Gherardo Colombo diventa presidente della Cassa delle Ammende Il Sole 24 Ore, 22 ottobre 2017 Gherardo Colombo è stato nominato dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha nominato nuovo presidente della Cassa delle Ammende, l’ente istituito presso il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria che finanzia programmi di reinserimento in favore di detenuti, programmi di assistenza per loro e le loro famiglie e progetti di edilizia penitenziaria finalizzati al miglioramento delle condizioni carcerarie. Ex magistrato, è stato sostituto procuratore alla Procura della Repubblica di Milano e successivamente consigliere presso la Corte di cassazione. “La nomina di Gherardo Colombo” ha dichiarato il ministro Orlando, “rappresenta un tassello importante dell’opera di riorganizzazione e riforma della Cassa delle Ammende. Sono certo che grazie alla sua esperienza, sensibilità e autorevolezza potrà dare un grande impulso a un ente fondamentale per la promozione della funzione rieducativa della pena”. Una nuova speranza di Alessandra Corrente lavocedeltrentino.it, 22 ottobre 2017 La nomina di Gherardo Colombo alla presidenza della Cassa delle Ammende arriva come un raggio di sole per chi da sempre sostiene l’importanza di una giustizia diversa. La giustizia riparativa, che educhi al bene attraverso il bene: rieducare chi si è macchiato di un crimine attraverso un processo di responsabilizzazione. La vita ci porta su strade spesso pericolose e difficili. Tanti carcerati le hanno conosciute e intraprese. Che funzione deve avere quella cella, che tanto abbiamo visto descritta nelle cronache dei giornali? Una risposta ben precisa la offre proprio Gherardo Colombo, ex magistrato, nominato dal ministro della Giustizia Andrea Orlando nuovo presidente della Cassa delle Ammende (questo ente finanzia programmi di reinserimento in favore di detenuti, programmi di assistenza ai medesimi e alle loro famiglie e progetti di edilizia penitenziaria finalizzati al miglioramento delle condizioni carcerarie). Nel suo libro !Il perdono responsabile. Si può educare al bene attraverso il male? Le alternative alle punizioni e alle pene tradizionali" egli afferma: “Quando ho iniziato la carriera di magistrato ero convintissimo che la prigione servisse, ma presto ho cominciato a nutrire dubbi. Anche se non l’ho detto mai, ritenevo giusto, ad esempio, proporre che i giudici, prima di essere abilitati a condannare, vivessero per qualche giorno in carcere come detenuti. Continuavo a pensare che il carcere fosse utile; ma piano piano ho conosciuto meglio la sua realtà e i suoi e­ffetti. Se il carcere non è una soluzione efficace, ci si arriva a chiedere: somministrando condanne, sto davvero esercitando giustizia?” Colombo, lasciata la toga, ha intrapreso una nuova strada: parlare di giustizia, di regole, fuori dalle aule dei tribunali e dentro le scuole, nei teatri affinché siano i giovani i primi destinatari di una cultura della legalità, che deve partire da loro per potersi sviluppare. Non solo ai giovani l’ex magistrato propone una giustizia riparativa, che si esplichi in nuove forme e nuove pratiche. La Costituzione prescrive che i condannati a pene carcerarie debbano essere riabilitati, ma ciò non avviene: la maggior parte di loro torna a delinquere, viene schiacciata e privata, come i loro cari, di diritti fondamentali. Basti pensare alle condizioni carcerarie, al sovraffollamento, alla violenza fisica e psicologica, che induce chi vive in tal modo ad una ricerca di vendetta e non di certo ad intraprendere un processo di concreta responsabilizzazione. Colombo, attraverso la sua Associazione "Sulle regole", che ha collaborato con l’Associazione roveretana Grande Quercia nel progetto formativo sui diritti umani, promuove, inoltre, l’importanza del rispetto delle regole, oggi così lontano dalla nostra realtà, che addirittura ha un atteggiamento negativo verso la regola. “Se i cittadini non comprendono le regole essi tendono ad eludere le norme quando le vedono faticose e a violarle quando non rispondono alla loro volontà. Perché la giustizia funzioni fuori e dentro i tribunali, perché ci sia giustizia è necessario che cambi tale rapporto”. Seguendo la scia indicata dalla Costituzione e dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo l’ex consigliere della Corte di Cassazione crede che alla base vi sia il riconoscimento reciproco, che si sostanzia nel rispetto della dignità della persona, di qualunque persona in quanto tale. In questo si sostanzia la società orizzontale, a misura di persona e che rispetta ogni individuo (diverso, estraneo, debole). Voler vivere in una società così chiede a tutti una consapevolezza e un impegno personale quotidiano nel lavoro, nella scuola, nella famiglia. Registro indagati: i lineari meriti di una circolare di Mario Chiavario Avvenire, 22 ottobre 2017 Sulle notizie di reato bene Pignatone, ma il legislatore? Ha due meriti la recente circolare del procuratore della Repubblica di Roma, Giuseppe Pignatone, diretta a uniformare il comportamento dei magistrati del suo ufficio nella gestione delle iscrizioni nel cosiddetto ‘registro degli indagati’. Primo merito: l’aver messo in evidenza il frequente sovrapporsi, alla fisiologica funzione di garanzia dell’istituto, di aperture, sia pure involontarie, a strumentalizzazioni che ne fanno addirittura un ordigno persecutorio. Secondo e non meno importante merito: l’aver indicato una strada per porre un freno alla degenerazione salvaguardando però il nucleo essenziale della garanzia cui l’introduzione del registro - una tra le tante innovazioni del codice vigente - fu preordinata. Va premesso che un’almeno piccola parte di responsabilità per la degenerazione denunciata dall’alto magistrato risale a una deformazione terminologica, in sé veniale ma collegata a un contesto, assai meno innocente, che non di rado trasforma il sacrosanto diritto all’informazione in sete di scandali. In realtà, non di “registro degli indagati” parla il codice (art. 335) ma, in forma ben più neutra, di “registro delle notizie di reato”: l’abituale compressione si può spiegare anche per le esigenze di... economia di parole, avvertite soprattutto dai titolisti dei quotidiani, ma ha finito per favorire l’impressione che, quando una denuncia è iscritta in quel registro, già si debbano avere elementi consistenti a carico anche di chi è, magari, oggetto di una semplice denuncia non supportata da alcunché di serio. Non era questa l’intenzione del legislatore, che volle il registro - e le relative iscrizioni - quale strumento per certificare la data di ricezione della denunce (così come di ogni altra presa di conoscenza ufficiale dei reati) e per garantire denuncianti e denunciati contro eventuali tentazioni di qualche pubblico ministero, propenso a tenere nel cassetto una notitia criminis così da poter compiere in assoluto segreto accertamenti anche di notevole rilievo e da fruire comunque di un sostanziale allungamento del termine che la legge fissa per la conclusione delle indagini. Lo scopo, insomma, era schiettamente di tutela dagli abusi, secondo una logica che trovava un ulteriore, e più noto, tassello nell’”informazione di garanzia”, da non confondere, come pur è accaduto in questi giorni, con l’”iscrizione” di cui si parla, e che deve darsi all’indagato quando hanno da compiersi atti di particolare importanza e per i quali è assicurata la possibilità di un’assistenza dei difensori. Le degenerazioni dell’”informazione” così come dell’”iscrizione” sono, peraltro, sotto gli occhi di tutti e, certo, soltanto in piccola parte sono dovute a equivoci terminologici; e se la prima è diventata un “avviso” facilmente trasformabile dai media, tramite la sua pubblicizzazione, in un’anticipata sentenza di condanna, la seconda - riferita agli “indagati” e non alle “notizie”, ma ugualmente considerata da molti pubblici ministeri come un “atto dovuto” - ha favorito speculazioni che spesso producono gravissimi e irrimediabili danni per la vita privata e pubblica di una persona (di “effetti pregiudizievoli, sia sotto il profilo professionale, sia in termini di reputazione”, parla la stessa circolare). Non a torto il procuratore Pignatone ne prende realisticamente atto e prospetta una via d’uscita, facendo leva su una disposizione di carattere organizzativo sui compiti della segreteria di ogni Procura della Repubblica, la quale definisce come meramente “eventuale” l’iscrizione di esposti e denunce nel registro delle notizie di reato, e sulla presenza, nell’armamentario degli strumenti documentativi in materia, di altri due registri, accanto a quello delle “notizie” riguardanti “persone note” (cosiddetto modello 21): quello degli “atti non costituenti notizia di reato” (modello 45) e quello delle notizie di fatti costituenti reati ma per i quali l’autore risulta, al momento, ignoto (modello 44). Anche sulla scorta di un insegnamento, risalente nel tempo, delle Sezioni unite della Cassazione, ne viene una precisa direttiva: la “notizia” va inserita nel primo dei tre registri soltanto dopo che si venga a disporre di riscontri i quali, pur senza supportare necessariamente una convinzione di fondatezza degli addebiti che risultano mossi a una determinata persona (quest’accertamento sarà compito dell’eventuale processo...), ne palesino la plausibilità: vale dire il sussistere, a carico di tale persona, di “specifici elementi indizianti”. Se e finché non vi sia la relativa constatazione, il pubblico ministero avrà altre due vie davanti a sé: qualora il fatto denunciato non sia “descritto nei suoi termini minimi” o risulti “irrimediabilmente confuso” o, addirittura, “neppure in astratto” lo si possa ricondurre a “una fattispecie incriminatrice” si ricorrerà al “modello 45” (una sorta di “cestinazione”, insomma, che peraltro, a evitare insabbiamenti clandestini di iniziative “scomode”, lascia pur sempre traccia); l’altra strada sarà invece applicabile quando il configurarsi di qualche reato non possa dirsi oggettivamente escluso, ma, appunto, l’indicazione di uno o più autori non appaia supportata se non, al più, da vaghi sospetti; ed è quella del... parcheggio nel registro “modello 44”. La soluzione si muove sul filo di quella che può anche apparire una forzatura letterale (un atto in cui pur si leggono nomi e cognomi viene iscritto come relativo a un fatto “di autore ignoto”…). Escamotage o no, si evita comunque un’intempestiva e incresciosa attribuzione soggettiva del reato e al tempo stesso non risulta frustrata la garanzia di una ragionevole durata delle indagini (pure quando l’autore sia ignoto è previsto un, sia pur particolare, meccanismo di termini). Resta un interrogativo, che ci si permette di avanzare nonostante la consapevolezza delle obiezioni che sorgono ogniqualvolta, nel quadro di una legislazione già sin troppo "a pioggia", s’invocano ulteriori riforme settoriali per avallare o correggere applicazioni controverse di norme esistenti (e soprattutto sapendo che in questo fine legislatura Governo e Parlamento sono indotti a pensare a ben altro): in proposito non varrebbe la pena di un chiarimento, interpretativo o modificativo, da parte di chi le leggi le fa e non è soltanto chiamato ad applicarle? Pietro Grasso: “Femminicidi, sui giudici inerti tocca al Csm” di Anita Fallani e Monica Guerzoni Corriere della Sera, 22 ottobre 2017 La violenza di genere è “soprattutto” un problema degli uomini. Il presidente del Senato, Pietro Grasso, aderisce alla campagna di sensibilizzazione #dauomoauomo e lancia un appello a ribaltare il punto di vista, come passo fondamentale per prevenire discriminazioni, stupri e femminicidi. “Tutto ciò che limita una donna nella sua libertà e nella sua dignità è una violenza di genere. Non esistono giustificazioni, attenuanti, eccezioni di alcun genere - scandisce la seconda carica dello Stato al Corriere. Finché questo sarà un problema delle donne, non c’è speranza. È un problema che parte dagli uomini e solo noi possiamo porvi rimedio”. Presidente, perché continuiamo a parlare di donne maltrattate e non spostiamo l’attenzione sugli uomini maltrattanti? “Sì, dobbiamo spostare il focus verso l’uomo e trovo questa campagna molto utile e attuale. Dobbiamo collocare gli uomini al centro del dibattito, in modo che imparino a mettere il rispetto della donna al primo posto”. Nel suo appello al Tg1, dopo l’ennesimo femminicidio, lei si rivolse alle donne con la formula “scusateci tutti”. Qual è stata la reazione degli uomini? Condivisione e voglia di collaborare, o imbarazzo e fastidio? “Penso che la maggior parte degli uomini abbia condiviso il mio messaggio, però su Facebook tanti mi hanno scritto “come ti permetti di chiedere scusa a nome mio, che non ho mai violentato una donna?”. Toni che fanno pensare. Da ex magistrato non imputavo responsabilità specifiche a nessuno, ma ritengo urgente un cambio culturale. Evidentemente da alcuni non è stato colto il senso, c’è ancora strada da fare”. Se vede una ragazza in giro da sola per le strade di Roma, ha paura per lei? “Bisogna creare le condizioni per cui questa paura si riduca, in maniera che ogni donna e ogni ragazza sia libera di poter frequentare ogni luogo a qualsiasi ora. Occorre collaborazione da parte di tutti: per esempio le strade devono essere illuminate e vive e le persone devono mostrare un’attenzione reciproca e solidale”. Cosa suggerisce ai genitori di figli maschi perché insegnino ai loro ragazzi a non usare la forza nei rapporti d’amore e a rispettare la libertà delle compagne? “Io ho educato mio figlio e lui sta educando mio nipote al rispetto delle donne, la cui libertà non deve mai essere violata, né ridotta. È sulla educazione e sulla prevenzione che bisogna trasferire questo tema”. Tante violenze avvengono tra le mura domestiche e purtroppo molte donne non trovano la forza di chiedere aiuto. Forse perché le denunce cadono troppo spesso nel vuoto? “Chi subisce violenza tende quasi a rimuoverla, c’è un blocco iniziale. Poi arriva il momento della denuncia e lì c’è la paura di subire la riprovazione sociale. Troppe volte si è messa in discussione la vittima piuttosto che il carnefice, andando a vedere come era vestita la persona abusata e se aveva o meno la possibilità di sottrarsi: non è accettabile. Ricordo una vecchia sentenza che riguardava una violenza sessuale ritenuta improbabile perché la ragazza indossava i jeans”. Una sentenza che fece epoca, in negativo. “La violenza è violenza e deve essere valutata come tale in tutte le sue manifestazioni, dalla molestia allo stupro”. In tredici anni sui banchi di scuola, dalle elementari alla maturità, è davvero raro ascoltare una parola sull’amore, l’intimità, il sesso. Non è ora di integrare l’educazione sentimentale nel percorso di studi, invece di lasciare che sia Internet a sostituire la scuola? “Ho apprezzato molto che il mio appello sia stato fatto oggetto di una circolare diffusa nelle scuole siciliane, per invitare i professori a farne un tema di discussione. Scuola e famiglia devono essere alleati nel trasmettere valori fondamentali, tra cui il rispetto della donna e la parità di genere”. Spesso si sentono formule che, magari involontariamente, giustificano un femminicidio come innescato dall’amore, dall’abbandono o da un raptus di gelosia. Quanto conta il linguaggio nella prevenzione? “L’eccessiva spettacolarizzazione di tanti casi drammatici è un errore, l’informazione deve trattarli con maggiore rispetto. La sofferenza di chi subisce una violenza, sia essa una molestia o uno stupro, va messa in primo piano a prescindere dalla tipologia e dall’entità del reato. Anche essere seguite per strada è una molestia”. Se l’Italia è in cima alle classifiche in Europa quanto a discriminazione di genere è anche per i ritardi della politica. Cosa si deve fare, in concreto, per prevenire questo fenomeno? “La prima cosa è l’educazione nelle scuole, cambiare comunicazione e imporre il rispetto del mondo femminile. La seconda necessità è far conoscere i luoghi dove si può denunciare. Bisogna che una donna a rischio sappia di poter chiamare il Telefono Rosa al numero 1522”. Lei è per inasprire le pene? “Le leggi ci sono e io temo molto quando si dice aggraviamo le pene. Le cose su cui lavorare sono la celerità della risposta e la protezione della vittima”. In Italia ogni due giorni una donna viene massacrata dal compagno o dall’ex e le ultime vittime avevano denunciato. Per mettersi al sicuro a chi bisogna rivolgersi? “Polizia, carabinieri e anche parecchie procure hanno sezioni specializzate che possono raccogliere le testimonianze in appositi luoghi protetti, con l’aiuto di psicologi. È importante che le donne lo sappiano. Oppure, ci si può rivolgere alle associazioni che sono in grado di veicolare la denuncia, in modo che la magistratura possa prendere gli opportuni provvedimenti. Ad esempio, mettere uno stalker agli arresti domiciliari”. Possibile che un magistrato che non dia seguito a una denuncia non incorra in nessuna sanzione? “Non voglio nemmeno prospettare una simile ipotesi, ma se ci sono omissioni, soprattutto dolose, il problema riguarda il Csm. Ho fatto il magistrato per 43 anni e quando da procuratore a Palermo ho creato delle sezioni specializzate, ho avuto dei risultati bellissimi”. Davigo: "non mi candido, come ogni magistrato non sarei in grado di fare politica" La Repubblica, 22 ottobre 2017 Corteggiato dagli M5S e non soltanto, l’ex presidente dell’Anm ha ribadito ancora una volta che la sua traiettoria è lontana da un incarico. "E il Csm la smetta di avvantaggiare chi di noi ha fatto politica". "Non intendo né candidarmi ad alcuna elezione politica né assumere alcuna carica politica né di governo, anche perché i magistrati non sono in grado di fare politica, né tantomeno lo sarei io". Piercamillo Davigo, riferimento degli M5s insieme al magistrato siciliano Nino Di Matteo, ribadisce ancora una volta la sua distanza da ogni coinvolgimento in chiave politica. L’ex presidente dell’Anm e ora presidente della II sezione penale della corte di Cassazione lo ha voluto precisare ancora una volta al congresso nazionale Anm in corso a Siena "per rispondere alle voci che mi riguardano". E se è vero che alcuni punti del programma dei 5Stelle sulla giustizia richiamano le idee di Davigo, il magistrato milanese, aveva fugato in precedenza altre domande sulla sua possibile scesa in campo con la frase definitiva: "Io di politici mi occupano quando rubano". Piuttosto, l’ex pm di Mani Pulite, leader della corrente di Autonomia e indipendenza, sottolinea una critica ai colleghi: "Fate passare davanti quelli che hanno fatto politica: questo è il problema. Non voglio delegittimare il Csm ma quando c’è stato l’arresto dei professori universitari che si spartivano le cattedre, ho sentito i colleghi scrivere nelle mail che questa pratica viene seguita dal Csm tutti i giorni uno a me e uno a te", criticando la corsia preferenziale per gli incarichi direttivi in favore dei magistrati che hanno ricoperto incarichi fuori ruolo. Nello scorso luglio, la corrente di Davigo decise di uscire dalla Giunta dell’Associazione nazionale magistrati e quel giorno il magistrato stigmatizzò tra l’altro che "al Csm si tollera che uno che proviene da due mandati parlamentari venga proposto per un incarico direttivo superando un collega più anziano", mentre l’Anm "nell’ultima riunione del direttivo - disse Davigo - ha invitato il legislatore a prevedere ruoli non giurisdizionali per i magistrati che rientrano dalla politica". Giustizia tributaria, stop a ricorsi “deboli” e sentenze “politiche” Enrico De Mita Il Sole 24 Ore, 22 ottobre 2017 Se si esamina la giurisprudenza costituzionale tributaria di questi ultimi anni si rileva che la maggior parte delle questioni sollevate dai giudici tributari sono state risolte con un giudizio di inammissibilità per difetto di rilevanza, o di manifesta infondatezza per essere stata la questione già decisa dalla Corte, fino al caso limite di ricorsi contro interi corpi legislativi senza che fosse stata individuata una precisa disposizione di legge sospettata di incostituzionalità: una mole di lavoro enorme per la Corte, tempo e denaro sprecati, un inutile rallentamento della giustizia tributaria. Le questioni di costituzionalità tributaria sono apparentemente facili da sollevare Ma non è sufficiente che una legge tributaria appaia “ingiusta” perché si possa sollevare una “non manifestamente infondata” questione di legittimità costituzionale, che porti presumibilmente a una decisione di accoglimento da parte della Corte. Il giudizio di costituzionalità è sottile, al tempo stesso raffinato e incerto. I punti di riferimento nella stessa giurisprudenza della Corte, che è restia a elaborare principi stabili, sono insicuri. Nelle questioni sollevate è sempre implicito un giudizio politico. La giurisprudenza della Corte è facilitata enormemente, nelle decisioni di rigetto, dall’improvvisazione delle ordinanze di rimessione. Allora alcune “raccomandazioni per l’uso” non possono apparire delle prediche inutili: e occorre individuare con chiarezza la disposizione impugnata e il principio costituzionale che si reputa leso; la questione di costituzionalità deve essere rilevante per la decisione del caso oggetto del giudizio tributario e cioè la legge impugnata deve essere elemento di giudizio del caso concreto controverso. E il difetto di rilevanza ricorre frequentemente nelle decisioni della Corte; occorre verificare inoltre se la Corte non abbia già deciso negativamente la questione sollevata. È un problema di banale ricerca di precedenti, che si può effettuare con il terminale o (come preferisco) in qualsiasi raccolta di decisioni della Corte. Anche da questo punto di vista, la quantità di questioni risollevate per ignoranza dei precedenti è impressionante; non accodarsi a i polveroni sollevati con campagne giornalistiche. Quando abbiamo scoraggiato tali polveroni siamo quasi stati accusati di disfattismo. Insomma la questione di costituzionalità non deve diventare l’ultima e disperata risorsa del professionista “tributarista”, categoria nella quale i giuristi preparati nella materia sono soltanto una minoranza. Lo scopo che ci prefiggiamo è di scoraggiare questioni pretestuose e incoraggiare quelle che hanno un fondamento. La maggiore serietà nella predisposizione delle ordinanze di rinvio si risolve in un miglioramento della giurisprudenza costituzionale. D’altra parte ci proponiamo di esprimere una rispettosa attenzione critica alle decisioni della Corte che, soprattutto negli anni, non è riuscita a liberarsi del fiscalismo che alberga nella formazione di alcuni giudici, specie di quelli provenienti da certi settori della magistratura. Non sono solo le oscillazioni e le contraddizioni che colpiscono nella giurisprudenza della Corte. Ma sono anche i ragionamenti tautologici, la difesa acritica dell’interesse fiscale, come interesse pubblico, che legittima istituti del tutto privi di logica giuridica; la giustificazione delle leggi tributarie in base alla loro struttura, senza lo sforzo di confrontarle con il metro di giudizio a esse esterne, che è il principio costituzionale. La Corte s’inventa dei tabù, come “la specialità dei procedimenti tributari” o “la peculiarità delle imposte”, che sono autentici lasciapassare per ogni irrazionalità fiscale. Fino alla affermazione (sentenza 192/1992) di un diritto costituzionale che si “affievolisce” di fronte alla forza della scelta politica fatta dal legislatore. Non mancano le motivazioni scopertamente politiche (poche, per la verità) come quelle che la Corte ha fatto quando ha giustificato l’irrazionalità tributaria con preoccupazioni di politica economica rispettabili, ma che non rientrano nel mestiere della Corte. La lentezza, infine, nell’eliminare gli istituti tributari irrazionali, se non quando siano stati politicamente e legislativamente superati (come segreto bancario, fallimento fiscale, pregiudizialità tributaria). È ovvio che c’è anche una giurisprudenza d’accoglimento che continua a dare un contributo non trascurabile nel rendere il diritto tributario un vero diritto. Proprio questa considerazione induce a stimolare la Corte con critiche rispettose, che intendono difendere e rafforzare il ruolo prezioso che quest’organo costituzionale ha, non solo nella vita dei tributi, ma in tutte le vicende che trovano nella Costituzione repubblicana il loro punto di riferimento. Campania: i Radicali "detenuti malati abbandonati, le assenze delle Asl" Cronache di Napoli, 22 ottobre 2017 "Moli i malati degli ex Opg che hanno bisogno di maggiore aiuto". Una rivoluzione del sistema è l’unica soluzione per mettere fine al dramma quotidiano dei detenuti reclusi su tutto il territorio nazionale. Di questo sono convinti i radicali, che da anni si battono per difendere i diritti degli ospiti delle strutture carcerarie: "Contro il sovraffollamento si sono pronunciate più volte le Corti che tutelano i diritti umani ma ancora nulla è stato fatto - dichiara Luigi Mazzotta, presidente dell’associazione radicale - Serve anzitutto un provvedimento di amnistia per lo svuotamento delle carceri. Sia Poggioreale sia Santa Maria Capua Vetere sono in condizioni disastrose da questo punto di vista". Il leader dei Radicali parla di detenzioni che potrebbero essere evitate: "Nelle carceri il 40% dei detenuti è in attesa di giudizio, ed è emerso che il 20% di questa quota risulterà innocente alla fine dell’iter giudiziario. La carcerazione preventiva andrebbe abrogata, e la riabilitazione dei detenuti dovrebbe essere esterna". Un ulteriore dramma che affligge i detenuti è l’accesso alle visite mediche e la tutela della salute in generale: "Le Asl non riescono a far fronte ai problemi. Il padiglione Livorno di Poggioreale è pieno di malati imbottiti di farmaci che erano ospitati negli ex Opg. Ma non è la sola struttura in queste condizione, tutte le carceri sono piene di malati, il problema è come tutto questo viene affrontato dalle aziende sanitare locali", conclude preoccupato Mazzotta. Palermo: all’Ucciardone si produrrà la pasta, saranno assunti i detenuti livesicilia.it, 22 ottobre 2017 Dentro la casa circondariale nascerà un piccolo pastificio. È stata firmata ieri, presso gli uffici amministrativi della Casa di Reclusione Ucciardone di Palermo, in via Enrico Albanese 3, alle ore 09:30, in presenza della Direttrice Rita Barbera e dell’Amministratore della società Giuseppe Giglio, la convenzione che permetterà alla Giglio Lab s.r.l. di produrre pasta secca all’interno del carcere, utilizzando mano d’opera individuata tra i detenuti. La mission di questa iniziativa è rappresentata non solo dall’inserimento lavorativo dei detenuti coinvolti ma anche e soprattutto dalla possibilità di creare una nuova impresa autonoma e competitiva sul mercato della produzione di pasta secca. Si tratterà di un pastificio di piccole dimensioni vocato alla produzione di pasta secca a lenta essiccazione di altissima qualità. La capacità produttiva del pastificio sarà in via previsionale di circa 100 kg/ora di pasta secca in diversi formati e in diverse categorie commerciali, dalla produzione con semola integrale alla pasta di semola di grano duro siciliano a quella prodotta con la semola ottenuta dalla molitura a pietra di varietà autoctone di grano. Tutto il processo di selezione e trasformazione delle materie prime sarà sotto l’attenta ed esperta supervisione del Consorzio di Ricerca "Gian Pietro Ballatore", un ente di ricerca con personalità di diritto pubblico (i cui soci fondatori sono l’Assessorato Agricoltura e Foreste della Regione Siciliana, la Cooperativa Agricola Valle del Dittaino, il Centro Studi Operativi Tecnici ed Economici Nino Zizzo e l’Università degli Studi della Tuscia di Viterbo - Dipartimento di Agrobiologia e Agrochimica). L’impresa, che nasce dall’esperienza trentennale del Pastificio Giglio, ha preso il nome di “Giglio Lab” perché vuole configurarsi come un laboratorio di sperimentazione tecnica e di materiali, di sperimentazione sociale, di sperimentazione alimentare, culturale ed educativa. Amministratore della società è Giuseppe Giglio, figlio dell’imprenditore Mimmo Giglio, che ha fondato questa nuova realtà con l’obiettivo non solo di assumere i detenuti e contribuire al loro processo di rieducazione in carcere, ma anche di contribuire alla nascita di un nuovo marchio produttivo che potrebbe contemporaneamente diffondere la grande qualità del grano duro siciliano ed un forte messaggio sociale. Una delle iniziative di questo laboratorio di sperimentazione sarà anche quello di creare dei libri illustrati per bambini per diffondere le proprietà nutritive e il possibile utilizzo del grano duro e dei sui derivati. L’impegno e la scommessa degli imprenditori coinvolti, infine, è anche quello che tale progetto possa diventare un modello di buone prassi replicabile in altri istituti di pena. Trento: Cisl medici; chiediamo incontro urgente con il Garante dei detenuti di Nicola Paoli* agenziagiornalisticaopinione.it, 22 ottobre 2017 In relazione al Presidio sanitario H24 annunciato da sette associazioni sindacali della polizia penitenziaria trentina, alle quali manifestiamo tutta la nostra vicinanza, segnaliamo che ai sensi del D.lgs.22 giugno 1999, n.230, come modificato ed integrato dal D.L.vo 22 dicembre 2000 n.433, è stato introdotto il riordino della medicina penitenziaria ed assegnato al Servizio Sanitario Nazionale il compito di assicurare alle persone detenute livelli di prestazioni di prevenzione, di diagnosi, di cura e riabilitazione analoghi a quelli garantiti ai cittadini in stato di liberà, in riferimento ai Lea 2017 individuati anche nel piano sanitario provinciale. Cosa che non sta avvenendo correttamente in Provincia di Trento. Alle Regioni compresa la Provincia Autonoma di Trento, vennero erogati dallo Stato 220 milioni di euro oltre alla quota capitaria che continua a pervenire alla Provincia, prevista per la popolazione detenuta nell’ Istituto di Trento. Pur avendo l’attuale Presidente del Consiglio provinciale, Bruno Dorigatti, a suo tempo, sollevato il problema in una interrogazione che non ha mai avuto risposta esauriente e pur avendo Cisl medici del Trentino in più occasioni allertato l’Apss di Trento sulla necessità di arrivare ad un accordo con i medici di guardia notturna, in riferimento alle chiamate all’Istituto di pena, a tutt’oggi né la Provincia né l’Azienda sanitaria intendono perfezionare il modello necessario per la tutela di tale popolazione, in considerazione del fatto che hanno diritto ad un medico di medicina generale sia le guardie che i detenuti, all’interno dell’Istituto e di medici di continuità assistenziale formati all’uopo, preferendo avvalersi di specialisti ospedalieri e di personale dipendente che costa alle nostre casse molto di più in termini economici del necessario e che presenta enormi problemi logistici di spostamento verso e dal santa Chiara. Cisl Medici ricorda che la spesa aumenta considerevolmente dovendo inviare continue ambulanze a prelevare in carcere i detenuti per portarli a visite specialistiche in ospedale mentre la Legge nazionale prevedrebbe presidi all’interno dell’Istituto stesso retti da medici di medicina generale, che al momento attuale vengono allertati da un dirigente medico dipendente che non ha alcun diritto giuridico a comandarli. Cisl Medici, alla luce di quanto sopra, dell’incontro avuto a livello interregionale con la struttura deputata alla contrattazione della categoria della medicina generale, a Roma giovedì scorso dal proprio segretario e delle dichiarazioni dei sindacati di Polizia penitenziaria di Trento, si oppone alla richiesta di invio all’Istituto dei propri medici di guardia convenzionati fino a quando la questione non sarà definitivamente organizzata sotto forma di contratto con le tutele dei nostri professionisti che, dalle notizie di oggi appaiono in stato di pericolo permanente per la loro incolumità personale. Intanto chiederemo un urgente incontro alla Garante dei detenuti per esplicitare quanto sopra. I medici Cisl di guardia sul territorio sono pronti all’agitazione sindacale per quanto riguarda tale specifica. *Segretario Generale Cisl Medici del Trentino Roma: i testimoni di giustizia “abbandonati dal governo che doveva darci un lavoro” Il Fatto Quotidiano, 22 ottobre 2017 Manifestazione il 30 ottobre a Palazzo Chigi. Lasciati soli, dopo aver denunciato le mafie. I testimoni di giustizia, ovvero le persone che hanno deciso di testimoniare nei processi contro i clan mafiosi, sono un’ottantina in tutta Italia. Per loro lo Stato prevede un sistema di protezione che però li costringe a cambiare vita e, quindi, a rinunciare al proprio lavoro. Per questo una legge del 2013 li dovrebbe tutelare, consentendo di assumere i testimoni di giustizia nella pubblica amministrazione senza passare dai concorsi. Le cose, però, vanno diversamente e il Movimento per la lotta alla criminalità organizzata, che raccoglie i testimoni, sarà in piazza dal prossimo 30 ottobre per sollecitare il governo a prendere provvedimenti: “Le assunzioni sono bloccate, perché la legge le prevede solo se ci sono posti disponibili nella Pa”, spiega Luigi Coppola, presidente del Movimento. E finora dal governo non sono arrivate risposte: “La segreteria di Gentiloni ci ha detto di rivolgerci agli Interni, da cui però non abbiamo avuto risposte”. Il presidio, di fronte a Palazzo Chigi, “sarà permanente, fino a che il Movimento non avrà rassicurazioni”. Roma: giusta detenzione, confronto alla Camera di Domenico Letizia* Cronache di Caserta, 22 ottobre 2017 Domani la presentazione del report dopo un anno di visite ispettive nelle strutture penitenziarie “L’Universo dimenticato: Analisi e proposte per una giusta detenzione" è il titolo del Report 2017 prodotto dal Gruppo di Lavoro "Carcere e Diritti Umani" del Forum Nazionale dei Giovani. Il report sarà presentato domani presso la Camera dei Deputati Sala Aldo Moro alla presenza di innumerevoli autorità dell’associazionismo e delle istituzioni. Ai lavori saranno presenti Flavia Cerquoni, Coordinatrice Gruppo Careen Fng, Cosimo Maria Ferri, Sottosegretario alla Giustizia, l’avvocato Luigi lorio, principale curatore del Report, Michele Masulli, Luciana Delle Donne, Federico Vespa, Rosella Santoro, Direttrice della Casa Circondariale Rebibbia NC, il professore Luca Zevi, Consulente del Ministero della Giustizia e del DAP per gli Spazi della Pena, Angelo Urso, Segretario Nazionale UIL PA Polizia Penitenziari, l’avvocato Donatella Curtotti, Ordinario di Diritto Processuale Penale UNIFG, Saliti Consolo. Capo Dipartimento Dap, Elisabetta Zampanitti, Rappresentante italiana CPT al Consiglio d’Europa, tesoreria della ONG del Partito Radicale Nonviolento "Nessuno tocchi Caino", l’onorevole Fabio Rampelli. Capogruppo Fdl Camera dei Deputati, Sesa Amici, Sottosegretario alla Presidenza, e Gennaro Migliore, Sottosegretario alla Giustizia In Europa la questione carceraria è un tema approfondito e studiato già da qualche decennio. Al 2006 risale l’adozione delle Regole Penitenziarie Europee (EPR) da parte del Consiglio d’Europa, regole die la Corte Europea ha utilizzato a carico delle parti contraenti come veri e propri standard minimi al di sotto dei quali viene definita l’infrazione al principio di dignità mutuato dalla Conven zione Europea per i Diritti Umani, hi particolare l’art.4 delle Regole Penitenziarie stabilisce l’importante principio secondo il quale "Le condizioni detentive che violano i diritti umani del detenuto non possono essere giustificate dalla mancanza di risorse". Secondo le regole sopraccitate deve essere garantita ai detenuti la possibilità di comunicare e ricevere dai propri familiari da una a quattro visite a settimana e godere di programmi disegnati appositamente per assisterli nel loro rientro nella società, dopo il rilascio. Bisogna assicurarsi, inoltre, che, al momento del rilascio, i detenuti siano provvisti di una documentazione appropriata e che siano assistiti nella ricerca di una sistemazione e di un lavoro; nella realtà questo avviene solo m casi eccezionali hi Italia sono i volontari a occuparsi di questi aspetti: nella pratica, il sovraffollamento carcerario rende impossibile il perseguimento di questi standard. Nelle carceri europee secondo l’ultima edizione delle statistiche penali annuali del Consiglio d’Europa (dal 14 marzo 2017) ci sono, ad oggi. circa 1.600.000 detenuti. Il numero dei detenuti continua a superare il numero dei posti disponibili in un terzo degli istituti penitenziari europei. D 21 per cento della popolazione detentiva è straniera, il 30 per cento in custodia cautelare. La stesura del report segue un anno di lavoro, di visite ispettive nelle strutture penitenziarie e di incontri. Nel marzo 2017, una delegazione del Forum Nazionale dei Giovani del Gruppo di Lavoro Carcere e Diritti Umani incontrò Elisabetta Zamparutti, tesoriera di "Nessuno Tocchi Caino", l’Onorevole Rita Bernardini del Partito Radicale Nonviolento e Sergio Della, segretario di "Nessuno tocchi Caino". Durante rincontro furo no molti i temi affrontati, primo tra tutti quello del sovraffollamento carcerario e della necessità di una particolare attenzione alle condizioni di vita dei detenuti. Si discusse della stesura "scientifica ed umana" del report e della Marcia per l’Amnistia organizzata dal Partito Radicale. Si decise di intraprendere una collaborazione e un affiancamento durante le visite ispettive che l’Organizzazione NTC ed il Partito Radicale svolgono m tutta Italia e tale collaborazione si è avuta anche pe r quanto riguarda la struttura penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere. A tal proposito, il 23 ottobre saia sottoposto all’attenzione dei relatori e delle istituzioni un report, da me scritto e curato, sulla situazione della casa circondariale sammaritana. D report tenta di analizzare le problematiche della struttura penitenziaria dal 2011 all’estate del 2017. Oggetto di attenzione del report sono l’emergenza sanitaria, la sistematica mancanza di acqua nella struttura, il sovraffollamento e i turni massacranti della polizia penitenziaria. Saranno numerose le problematiche analizzate e numerosi gli esempi europei oggetto di analisi. La Norvegia, ad esempio, ha introdotto le "liste di attesa" per i detenuti responsabili di reati meno gravi e il Portogallo, negli ultimi dieci anni, ha ridotto da 14.500 a 11,000 il numero dei detenuti attraverso una riforma penale che ha introdotto nuove e maggiori misure alternative a quelle già esistenti. Di particolare gravita e rilievo sono le condanne inflitte dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo all’Italia per violazioni alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. L’Italia rimane uno dei Paesi a più alto tasso di recidività in Europa. Il che significa che non è conseguita la finalità rieducativa della pena. Dalle statistiche si apprende che la percentuale di recidiva tra coloro che usufruiscono di misure alternative durante la pena è del 19 per cento (2 su 10), mentre per coloro che scontano la pena in carcere la recidiva sale al 68.45 per cento (7 su 10). Sul carcere continuano tuttavia a scaricarsi problemi che la società non riesce a risolvere e die, d’altra parte, nel carcere non possono essere risolti. A pagarne le conseguenze sono i detenuti e gli agenti della polizia penitenziaria. Spesso, infatti, ci si ricorda della gravita delle condizioni di vita in carcere solo quando si verificano episodi clamorosi e tragici, come le morti in cella e. m particolare, i suicidi di detenuti. Priorità per affrontare la problematica dei diritti e del carcere resta la conoscenza. Non viene esercitato il diritto dei cittadini a conoscere realmente e concretamente quelle che sono le politiche attuali sul carcere e la detenzione, una sistematica violazione del "diritto umano alla conoscenza" per il quale il leader Marco Pannella ha lottato fino all’ultimo giorno della sua esistenza. *Componente del Consiglio Direttivo di Nessuno tocchi Caino, della Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo e membro del Gruppo di Lavoro Carcere e Diritti Umani del Forum Nazionale dei Giovani" Brescia: la cucina che fa bene, se i fornelli sono riscatto sociale Corriere della Sera, 22 ottobre 2017 “Non c’è niente di romantico: noi diamo l’opportunità di un lavoro, i detenuti ci mettono l’entusiasmo” fa sapere Angelo Maiolo, direttore di Alborea. E per dessert: la libertà. Tovagliette di carta, vasi di fiori (commestibili) nei bicchierini e salmone marinato con cialda croccante nella lista degli antipasti. Nel menu di 180Gradi, il ristorante da 150 coperti che la cooperativa Alborea ha appena aperto al Gran Teatro Morato (è il nuovo nome del Palabrescia di via Ziziola), c’è la ricetta della solidarietà: a turno, ci lavorano sette detenuti della Casa di reclusione di Verziano. Risotti al Franciacorta e gelatine di lamponi vengono serviti dal lunedì al venerdì, in pausa pranzo e, in caso di eventi, anche nei fine settimana. La cooperativa, nata a luglio 2016, ha ristrutturato sala e cucina dopo aver firmato un affitto di sei anni (rinnovabili) con Matel, la proprietaria: “Non c’è niente di romantico: noi diamo l’opportunità di un lavoro, i detenuti ci mettono l’entusiasmo” fa sapere Angelo Maiolo, direttore di Alborea (che prenderà in gestione anche la Cascina del Parco Gallo, appena alcuni intoppi organizzativi e logistici verranno risolti). Per Mario Fappani, già garante per i detenuti dela Comune di Brescia e oggi presidente di questa realtà, “180Gradi rappresenta un nuovo modo di fare impresa in cui il lavoro è mezzo per il riscatto personale”. Don Marco Mori, a capo del segretariato oratori e vice direttore di Matel, rende onore e grazie alla cooperativa: “È un progetto di carità nel senso più alto del termine”. Se Monica Lazzaroni, presidente del tribunale di sorveglianza, ricorda che tra Brescia e Bergamo “sono in esecuzione 1300 misure alternative e i fallimenti si attestano intorno al 15% ma senza un’affermazione di responsabilità non si può guarire dalla criminalità”, il sindaco Emilio Del Bono ha detto: “La strada per garantire il senso di sicurezza è far vivere la città: con Matel questo lavoro è stato attivato, anche nella riqualificazione che faremo sul parcheggio”. Catania: la Cooperativa sociale “Rò la formichina” al fianco dei giovani detenuti di Manuela Petrini interris.it, 22 ottobre 2017 “La croce più grande per una persona non è l’essere in carcere, ma l’essere da solo a portare la croce del carcere”. Così diceva don Oreste Benzi, fondatore dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, parlando dei detenuti. Ai membri della sua comunità, il sacerdote riminese chiedeva sempre di aiutare questi “fratelli” in difficoltà perché “l’uomo non è il suo errore”. Recluso, carcerato, galeotto… parole che rimangono incollate sugli ex detenuti come etichette che a volte la cosiddetta società civile tende ad evidenziare, scordandosi che dietro di esse c’è una persona. Molto spesso, per chi esce di prigione è difficile riuscire a rifarsi una vita e a trovare un lavoro. In Terris ne ha parlato con Marco Lovato, membro della comunità fondata da don Oreste Benzi, papà di casa famiglia che dal 1992 è a Santa Venarina, in provincia di Catania. Qui, insieme a sua moglie Laura, oltre a svolgere il “lavoro di papà”, dal 2002 ha aperto la cooperativa sociale “Rò La Formichina”, che accoglie e reintroduce nel mondo del lavoro persone disabili e detenuti che usufruiscono della pena alternativa. Qual è il sogno della cooperativa sociale? “Qui in Sicilia abbiamo la nostra casa famiglia, dove oltre ai nostri figli naturali abbiamo anche altri ragazzi accolti, alcuni di loro hanno anche avuto problemi con la giustizia. Nel 2001 c’è stata fatta la proposta di fare il salto, di provare a far partire la cooperativa sociale. Sapevamo che alcuni nostri ragazzi, portatori di handicap, crescendo non avrebbero mai trovato un lavoro e rischiavano di passare la loro giornata davanti al televisore. Il sogno della cooperativa è quella di dare a ciascun ragazzo la possibilità di avere la dignità del lavoro. E così è nata ‘Rò La Formichinà”. Chi lavora nella cooperativa? “Simone, un ragazzo con un ritardo mentale molto marcato, che è il nostro fondatore, alcuni portatori di handicap, ma hanno trovato posto anche dei giovani detenuti”. Che tipo di lavori svolgete? “Nella cooperativa ci sono due laboratori. Uno di falegnameria dove i ragazzi, seguiti da un operatore specializzato producono oggetti unici e fatti a mano, sviluppando la loro creatività, precisione, manualità e pazienza. Parte degli oggetti - come i crocifissi e alcuni pastorali - sono prodotti con il legno dei barconi utilizzati dai migranti per attraversare il Mediterraneo. Inoltre lavoriamo anche con le api: l’apicoltura richiede pazienza, precisione e delicatezza. In più, il lavoro con questi insetti insegna a rispettare i tempi della natura. Nei nostri laboratori produciamo 9 tipi di miele biologico certificato Icea”. Che età hanno questi ragazzi? “Noi lavoriamo molto con i riformatori. Gli istituti penali per minorenni in Italia sono 23, quattro dei quali in Sicilia, due nella provincia di Catania. Questo per capire un po’ l’emergenza criminalità minorile di cui stiamo parlando. Mentre al nord i detenuti sono per la maggior parte di origine straniera, qua al sud, invece, sono i ragazzini dei nostri quartieri a rischio. Ci sembrava quindi importante dare a questi ragazzi la possibilità di un percorso lavorativo”. Come si svolge il loro lavoro? “Alcuni hanno iniziato con un periodo di tirocinio di sei mesi: uscivano dal carcere la mattina, venivano a lavorare in cooperativa e rientravano la sera. Diversi ragazzi hanno poi ottenuto dal giudice l’autorizzazione a stare stabilmente nelle nostre case. A molti non devi insegnare un mestiere, devi proprio insegnare cosa sia un lavoro. Bisogna partire dalle basi: il rispetto per gli altri, la serietà sul luogo di lavoro, l’importanza di rispettare le scadenze”. Che cosa è la pena alternativa? “È la possibilità di dire: superiamo il carcere. La giustizia non deve essere intesa come vendetta, ma come un momento in cui si ripaga. L’opportunità, per chi ha fatto del male, di tornare a fare del bene. Magari, dove possibile, anche un percorso con le vittime o i familiari e, soprattutto, scoprire che c’è un futuro. Credo che la pena alternativa debba essere intesa come la possibilità di fare un percorso diverso. Un detenuto è inserito in un meccanismo dove si fanno i calcoli per ottenere le cose. Quando vado a fare i colloqui con i detenuti, un po’ già mi immagino cosa vogliono chiedere. Nelle nostre case, invece, quando incontrano i bambini o i portatori di handicap, è in quel momento che emerge il loro cuore”. In che senso? “Mi ha colpito molto un detenuto, quando gli facevo la mia solita predica sul fatto di fare del bene mi ha risposto che mai nessuno gli aveva insegnato cosa significasse realmente ‘fare del benè. Dopo l’esperienza in cooperativa mi ha detto: ‘Adesso, finalmente, ho capito cosa significhi fare del benè. Un altro detenuto, che era uscito per un periodo, mi spiegava che riconosceva di aver fatto degli errori e ora cercava solo delle opportunità per fare qualcosa di giusto. È questa la responsabilità che abbiamo nei loro confronti”. Perché avete chiamato la cooperativa Rò La Formichina? “Rò è il diminutivo di Rosario, un ragazzino accolto nella nostra casa famiglia che all’età di 14 anni, a causa di una malformazione ci ha lasciati. La formichina perché questo insetto è capace di trasportare cose più grandi di lei, addirittura da cinque a dieci volte il suo peso. E nella cooperativa bisogna che chi può porti ben oltre la propria responsabilità. Ecco andare oltre, farsi carico l’uno dell’altro. È questo che proponiamo anche ai ragazzi con problemi penali: come ci diceva don Oreste ‘il limite dell’altro segna l’inizio della tua responsabilità’”. Dopo il percorso di recupero alternativo al carcere, ci sono dei ragazzi che ricadono nel mondo della criminalità? “Don Oreste diceva sempre che dobbiamo passare dalla certezza della pena alla certezza del recupero. Credo che sia qualcosa di veramente intuitivo. La persona che viene recuperata non è più pericolosa per la società. Le statistiche dimostrano che la recidiva per chi fa un percorso di recupero scende tantissimo, siamo sotto il 10 per cento. Mentre chi esce dal carcere, purtroppo, nell’80 per cento dei casi torna per gli stessi o per reati più gravi”. Milano: il carcere di San Vittore intitolato al Maresciallo Francesco Di Cataldo Corriere della Sera, 22 ottobre 2017 Il carcere di San Vittore sarà intitolato alla memoria di Francesco Di Cataldo, il Maresciallo maggiore del Corpo degli agenti di custodia, ucciso dalle Brigate Rosse all’età di 51 anni, a Milano il 20 aprile 1978. In occasione della cerimonia di intitolazione della casa circondariale di Piazza Filangieri che si svolgerà mercoledì mattina alle 11 nella stessa giornata il carcere apre le porte ai cittadini dalle 18 alle 20. Per la visita occorre però prenotarsi, i posti disponibili sono infatti cento, entro lunedì 23 sul sito www. aei.coop scegliendo l’evento “Tribuna aperta a San Vittore”. Taranto: “Due uomini lontani e vicini: giudice e detenuto”, al Rotary Club Massafra di Mariella Eloisia Orlando vivimassafra.it, 22 ottobre 2017 Di grande interesse l’incontro intitolato “Due uomini lontani e vicini: giudice e detenuto”. Ospitato lo scorso 20 ottobre dal “De Ruggieri” di Massafra, l’evento è stato organizzato dal Rotary Club Massafra. Ad aprire i lavori il saluto del professor Stefano Milda, dirigente scolastico, il quale ha voluto esprimere un ringraziamento al club service massafrese per aver offerto ai ragazzi un’importante occasione di arricchimento culturale. L’avvocato Luigi Salvi, presidente Rotary Club, ha introdotto i lavori presentando l’iniziativa e l’illustre relatore. Altri indirizzi di saluto sono arrivati dal capitano Nicola Saverio Leone, comandante della compagnia dei carabinieri di Massafra; dalla dottoressa Alessia Semeraro, presidente Rotaract Massafra; dalla dottoressa Bombina Santella, presidente del tribunale dei minori di Taranto. Si è entrati nel vivo della mattinata con la relazione del dottor Augusto Bruschi, magistrato attualmente in pensione ed artista. Il delicatissimo rapporto tra giudicante e giudicato è stato brillantemente descritto dal dottor Bruschi attraverso il racconto di casi appartenenti al suo vissuto giuridico. Un excursus di storie e aneddoti è servito a raccontare come la vita professionale di un giudice si intrecci con quella di persone, seppur criminali, molto fragili. Il dottor Bruschi ha voluto sottolineare il valore educativo del carcere: scontare una pena detentiva deve servire ad impiegare proficuamente quel tempo per acquisire nuove competenze, professionalizzarsi, prepararsi a rientrare in società per cominciare una nuova vita all’insegna della legalità. L’esperienza e la simpatia del dottor Bruschi hanno saputo interessare e coinvolgere la numerosa platea di giovani. Alla professoressa Silvana Milella, assistente del governatore Rotary Club, sono state affidate le conclusioni. Con l’evento “Due uomini lontani e vicini: giudice e detenuto” i ragazzi hanno avuto la possibilità di entrare nel mondo della giustizia attraverso la testimonianza di chi ha scelto di dedicare la propria vita alla legalità. Il dottor Bruschi ha insegnato che, sebbene i reati vadano puniti con una pena congrua, ogni caso va esaminato con estrema cautela cercando di comprendere le cause che abbiano portato a delinquere. Professionalità e sensibilità sono, secondo il giudice Bruschi, un binomio inscindibile per un uomo che si occupa di giustizia. Migranti. Accoglienza al palo: collabora un Comune su otto di Francesco Grignetti La Stampa, 22 ottobre 2017 Solo mille adesioni al piano del Viminale per la distribuzione sul territorio. Tante lusinghe, promesse, anche qualche rampogna. Ma tutto sembra inutile. I Comuni continuano ad essere sordi rispetto alle attese del ministero dell’Interno quando si tratta di accogliere i rifugiati. Il sistema Sprar (Servizio protezione per richiedenti asilo e rifugiati) non decolla come speravano al Viminale. Sono soltanto 1017 i Comuni (sui 7978 d’Italia) che hanno aderito e ora garantiscono 31.400 posti. Tanti? Pochi? “È la solita questione - dice Matteo Biffoni, sindaco dem di Prato e delegato per i problemi dell’immigrazione dell’Anci - del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Nello Sprar abbiamo cinquemila posti più di prima ed è un fatto innegabile. Poi, certo, se si partiva dall’aspettativa di raddoppiare i posti, siamo ancora lontani; se si partiva dall’aria che tira, è un successo”. La partita non è ancora finita. È di ieri, per dire, a Catanzaro, una cerimonia alla presenza del ministro Marco Minniti che certifica come 194 Comuni calabresi abbiano aderito allo Sprar, quasi la metà in quella regione. Quella stessa Calabria dove la ‘ndrangheta si era infiltrata nel centro di accoglienza di Isola Capo Rizzuto e aveva trasformato l’accoglienza in un suo business. “In materia di immigrazione - dice quindi il ministro - dobbiamo liberarci della pratica di interventi che rincorrono altri interventi. Solo così possiamo affrontare in maniera credibile la questione importante della paura”. Nei progetti più rosei del ministro Minniti, con l’accoglienza diffusa si dovrebbero chiudere presto i maxi-centri. “È chiaro - ha spiegato la settimana scorsa in Parlamento - che se potessimo incrementare significativamente il numero dei Comuni che accolgono, potremmo rafforzare di più un mio intendimento che in ogni caso intendo perseguire, cioè un processo di superamento dei grandi centri di accoglienza”. Qualcuno ricorderà il piano del Viminale: se avessero aderito tutti i 7978 municipi, l’accoglienza si sarebbe ripartita sul territorio con il parametro di 2,5 ospiti per mille abitanti. Ma così non è. Le ultime stime dicono che sono 196 mila i migranti a cui in questo momento lo Stato dà vitto e alloggio: 30 mila nei centri dello Sprar, gestiti dai sindaci; i restanti 160 mila a carico delle prefetture. “È innegabile - spiega il sottosegretario Domenico Manzione - che le cose non sono andate proprio come ci aspettavamo. Ma la chiusura dei grandi centri è connaturata all’estensione dello Sprar. Vorrà dire che i tempi saranno un po’ più lunghi”. Molto dipenderà anche dagli sbarchi. Se il flusso resterà come in questi ultimi quattro mesi, i numeri dell’accoglienza si ridurranno automaticamente e tutto sarà più facile. “In questo momento - dice Minniti, cautamente - possiamo dire di trovarci di fronte ad un quadro che ci porta ad avere una curva degli arrivi di migranti nel nostro Paese che è significativamente scesa”. In complesso, negli ultimi quattro mesi sono sbarcati in 26.878; l’anno scorso erano stati 89.205 (riduzione del 70%). Migranti. In ventimila a Roma contro il razzismo e per lo ius soli di Leo Lancari Il Manifesto, 22 ottobre 2017 Don Ciotti: “L’immigrazione è speranza, e la speranza non è un reato”. C’è il ragazzo che indossa una maschera con la faccia del ministro degli Interni Marco Minniti versione vampiro, con i canini ben appuntiti che spuntano dalla bocca. E poi, poco più avanti, ci sono decine di ragazzi e ragazze che portano stretto alla vita o sulle spalle il telo termico color oro con cui i soccorritori coprono i migranti salvati dal mare. “Questo telo è un segno di solidarietà nei confronti di tutti gli uomini e le donne che rischiano la morte per fuggire”, spiega una ragazza. Non sono i quasi centomila che solo cinque mesi fa, a maggio, hanno riempito le strade di Milano in una grande manifestazione per l’accoglienza dei migranti, ma di questi tempi i circa ventimila (secondo gli organizzatori) che ieri hanno attraversato Roma per manifestare contro il razzismo rappresentano pur sempre un risultato di tutto rispetto. Come sa bene Filippo Miraglia, vicepresidente nazionale dell’Arci, che infatti non nasconde la sua soddisfazione. “Considerato il momento che stiamo attraversando il risultato è molto buono”, dice quando il corteo è già arrivato a piazza Vittorio, tappa finale della giornata. “L’iniziativa di oggi fa ben sperare per l’avvio di una stagione di mobilitazioni di cui abbiamo bisogno per dare maggiore spazio a chi non ha voce perché considerato ininfluente dal punto di vista elettorale”, commenta Miraglia. Contro il razzismo, per la giustizia e l’uguaglianza”, c’è scritto sullo striscione che dà il via al corteo. Alla manifestazione indetta dall’Arci hanno aderito un centinaio di associazioni e organizzazioni, insieme al vescovo emerito di Caserta, monsignor Raffaele Nogaro, ad Andrea Camilleri, Moni Ovadia e don Luigi Ciotti: “L’immigrazione non è un reato perché non è reato la speranza”, ha spiegato ancora ieri il fondatore di Libera e del Gruppo Abele. “Oggi ci troviamo invece a fare i conti con un sistema che garantisce il privilegio di pochi e toglie la speranza a tutti gli altri”. Il razzismo non è l’unico tema del corteo. Negli slogan, sugli striscioni e dagli altoparlanti montati sui camion si lanciano parole d’ordine anche sul diritto alla casa e a favore dello ius soli, la legge che permetterebbe a oltre ottocento mila ragazzi, figli di immigrati, di diventare cittadini italiani. Ma soprattutto contro gli accordi stretti dall’Italia con la Libia e che se finora hanno ridotto drasticamente gli arrivi lungo le coste del paese - come vantava ancora ieri il ministro Minniti - non sono certo serviti a rendere più umane le condizioni di vita dei migranti che si trovano ancora nel paese nordafricano, prigionieri delle milizie e rinchiusi in centri dove subiscono violenze di ogni genere. “Si parla sempre di immigrati, ma mai delle cause che la genera, che sono le politiche dell’occidente che hanno prodotto fame”, dice Essane Niagne, nata in Italia ma originaria della Costa d’Avorio. Dalla Campania sono arrivati sette pullman. Su uno di questi hanno viaggiato i giocatori della Rlc Lions Ska di Caserta, squadra che gioca in terza divisione “Rfc” sta per “Ritieniti fortemente coinvolto”, e il messaggio è chiaro. Il 70% dei giocatori è composto da ragazzi immigrati, il 60% dei quali sono richiedenti asilo. Il calcio per loro è un ottimo modo per integrarsi, ma spesso può significare anche sbattere la faccia contro l’ignoranza della gente. “A una partita ci hanno gridato negri di merda”, ricorda Makan, che viene dal Mali e nonostante tutto riesce ancora a sorridere. “Purtroppo sono episodi che capitano sempre più spesso. Quest’anno non c’è stata una partita senza insulti”, conferma Marco Prato, cofondatore, nel 2011, della squadra. Un razzismo che non appartiene solo alle curve degli stadi. A piazza Vittorio, da sopra il cassone di un camion trasformato in palco per l’occasione, una ragazza spiega cosa significa sentirsi italiani senza esserlo per colpa dell’ostruzionismo che blocca la riforma della cittadinanza. “Non siamo immigrati eppure non siamo nemmeno cittadini italiani. Vogliamo solo essere riconosciuti per la nostra identità”. La crescente deriva xenofoba del Partito popolare europeo di Guido Caldiron Il Manifesto, 22 ottobre 2017 Ultranazionalismi. Dopo la recente vittoria di Kurz in Austria, il baricentro dei popolari si sposta sempre più a destra. Normalizzazione degli estremisti di destra e del discorso razzista e le ripetute aperture di credito del mondo conservatore verso questi ambienti ha fatto sì che i partiti conservatori ne hanno di fatto sposato i programmi. Quando, nell’autunno del 2000 l’allora cancelliere Schüssel, esponente del Partito Popolare aprì la strada del governo di Vienna ai liberal-nazionali dell’Fpö di Haider spiegò che per quella via si sarebbe neutralizzata la spinta della nuova destra. La recente affermazione elettorale di Sebastian Kurz, tra gli eredi di Schüssel alla guida dei democristiani, segnata dal recupero delle parole d’ordine degli ultranazionalisti su migranti, Islam e Europa, indica come sia avvenuto esattamente il contrario. Da un lato la progressiva “normalizzazione” degli estremisti di destra e del discorso razzista nel dibattito pubblico, accompagnata dall’acquisizione costante di temi securitari e identitari - deriva da cui non è esente anche una parte del centro-sinistra, ha finito per legittimare tali partiti. Dall’altro, le ripetute aperture di credito del mondo conservatore verso questi ambienti e il prendere corpo di un’inedita area di “destra della destra” dove presunti moderati e estremisti conclamati intrecciano scambi, relazioni, progetti, si è tradotto in un significativo spostamento verso destra dello stesso “centro”. Al punto che al termine del ciclo elettorale del 2017 si può rilevare come la temuta affermazione dei “populisti di destra” sia spesso stata evitata ma al prezzo di veder trionfare partiti conservatori che ne hanno di fatto sposato i programmi. Così, se all’inizio del nuovo millennio il varo della coalizione Schüssel-Haider faceva seguito a quanto accaduto nel laboratorio italiano della “destra plurale”, formatasi sotto l’egida di Silvio Berlusconi fin dagli anni Novanta, cui il Ppe ha ribadito del resto il proprio sostegno nel vertice che si è svolto giovedi a Bruxelles, oggi il profilo e la strategia di Sebastian Kurz, che si appresta a governare con l’estrema destra e ad applicarne in gran parte le odiose ricette, rappresentano tutt’altro che un’eccezione. Appartengono infatti al Partito popolare europeo sia il movimento Fidesz dell’ungherese Viktor Orbán, fautore della “democrazia illiberale”, che il Partito conservatore norvegese di Erna Solberg che ha appena rinnovato il proprio patto di governo con il Fremskrittpartiet, movimento nazionalista e anti-immigrati a cui era iscritto lo stragista di Oslo, Anders Behring Breivik. Del resto, proprio in Scandinavia, per 10 degli ultimi 16 anni, l’esecutivo di centrodestra danese guidato dai liberali, che governano ancora a Copenhagen, ha vissuto solo grazie all’appoggio esterno del Partito del popolo, già alleato del Front National francese, che ha imposto una drastica stretta in materia di immigrazione e diritto d’asilo. Liberal-conservatore è inoltre anche l’olandese Mark Rutte, riconfermato primo ministro, che ha fermato gli islamofobi di Geert Wilders, legati a Le Pen, ma grazie ad una campagna elettorale talmente ispirata alla xenofobia da far parlare Amnesty di “retorica tossica”. E alla famiglia liberale appartiene anche l’Azione dei Cittadini Insoddisfatti, Ano 2011, il movimento populista guidato dal miliardario Andrej Babiš, soprannominato dalla stampa locale “Babisconi” per le similitudini con il fondatore di Forza Italia, che i sondaggi indicano come probabile vincitore delle elezioni in corso nella Repubblica Ceca. In Francia, dove alcuni politologi hanno paragonato Kurz a Nicolas Sarkozy, che ha inseguito a lungo l’estrema destra, il probabile nuovo leader dei Républicains, anch’essi nel Ppe, Laurent Wauquiez, ha spiegato di volere “una destra che sia veramente di destra: patriottica e contro immigrazione e islamismo”. Quando poi la concorrenza sui medesimi contenuti non è sufficiente, il centrodestra rischia di dividersi proprio sull’adozione o meno di politiche in linea con gli estremisti. Come ha indicato la Brexit, che ha spaccato i Conservatori britannici, per altro già partner in Europa dei nazional-cattolici polacchi di Diritto e giustizia che governano a Varsavia dal 2015, o lo stesso caso dell’Alternative für Deutschland che raccoglie anche i consensi dei neonazisti ma è guidata da ex esponenti della Cdu di Angela Merkel, partito da cui provengono anche metà dei circa 6 milioni di voti che ha raccolto di recente. Spagna. Salto nel buio in Catalogna, ma la costituzione va difesa di Franco Venturini Corriere della Sera, 22 ottobre 2017 Una parte della popolazione è mobilitata per l’indipendenza. La burocrazia catalana non lavorerà per Rajoy. Episodi di violenza non possono essere esclusi. Ora che l’inevitabile è accaduto, la partita tra Madrid e Barcellona entra nel tempo dei pericoli estremi. Era certo inevitabile, al punto in cui si era giunti, che il primo ministro Mariano Rajoy evocasse l’articolo 155 della Costituzione per sospendere l’autonomia e l’autogoverno della Catalogna. In primo luogo a causa della personalità umana e politica dei due protagonisti della contesa, Rajoy alla testa degli unionisti spagnoli e Carles Puigdemont alla guida degli indipendentisti catalani. Entrambi determinati, e propensi a vedere in ogni compromesso il segno di una sconfitta. Entrambi convinti delle loro buone ragioni ma anche deboli, perché privi di una maggioranza di governo (Rajoy a Madrid) oppure sostenuti da consensi parlamentari fragili (Puigdemont a Barcellona). Entrambi pressati dai falchi del proprio schieramento. Entrambi impegnati in una personale battaglia di sopravvivenza politica. Si somigliavano troppo, Rajoy e Puigdemont, perché uno di loro potesse prevalere sull’altro prima dell’ultima resa dei conti: articolo 155 contro dichiarazione di indipendenza. E ora, dopo le schermaglie tattiche volte a colpevolizzare la controparte, è a questo risolutivo braccio di ferro che siamo arrivati. Rajoy ha voluto annunciare contemporaneamente l’amministrazione controllata della Catalogna e nuove elezioni regionali entro sei mesi. Forse per rispondere alle immediate accuse di “franchismo” e di repressione della volontà popolare dei catalani. Di sicuro per soddisfare le richieste appena udite al vertice europeo di Bruxelles: la UE ti appoggia, siamo per il rispetto del dettato costituzionale in tutti i nostri Stati nazionali, non possiamo e non vogliamo interferire negli affari interni spagnoli, ma il governo di Madrid non prenda posizioni che possano apparire antidemocratiche all’opinione pubblica. Dopo le foto e i video delle manganellate dei poliziotti madrileni il giorno del referendum, era il meno che Rajoy potesse sentirsi dire. E l’appuntamento elettorale, per quanto generico, risponde bene a questa esigenza. Per ora, perché non è detto che i calcoli del primo ministro risultino esatti. L’articolo 155 è la versione costituzionale di un salto nel buio. La sua vaghezza affida al capo dell’esecutivo, previa (e scontata) ratifica del Senato, il potere di scegliere i mezzi più opportuni per far cessare lo stato di illegalità. Ed è non a caso soltanto questo che Rajoy ha annunciato ieri di voler fare. Ben sapendo, bisogna ritenere, che ogni passo del governo unionista in Catalogna comporterà rischi altissimi anche per le istituzioni centrali. Puigdemont potrebbe non essere destituito ma soltanto privato di tutti i suoi poteri che passeranno a un organismo transitorio espresso dal governo di Madrid. Lo stesso accadrà per gli altri membri del governo catalano e per il parlamento di Barcellona, che conserverà soltanto funzioni di rappresentanza. E se Puigdemont, che ieri sera ha confermato in piazza la sua volontà di andare avanti, disobbedisse? Se i parlamentari si ribellassero all’imposizione? Bisognerebbe arrestarli. Come, di notte? Usando la forza (errore già fatto) ? Oppure in Catalogna ci sarebbero due governi paralleli, e il mondo intero riderebbe? Lo stesso vale per il controllo della polizia catalana, gli ormai celebri Mossos d’Esquadra. Se gli agenti si rifiutassero di eseguire gli ordini? E se tv e radio respingessero i controllori paracadutati da Madrid? Un caso di repressione della volontà di opinione, in uno dei più importanti soci europei? Uno scenario turco sulle Ramblas? C’è dell’altro. Una parte della popolazione è ormai mobilitata a favore dell’indipendenza e ha cominciato subito a far sentire la sua protesta. Gran parte della burocrazia catalana non lavorerà per Rajoy. Nel tempo episodi di violenza non possono essere esclusi. La situazione economica continuerà a peggiorare (proseguono l’esodo delle imprese e il calo di investimenti e turismo) inasprendo ulteriormente gli animi. Altre regioni autonome della Spagna potrebbero non volere che in Catalogna si crei un precedente. E alla fine le elezioni saranno sì più regolari del referendum indipendentista, ma avranno su di esse il timbro di Madrid. Un timbro che potrebbe spostare la maggioranza dei consensi, che secondo i sondaggi oggi è unionista, dalla parte degli indipendentisti. Chiudendo la partita. Mariano Rajoy ha tirato il dado nella sua Madrid, con l’unica opposizione di Podemos che parla di sospensione della democrazia. La sua difesa della Costituzione avrebbe potuto avere il conforto di scelte migliori, ma è giusta e democratica. Eppure a Barcellona la storia sarà diversa. E non è detto che basti spiegare, per l’ennesima volta, che la secessione non garantirebbe alla Catalogna un posto in Europa. Semmai il contrario. Ma a quello scenario l’Europa preferisce non pensare, fintanto che può permetterselo. Spagna. La Catalogna e il rischio di un precipizio balcanico di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 22 ottobre 2017 Diranno che è una “modalità moderata” l’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione spagnola scelta ieri dal premier spagnolo Rajoy per fermare la dichiarazione di indipendenza catalana: di fatto non c’è l’impossibile cancellazione dell’autonomia ma “solo” il commissariamento del govern e di Puigdemont; diranno che è soft perché tutto è rimandato al voto del Senato la prossima settimana e a nuove elezioni tra sei mesi. Siamo in realtà sull’orlo del precipizio, altro che soft. La scelta di assumere di fatto i poteri della Generalitat catalana e delle forme del suo autogoverno è un vulnus che riguarda l’intera democrazia spagnola che si regge sul riconoscimento delle autonomie. Questo grida con ragione Podemos, purtroppo inascoltato Una decisione che svela come l’unica via imboccata dal governo di Madrid sia quella della repressione e non del dialogo. Perché commissariare un governo di una autonomia garantita dalla stessa Costituzione, sospendere il processo democratico sovrano a “dopo” elezioni” eterodirette, apre una voragine di senso sulle istituzioni della Spagna. E che avrà comunque subito come risposta un acuirsi del clima già teso, dopo le violenze della polizia durante il voto referendario, gli arresti dei due Jordi, la messa sotto accusa dei Mossos - ora commissariati - con una esacerbazione delle istanze dell’indipendentismo. E che mette in chiaro l’origine delle responsabilità nella crisi. Non solo quelle degli indipendentisti, spesso irresponsabili, che hanno premuto l’acceleratore sulla sovranità nazionale separata, ma anche quelle del centralismo statuale spagnolo e dei nodi sociali ed economici tutt’altro che risolti, come ha ricordato di recente perfino il Fondo monetario internazionale. È la crisi del Patto della Moncloa del 1978, che ebbe il merito di inserire la Spagna in un nuovo processo democratico, facendola uscire dal buio nero della dittatura franchista, con un ruolo allora positivo della monarchia garante del ruolo dell’esercito (già golpista). Ma dopo quasi 40 anni che resta di quella monarchia, ridotta a sedimento corrotto, nonostante il cambio da Juan Carlos a re Felipe, per gli scandali che l’hanno contraddistinta? Per una democrazia compiuta non è forse venuto il momento di decidere una statualità repubblicana liberamente decisa dai cittadini? E non è forse chiaro che sia in crisi la leadership del Partito popolare, che ha conquistato due punti in più di Pil ma solo a costo di tanto lavoro precario (come in Italia); e che ora ben altro atteggiamento della compromissione fin qui manifestata dovrebbe venire dall’opposizione socialista del Psoe di Pedro Sanchéz che, sul baratro che si apre, dovrebbe chiedere elezioni anche a Madrid e invece, come Ciudadanos, sale sul carro del vincitore, promette aperture, si prepara magari ad entrare al governo? E poi come dimenticare che dietro il conflitto con Barcellona c’è stata l’iniziativa scellerata del Partito popolare di Rajoy di far cancellare nel giugno 2010 dal Tribunale costituzionale - con un voto per il rotto della cuffia - lo statuto di Catalogna nonostante fosse stato approvato dai parlamenti sia di Barcellona che di Madrid? Il nodo fu la parte del preambolo che recitava “la Catalogna è una nazione”. Fu l’apertura del vaso di Pandora che ha radicalizzato l’indipendentismo - moltiplicato da quella decisione - in chiave “nazionalista”, anche di fronte al fatto che nel 2008, con l’esplodere dell crisi economica mondiale, arrivarono processi di ulteriore centralizzazione di Madrid. Molte delle grandi banche, che in questi giorni grazie al provvedimento propizio del governo, hanno spostato la loro sede amministrativa dalla Catalogna, vennero salvate in questo periodo dal provvidenziale intervento centrale dei governi centrali. Oggi il potere finanziario - come in Grecia, come dovunque - rende l’omaggio, rompendo l’unità ambigua del fronte separatista catalano. Composto in parte da una borghesia concorrenziale, legata a filo doppio all’economia spagnola, e da un’ala social-radicale, la Cup e non solo, che a dire il vero ha pensato ad un “processo costituente” per una “Repubblica garante dei diritti sociali, femminista accogliente verso l’immigrazione, con al centro le persone e non il denaro”, ma senza tenere conto dei rapporti di forza reali e di chi, in Catalogna, non vuole l’indipendenza. Non una “piccola patria” però ma una “destituente” del potere centralistico, sia spagnolo che dell’Unione europea “reale” ridotta ad equilibrio di due sole nazioni, Germania e Francia. Già l’Unione europea, che fine ha fatto in questa crisi? Quell’Ue che, quando ha fatto comodo, ne ha riconosciute di piccole patrie, addirittura quelle proclamate su base etnica, come per l’ex Jugoslavia, e poi per la divisione tra Cechi e Slovacchi e per l’incredibile nazione del Kosovo? Avrebbe dovuto, senza dare il segno dell’ingerenza, diventare la sede del dialogo concreto e possibile, almeno dopo il disastro secessionista della Brexit. Invece alla fine si è schierata con il Pp di Rajoy forte di una leadership europea costituita proprio dai partiti popolari di centro-destra. Fino a battere le mani come nei giorni scorsi a re Felipe al premio Principe delle Asturie: questo ha fatto il presidente del Parlamento europeo Tajani, del resto di formazione monarchica. Ora c’è il precipizio balcanico di un articolo 155 mai applicato finora, dirompente verso la Catalogna ma anche per gli equilibri e la pace della Spagna. E dell’Europa. Zimbabwe. “Offensiva” la nomina di Mugabe ad “ambasciatore” dell’Oms di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 22 ottobre 2017 Piovono condanne sull’Oms, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, per la nomina del presidente dello Zimbabwe a “ambasciatore di buona volontà” dell’agenzia. Robert Mugabe, 93 anni, al potere dal 1980, avrà il compito di aiutare i governi a combattere le malattie croniche non trasmissibili come il diabete, il cancro, l’ictus e le malattie cardiache. E questo nonostante il suo Paese versi in condizioni sanitarie drammatiche con la più alta mortalità infantile e la più bassa aspettativa di vita al mondo. “La nomina Robert Mugabe ad ambasciatore dell’Omsè molto deludente e sbagliata. Mugabe non ha nessun titolo per rappresentare i valori difesi dall’Oms” ha detto Jeremy Farrar, direttore del the Wellcome Trust, una fondazione caritatevole britannica. Anche il governo britannico si è detto molto sorpreso della decisione. Il ministro della sanità irlandese Simon Harris ha definito la nomina “offensiva e bizzarra”. L’annuncio è stato fatto dal direttore generale dell’Oms, l’etiope Tedros Adhanom Ghebreyesus in Uruguay dove si sta svolgendo una conferenza mondiale sulle cosiddette malattie non trasmissibili cui ha partecipato anche il dittatore. Adhanom si è detto convinto che Mugabe potrà usare il suo ruolo “per influenzare i suoi pari nella regione” sul tema della salute. E ha descritto lo Zimbabwe come un “Paese che mette la salute dei cittadini al primo posto”. Parole che sono suonate paradossali a molte organizzazioni che si battono per il diritto alla salute degli individui nel mondo tra le quali la World Heart Federation, la Action Against Smoking e il Cancer Research U.K., che si sono dette scioccate e molto preoccupate. La verità è che in Zimbawe la situazione sanitaria è drammatica e si riflette nella mortalità infantile, che colpisce 81 nati su 1.000, e nella speranza di vita di 43 anni, una tra le più basse del pianeta. La situazione, tra l’altro non fa che peggiorare: rispetto ai primi anni ‘90 la mortalità infantile è aumentata del 50% come anche la speranza di vita che era di 60 anni all’inizio del 2000 e ora è di 43. Questo spaventoso calo è dovuto anche alla diffusione dell’Aids, che negli ultimi tempi si è fatta massiccia: un terzo della popolazione ne è colpita, il quarto più alto tasso di diffusione del mondo. Anche la malaria è sempre più presente e il rischio di epidemie è alto, visto il peggioramento delle condizioni igieniche e sanitarie: Harare soffre per la mancanza di acqua e le fognature della città sono in uno stato disastroso. Questi due fattori favoriscono l’inquinamento idrico, la nascita di patologie epidemiche (nel 1994 fu registrata anche un’epidemia di peste) e il rischio di colera. Per ragioni economiche il governo ha eliminato le vaccinazioni, peggiorando ulteriormente la situazione. Amnesty International ha a più riprese accusato il governo di Mugabe di pianificare deliberatamente la violazione dei diritti umani, mentre nel 2008 Human Rights Watch parlava di “terrore organizzato e torture contro gli attivisti dell’opposizione e di comuni cittadini”. Tra le accuse mosse al dittatore: la violazione dei diritti umani alla persecuzione delle minoranze etniche, la repressione del dissenso, la corruzione e l’appropriazione personale degli aiuti internazionali. Per questi motivi nel 2002 Robert Mugabe, insieme a sua moglie Grace e ai suoi più stretti collaboratori, è stato dichiarato “persona non grata” in Europa e negli Stati Uniti. Questo vuol dire che gli è vietato recarvisi, fatta eccezione per gli eventi organizzati dall’Onu e dalla Città del Vaticano. Stati Uniti. Guantánamo: prigionieri lasciati morire dalla politica di Trump di Cristina Amoroso ilfarosulmondo.it, 22 ottobre 2017 Era il 2002 quando l’amministrazione di George W. Bush, in “piena guerra al terrore” aprì la super-prigione di Guantánamo nell’isola di Cuba, che ha ospitato fino a 780 detenuti, molti “spazzati” dai campi di battaglia dell’Iraq, la maggior parte non è mai stata formalmente accusata da un tribunale. Dal 2002 sono morti nove prigionieri e di questi si ritiene che sette si siano suicidati. Molti sono stati sottoposti a tortura durante l’interrogatorio; inoltre nel carcere sarebbero stati rinchiusi anche una quindicina di minori. Ci sono attualmente 41 prigionieri detenuti, ciascuno dei quali costa ai contribuenti americani 10 milioni di dollari all’anno, a differenza dei 78mila dollari necessari per un detenuto in una prigione federale di massima sicurezza negli Stati Uniti, secondo il gruppo Human Rights First. Solo uno è stato inviato negli Stati Uniti per il processo nei tribunali statunitensi. Dei 41 prigionieri, 15 sono considerati di “alto valore”, tra cui Khalid Sheikh Mohammed, il presunto cospiratore degli attacchi dell’11 settembre. Barack Obama promise di chiudere il carcere al termine della campagna elettorale nel 2008, promessa sempre ventilata negli anni della presidenza, fino alla presentazione al Congresso di una proposta nel febbraio del 2016, che non è stata rispettata alla fine del suo mandato. Di tutt’altro avviso è il presidente Donald Trump, che ha più volte detto di non avere alcuna intenzione di chiudere la struttura, si è anzi impegnato a mantenerla aperta e “caricarla con alcuni dannati cattivi”. “Non ci dovrebbero essere altre scarcerazioni - ha twittato Trump di recente - sono persone estremamente pericolose e non dovrebbe essere consentito loro di tornare sul campo di battaglia”. Durante l’amministrazione Obama, le guardie carcerarie praticavano sui detenuti in sciopero della fame l’alimentazione forzata prima che il loro peso diminuisse drasticamente. Nel nuovo approccio dell’amministrazione Trump i detenuti in sciopero della fame sono lasciati al deterioramento fisico fino alla “porta della morte” o al rischio di deterioramento degli organi. Gli avvocati dei detenuti in sciopero della fame hanno parlato ai quotidiani americani (Indipendent, The Guardian) delle condizioni dei detenuti di Guantánamo e in particolare dei cinque detenuti in sciopero della fame. Reprieve, un gruppo umanitario di Londra che rappresenta diversi detenuti, aveva chiesto alle persone di iniziare scioperi della fame a sostegno dei prigionieri che protestano, tra cui Khalid Qassim e Ahmed Rabbani, che rifiutano il cibo dal 20 settembre. Tra coloro che hanno raccolto la sfida ci sono Roger Waters, co-fondatore dei Pink Floyd, Sara Pascoe, l’attore David Morrissey, il regista e attore Mark Rylance, il politico del lavoro Tom Watson e l’attrice francese Caroline Lagerfelt. Khalid Qassim e Ahmed Rabbani, che non assumono cibo dal 20 settembre, si trovano a Guantánamo da 15 anni, per una detenzione indefinita senza addebito o prova, e dal 2013 ricorrono allo sciopero della fame come unica arma per protestare la loro innocenza ed affermare la loro umanità. Gli avvocati sono preoccupati sempre di più per lo stato di salute dei loro clienti. David Remes, avvocato di Washington, che rappresenta Abdul al-Salam al-Hilal, uno dei cinque prigionieri dello sciopero della fame, ha riferito che Hilal, detenuto da oltre 15 anni senza accuse, ha lanciato la sua protesta quando gli è stata rifiutata l’autorizzazione ad una seconda telefonata al mese alla sua famiglia in Yemen. Il peso di Hilal è sceso da 165 a 110 libbre. Rabbani è arrivato a soli 95 libbre e da tempo soffre come Hilal di sanguinamenti interni. Clive Stafford Smith, il fondatore di Reprieve che sta digiunando anche lui a sostegno dei detenuti, ha riferito le parole di Rabbani: “Non voglio morire, ma dopo quattro anni di protesta pacifica non posso fermarmi perché me lo dicono loro. Mi fermerò definitivamente quando il presidente Trump libererà i prigionieri liberi da accuse e permetterà a tutti gli altri un processo equo”.