizia” e inalberavano cartelli con slogan tipo “i giornalisti non saranno messi a tacere” e “non abbiamo paura”. Di fronte all’ondata di protesta, il governo di Malta, contro il quale si è scagliato nei giorni seguenti all’omicidio il figlio della giornalista, ha offerto una ricompensa di un milione di euro a chi sia in grado di fornire informazioni utili che possano portare all’arresto dei responsabili dell’assassinio. Gli inquirenti stanno lavorando in collaborazione con esperti forensi olandesi e statunitensi e lunedì 24 ottobre anche una delegazione parlamentare guidata da Rosy Bindi sarà sull’isola, in rappresentanza della Commissione italiana Antimafia. Con la presidente ci saranno la deputata Laura Garavini (Pd) e un rappresentante M5S tra Luigi Gaetti e Giulia Sarti. Escluso invece dalla missione il senatore Mario Giarrusso (M5s). “Avevo dato la mia disponibilità ma quando venerdì sono andato a Palazzo San Macuto per ritirare i documenti per la partenza mi è stato detto da una funzionaria che ero stato escluso perché segnalato dal governo di Malta come persona non gradita per alcune dichiarazioni fatte in seguito alla morte di Daphne Caruana Galizia”, ha dichiarato a Repubblica.it. Le frasi nel mirino sarebbero quelle sulle responsabilità indirette del governo maltese nell’uccisione della giornalista. Le indagini della polizia di Malta si stanno basando anche sugli articoli pubblicati sul blog della giornalista. L’attenzione, a quanto si apprende, è concentrata su quelli pubblicati nello scorso marzo. Secondo gli investigatori, ci sono degli articoli in cui Caruana Galizia dimostra con chiarezza che ci sono molte persone che sono una minaccia per la sua vita. In questi articoli, la giornalista si riferisce a persone sia maltesi che straniere coinvolte in varie attività illecite. La giornalista scrisse di aver parlato con alcune di queste persone e di aver avuto delle minacce in risposta. Un gruppo di esperti sta ora analizzando in dettaglio tutti gli articoli, sia quelli recenti sia quelli di alcuni mesi fa, in particolare quelli in cui Caruana Galizia si riferisce alle minacce. La polizia maltese sta anche valutando due messaggi che Caruana Galizia ha inviato al suo avvocato nove giorni prima di essere uccisa. Il legale, Robert Montalto, ha confermato di avere ricevuto questi sms sul cellulare, ma di non avere mai rivelato il contenuto dei messaggi. Intanto, sul fronte delle indagini, un contadino che si trovava vicino alla zona dell’esplosione, ha dichiarato di aver sentito distintamente tre forti boati a pochi secondi l’uno dall’altro. Secondo gli investigatori, Caruana Galizia sarebbe stata uccisa nella seconda esplosione. Argentina. Trovato nel fiume il corpo di Maldonado, ombra sul voto amministrativo di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 23 ottobre 2017 Si tratta del giovane attivista scomparso in Patagonia da più di due mesi, dopo una manifestazione a sostegno della tribù Mapuche che rivendica terreni comprati dal gruppo Benetton. Una vicenda che ha polarizzato la campagna elettorale: i rischi di condizionamento sulle amministrative di domani. Una maggioranza era convinta che fosse stato fatto sparire dalla polizia come ai tempi dei desaparecidos. La perizia ora ha dato un nome a quel corpo sostenendo che probabilmente è morto affogato. Si è risolto l’ultimo grande mistero che ha scosso per 78 giorni l’intera Argentina. Il corpo recuperato martedì scorso nel fiume Chubut, nella Patagonia centrale, appartiene a Santiago Maldonado, l’artigiano della provincia di Buenos Aires scomparso il primo agosto scorso al termine di un violento scontro tra gli agenti della Gendarmeria e un gruppo di 500 indigeni Mapuche che avevano occupato una piccola parte dei 900 mila ettari di proprietà del gruppo Benetton. Trasferito nella capitale e sottoposto ad un’accurata autopsia, il cadavere di questo giovane di 28 anni, la cui scomparsa aveva sollevato un’ondata di proteste e acceso lo scontro tra il governo di Mauricio Macri e l’opposizione capeggiata dall’ex presidente Cristina de Kirchner proprio alla vigilia delle elezioni amministrative che si tengono domani, non ha riscontrato lesioni o ferite compatibili con un’aggressione o un pestaggio come molti ritenevano. “La causa della morte”, ha concluso il giudice Gustavo Lleral, “è ancora da stabilire. Ma tutto lascia pensare che sia affogato”. All’esame, considerato fondamentale sia dagli inquirenti sia dai due fronti politici, hanno partecipato ben 55 tecnici ed esperti. “Abbiamo potuto riscontrare sul cadavere i tatuaggi di Santiago”, ha aggiunto il fratello Sergio che ha presieduto l’esame autoptico nella morgue giudiziaria. “È proprio lui”. La notizia è stata subito annunciata al presidente Macri dalla ministra della Sicurezza Patricia Bullrich finita al centro delle aspre polemiche perché sin dall’inizio della scomparsa di Maldonato aveva difeso l’operato della polizia negando che fosse coinvolta nell’ennesimo caso di “desaparecidos”. Il giovane indossava ancora un passamontagna con disegnati dei teschi e una sciarpa avvolta al collo. L’esame dei raggi X ha cercato di capire se fosse stato strangolato, ma la circostanza è stata smentita. L’unico elemento anomalo era la presenza di un bastone che Santiago stringeva ancora in pugno. Tutti gli esami dell’autopsia sono stati eseguiti in modo rigoroso, seguendo quello che viene chiamato “Protocollo di Minnesota”. È una procedura che si usa a livello internazionale per stabilire se i cadaveri rinvenuti sono stati vittime di qualche esecuzione extragiudiziaria. Se cioè sono stati colpiti, torturati e poi fatti fuori senza lasciare tracce evidenti che possano far parlare di omicidio. La perizia conclusiva riporta i seguenti dati: la procedura è stata registrata su video; tutte le parti coinvolte hanno siglato l’esito conclusivo; l’identità della vittima è stata rilevata grazie alle impronte digitali; la sola discussione tra i periti ha riguardato il bastone trovato nella mano destra di Santiago Maldonado; gli stessi periti hanno ribadito che la mazza è stata probabilmente collocata nella mano, era parzialmente ossidata e questo dimostrerebbe che è stata a lungo in acqua; il bastone verrà adesso sottoposto ad una specifica perizia; il corpo era in acqua da almeno 60 giorni. Santiago Maldonado era scomparso il primo agosto scorso vicino alla strada 40 dove era in corso un sit-in di un vasto gruppo di indigeni Mapuche che da due anni rivendicano il diritto alla riappropriazione delle terre appartenute un secolo fa ai loro avi. Per far sgombrare l’importante arteria, che collega il centro con il sud dell’Argentina, era intervenuta la polizia. C’erano stati dei violenti scontri; la stessa polizia aveva reagito sparando proiettili di gomma e lanciando una fitta sassaiola, negata dagli agenti ma poi acclarata da delle immagini postate nei social. Inseguiti nei campi, i Mapuche avevano perso di vista quel ragazzo che da tre mesi si era trasferito a El Bolsón, un paradiso hippies nel cuore della Patagonia, per solidarizzare con la lotta dell’etnia indigena. Viveva con poco e campava vendendo collanine e facendo dei tatuaggi. L’ultima volta che era stato visto, Maldonado si trovava proprio vicino al fiume Chubut che, in pieno inverno australe, era gonfio di pioggia. Tutto lasciava pensare che avrebbe voluto attraversare il corso d’acqua sebbene non sapesse nuotare. Da quel momento si erano perse le sue tracce. Il caso aveva assunto una valenza nazionale e poi anche internazionale, con continue manifestazioni spontanee di amici e parenti che chiedevano a gran voce che fine avesse fatto. Eramo riemersi i fantasmi della feroce dittatura militare (1976-1983) e degli oltre 30 mila desaparecidos, rimasti vittime degli sgherri dei golpisti. Questo popolo di scomparsi, molti dei quali arrestati senza alcuna colpa, torturati, sedati e poi scaraventati nel vuoto da alcuni aerei ed elicotteri, ha sempre ossessionato l’Argentina convinta di vedere complotti dietro ogni caso in cui ci può essere lo zampino dei Servizi segreti. L’80 per cento del paese sosteneva, anche in questo frangente, che Santiago Maldonado fosse stato catturato dalla polizia e poi fatto sparire con i consueti metodi usati in passato. La ministra della Sicurezza si era invece subito schierata con la Gendarmeria e aveva difeso l’operato degli agenti intervenuti in Patagonia. Si era proceduto ad analisi e confronti accurati, i poliziotti erano stati interrogati; i mezzi usati quel giorno ispezionati alla ricerca di tracce del dna del giovane. Tutto era risultato vano. Maldonado era sparito nel nulla. Lo stesso fiume, dove è stato poi ritrovato il suo corpo, era stato scandagliato più volte. La tensione era aumentata quando l’ex presidente Cristina de Krichner, oggi all’opposizione e candidata alle elezioni di domani, si era scagliata contro Macri accusandolo di non riuscire a risolvere un mistero che tutti consideravano invece chiaro: l’ennesimo episodio di sparizione occulta da parte degli apparati segreti dello Stato. Il presidente aveva replicato ricordando come la stessa de Krichner, quando era al potere, aveva definito suicidio la morte misteriosa del giudice Albero Nisman, trovato cadavere in casa sua alla vigilia dell’atto di accusa contro la presidente e il suo entourage che avrebbe dovuto presentare in Parlamento. Un suicidio pieno di incongruenze che il Capo dello Stato, alla fine, aveva accettato come omicidio. Nisman accusava l’allora presidente di aver coperto il gravissimo attentato, avvenuto il 18 luglio 1994 al centro ebraico di Buenos Aires (85 morti, 200 feriti), organizzato probabilmente da Hezbollah su ordine dell’Iran. I due casi, Maldonado e Nisman, avevano finito per polarizzare la campagna elettorale delle ultime settimane. La scoperta del cadavere del giovane artigiano rafforza la posizione del governo Macri che fino all’ultimo si era difeso mettendo in campo tutto l’apparato investigativo. Il corpo è stato ritrovato. La tesi che sia affogato è la più probabile. Adesso bisognerà vedere se è stato un incidente oppure se qualcuno lo ha spinto nelle acque del fiume. Per Cristina de Krichner si annunciano ore decisive. Vedrà se raccoglie ancora la fiducia di una buona parte degli argentini, portandola in Senato. Tre giorni dopo comparirà davanti alla magistratura per rispondere di una vecchia inchiesta per corruzione. Russia. Liberato leader dell’opposizione Navalny, era in cella per proteste non autorizzate La Repubblica, 23 ottobre 2017 Rilasciato dopo 20 giorni di detenzione colui che appare come il principale avversario di Putin in vista delle presidenziali di marzo 2018. Blogger e attivista, da tempo denuncia la corruzione della classe dirigente. Il leader dell’opposizione russa, Alexeï Navalny, è uscito dal carcere. Lo ha annunciato l’attivista medesimo sul proprio account Instagram. “Sono uscito. In 20 giorni ho letto 20 libri, imparato qualche parola in kirghiso, bevuto 80 litri di the”, ha scritto, annunciando un discorso a una manifestazione nella città di Astrakhan. Colui che appare come il principale oppositore di Vladimir Putin in vista delle elezioni 2018 era stato condannato alla detenzione per aver organizzato manifestazioni non autorizzate. Navalny, 41 anni, era già stato arrestato dalla polizia sulla porta di casa a Mosca lo scorso 12 giugno, neanche un’ora prima che iniziasse la protesta anti-corruzione organizzata dall’opposizione nel giorno delle celebrazioni per la Festa nazionale, la ‘Giornata della Russia’. In quell’occasione il blogger era stato condannato a 30 giorni di detenzione per “aver ripetutamente violato la legge sull’organizzazione di pubblici raduni”. Yemen. Rivolta nel carcere di Sana’a, intervengono milizie Houthi Nova, 23 ottobre 2017 Il carcere centrale di Sana’a è stato oggi teatro di una rivolta carceraria. Secondo quanto riferisce l’emittente televisiva “al Arabiya”, i miliziani sciiti Houthi sono intervenuti usando i lacrimogeni per sedare una rivolta scoppiata all’interno del carcere da parte dei detenuti che denunciano le cattive condizioni carcerarie e l’impossibilità di ricevere le visite dei loro cari. A renderlo noto è stata la Lega delle madri dei detenuti, le quali sostengono di non poter visitare i loro figli in carcere nè portare loro del cibo o medicine. Denunciano inoltre che 24 detenuti sono stati spostati ieri verso una località ignota, mentre è stato chiesto ad altri 50 di prepararsi per un possibile trasferimento. Sono un centinaio gli attivisti politici e i giornalisti detenuti nelle carceri del gruppo sciita filo-iraniano da quando più di due anni fa ha preso il potere a Sana’a.