Le 2.448 donne invisibili, detenute nelle carceri italiane di Andrea Massera liberopensiero.eu, 20 ottobre 2017 Tra le pieghe delle statistiche sulla detenzione, tra gli slogan che legano indissolubilmente immigrazione e delinquenza, 2.448 individui sono dimenticati dall’opinione pubblica e, spesso, dalle istituzioni: sono le donne detenute nelle carceri italiane. Sono quindi 2.448 donne invisibili, poco più del 4% dei detenuti in Italia, i quali al 30 settembre 2017 sono 57.661, circa 7.000 in eccesso rispetto alla capienza regolamentare delle carceri. Cifre che dicono tanto, che sono già severe nei confronti delle condizioni umane dei reclusi maschi. La condizione delle donne detenute, una risibile percentuale sull’albo delle statistiche del Ministero della Giustizia, da anni a questa parte continua a presentare criticità. L’assurdo oblio in cui versano le minoranze è un terribile vizio delle istituzioni, un’abitudine diventata regola: minoranze etniche, religiose e quella delle donne detenute, che non fa eccezione. In Italia sono presenti solamente quattro carceri unicamente femminili: questi istituti - a Trani, Roma-Rebibbia, Empoli, Venezia-Giudecca e Pozzuoli - ospitano il 25% delle donne detenute. Il restante 75% è malamente gestito nelle carceri maschili, in spazi ritagliati, obsoleti, senza opportunità né possibilità di condurre una vita dignitosa. Se lo scopo che si prefigge la detenzione è la riabilitazione dei reclusi, il loro reinserimento nella società, allora le istituzioni italiane stanno fallendo. Le donne detenute sono gestite in modo a dir poco approssimativo, in condizioni di vita ben peggiori di quelle dei reclusi maschi. Proviamo a raccontare il dramma delle donne detenute nelle carceri con due focus su altrettanti istituti, quello di Pozzuoli, femminile, e quello di Genova-Pontedecimo, maschile. Il carcere di Pozzuoli, in provincia di Napoli, è suddiviso in tre piani e altrettante sezioni, a seconda della pena da scontare e dei reati commessi dalle donne che ne sono inquiline. Della situazione all’interno della struttura quasi nulla era noto fino al 2015, solo qualche cenno storico sulle peripezie dell’edificio nel corso dei secoli. Nel maggio 2015 la svolta: una lettera anonima, dopo qualche mese di censura e silenzio epistolare, viene recapitata al comitato “Parenti e amici delle detenute del carcere di Pozzuoli”. Del testo integrale, che merita di essere letto approfonditamente, sono citati di seguito alcuni passaggi che raccontano quello definito come “inferno di Pozzuoli”: sovraffollato, con assistenza medica precaria e prezzi esorbitanti anche per i beni di prima necessità, violenze verbali e minacce, prostituzione. Un inferno, appunto. Bambini in carcere, quanti sono e cosa prevede la legge di Giulia Martesini pourfemme.it, 20 ottobre 2017 Attualmente in carcere in Italia vivono 60 bambini da 0 a 6 anni, che condividono la reclusione con la madre. Negli ultimi anni molti politici hanno promesso un cambiamento non ancora avvenuto. In alternativa alla prigione esistono nuove realtà, come gli Icam, strutture detentive più leggere, o le case famiglia, veri e propri appartamenti dove mamme e bambini possono condurre una vita il più possibile normale. In Italia, attualmente, ci sono 60 bambini, da 0 a 6 anni che vivono in carcere con le madri, condividendone la reclusione, sebbene in forma più attenuata. La madre, al momento di entrare in carcere può scegliere se staccarsi dal figlio o meno, ma in moltissimi casi, si tratta di una scelta obbligata, non avendo ad esempio nessun parente a cui lasciare il figlio, oppure semplicemente è ancora troppo piccolo per staccarsi dalla madre. In Italia negli ultimi anni ci sono stati cinque interventi legislativi, ma le cose non sono ancora cambiate, e i bambini rimangono così, innocenti, dietro le sbarre. Bambini in carcere, le promesse dei politici - Quella di portare i figli in carcere è una possibilità prevista dalla legge 354 del 1975, che la concede alle madri di bambini da 0 a tre anni. L’obiettivo primario è quello di evitare il distacco o, per lo meno, di ritardarlo. Ma gli effetti su chi trascorre i suoi primi anni di vita in cella sono devastanti e permanenti. Molti i politici che negli ultimi anni hanno promesso di cambiare questa situazione, come Angelino Alfano che nel 2009 dichiarò che avrebbero approvato una riforma del codice carcerario perché “un bambino non può stare in cella”. Nel 2015 l’attuale ministro della Giustizia Andrea Orlando promise che “ entro la fine dell’anno nessun bambino sarà più detenuto. Sarà la fine di questa vergogna contro il senso di umanità”. Bambini dietro le sbarre, che cosa prevede la legge - L’istituto penitenziario che reclude il maggior numero di bambini si trova attualmente a Roma ed è il Rebibbia femminile “Germana Stefanini”, una delle strutture più attrezzate dove vivono circa quindici bambini, quasi tutti sotto i tre anni di età. Ma erano 21 prima della sentenza Torreggiani (la decisione con la quale la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo stabilì che “il prigioniero sia detenuto in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana”), quasi tutti di origine rom. La prevalenza di bambini - e quindi di mamme rom - nelle carceri si spiega con l’alta percentuale di recidiva che impedisce loro di accedere alle pene alternative. Nel 2001 era intervenuta la legge Finocchiaro, che ha introdotto modifiche al codice di procedura penale, favorendo l’accesso delle madri con figli a carico alle misure cautelari alternative. La questione è però rimasta inalterata per detenute rom, straniere o senza famiglia che, non avendo una dimora fissa, non possono usufruire degli arresti domiciliari. Le case famiglia, alternative umane alla carcere - Per cercare di risolvere questo problema nel 2011 era stata approvata una nuova legge che consente, salvo i casi di eccezionali esigenze cautelari dovute a gravi reati, la possibilità di scontare la pena in una Casa famiglia protetta, dove le donne che non hanno un posto possono trascorrere la detenzione domiciliare portando con sé i bambini fino a 10 anni. Le case famiglia sono dei veri e propri appartamenti, dove le madri, e soprattutto i bambini, possono condurre una vita più normale, andando a scuola o uscendo a giocare. Icam, cosa sono e cosa prevedono - L’alternativa alle case famiglia è costituita dagli Icam -istituto a custodia attenuata per detenute madri - strutture detentive più leggere, istituite in via sperimentale nel 2006 per permettere alle madri di tenere con sé i figli, laddove non possano beneficiare di alternative alla detenzione in carcere. L’ambiente appare più familiare al bambino, gli agenti sono in borghese e vi è un’alta presenza di educatori ma rimane un carcere a tutti gli effetti, con sbarre alle finestre, porte blindate e videosorveglianza. Di giorno le porte rimangono aperte ma alle 20,00 una poliziotta penitenziaria passa a rinchiuderli. L’unico momento di libertà per questi bambini è il sabato, il loro giorno libero, quando accompagnati da volontari, possono uscire dal carcere. Questi “sabati di libertà” sono stati fortemente voluti da Leda Colombini, fondatrice dell’associazione “A Roma insieme”, che si è battuta per anni per permettere a questi bambini di vedere il mondo esterno, anche solo per un giorno alla settimana. Bambini in carcere, una questione complessa - La situazione dei bambini nelle carceri italiane può gridare allo scandalo ma si tratta a tutti gli effetti di una questione molto complessa. È fondamentale infatti, garantire tre differenti necessità, ognuna ugualmente importante, ossia garantire l’espiazione della pena, la tutela dei diritti del bambino e la tutela del rapporto tra madre e figlio, specialmente quando si tratta di un neonato. In quest’ultimo caso, non è infatti possibile ipotizzare la separazione di una madre dal figlio al momento dell’ingresso in carcere. Carceri: azzerano la “memoria” degli agenti di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 20 ottobre 2017 Saranno spostati i funzionari che sono stati 10 anni negli uffici centrali e regionali del Dap: quelli che sanno tutto. C’è un decreto organizzativo voluto dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, che nel giro di un anno al massimo potrebbe mandare in fumo specializzazioni, esperienze professionali di diverse centinaia di agenti e funzionari di polizia penitenziaria che da anni si trovano a gestire tutti i giorni anche settori delicatissimi come il 41-bis, il carcere per i boss mafiosi e per i terroristi, i collaboratori di giustizia, i reparti carcerari per i jihadisti o per detenuti a rischio “radicalizzazione”, cioè che potrebbero essere reclutati per la “guerra santa”. Il decreto riguarda solo la Polizia penitenziaria e introduce una nuova regola: il divieto di lavorare più di 10 anni in sedi diverse dal carcere (ufficio centrale del Dap, dipartimento amministrazione penitenziaria e i suoi uffici regionali, scuole della polizia penitenziaria, vigilanza nei tribunali) senza un adeguato periodo di transizione. Non si sa chi sostituirà coloro che hanno già maturato i 10 anni: funzionari preoccupati ci dicono che verranno uomini graditi al ministro. Forse si tratta di considerazioni dettate dall’amarezza, ma un fatto oggettivo c’è, chi succederà loro non può avere il necessario bagaglio di conoscenza per essere efficiente: ci vogliono almeno due anni di formazione altamente qualificata per cominciare a districarsi in un settore strategico per la sicurezza e segnato da una complessità normativa. Giusto per capire con una semplificazione: è questo tipo di personale che studia ad esempio i clan, permettendo di fare un’analisi che stabilisca poi dove mandare determinati detenuti - e sono migliaia, che pur non essendo al 41-bis sono comunque parte integrante della criminalità organizzata, affinché non possano inviare messaggi all’esterno o non possano comandare dentro i penitenziari o entrare in conflitto con altri detenuti. Per non parlare della gestione delicatissima del 41-bis o dei detenuti che vogliono collaborare con la giustizia e che devono essere protetti “da orecchie indiscrete” fino a quando non vengono trasferiti in sede appropriate. Sono loro la memoria storica di questo settore, sono loro che danno questo tipo di indicazioni ai vertici amministrativi, di solito magistrati fuori ruolo, magari appena arrivati, che poco o nulla sanno di quel mondo, e che devono dare il via libera. L’IDEA di questo regolamento è nata a settembre quando il direttore del Dap, Santi Consolo, era in vacanza all’estero. C’è stata una riunione con il ministro Orlando, il direttore del personale del Dap Pietro Buffa, ex direttore del carcere di Torino, in piena sintonia con il Guardasigilli e con il vicecapo del Dap Marco Del Gaudio, magistrato fuori ruolo, ex vicecapo di gabinetto proprio di Orlando. Molti di coloro che potrebbero essere trasferiti in breve tempo hanno già consultato degli avvocati amministrativisti i quali pensano che sarebbe un provvedimento da impugnare al Tar perché facilmente attaccabile: non si può, secondo questi legali, far perdere la propria sede al personale amministrativo. I sindacati di categoria hanno già offerto consulenza legale gratuita. Il decreto potrebbe essere firmato dal ministro già la settimana prossima, Il Fatto ha potuto visionare il testo e riguarda “la definizione dei criteri e delle priorità di assegnazione delle sedi di servizio del Corpo di polizia penitenziaria”. L’articolo chiave è il numero 5, quello sulle assegnazioni “in posti diversi” dalle carceri: la permanenza negli uffici del Dap “non può superare complessivamente i 10 anni, anche non continuativi “. Alla scadenza, si ha l’ obbligo di partecipare”all’ interpello” peri posti vacanti, assegnati condeterminati criteri già stabiliti. Criteri, invece, che non sono indicati per coloro che dovranno sostituire il personale che ha maturato i 10 anni. Se il testo rimarrà così, centinaia di uomini della polizia penitenziaria dovranno andare via nel giro di 6 mesi o poco più lasciando il vuoto al posto della conoscenza. È stretta su multe e ammende. Libertà controllata o lavoro sostitutivo per chi non paga di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 20 ottobre 2017 Chi è stato condannato in giudizio al pagamento di multe e ammende e non salda il conto dovrà subire un periodo di libertà controllata (fino a un anno) oppure potrà chiedere di svolgere un lavoro sostitutivo, per un periodo ragguagliato alla sanzione. La stretta è contenuta nella legge di Bilancio 2018. Grazie alle nuove norme, che colmano un vuoto legislativo, si stabilisce un controllo mensile e un’informativa al pubblico ministero. Multe e ammende: i morosi non potranno più sperare di farla franca, complice la mancanza di norme sulla procedura da seguire da parte degli uffici giudiziari. Il ddl bilancio per il 2018 colma un vuoto legislativo e introduce l’iter da seguire per stanare chi, condannato, non paga la pena pecuniaria. Grazie alle nuove norme, si stabilisce un controllo mensile e un’informativa al pubblico ministero, che porterà, poi, la pratica sul tavolo del magistrato di sorveglianza. Chi non ha saldato il conto dovrà subire un periodo di libertà controllata (fino a un anno) oppure potrà chiedere di svolgere il lavoro sostitutivo, per un periodo ragguagliato alla sanzione. Nel ddl trovano posto anche maggiori stanziamenti per indennizzare le vittime di violenza e il lavoro all’esterni dei detenuti, gli straordinari del personale delle cancellerie e i tirocini nei tribunali. Sotto segreto i costi delle intercettazioni, che passano alla competenza del comparto Intelligence. Ma vediamo le novità del pacchetto giustizia previsto nel testo noto dello schema di disegno di legge. Multe - Le sanzioni pecuniarie sono sostanzialmente lettera morta. Partendo da questo presupposto, il ddl prevede un’articolata procedura che parte da un flusso mensile di informazioni al pubblico ministero sull’andamento delle riscossioni delle pene pecuniarie; quindi l’ufficio del pm riporta le notizie sulle morosità al magistrato di sorveglianza per l’attivazione della conversione, previe le indagini del caso sulla solvibilità del condannato. La relazione tecnica al ddl confessa che non c’è una norma sulla circolazione delle informazioni tra gli uffici e questo “produce conseguenze sul piano del principio dell’effettività dell’esecuzione delle condanne a pena pecuniaria”. Tradotto: le casse dello stato non incamerano nulla e il condannato la scampa. Vittime di violenza - Lo schema di ddl rende disponibili quattrini (2,6 milioni di euro per gli anni 2016 e 2017 e 10 milioni di euro a decorrere dall’anno 2018) per il Fondo per le vittime di reati violenti per gli indennizzi necessari a rifondere le spese mediche e assistenziali nel caso di lesioni personali gravi o gravissime, violenza sessuale e di omicidio. Si rammenta che lo stato interviene solo nel caso in cui la vittima non ottiene ristoro o perché non è stato possibile identificare l’autore del reato o perché non punibile o non imputabile. Stage nei tribunali - Lo schema di ddl bilancio proroga di un anno i tirocini negli uffici del processo: sono interessate 1.115 persone, che fruiranno di una borsa mensile di 400 euro. Straordinario nelle cancellerie - Il ddl finanzia lo straordinario del personale delle cancellerie e delle segreterie giudiziarie per le attività di supporto al consiglio direttivo della Corte di cassazione e consigli giudiziari. Viene stanziata la spesa di euro 1.868.000 a decorrere dall’anno 2018: coprirà 100.100 ore annue, da assegnarsi su richiesta del primo presidente della Corte di cassazione e dai presidenti delle corti di appello. Intercettazioni - Il ddl bilancio sposta dal ministero della giustizia al comparto intelligence i costi relativi alle attività di intercettazione svolte dalle agenzie: l’obiettivo è tutelare la riservatezza dei dati inerenti l’attività operativa dei servizi di informazione. Lavoro all’esterno dei detenuti - Il ddl bilancio stanzia 5,5 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2014 al 2017 e 15,5 milioni di euro a decorrere dall’anno 2018 per favorire la creazione e la gestione del lavoro di persone in esecuzione penale, dentro e fuori il carcere. Il lavoro carcerario può essere svolto sia collocando l’impresa all’interno degli istituti di pena sia assumendo detenuti in sedi lavorative all’esterno. Le due opzioni sono attivabili da imprese pubbliche, private e cooperative per le quali è previsto un sistema di sgravi contributivi e fiscali. Minori senza famiglia, servono misure alternative alle Comunità di Andrea Catizone* Il Dubbio, 20 ottobre 2017 Il rapporto dell’Autorità per l’infanzia e l’adolescenza mette in rilievo che sono 21.035 le ragazze e i ragazzi ospiti di strutture di accoglienza. Per un figlio crescere fuori dal proprio contesto familiare costituisce un’anomalia. Una stortura che ha natura giuridica, essendo previsto, art. 30 della Costituzione, l’obbligo dei genitori di mantenere, istruire ed educare la prole, ma anche un diritto degli stessi a crescere dentro la famiglia rafforzando i legami familiari, come previsto dalla legge 149/2001 che introdusse una serie di modifiche al codice civile e alla legge sulle adozioni (legge 184/1983), e che trova riscontro nelle altre discipline. La duplice previsione normativa ha come obiettivo primario quello di proteggere il minore, di realizzarne il supremo interesse, consentendo uno sviluppo equilibrato che solo una dimensione affettiva come la famiglia può garantire. Certo non mancano casi di disagi generati e creati proprio da quei soggetti ai quali la legge demanda il compito più difficile da svolgere che è quello di “educare”, ma in linea di massima la presunzione di capacità genitoriale che l’ordinamento prevede trova riscontri fattuali. Tale assunto normativo e anche culturale sovrasta il rapporto più importate che l’essere umano abbia creato e l’ordinamento giuridico riconosciuto, tanto che si può decidere di cambiare tutte la tipologia di legami tra le persone, le cose, gli ordinamenti, gli ordini professionali, ma non si può decidere di annientare il rapporto genitore-figlio. Non esiste in nessun ordinamento la possibilità di divorziare da un figlio al quale semmai si può regolare il vincolo patrimoniale, ma mai quello familiare. Da qui si deve partire per leggere con gli strumenti conoscitivi adeguati il Rapporto che l’Autorità per l’Infanzia e l’Adolescenza ha presentato sui minori che vivono nelle 3325 comunità di accoglienza presenti sul territorio italiano. La ricerca, svolta in collaborazione con le procure minorili e le strutture di accoglienza, mette in rilievo che oggi sono 21035 le ragazze e i ragazzi che vivono nelle Comunità la cui età oscilla tra i 14 e i 17 anni. Soffermarsi sul dato anagrafico non è fattore irrilevante, poiché non solo si tratta di adolescenti che sommano ad una fragilità fisiologica del periodo evolutivo, ma sono anche minori prossimi alla maggiore età la cui condizione giuridica ha una risposta da parte dell’ordinamento assai diversa rispetto ai minori. Il Rapporto evidenzia, anche, che sono in calo il numero dei neomaggiorenni presenti in queste strutture, ma impone una riflessione sulla necessità di pensare diversamente questa modalità di crescita di esseri umani già penalizzati da vicende imposte dalla vita. È doveroso immaginare dunque strade alternative alla vita in Comunità per questi fragili esseri viventi cercando di restituire loro ciò che hanno perduto, o mai avuto, cercando di costruire un percorso di affetti e di autonomia che possa incidere in maniera virtuosa sulla costruzione della loro identità e dignità di esseri umani. La legge sui minori stranieri non accompagnati contiene una parziale soluzione a questo problema, ma serve un passo ulteriore che modifichi sia l’istituto dell’affido che quello dell’adozione, prevedendo anche delle forme intermedie di assistenza che possano creare dei legami affettivi stabili, ma allo stesso tempo dinamici e che siano realmente in grado di colmare le lacune sentimentali e non solo, che questi minori hanno subito. *Avvocata - Direttore dell’Osservatorio sulle famiglie Quegli assurdi processi della giustizia militare fra brioche e risse ultrà di Nino Materi Il Giornale, 20 ottobre 2017 Quarantotto giudici inutili e costosi. In aula trattano casi veri, che sembrano barzellette. Sono casi entrati nella giurisprudenza. Che Gino Bramieri avrebbe certo apprezzato. Sentenze vere, ma così comiche da sembrare barzellette. Condannati due carabinieri che in “servizio d’ordine” allo stadio se le sono date di santa ragione perché opposti tifosi delle squadre in campo. Denunciato un sottufficiale che aveva scritto con lo spray sul muro della caserma: “Tua moglie è una gran p...”. Alla sbarra un caporale che aveva sottratto dal bancone del bar una brioche e un commilitone che “con mossa repentina ne ha mangiata una parte”: sotto processo entrambi, il primo per furto e il secondo per ricettazione “perché traeva profitto dal furto precedente”. Tenente a giudizio perché “rientrato in camerata entrando dalla finestra”, il suo permesso d’uscita non era stato autorizzato. Sono solo alcune delle sentenze emesse dai giudici militari, il cui “stupidario” dei verdetti che sembrano barzellette risulta particolarmente ampio e variegato. Mantenere in piedi il baraccone della magistratura con le stellette è come tenere aperto un’industria di stufe nel Sahara. Scelte lecite, per carità, ma assolutamente illogiche. Le toghe militari (competenti per i reati commessi da soldati e carabinieri) rappresenta infatti una micro-casta - superflua, ma tutelatissima - all’interno della maxi casta delle toghe. Tecnicamente anche i magistrati militari fanno parte di quel potere giudiziario che è, insieme a quello esecutivo e legislativo, uno dei tre capisaldi fondamentali su cui si fonda lo Stato. Ma se poi si va a comparare la magistratura ordinaria con quella militare, la differenza balza subito agli occhi: nel primo caso migliaia di processi all’anno, nel secondo a poche decine. Uno squilibrio evidente conseguenza del fatto che per gli attuali 48 giudici militari (operativi fra tre Procure di Verona, Roma e Napoli) la materia del contendere è scarsissima e spesso relativa a illeciti “bagatellari” che potrebbero essere assorbiti dai magistrati ordinari, o nei casi più irrilevanti addirittura dai giudici di pace. Del resto con l’abolizione nel 2005 del servizio di leva obbligatoria, il crollo dei contenziosi era inevitabile, ma la lobby ha tenuto duro. Riuscendo a mantenere tutte le prebende che consentono di fare, con ottimi stipendi e una vita di tutto riposo. Quasi di letargo, a rileggere oggi la coraggiosa confessione del 2007 dell’allora giudice militare Benedetto Manlio Roberti che sull’Espresso dell’8 febbraio scrisse testualmente: “Devo riconoscerlo, rubo letteralmente lo stipendio all’amministrazione (...) È ora di finirla con questa farsa. Qui non si lavora più e questa non è dignità”. Coerentemente a quanto denunciato il giudice Roberti ha chiesto e ottenuto il trasferimento nella magistratura ordinaria diventando nella Procura di Padova uno dei pm più impegnati soprattutto nel settore dei reati ambientali. Altri ex giudici militari colleghi di Roberti hanno seguito il suo esempio, ma molti altri hanno preferito continuare a godersi sonni tranquilli. Nel 2008 una riforma ha dato un serio taglio all’intero comparto della magistratura militare che però ancora oggi - se pur ridimensionata - continua ad avere un suo autonomo Csm (il Cmm), una sua Anm (l’Anmm), tre Tribunali, un Tribunale di sorveglianza, un Corte di Appello e una Procura Generale presso la Corte di Cassazione. Insomma, un perfetto - quanto pletorico - duplicato del già elefantiaco apparato della magistratura ordinaria. L’attuale ministro della Difesa, Roberta Pinotti, già 9 anni fa, in un’intervista del 3 giugno al Secolo XIX andava giù duro: “Abbiamo i processi più lenti d’Europa, mancano i giudici e ci permettiamo di mantenere decine di fannulloni forzati. Ci sono alcuni magistrati che giudicano indecoroso stare con le mani in mano e altri no. L’accorpamento dei tribunali comporterebbe un risparmio di oltre un miliardo di euro”. Oggi siamo nel 2017 e la casta dei giudici con le stellette non lascia, anzi rilancia: “La giustizia militare è storicamente uno degli orgogli del nostro Paese, nonostante la politica stia facendo di tutto per farci sparire”. Magari lo facesse davvero. Thyssen, condanne confermate. Ma i manager tedeschi restano liberi di Mirco Viola Il Manifesto, 20 ottobre 2017 Sentenza della Cassazione sul rogo che nel 2007 uccise sette operai. Il ministro della Giustizia Orlando ha chiesto che l’ex ad Espenhahn e il dirigente Priegnitz scontino la pena in Germania. Non ci sarà alcuna riduzione delle condanne inflitte ai manager della Thyssenkrupp - tra i quali l’ex amministratore delegato Harald Espenhahn - per il rogo avvenuto nel dicembre 2007 a Torino a seguito del quale morirono sette operai dello stabilimento siderurgico di Torino. Lo ha deciso la Cassazione respingendo i ricorsi straordinari presentati da quattro ex dirigenti dell’acciaieria contro il verdetto emesso dalla stessa suprema Corte il 13 maggio 2016. In particolare, la Cassazione ha dichiarato inammissibili i ricorsi con i quali si contestavano le condanne per omicidio colposo da parte dei difensori dell’ex ad Espenhahn (condannato a 9 anni e 8 mesi), e dei manager Gerald Priegnitz, Marco Pucci (entrambi 6 anni e 3 mesi) e Daniele Moroni (7 anni e 6 mesi). In questo modo i legali speravano di ottenere un alleggerimento delle pene. Nel verdetto depositato ieri, i supremi giudici sottolineano che le condanne definitive emesse dagli stessi giudici della suprema Corte nel maggio 2016 sono “conformi a legge e adeguatamente giustificate”. Secondo la Cassazione, in particolare, quella dell’ex ad e degli altri dirigenti è una “colpa imponente” tanto “per la consapevolezza che gli imputati avevano maturato del tragico evento prima che poi ebbe a realizzarsi, sia per la pluralità e per la reiterazione delle condotte antidoverose riferite a ciascuno di essi che, sinergicamente, avevano confluito nel determinare all’interno” dello stabilimento di Torino “una situazione di attuale e latente pericolo per la vita e per la integrità fisica dei lavoratori”. I giudici affermano inoltre che si tratta di “colpa imponente” anche per “la imponente serie di inosservanze a specifiche disposizioni infortunistiche di carattere primario e secondario, non ultima la disposizione del piano di sicurezza che impegnava gli stessi lavoratori in prima battuta a fronteggiare gli inneschi di incendio, dotati di mezzi di spegnimento a breve gittata, ritenuti inadeguati e a evitare di rivolgersi a presidi esterni di pubblico intervento”. I due manager tedeschi non hanno ancora scontato un giorno di carcere perché si attende che la giustizia tedesca, nonostante i solleciti inoltrati dall’Italia, recepisca con apposito procedimento le condanne. Nei loro confronti è stato emesso un mandato di cattura europeo che finora non ha avuto esecuzione. Nei primi mesi del 2017 l’Italia ha quindi chiesto all’autorità giudiziaria tedesca di riconoscere la sentenza e fare scontare in Germania la relativa pena a carico delle due persone coinvolte. E giovedì scorso è stato lo stesso il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, a chiedere formalmente al governo tedesco di dare esecuzione alla sentenza per i due dirigenti. Tra i condannati anche Raffaele Salerno (7 anni e 2 mesi) e Cosimo Cafueri (6 anni e 8 mesi) ma non hanno fatto ricorso. Pucci e Moroni, da giugno, hanno ottenuto 8 ore di permesso al giorno per uscire dal carcere di Terni e andare al lavoro. “Difendere i mafiosi non significa essere mafioso”. L’odissea di un avvocato di Locri di Simona Musco Il Dubbio, 20 ottobre 2017 “Sono un avvocato indagato a tempo indeterminato, intercettato da sette anni. Mi sono autosospeso dal Consiglio dell’ordine e ho chiesto di essere interrogato, ma ancora non mi hanno dato una risposta. Tutto questo mentre vogliono imporci il silenzio e l’obbedienza ai capi cosca partitici che inseriranno i loro compari e picciotti a rappresentare la Calabria in Parlamento”. Lo sfogo durissimo è dell’avvocato Giuseppe Mammoliti di Locri (che non ha alcun legame di parentela con l’omonimo clan) e che nei mesi scorsi è sceso in piazza, davanti ai suoi concittadini, a difendersi dalle accuse della Dda reggina. “Non sono e non mi sono mai sentito il Vito Ciancimino di Locri - ha spiegato. Non ho mai servito due padroni ma solo il popolo, coi miei modesti mezzi ma con la generosità verso gli altri”. L’accusa che gli viene mossa dalla procura antimafia è pesante: concorso esterno all’associazione mafiosa che, per anni, ha soffocato la città. I Cataldo e i Cordì, pezzi da novanta del crimine jonico, uniti in una pace di interessi dopo un’atroce faida iniziata negli anni 60. Mafiosi e presunti tali che Mammoliti, da penalista, ha difeso nei processi più importanti celebrati in Calabria. Per l’antimafia, l’avvocato avrebbe “concretamente contribuito, pur senza farne formalmente parte, al rafforzamento, alla conservazione ed alla realizzazione degli scopi” del clan, in quanto attraverso “uno stabile rapporto di tipo collusivo”, sfruttando il suo ruolo di avvocato, “comunicava e diffondeva notizie riservate”, grazie ad “appoggi e contatti presso soggetti istituzionali non identificati, relative ad indagini in corso ed a nuove collaborazioni di giustizia, veicolava all’esterno messaggi e comunicazioni provenienti dai soggetti detenuti, concordava e suggeriva strategie operative (esulanti da qualsivoglia mandato difensivo)”. Così avrebbe contribuito a rafforzare il potere dei Cataldo, dai quali avrebbe ricevuto, in cambio, “supporto nella consultazione elettorale comunale” del 2013. Le carte dell’inchiesta lo descrivono come un “riferimento” per il clan di cui fanno parte molti dei suoi assistiti. “Se lo fossi stato - spiega - non mi sarei dimesso sistematicamente da consigliere comunale. Io faccio l’avvocato, non ho mai fatto il socio sostenitore dei clan”. Un’attività, quella di avvocato, che gli ha anche impedito il tesseramento nel Pd, partito di cui ha sempre fatto parte, spesso in forte polemica col segretario della sua città, Giuseppe Fortugno, figlio dell’ex vicepresidente del Consiglio regionale barbaramente ucciso durante le primarie dell’Unione nel 2005. “Mi è stata negata l’iscrizione perché difendo i mandanti, secondo un giudicato definitivo per il quale è in corso un’attività di revisione, dell’omicidio Fortugno”, ha denunciato. Si definisce “uno che non ha mai saputo approfittare della situazione” e “in simbiosi con chi ha avuto più bisogno, chi è stato ai margini e non chi si accingeva ad entrare nelle patrie galere”. La Procura è però convinta che Mammoliti abbia beneficiato dei suffragi del clan Cataldo, diventando per loro un alleato. Lui, però, si sente un riferimento solo “per gli ultimi”: “non ho aiutato il clan ma qualche povero disgraziato sotto usura a fare la spesa o a pagare i conti”. E, spiega, vuole continuare a farlo, così come non rinuncia alle sue vesti di avvocato. Ma solo una volta terminato il processo, se ci sarà. “Attendo di essere sentito dai pm - conclude. Intanto chiarisco questo: non ho passato informazioni al clan sugli arresti, mi sono limitato a riferire quanto dichiarato dal procuratore antimafia in un’intervista del 14 dicembre 2014 su imminenti blitz. È di quelli che io parlo. Del resto non so nulla”. Bancarotta patrimoniale con aggravante se il danno ai creditori è di grande entità di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 20 ottobre 2017 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 19 ottobre 2017 n. 48203. Nel reato di bancarotta patrimoniale la circostanza aggravante del danno di rilevante entità non è configurabile anche in presenza di numerosi beni sottratti all’esecuzione concorsuale senza, però, che il tutto abbia comportato delle ripercussioni altrettanto rilevanti in capo ai creditori. Quindi - si legge nella sentenza della Cassazione n. 48203/17 - se per la particolare condizione patrimoniale della fallita, da un fatto di bancarotta patrimoniale di rilevante entità, non sia derivato un danno anch’esso di rilevante gravità non può dirsi integrata la circostanza aggravante ex articolo 219, comma 1, della legge fallimentare. La Corte ha puntualizzato, infatti, che il giudizio relativo alla particolare tenuità o gravità del fatto non si riferisce al singolo rapporto che sussiste tra il fallito e il creditore ammesso al concorso, ma si deve riferire alla diminuzione patrimoniale procurata ai creditori dal fatto di bancarotta. Così il giudizio sulle due circostanze non può essere riferito a singole operazioni commerciali o speculative dell’imprenditore decotto, ma va posta in relazione alla diminuzione non percentuale, ma globale che il comportamento del fallito ha provocato nella massa attiva che sarebbe stata disponibile per il riparto qualora non si fossero verificati gli illeciti. La Corte, peraltro, ha fornito anche ulteriori chiarimenti sull’elemento della fraudolenza che può ricorrere nella bancarotta. A tal proposito i Supremi giudici hanno spiegato come la fraudolenza non possa essere genericamente confusa con la nozione di dolo specifico proprio perché per integrare la fattispecie è sufficiente il dolo generico. Ciò che, invece, rileva ai fini della configurabilità dello specifico reato è che la condotta sia “cum fraude” ossia con la consapevolezza di dare al patrimonio sociale o a talune attività una destinazione diversa rispetto alle finalità dell’impresa e di compiere comunque atti che cagionino o possano cagionare un danno ai creditori. Non si può parlare, pertanto, di bancarotta fraudolenta quando ci sia una consapevolezza dello stato di insolvenza dell’impresa. Occorre, invece, che il soggetto agente abbia contezza della pericolosità distrattiva, da intendersi come probabilità dell’effetto depressivo sulla garanzia patrimoniale che la stessa è in grado di determinare e dunque della consapevole volontà del compimento di operazioni sul patrimonio sociale o su talune attività idonee a generare un danno ai creditori. Si legge, poi, nella decisone come sia da accogliere il motivo di appello con cui viene denunciata una carente ricostruzione da parte del giudice di merito, dei connotati delle operazioni sotto il profilo della mancanza del corrispettivo o della corresponsione di un prezzo “vile”. E ciò solleva inevitabilmente il problema in ordine alla qualificazione del fatto in termini di distrazione ovvero di dissimulazione. La sentenza quindi rinvia la questione al giudice di merito perché possa fornire una ricostruzione più puntuale della vicenda e considerare così la presenza o meno dell’aggravante e della fraudolenza. Giudice di pace competente per gli incidenti stradali “a cavallo” della nuova normativa di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 20 ottobre 2017 Corte di cassazione, sentenza 19 ottobre 2017, n. 48249. Spetta al Giudice di pace la competenza sui reati di lesioni personali gravi e gravissime per incidenti stradali accaduti prima della legge sull’ omicidio stradale. Ciò vale anche quando l’azione penale è iniziata dopo il cambio di normativa. Lo ha chiarito la Prima sezione penale della Cassazione, con la sentenza 48249/2017. La legge (la 41/2016) ha introdotto anche il reato di lesioni personali stradali (articolo 590-bis del Codice penale), con un inasprimento di pene tale da spostare la competenza dal Giudice di pace al Tribunale. La vicenda che ha richiesto il chiarimento riguarda un incidente di marzo 2014, cioè due anni prima della legge in questione. All’epoca, il reato era quello di lesioni personali aggravate dalla violazione del Codice della strada (articolo 590 del Codice penale), di competenza del Giudice di pace. Ma il decreto di citazione diretta in giudizio dell’imputata era datato giugno 2016, quindi posteriore alla nuova legge. Il procedimento era così iniziato nel Tribunale, che si è dichiarato incompetente. Altrettanto ha poi fatto il Giudice di pace. Secondo il Tribunale, le modifiche introdotte dalla legge 41/2016 hanno natura “essenzialmente sostanziale”. Quindi, il fatto che sia consentita la citazione diretta indica solo che si può seguire questo rito “semplificato” e non fissa la competenza del Tribunale. L’argomentazione del Giudice di pace era invece che la fattispecie sostanziale era già prevista dal Codice penale, per cui la legge 41 interveniva soprattutto sul piano processuale, modificando le competenze. Si portava come esempio il cambio intervenuto nel 2003, quando il Dl 151 assegnò al Tribunale i processi per guida in stato di ebbrezza. La Cassazione dà ragione al Tribunale, perché ritiene che la situazione sia analoga a quella che si presentò nel 1992, quando furono inasprite le pene sull’usura. All’epoca la Corte decise in base all’articolo 2 del Codice penale, che vieta la retroattività di “norme sostanziali meno favorevoli all’imputato” (sentenze 794/1997, 6074/1994 e 1878/1993). Dunque, le pene per fatti precedenti restavano quelle originarie e non scattava la competenza del Tribunale. Anche il nuovo articolo 590-bis ha rilievo sostanziale. Non solo perché prevede pene più alte, ma anche perché la legge 41/2016 che lo ha introdotto non ha modificato l’articolo 4 del Dlgs 274/2000 (che regola la competenza). Per cui il passaggio di competenze è conseguenza del solo inasprimento di pena. E non vale citare il Dl 151/2003, che invece modificava espressamente la competenza. Sicilia: carceri fatiscenti, carenza di personale e assistenza sanitaria insufficiente di Gianluca Caltanissetta livesicilia.it, 20 ottobre 2017 Giovanni Fiandaca da un anno è il garante dei detenuti in Sicilia, ruolo che era rimasto vacante nei tre anni precedenti. Ieri ha illustrato in conferenza stampa le criticità del mondo carcerario siciliano, una fotografia in chiaro scuro, che evidenzia un dato in linea con quello nazionale, ma che non nasconde le sofferenze del settore. Le ha messe nero su bianco nella relazione annuale, relativa al periodo che va da giugno 2016 a giugno 2017. In linea generale, nelle carceri siciliane non si vive peggio che nel resto d’Italia. La Sicilia è la terza regione italiana per popolazione carceraria, dietro a Lombardia e Campania con 6.184 detenuti, il 10% del totale. Di questi 1.216 sono stranieri (19,66%). Dei 23 istituti penitenziari siciliani, dislocati in tutte e 9 le province, 18 sono case di reclusione, che ospitano detenuti non condannati in via definitiva, e cinque sono strutture in cui si dovrebbe esercitare l’attività rieducativa. Il più grande è il carcere Pagliarelli di Palermo, che ospita 1.300 detenuti, mentre all’Ucciardone sono presenti 340 unità. Seguono le strutture con una popolazione medio alta, tra 500 e 600 unità, come Siracusa e Trapani, e quelle più piccole come Termini Imerese, con circa 80 detenuti. Troppe per visitarle tutte in un anno, confessa Fiandaca. In base alla normativa disposta dal Dap, infatti, il Garante è l’unico autorizzato a entrare nelle carceri, anche senza permesso, e non può delegare nessun componente dell’ufficio. Ma promette che “da fine ottobre riprenderò le visite”. L’aspetto che preoccupa di più resta quello sanitario. Una criticità acuita dal passaggio delle competenze alle Aziende sanitarie provinciali. Fiandaca sul punto chiede una continuità dell’assistenza da parte dei medici delle Asp, che garantisca una maggiore conoscenza delle condizioni dei soggetti. E poi un supplemento di attenzione ai detenuti con problemi psichiatrici e psicologici, che hanno fatto registrare un picco negli ultimi anni. Per fare un esempio al Pagliarelli sono quasi la metà della popolazione carceraria. Un altro fattore di criticità è quello legato agli aspetti logistici e strutturali delle carceri. Secondo la relazione, molte richiederebbero interventi di ristrutturazione e recupero. Ma, nonostante le richieste reiterate, “la politica di spending review non ha consentito risposte adeguate dal Ministero o dal Dap”. Come ad Agrigento, dove ci sono infiltrazioni di acqua. O al Pagliarelli, che fa registrare un numero insufficiente di caldaie “e i detenuti non possono fare la doccia calda ogni giorno”. E poi c’è la carenza del personale. “Gli agenti di custodia sono quelli più vicini ai detenuti e ho avuto complessivamente un’impressione positiva. La loro sensibilità è molto migliorata rispetto al passato. Ma sono in numero insufficiente, hanno un carico di lavoro eccessivo e svolgono un ruolo molto stressante”. Il Garante dei diritti dei detenuti lamenta di avere poche armi per contrastare i tanti problemi che investono il settore: “Non posso emettere provvedimenti autoritativi. Ho un potere di sollecitazione e di interlocuzione con i direttori delle carceri, con i magistrati o con le autorità sanitarie. Posso solo sottoporre loro i problemi avanzati dai detenuti”. E smentisce anche il luogo comune che vorrebbe i detenuti vittime di violenze e abusi. “Non ricevo molte denunce, anzi sono quasi nulle. Questo non vuol dire che non ci siano. Noi in criminologia parliamo di cifra oscura, episodi che non vengono denunciati o perché c’è un clima omertoso o perché il detenuto ha paura a denunciare perché teme ritorsioni”. Personale insufficiente anche tra le fila degli educatori che “in seguito alla redistribuzione del personale, sono diminuiti anche nelle carceri più grandi. E non si fanno concorsi da tempo”. Fiandaca avanza una proposta: creare un servizio di volontariato giuridico nelle carceri, costituito da giovani avvocati, magistrati e studenti con l’obiettivo di sensibilizzare i detenuti sul tema dei propri diritti. La maggior parte delle richieste che arrivano sul tavolo del Garante riguardano però il trasferimento in altre carceri, per motivi di salute o più spesso per “ricongiungimento familiare”. Non tutti i detenuti infatti sono siciliani, molti ad esempio sono camorristi, e richiedono un avvicinamento nella regione di residenza della famiglia. Famiglie che spesso, per problemi economici, non riescono a far fronte alle spese di viaggio. “I trasferimenti tra le Regioni - conclude Fiandaca - sono i più difficili da ottenere. È più facile avere quelli temporanei, ma determinano molta frustrazione nel detenuto che non ne comprende la motivazione”. Napoli: Poggioreale e Secondigliano, carceri vicine ma opposte di Fabrizio Ferrante lavocedelquartiere.it, 20 ottobre 2017 Le tante sfide che attendono le nuove direttrici. Nelle ultime settimane è tornata alla ribalta la realtà carceraria napoletana. Merito delle numerose iniziative poste in essere da diversi movimenti politici e associazioni: da Radicali Italiani alla Camera Penale, da Arcigay a De.Ma. passando per Gioco di Squadra fino agli ex detenuti organizzati e all’ex Opg occupato, solo per citare alcuni. Ma cosa lasciano, al di là dei freddi numeri, le visite ispettive effettuate nei giorni scorsi? Solo per restare a Napoli, salta agli occhi la differenza fra il carcere di Secondigliano e quello di Poggioreale. Ad accomunare i due istituti, la fase di transizione con le due direttrici in pectore (Maria Luisa Palma a Poggioreale, Giulia Rossi a Secondigliano) destinate a trovarsi dinanzi a problemi incomparabili. I parametri per giudicare l’efficienza di un carcere possono essere diversi ma prendendone alcuni come il sovraffollamento, il rispetto della sentenza Torregiani, le condizioni igieniche, quelle dei malati, la rieducazione e il tempo che si trascorre in cella, è possibile quanto meno farsi un’idea della situazione. Partendo dal sovraffollamento, persiste la strutturalità del fenomeno con le capienze delle singole strutture sempre considerate come la metà rispetto a quanti detenuti possono essere ospitati. Così a Secondigliano vivono oltre 1.300 persone in non più di 800 posti progettati e a Poggioreale 2.210 detenuti su una capienza regolamentare di 1637. Vero che in passato si è stati in presenza di numeri peggiori ma il fenomeno sta tornando, specialmente a causa dell’innalzamento delle pene minime edittali anche per reati minori e della quasi totale assenza di misure alternative alla detenzione. Fenomeno che diventa ancora più preoccupante quando ci si imbatte in una moltitudine di detenuti in attesa di giudizio, talvolta costretti ad aspettare interi mesi prima di un’udienza. Problema questo particolarmente avvertito a Poggioreale che, in qualità di casa circondariale, sarebbe un punto di passaggio reso però permanente, o quasi, a causa dei tempi lunghi per la celebrazione dei processi. Il sovraffollamento incide sul rispetto della sentenza Torreggiani: sia a Secondigliano che a Poggioreale affermano di garantire tre metri di superficie calpestabile a ogni detenuto nella propria cella, al netto di letto e mobili. Se a Secondigliano ciò appare effettivamente rispettato, vi sono padiglioni a Poggioreale dove appare ancora palese la violazione della sentenza. Le condizioni del padiglione Milano sono a dir poco drammatiche, un padiglione divenuto tristemente noto per celle che ospitano fino a nove detenuti in spazi ridottissimi e, finanche a occhio nudo, incompatibili con quanto stabilito dalla Cedu. Cedu che, urge sempre ricordarlo, nel 2013 ha parlato apertamente di “trattamenti inumani e degradanti” nelle carceri italiane. La buona notizia è che, sia a Secondigliano che a Poggioreale, le capienze saranno aumentate: di 150 unità a Secondigliano nel reparto Ionio e di 70 a Poggioreale con l’attesa apertura del padiglione Genova. Un’emergenza destinata sì ad alleggerirsi ma non ad essere risolta in assenza di investimenti, da qui il dito puntato da un agente di Poggioreale contro il Provveditorato per le Opere Pubbliche, colpevole di tenere bloccati 15 milioni già stanziati per l’edilizia carceraria e le ristrutturazioni. Il combinato disposto fra sovraffollamento e una struttura ottocentesca, non può che produrre muffe, insetti, pareti talmente malmesse che i detenuti hanno dovuto tappezzarle coi giornali, e servizi igienici posti a pochi passi dalle stoviglie e dalla zona cucina. Servizi igienici che, a chiamarli tali, risulta quasi eufemistico. Come hanno mostrato i detenuti di Poggioreale a chi si è recato nei giorni scorsi in visita nelle loro celle. Problemi che a Secondigliano, da questo punto di vista, non hanno ma che a Poggioreale continuano a far porre il quesito se tale struttura sia ancora al passo coi tempi. Condizioni degradate che possono portare i detenuti ad entrare sani in carcere per poi ammalarsi. Non è affatto raro imbattersi in detenuti palesemente sofferenti, chi immobile sul proprio letto, chi con l’asma e patisce l’aria umida e pesante, chi con le stampelle, rinchiusi ad attendere per mesi una visita o un ricovero in padiglioni comuni e non nel centro clinico o in ospedale. Una realtà tristemente nota a Poggioreale che, ancora una volta, vede in Secondigliano una sorta di mondo opposto, laddove abbondano cure e specialisti. Discorso a parte per i malati psichiatrici e gli ex pazienti dell’Opg, costretti ancora a vivere in carcere per la mancanza di strutture d’accoglienza o per le carenze di sorveglianza delle Rems. Notizie di tutt’altro segno per quanto riguarda il tempo che i detenuti trascorrono al di fuori della cella con le otto ore al giorno (una mezz’ora in più a Secondigliano) fra passeggio, socialità e attività, garantite sia a Poggioreale che a Secondigliano. In questo senso si sono ottenuti passi in avanti a livello di offerta formativa sia per quanto concerne l’istruzione che l’avviamento al lavoro. Merito di gestioni passate che hanno visto impegnate professionalità importanti. Innegabile in questo senso il lavoro di Antonio Fullone. L’ex direttore di Poggioreale, ora Provveditore per le carceri di Umbria e Toscana, ha favorito un nuovo rapporto fra detenuti, struttura e perfino agenti, con l’implemento delle attività anche grazie alle cooperative e alle associazioni che in carcere lavorano. Terzo settore che di fatto supplisce alla totale assenza di investimenti pubblici. Resta sempre il fatto che per rieducare e coinvolgere tutti i detenuti occorrerebbero sforzi maggiori che i singoli direttori non possono sostenere. La presenza di soli 16 educatori a Poggioreale, uno ogni 150 detenuti, è un dato eloquente come quello sulle quote di ristretti ammessi a corsi abilitanti, riservati a poche decine di “fortunati”. Dato che può sovrapporsi a quello, analogo, della carenza di agenti penitenziari che sono sempre al di sotto rispetto a quanto prevedono le piante organiche, sia a Poggioreale che a Secondigliano, con gli sforzi del caso a cui i poliziotti sono costretti. La realtà carceraria napoletana è in transizione, dopo la recente nomina di Samuele Ciambriello come nuovo garante dei detenuti della Campania al posto della compianta Adriana Tocco (persona vicina ai detenuti come poche, difficile da sostituire per chiunque) non resta che attendere il corso che intraprenderanno le carceri cittadine con l’avvento delle nuove direttrici. E, perché no, auspicare in un buon lavoro data l’enorme mole di problemi che, specie a Poggioreale, vanno affrontati. Auguri. Palermo: il Garante Fiandaca “metà dei detenuti del Pagliarelli ha problemi psichiatrici” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 ottobre 2017 Aumento dei detenuti con patologie psichiatriche negli istituti carcerari siciliani, insufficiente numero di educatori e psichiatri, diverse problematicità strutturali dei penitenziari. È il rapporto annuale del Garante dei detenuti della regione Giovanni Fiandaca illustrato in una conferenza stampa. Ricordiamo che il giurista Giovanni Fiandaca è stato nominato Garante dei detenuti nell’aprile del 2016 dal presidente della regione Sicilia Rosario Crocetta: per tre anni l’ufficio del garante era rimasto senza nomina, ma continuava a mantenere nove dipendenti (come documentato nel dossier Viaggio nella babele dei garanti, curato da Laura Arconti, e pubblicato sul Dubbio il 13 aprile del 2016). Il Garante ha spiegato che la relazione scritta l’aveva già inviata al parlamento regionale e alla presidenza del governo regionale come previsto dalla normativa istitutiva del suo ufficio. “La relazione - ha precisato Fiandaca - l’ho presentata i primi di agosto, avrei dovuto illustrala oralmente al parlamento siciliano, ma a causa della chiusura dei lavori determinata dalla scadenza elettorale, non ho potuto adempiere a questo impegno”. Alla conferenza era presente anche una delegazione del comitato “Esistono i Diritti” che aveva chiesto più volte al presidente Crocetta di far sapere l’esito del lavoro svolto dal Garante e qualche giorno fa ha manifestato davanti all’ufficio della Presidenza. In Sicilia, si legge nella relazione, ci sono 23 istituti penitenziari, dislocati in tutte le nove province, e 6.184 detenuti, circa il 10% della popolazione (57mila unità) complessivamente detenuta nelle carceri italiane. L’isola si colloca così al terzo posto per popolazione penitenziaria dopo la Lombardia e la Campania. I detenuti stranieri nell’isola sono 1.216 (19,66%), meno che in altre regioni, come la Lombardia e l’Emilia Romagna, dove la media invece risulta maggiore. Dei 23 istituti penitenziari siciliani su cui il Garante ha competenza, 18 sono case di reclusione, ovvero concepite per ospitare detenuti non condannati in via definitiva, e cinque sono case di detenzione e, ha sottolineato Fiandaca, “sono quegli istituti in cui, in linea teorica, dovrebbe esercitarsi l’attività rieducativa”. Il Garante ha aggiunto: “In linea generale possiamo dire che le carceri quanto più sono piccole tanto meno sono dotate di strutture. Le strutture piccole però possono avere il vantaggio di realizzare condizioni di vita di tipo comunitario e il personale penitenziario ha la possibilità di conoscere meglio i singoli detenuti e instaurare rapporti di tipo personale”. Il più grande è il carcere Pagliarelli di Palermo che ospita 1.300 detenuti, ed è proprio questo grande istituto che risulta avere quasi il 50 per cento della popolazione detenuta sofferente di patologie psichiatriche. Fiandaca ha sottolineato come nelle carceri siciliane sia “cresciuto il fabbisogno di assistenza psichiatrica e sono aumentati i detenuti con disturbi, o come conseguenza della condizione carceraria, o le cui condizioni si sono aggravate dopo la detenzione”. Ha invitato le aziende sanitarie provinciali “a prestare particolare attenzione nel mettere a disposizione un numero idoneo di medici psichiatrici”. Insufficiente, per Fiandaca, anche “il numero degli educatori a disposizione delle carceri. Non si fanno concorsi da tempo - ha sottolineato - ma si tratta di figure fondamentali per il trattamento psicologico dei detenuti. Si devono mettere in campo risorse umane e materiali per far sì che l’obiettivo della rieducazione e della riabilitazione da retorica si trasformi in tentativo concreto”. Reggio Emilia: problemi nelle carceri, la senatrice Mussini “interroga” il ministro di Simone Russo 7per24.it, 20 ottobre 2017 In una situazione già difficile per le carceri emiliane, a Reggio potrebbero aumentare i detenuti affetti da malattia mentale. È una situazione preoccupante, visto che gli organici degli addetti al settore risultano già al 31 dicembre scorso molto inferiori alla pianta organica prevista. Proprio per affrontare il problema, la senatrice Maria Mussini ha presentato, come prima firmataria assieme da altri colleghi, una interrogazione parlamentare ad hoc. I numeri che descrivono la situazione sono impressionanti, anche nel caso di Reggio Emilia: “il sistema penitenziario dell’Emilia-Romagna - si legge nell’interrogazione - è, ormai da tempo, al collasso, in primo luogo a causa delle severe carenze nell’organico della Polizia penitenziaria e degli educatori in servizio presso le locali case circondariali, pur a fronte di un tasso di sovraffollamento che, al 31 dicembre 2016, ammontava al 122 per cento (…); secondo i dati pubblicati dal Ministero della giustizia, al 31 gennaio 2017 gli agenti di Polizia penitenziaria in servizio presso la casa circondariale “Rocco Damato” di Bologna erano solo 403 rispetto ai 552 previsti (…); la stessa situazione, alla medesima data, si registrava anche negli istituti di Parma (308 agenti effettivi a fronte dei 461 previsti, 6 educatori su 9 e 594 detenuti rispetto ai 468 posti regolamentari) e Reggio Emilia (129 agenti effettivi rispetto ai 245 previsti, 5 educatori su 10 e 354 detenuti su 304 posti regolamentari)”. La situazione aumenta la tensione interna alle carceri: “proprio a causa delle insostenibili condizioni di vita intramuraria, nel 2017 sono raddoppiati i casi di suicidio nelle carceri emiliane rispetto al 2016, ed al loro interno si sono registrati gravissimi episodi di violenza, come la sommossa nell’istituto di Reggio Emilia del 24 luglio, quando 5 detenuti hanno dapprima devastato i bagni di un’area comune, minacciando gli agenti di custodia in servizio con le macerie dei locali distrutti”. La già rilevante “carenza nel personale penitenziario e sanitario operante all’interno delle strutture detentive emiliane - si legge nell’interrogazione - ha subito un ulteriore peggioramento sia a seguito della chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari in favore delle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza in attuazione della cosiddetta legge Marino (…) posto che le Regioni, piuttosto che aumentare il numero degli operatori del settore, si sono limitate a dislocare il personale già in servizio nelle strutture di nuova costruzione, aggravando il deficit preesistente”. Su Reggio c’è una situazione di particolare gravità: “a seguito della definitiva chiusura dell’ex ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia e della conseguente unione al plesso della locale casa circondariale, la capacità dei ‘nuovi’ istituti penali di Reggio Emilia verrà ampliata di 134 posti regolamentari; in una parte della struttura che ospitava l’ex Opg di Reggio Emilia sono state realizzate due sezioni destinate all’articolazione per la tutela della salute mentale, istituita con decreto ministeriale 28 maggio 2015, già attive per 50 posti, e nelle quali, a quanto risulta, sarebbero destinati detenuti con disturbi mentali provenienti da tutta Italia, così da divenire la prima articolazione sanitaria interregionale, con ulteriore aggravio del numero dei detenuti sul territorio emiliano”. Sono quattro le domande principali che emergono dall’analisi della situazione: “Quale sia, ad oggi, la destinazione di servizio di tutti quegli agenti di Polizia penitenziaria di cui gli organici regolamentari di ogni singolo istituto detentivo emiliano risultano carenti; quale sarà, in concreto, la destinazione dei nuovi posti creati a seguito dell’ampliamento della casa circondariale di Reggio Emilia, al netto di quelli già destinati all’articolazione per la tutela della salute mentale; se sia vero che in quest’ultima confluiranno detenuti provenienti da tutta Italia, con conseguente aumento della popolazione carceraria emiliana; quanti agenti di Polizia penitenziaria, tra gli 887 nuovi assunti, verranno destinati in servizio negli istituti dell’Emilia-Romagna”. Imperia: i Radicali in visita al carcere “approvare subito i decreti per la riforma dell’Op” riviera24.it, 20 ottobre 2017 Una delegazione del Partito Radicale visiterà domani il carcere di Imperia, al mattino a partire dalle 9 e quello di Sanremo a Valle Armea alle 14. Le Case circondariali imperiesi rientrano nel quadro degli interventi dei Radicali Italiani, assieme ad altre 33 carceri che sono e saranno visitate nel mese di ottobre. Saranno presenti: da Genova, Stefano Petrella, Tesoriere del Gruppo Radicale Graf; da Imperia, Gian Piero Buscaglia, Segretario della stessa associazione locale riconosciuta, che donerà una valigia di fumetti agli internati, che potranno così evadere, almeno con la fantasia: entrambi sono abilitati a entrar nelle due carceri in compagnia, probabilmente, di un parlamentare o consigliere regionale ligure; sempre da Imperia, Dario Belmonte, Tesoriere nazionale dell’Associazione Radicale Certi Diritti, che proverà a organizzare un’eventuale, breve conferenza stampa, se i tempi piuttosto contingentati lo consentiranno. “Come da consuetudine, i Radicali si occupano di carceri - è scritto nella nota, entrando fisicamente in tali realtà con iniziative autonome o insieme a parlamentari o consiglieri regionali, “Carovane della Giustizia”, mobilitazioni a tappeto per dozzine di visite concordate con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, e “Grandi Satyagraha” (letteralmente: insistenza per la verità, metodo di opposizione politica propugnato da Gandhi), in continuità con i digiuni portati avanti da Marco Pannella. Lo scopo - proseguono i Radicali - è quello di sollecitare l’approvazione dei decreti attuativi della Legge Delega di Riforma dell’Ordinamento penitenziario, come promesso ed assicurato dal Ministro Andrea Orlando… “entro l’estate”, ormai trascorsa: manca tutto ciò che riguarda le condizioni interne dei detenuti e la possibilità di accesso alle misure esterne alternative; il 19 Giugno il Ministro si era impegnato ad approntare tale riforma entro il mese di Agosto. Le carceri sono lo specchio delle questioni aperte nel Paese: perciò Rita Bernardini porta avanti, insieme a centinaia di detenuti, un digiuno a staffetta per rimuovere lo stato di illegalità vigente nei nostri istituti. Al contempo, la mobilitazione radicale rilancia la battaglia sul fronte della Giustizia, non una battaglia a sé, ma che racchiude e riflette le principali questioni aperte nel Paese: l’antiproibizionismo sulle droghe, l’immigrazione, la povertà. Secondo i dati del Dap - evidenziano i Radicali, un terzo della popolazione reclusa sconta una pena per reati legati alla droga, e la stragrande maggioranza ha problemi di dipendenza; una realtà dai costi sociali, sanitari ed economici altissimi e dalle gravi conseguenze sotto il profilo del sovraffollamento carcerario e per il funzionamento della Giustizia. Una grande riforma antiproibizionista eviterebbe anche tantissimi dei procedimenti che oggi ingolfano la macchina della Giustizia e colpiscono anche giovani e giovanissimi. Le pessime condizioni di vita nelle carceri italiane sono costantemente oggetto di denunce da parte di organismi internazionali, come quella contenuta nel recente rapporto del Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa che, nel corso delle visite ispettive, ha accertato gravi violazioni dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo sul divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti: una grave violazione della legalità costituzionale, che mina le fondamenta stesse dello Stato di Diritto nel nostro Paese”. Firenze: caso Magherini, confermate le condanne per i tre carabinieri di Luca Serranò La Repubblica, 20 ottobre 2017 Omicidio colposo per i militari nei confronti del quarantenne che perse la vita a San Frediano nel 2014 durante un controllo: la corte di appello di Firenze ribadisce la sentenza di primo grado. La corte di appello di Firenze ha confermato la sentenza di primo grado per la morte dell’ex calciatore Riccardo Magherini, con alcune significative differenze in favore delle parti civili. Al termine del processo di primo grado il giudice Barbara Bilosi aveva condannato per omicidio colposo tre carabinieri: Vincenzo Corni a otto mesi di reclusione, Stefano Castellano e Agostino Della Porta a sette mesi, assolvendo invece un quarto carabiniere, Davide Ascenzi, e le volontarie della Croce Rossa Claudia Matta e Janeta Mitrea. La corte di appello - composta da tre giudici donne, Luisa Romagnoli, Anna Favi e Paola Masi - ha confermato condanne e assoluzioni ma ha modificato le statuizioni in favore delle parti civili, stabilendo in particolare un risarcimento immediato di 100 mila euro in favore del bambino di Magherini e cifre cospicue anche in favore degli altri familiari. Inoltre la corte ha disposto la restituzione degli atti al pm perché proceda eventualmente per il reato di abuso di autorità contro arrestati o detenuti. La notte del 3 marzo 2014 Riccardo Magherini, 40 anni non ancora compiuti, in preda a un delirio verosimilmente scatenato da assunzione di alcol e cocaina, credendo di essere inseguito e temendo di essere ucciso, dopo aver compiuto alcuni gesti inconsulti fu bloccato dai carabinieri, ammanettato e immobilizzato a terra a faccia in giù. Per qualche minuto invocò disperatamente aiuto, poi restò immobile e silenzioso, stroncato da un arresto cardio-respiratorio che fu riconosciuto troppo tardi, non dal primo equipaggio inviato dal 118 e composto da volontari, ma dall’automedica inviata in seconda istanza, quando ormai era troppo tardi. Biella: “Mura-Less”, un ponte tra carcere e comunità centroterritorialevolontariato.org, 20 ottobre 2017 Sabato 21 ottobre un incontro tra carcere e comunità esterna, grazie al progetto “Mura-Less” che ha creato un ponte tra il dentro e il fuori. Il progetto Mura-Less è il primo passo di un percorso di avvicinamento tra “interno ed esterno”, tra l’istituto carcerario e la città, con l’obiettivo di sensibilizzazione della cittadinanza sul tema della detenzione e l’evento di sabato 21 ottobre sarà la presentazione di questo percorso di lavoro di fronte alla cittadinanza. Il progetto ha coinvolto infatti numerose realtà attive sul territorio, le quali, nell’arco di quattro mesi, hanno dato vita a due gruppi di lavoro misti tra detenuti e volontari che, coordinati da professori del liceo artistico Giuseppe & Quintino Sella e Cpia Biella-Vercelli, hanno raccolto e condiviso idee sul tema “Un ponte tra l’interno e l’esterno”, preparato i bozzetti e realizzato due murales all’interno del carcere. Contemporaneamente, i due gruppi hanno ideato una installazione tra portare all’esterno del carcere, proprio a rappresentare questo desiderio di collegamento e di dialogo. E proprio questa installazione sarà al centro dell’evento di sabato 21 ottobre (v. Programma), che proporrà laboratori e momenti di cultura e divertimento. Nell’arco del pomeriggio ci saranno inoltre gli interventi istituzionali di: Sonia Caronni, Garante Comunale delle persone private della libertà personale; Antonella Giordano, Direttrice della Casa Circondariale di Biella; Andrea Pistono, Presidente del Centro Territoriale per il Volontariato di Biella e Vercelli Gli enti promotori: Associazione Ricominciare, Casa Circondariale di Biella, Centro Territoriale per il Volontariato Biella e Vercelli e Garante delle persone private della libertà personale del Comune di Biella, in collaborazione con CPIA, Liceo Artistico G. e Q. Sella, Associazione Amici del Vernato Biella, Associazione Banda Musicale Vandornese, Associazione il Centuplo, Associazione Vocididonne, Associazione Zaccheo, Better Places Hydro, Caritas Biella, Crivop, Cappellano della Casa Circondariale di Biella, Odv Il Naso in Tasca, Odv Incontromano. Catania: “detenuti non mollate”, lo Spazio Libero Cervantes sul problema carceri Corriere del Sud, 20 ottobre 2017 “La nostra azione vuole difendere la dignità dell’uomo, elemento imprescindibile. L’essere colpevole, condannato o carcerato in generale non può far venire meno la dignità di essere umano: sovraffollamento, suicidi e morti sono solo alcuni dei problemi che vivono i detenuti, ma anche chi in carcere ci lavora” scrive in una nota lo Spazio Libero Cervantes. “Sono sempre più frequenti i casi di suicidio tra le guardie carcerarie, o in generale degli operatori del sistema carcerario, indice di un sistema al collasso”. “Dal canto nostro sappiamo bene che la sensibilizzazione della società riguardo agli emarginati, al carcere e alla devianza, è un’impresa faticosissima, e anche per questo proseguiamo con maggiore determinazione il nostro percorso”. Lo Spazio Libero Cervantes ha iniziato a trattare la situazione carceraria qualche anno fa con l’On. Fleres e la scorsa estate con Totò Cuffaro durante la tre giorni di Magmatica. “Oggi vogliamo mandare un messaggio semplice ai detenuti ma speriamo possa essere di grande conforto: “non mollate” (come scritto negli striscioni)”. “Questa società che condanna prima di verdetti dei giudici e non toglie il peso di una pena anche se espiata non ci piace. Pensiamo che bisogna costruire le occasione di riscatto per chi era un “nemico” ed ha smesso di esserlo e affermare il principio di carcere come luogo di rieducazione e non di condanna a morte”. “Occorre fare i conti con l’eccessiva lentezza della giustizia, che contribuisce al sovraffollamento delle carceri che conta una popolazione di detenuti fatta da quelli in attesa di primo giudizio, alla quale si affianca quella degli imputati ricorrenti condannati in primo grado ed in attesa di giudizio di appello e i detenuti che hanno subito condanna definitiva in Cassazione: il numero che viene fuori è al di sopra delle possibilità delle strutture. Questo dato si traduce spesso in condizioni disumane e morte. Il dato che ci allarma maggiormente, infatti, sono i 978 suicidi sui 2705 detenuti morti dal 2000 al 7 ottobre”. Parma: “Il Re si diverte” va in scena in carcere con i detenuti sul palco comune.parma.it, 20 ottobre 2017 Il carcere di Parma ieri ha aperto le porte ai cittadini che hanno così potuto assistere all’esito finale del percorso teatrale svolto in questi mesi, sotto la guida di Carlo Ferrari e Franca Tragni che ne hanno curato adattamento e regia. Lo spettacolo rientra nel calendario Verdi Off, nell’ambito degli eventi legati al Festival Verdi. Il direttore della Casa Circondariale Carlo Berdini ha salutato il numeroso pubblico presente in sala: “Aprire il carcere alla città ed in particolare a persone esterne facendole partecipare all’esito finale di un percorso teatrale partecipato con costanza da un gruppo di detenuti è un forte messaggio che vogliamo dare all’intera cittadinanza. Il carcere non deve essere considerato come una realtà esterna alla città ma deve esserne parte. Questo è un impegno da parte del carcere, del Comune di Parma e del Garante per creare un legame con la città. Un ringraziamento va anche al Comune di Parma che ci sostiene ed al Garante che non ci ha lasciati mai soli insieme a tutto il personale del penitenziario, agli educatori ed ai volontari perché è grazie alla loro collaborazione e partecipazione che possiamo realizzare questo tipo di attività all’interno del carcere”. Il vicesindaco Marco Bosi ha portato il saluto dell’Amministrazione: “Il laboratorio teatrale rientra all’interno dei progetti che il Welfare ha intrapreso all’interno di questa realtà per offrire ai detenuti percorsi positivi e per umanizzare la vita carceraria. Mi fa molto piacere entrare in questo luogo, di cui la città non percepisce appieno l’appartenenza, è una responsabilità delle Istituzioni fare conoscere questa realtà ed investire sulle progettazioni che implichino relazioni con il mondo esterno”. Antonio D., Antonio F., Domenico, Ferdinando, Nicola, Saverio e Tonino, con il sostegno di Tragni e Ferrari, hanno riadattato “Il Re si diverte” di V. Hugo con le musiche tratte dal Rigoletto di Giuseppe Verdi. Gli attori hanno dedicato lo spettacolo ad un compagno che ha fatto parte della compagnia e che non è riuscito a concludere il percorso: “Abbiamo voluto mostrare che siamo sempre pronti a metterci in gioco. Ora vorremmo vincere una nuova sfida: portare lo spettacolo in un teatro fuori dal carcere. Questa sarebbe una bellissima vittoria collettiva”. Non è lo straniero a uccidere la cultura: sono gli smart-phone di Luigi Zoja L’Espresso, 20 ottobre 2017 L’impoverimento della lingua nazionale e la mancata conoscenza dei classici? Più che dalla sostituzione dei nativi ?con gli immigrati è causata da quella dei libri con cellulari e tablet. Quali sono i maggiori pericoli per il mondo? Certamente quello legato al cambio climatico. Fra gli ultimi 17 anni stanno i 16 più caldi da quando si misurano le temperature, che continuano a crescere: il 2014 è stato il più caldo della storia, superato dal 2015, poi dal 2016. Crescono anche i pericoli dell’inquinamento. La cattiva qualità dell’aria - a sua volta legata al riscaldamento globale - uccide ormai 6,5 milioni di persone all’anno: 430.000 nella sola Europa (dati Oms e Aea). Come ho già scritto sull’Espresso, però, a simili pericoli ci abituiamo. Paiono lontani e accettabili: responsabile sembra la modernità nel suo insieme. A controbilanciare questa rassegnazione, nell’immaginario collettivo si risvegliano paure più immediate e animali: si temono soprattutto pericoli più chiassosi e visibili, ma imprevisti, come l’invasione di immigranti e il terrorismo (orrendo, ma che finora ha provocato in Europa “solo” 200 morti l’anno). Altro immenso problema è la disuguaglianza economica. Data la globalizzazione, è sempre più importante studiarla con un modello che includa tutto il mondo. Il grafico dell’economista Milanovic mette in evidenza chi ha guadagnato e chi no nell’ultima generazione. Sulla verticale sta la percentuale di arricchimento, sull’orizzontale i redditi del mondo, divisi in percentili. Per la sua forma, il diagramma è stato chiamato Elefante. A sinistra la coda, che parte da zero: i poverissimi sono rimasti tali. Poi si sale verso un’ampia e lunga schiena: i due terzi dell’umanità guadagnano ora 70 - 80% più di venti anni fa. La poderosa schiena elefantina è infatti costituita dalle masse che in Cina, in India, in America Latina, continuano a lasciare la povertà e a formare un nuovo ceto medio. Poi la linea ridiscende improvvisamente, formando una proboscide immaginaria che tocca terra: quasi un quinto della popolazione mondiale guadagna quanto 20 anni fa. Rispetto al mondo si tratta del quinto più ricco. Ma all’interno dell’Occidente questa categoria corrisponde al ceto medio-inferiore: che, a causa di questo ristagno, odia la globalizzazione e negli ultimi anni ha votato massicciamente per partiti populisti. Solo l’ultimo pezzo di proboscide si rialza, addirittura in verticale: l’élite cosmopolita, i cui guadagni sono favolosamente cresciuti. Anche un secolo fa si poteva rappresentare la distribuzione della ricchezza in diagrammi. Ma questi erano sostanzialmente nazionali, la loro curva era unica, non un ottovolante: quando i guadagni del capitale parevano sproporzionati, lo Stato provava a trasferirne una parte ai bisognosi. Oggi, con “l’elefante di Milanovic” le cose sono ben più complicate. La linea tormentata delle disuguaglianze si spezza e ricompone di continuo in ogni anfratto del mondo, ma manca un governo mondiale che possa correggerla, anche solo in parte. La globalizzazione è difficilmente reversibile, come irreversibile fu l’epoca delle scoperte. Se non può essere cancellata, andrebbe però corretta. Con graduali ma continui aggiustamenti, nel secolo scorso il Nord Europa aveva raggiunto il miglior livello di giustizia sociale nella storia dell’uomo. Oggi mancano non solo gli strumenti, ma anche le informazioni basilari sul problema. Negli Stati Uniti hanno eletto Donald Trump. Ma i suoi muri potranno fermare le persone, non le merci. Le multinazionali potrebbero riportare le fabbriche in Occidente, ma sostituendo i dipendenti con robot e tecnologia. Un politico inglese ha detto: “Non ci siamo sparati sui piedi, ci siamo sparati alla testa”. Anche i paesi che, nel secolo scorso, cedettero ai fascismi, commisero suicidî della intera nazione che a parole difendevano; in particolare la Germania. Non accontentiamoci dicendo che i tempi sono cambiati: anche molti fascismi erano iniziati come populismi soft, ma liberare l’isteria di massa li ha trasformati in hard. Sotto stress, il singolo uomo può diventare a volte irrazionale: la massa lo diventa sempre. Veniamo alle migrazioni. Dopo aver già sparso anti-islamismo con il suo Lo scontro delle civiltà (1996), Samuel Huntington in La nuova America (2004) ha preparato la strada a Trump, indicando nel Messico un pericolo mortale. L’America, avvertiva, era in via di snazionalizzazione. Accantonando la purezza della lingua e la prevalenza del protestantesimo puritano, perdeva anche il suo credo civile (gli Stati Uniti dichiarano di professare anche una civil religion laica). Pur compiendo una complessa analisi, il filo conduttore di Huntington ha uno sbocco paranoico. Vede l’origine dei mali nei diritti civili degli anni 60 e 70, che avrebbero cancellato l’identità americana dall’interno mettendo sullo stesso piano dei coloni originari le minoranze e gli immigrati: soprattutto dove questi si concentrano localmente, come i messicani in California. Oggi, solo 13 anni dopo, La nuova America è contraddetta dai fatti: la California ha l’identità più forte fra i 50 Stati: è in testa per i diritti, per reddito, assistenza, integrazione, protezione dell’ambiente, livello culturale e tecnologico (Università e Silicon Valley). Stimolante ma contraddittoria è anche la polemica identitaria del francese Renaud Camus. Le grand remplacement (La grande sostituzione, 2011) profetizza la sostituzione dei francesi da parte degli immigrati e dei loro discendenti: non verrà rimpiazzata solo la popolazione, ma l’intera cultura del paese. Camus vede l’impoverimento della lingua nazionale e la mancata conoscenza dei classici come corrosione nella integrità di un popolo infiltrato dagli stranieri. Tuttavia, ancor più tragico che in Occidente, questo smottamento delle basi linguistiche e umanistiche si sta manifestando in Cina, Giappone e Corea, dove la immigrazione dei nordafricani corrisponde a zero e la massa della popolazione resta rigorosamente autoctona. Oggi, infatti, il maggior pericolo per la lingua e la cultura non viene dalla sostituzione dei nativi con gli immigrati, ma da quella dei libri con lo smartphone e il computer, che in Estremo Oriente procede a una velocità ancora più allarmante che in Europa o Stati Uniti. Torniamo all’istinto animale che in noi cerca un nemico, un capro espiatorio. È vero, come dice Camus, che dobbiamo affrontare il pericolo di una Grande Sostituzione. Non si tratta, però, di una popolazione che ne rimpiazza un’altra. È la componente delirante - ma presente in ognuno - della mente umana che sostituisce i pericoli veri con altri in buona parte immaginari: per giunta, con la sgradevole tendenza a scegliere i capri espiatori fra i gruppi economicamente ed etnicamente più fragili. In questo modo favorisce la diffusione di paranoie collettive, simili e simmetriche a quella del fondamentalismo islamico. Un contagio psichico di cui l’Occidente dovrà a lungo pagare il conto. Migranti. Regolamento di Dublino: il voto a Bruxelles è un primo passo positivo La Repubblica, 20 ottobre 2017 Save The Children: “Si va verso un reale rispetto dei diritti delle migliaia di minori soli, bloccati nei paesi di ingresso”. La quasi totalità sono eritrei e sono 1/3 dei richiedenti asilo. Sono 14.070 i minori non accompagnati arrivati via mare in Italia nel 2017, il 13% del totale dei migranti. Solo 56 sono stati ricollocati in altri paesi europei e 399 hanno avuto accesso alla procedura prima dello stop del 26 settembre scorso. “La scelta fatta oggi dal Parlamento Europeo - ha dichiarato Karen Mets, Senior Advocacy Adviser di Save the Children, l’Organizzazione internazionale che dal 1919 lotta per salvare la vita dei bambini e garantire loro un futuro - è un primo passo importante nella riforma di un sistema che ha costretto troppi minori soli e famiglie a rimanere nei paesi di ingresso come l’Italia e la Grecia, impedendogli in molti casi di ricongiungersi con familiari, amici o comunità in altri paesi europei. Le conseguenze dell’immobilismo - ha aggiunto Karen Mets - sono agghiaccianti, e i minori bloccati nei campi nei paesi di ingresso hanno sviluppato gravi stati di ansia, soffrono di depressione e incubi notturni. Alcuni di loro sono arrivati addirittura a tentare il suicidio.” Manca un sistema di ridistribuzione condiviso. Nel 2017, sono arrivati via mare in Italia 14.070 minori non accompagnati, il 13% del totale dei migranti giunti alla frontiera sud del nostro Paese. Solo 56, tra i minori soli presenti sul territorio nazionale, sono stati ricollocati in altri paesi europei e 399 hanno avuto accesso formale alla procedura prima del 26 settembre scorso, quando è stata sospeso il sistema straordinario di ricollocamento europeo. La mancanza di un sistema di ridistribuzione condiviso tra i paesi europei ha determinato negli ultimi anni gravissimi rischi e conseguenze per la maggioranza dei minori soli che hanno come meta altri paesi europei, dove già vivono familiari o connazionali con cui sono in contatto. La quasi totalità sono eritrei. Nella maggioranza dei casi, si sono resi irreperibili al sistema di accoglienza formale riaffidandosi nelle mani di trafficanti e sfruttatori per cercare di attraversare il confine nord del nostro Paese. Secondo i riscontri sul campo, la quasi totalità dei 22.586 minori soli di origine eritrea (11.251), somala (5.618), siriana (2.927) e afghana (2.790) arrivati via mare in Italia tra il 2011 e il 2016 si sono esposti a questi rischi. La situazione si è ulteriormente aggravata dal 2016 a seguito della maggiore chiusura all’accesso da parte dei paesi confinanti alla frontiera nord, come confermano i 5.000 minori soli “riammessi” in Italia dalla Svizzera solo tra maggio e novembre 2016. I minori sono 1/3 dei richiedenti asilo. “I minori rifugiati costituiscono un terzo dei richiedenti asilo ed è indispensabile che si faccia di più per proteggerli. Abbiamo urgentemente bisogno di un sistema più giusto che redistribuisca in modo migliore i richiedenti asilo entrati in Europa, e dia una reale possibilità di integrazione e futuro a persone che sono fuggite da guerre, conflitti e violenze. Il Consiglio Europeo si deve unire ed accogliere seriamente questo voto del Parlamento facendo sì che il peso dei paesi in prima linea venga condiviso. Nessun bambino in cerca di salvezza dovrebbe essere rinchiuso o detenuto. È necessario che le proposte per un maggiore controllo dell’identità ai confini, previste dalla riforma, non si traducano in un aumento dei casi di detenzione di minori” Avete voluto fermare gli sbarchi? Ora i migranti muoiono nei campi in Libia di Andrea Fioravanti linkiesta.it, 20 ottobre 2017 Secondo l’Unhcr più di 14.500 migranti sono rimasti imprigionati per mesi in condizioni indecenti dai trafficanti vicino alla città costiera di Sabrata. Il 44% di loro dice di voler tornare a casa. Abbiamo puntato tutto sul piano Minniti ma ci siamo scordati che in Libia c’è una guerra civile. Pensavamo di aver risolto il problema. Sempre meno migranti nelle nostre coste, (-24% rispetto al 2016), l’accordo tra Italia e Libia per tenerli nei campi di detenzione, “l’invasione” fermata dopo anni di indecisione politica. Che fine hanno fatto i migranti che non sbarcano più? Non ce ne frega nulla, come quando buttiamo la spazzatura. Mica importa dove va a finire. Quei “rifiuti” di cui non vogliamo sentir parlare, fino a venerdì erano tenuti prigionieri in condizioni indecenti dai trafficanti vicino alla città costiera di Sabrata, a 100 km dalla capitale. Sono 14.500 migranti, tra cui donne incinte, neonati e bambini senza genitori. Erano bloccati in fattorie, case e magazzini nell’area costiera a metà strada tra Tripoli e il confine con la Tunisia. Senza cibo, acqua, vestiti scarpe e servizi igienici. L’ha rivelato l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) che sta portando aiuti umanitari da una settimana. Lavori forzati, abusi sessuali, ferite causate da proiettili. La maggior parte dei migranti ha detto ai volontari dell’Unhcr di aver subito almeno una violazione dei diritti umani. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Iom),il 44% dei migranti detenuti intervistati vuole tornare a casa preferendo la povertà e le guerre all’inferno vissuto fino a questo momento. Le autorità del governo provvisorio libico hanno trasferito i migranti in un hangar nella zona di Dahman per portarli poi nei centri di detenzione ufficiali, dove potranno ricevere le cure. Pensavamo che il piano di Minniti avesse risolto il problema per sempre. A luglio il ministro dell’Interno aveva stretto un accordo con le milizie “Martire Abu Anas al Dabbashi” e “Brigata 48”: finanziamenti (tanti) per fermare i trafficanti e bloccare i migranti sulle coste. Per questo sono crollati gli sbarchi, proprio da Sabrata, fino a quel momento il principale punto di partenza dei migranti provenienti dall’Africa sub sahariana. Ma ci siamo scordati che in Libia c’è ancora una guerra civile in corso. A Tripoli comanda Fayez al Serraj, capo del governo che l’Italia (per ora) appoggia e garante dell’accordo con le due milizie, entrate in tutta fretta nel suo esercito. A Bengasi però, comanda il generale Khalifa Haftar. A lui rispondono i soldati del “Comando operativo contro lo Stato islamico” che fino a venerdì hanno attaccato le milizie finanziate dall’Italia che controllavano per noi i migranti. E mentre le fazioni rivali combattevano per il controllo di Sabrata, i migranti erano intrappolati in case e magazzini. Senza i carcerieri, fuggiti per gli scontri ma senza anche aiuti umanitari. Una settimana fa la battaglia tra le milizie è finita e più di tremila migranti sono stati imprigionati e portati in un altro centro di detenzione controllato dal “Comando operativo contro lo stato islamico”, anche lì senza aiuti umanitari. Intanto le due milizie finanziate dall’Italia sono state cacciate dalla Sabrata. E non è detto che ritorneranno. Finora la strategia italiana, avallata dall’Unione europea, è stata quella di appoggiarsi al governo libico di Al Serraj, ma la sensazione è quella di esserci affidati al cavallo sbagliato. Un piano di un Paese nato per tamponare l’emergenza è diventato la strategia dell’intera Unione europea. Ed ora è in crisi. Tutto basato su accordi con milizie mercenarie che fino a qualche mese fa erano gli stessi a proteggere i trafficanti. Non sappiamo come finirà la guerra civile, e soprattutto chi la vincerà. Un’ipotesi potrebbe essere quella di finanziare le milizie dell’altra fazione, e non è un caso che Haftar sia andato due settimane fa Roma a incontrare la ministra della Difesa Roberta Pinotti e il ministro dell’Interno Minniti. A parte il possibile voltafaccia diplomatico, cosa faremo se le truppe di Al Serraj prenderanno di nuovo il controllo? Previsioni a parte, il modello di Minniti sembra già in crisi. E il problema del rispetto dei diritti umani nei campi di detenzione rimane. Capiamoci: nessuno vuole tornare a quando i migranti morivano a migliaia in mare ogni giorno. E l’Italia non si può addossare i problemi dell’Europa solo sulle sue spalle. Ma si possono creare percorsi legali sicuri per far arrivare chi ha veramente bisogno di asilo politico? Si possono almeno rendere decenti le condizioni di chi è rimasto in Libia? E se migliaia di migranti continuano a morire, stipati in campi di detenzione che assomigliano sempre più a campi di concentramento, per molti è sempre meglio che vederli sbarcare a Lampedusa. Migranti. Non soldi, ma vie d’uscita. Medici Senza Frontiere e quello che va fatto in Libia articolo1mdp.it, 20 ottobre 2017 Da oltre un anno, l’organizzazione internazionale medico-umanitaria Medici Senza Frontiere (Msf) presta assistenza medica alle persone nei centri di detenzione in Libia e vede con i propri occhi le estorsioni, gli abusi fisici e la privazione dei servizi di base che uomini, donne e bambini subiscono. Migranti, rifugiati e richiedenti asilo sono trattati come merci da sfruttare. Lo spazio a disposizione per ogni detenuto è talmente limitato che le persone sono costrette a vivere una sopra l’altra. Manca aria, luce e ventilazione, e abbonda la sporcizia. La scarsità di cibo ha portato a casi di malnutrizione anche tra gli adulti. Gli uomini ci raccontano come a gruppi siano costretti a correre nudi nel cortile finché collassano esausti. Le donne vengono violentate e poi obbligate a chiamare le proprie famiglie e chiedere soldi per essere liberate. Il dramma che queste persone stanno vivendo nei centri di detenzione arbitraria in Libia dovrebbe scioccare la coscienza collettiva dei cittadini e dei leader dell’Unione Europa. Invece, la riduzione delle partenze dalle coste libiche è stata celebrata come un successo nel prevenire le morti in mare e combattere le reti di trafficanti. Ma la realtà è che la decisione dei governi europei di trattenere migranti e rifugiati in questa situazione o di rimandarli nei centri di detenzione alimenta un sistema criminale di rapimenti, torture ed estorsioni. Da tempo, MSF denuncia le atroci sofferenze che le politiche sulla migrazione dei leader degli Stati membri e delle istituzioni dell’UE stanno alimentando in Libia, nel tentativo di bloccare le persone a qualunque costo. Nonostante i governi abbiano dichiarato la necessità di migliorare le attuali condizioni delle persone, i risultati sono lontani dall’arrivare. L’aumento di finanziamenti non è la risposta per alleviare le sofferenze vissute dalle persone rinchiuse nei centri di detenzione. È per questo motivo che Msf ha respinto la proposta di affidare alle Ong la gestione dei campi profughi in Libia. Inoltre, è dal 2016 che Msf non accetta fondi da alcun governo europeo o dall’UE in polemica con le politiche europee di contenimento dell’immigrazione. Infine, pur capendo e apprezzando la sensibilità del ministero degli Esteri nello spingere le organizzazioni italiane a contribuire al miglioramento della situazione nei campi in Libia, lì operiamo già autonomamente, senza fondi pubblici. Temiamo che questa idea di dare alle Ong la gestione dei centri in Libia appaia come una strumentalizzazione dell’azione umanitaria e del lavoro delle Ong da parte di un governo che ha contribuito a creare una condizione di intrappolamento delle persone nel Paese. A prescindere dalle nostre attività in loco, è l’intero sistema di detenzione arbitraria che va superato. Ciò di cui hanno bisogno i migranti, i rifugiati e i richiedenti asilo intrappolati in Libia è una via di uscita. Le persone devono poter accedere a protezione, asilo e quando possibile a migliori procedure di rimpatrio volontario. Hanno bisogno di raggiungere la sicurezza, attraverso canali legali e sicuri. Per MSF, vie legali e sicure sono l’unico modo per proteggere i diritti delle persone in fuga, assicurare un controllo legale delle frontiere europee e rimuovere quei perversi incentivi che consentono ai trafficanti di prosperare. Droghe. Cannabis terapeutica per pochi. Il Pd rinnega la legalizzazione di Eleonora Martini Il Manifesto, 20 ottobre 2017 Sì della Camera alla legge che norma il solo uso medico. Larga maggioranza, Ap si astiene. Bocciata la coltivazione personale. Si, M5S e Radicali attaccano i dem: “Calcoli elettorali” La destra promette battaglia al Senato. La legge che la Camera ha licenziato ieri con 317 sì, 40 voti contrari e 13 astensioni, passandola ora nelle mani del Senato, ha il solo vero merito di aver rotto il tabù dell’uso della cannabis, sia pur soltanto a scopo terapeutico, che non è ancora sradicato del tutto nella classe medica e persiste largamente tra i politici e nella burocrazia sanitaria italiana. Non nel resto del Paese. Infatti, la difficoltà ad approvvigionarsi di farmaci cannabinoidi a causa della produzione limitata, più volte denunciate dalle Regioni provviste di una legge ad hoc, potrebbe non essere neppure intaccata, dato che il monopolio della preparazione e della distribuzione dei medicinali rimane saldamente nelle mani dello Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze. Tanto che nel provvedimento varato ieri alla Camera si mette in previsione anche, in caso di necessità, “l’importazione”, (prevalentemente dall’Olanda) e “la coltivazione presso altri enti”. La coltivazione fai da te da parte dei pazienti è però assolutamente vietata. Sinistra italiana e M5S avrebbero voluto strappare almeno questa possibilità, ma come era già accaduto quando in commissione la prima parte del testo originario è stata accantonata, costringendo alle dimissioni il relatore Daniele Farina di Sel, il Pd si è tirato indietro. Eppure, i deputati dem in buona parte avevano aderito al folto gruppo interparlamentare #CannabisLegale promosso dal sottosegretario Benedetto Della Vedova e avevano sottoscritto il testo base per la legalizzazione anche della marijuana da loisir (primo firmatario il renzian-radicale Roberto Giachetti). Ma era un tempo lontano dai calcoli elettorali. “Nulla da fare - attacca il M5S - il Pd e la sua strampalata maggioranza hanno eliminato la parte su coltivazione per uso personale e monopolio di Stato sulle vendite, tutto questo lasciando solo la parte terapeutica che il ministro Lorenzin con un decreto ministeriale poteva risolvere senza perdere ulteriore tempo”. In ogni caso la legge (che ha incassato il voto contrario di Lega, Forza Italia e FdI, mentre gli alfaniani di Ap si sono astenuti) sarà utile, come spiegano gli stessi dem, per fissare “criteri uniformi sul territorio nazionale garantendo equità d’accesso” ai pazienti che ormai in numero sempre più alto preferiscono i cannabinoidi agli oppiacei nella terapia del dolore, o li usano in caso di sclerosi multipla, morbo di Parkinson, Alzheimer, dolori neuropatici. I medicinali, che dovranno essere prescritti con ricetta medica e per trattamenti di durata non superiore a tre mesi, saranno a carico del Ssn solo per alcune patologie. Alle regioni e alla province autonome resta il compito di monitorare le prescrizioni e prevedere il fabbisogno per l’anno successivo. Norme specifiche prevedono poi “campagne di informazione”, “aggiornamento periodico dei medici e del personale sanitario” e promuovono la ricerca scientifica. Tutto con lo stesso budget di un 1,7 milioni di euro da stanziare. E mentre le destre proibizioniste sbraitano di “legge grimaldello” e di “legalizzazione mascherata”, promettendo di fermarla al Senato, il liberale Della Vedova accusa il Pd, “diviso al proprio interno e che non ha voluto litigare con i compagni di cordata di Ap”, di essere il principale responsabile dell’”occasione persa”. “Quello della legalizzazione è un tema popolare, su cui gli italiani si esprimono in maggioranza a favore - scrive il radicale su Fb - Hanno vinto i proibizionisti e tutto resterà uguale: soldi alle mafie, nessun controllo sulle sostanze, giudici e carceri impegnati a reprimere e rieducare “criminali” che fanno uso di cannabis, risorse sottratte al bilancio pubblico”. Il Forum Droghe parla di “testo deludente”, e nota che “la maggioranza ampia in favore della legge dimostra che una certa sensibilità per l’argomento esiste anche fra i banchi parlamentari, e fa intuire come si potesse lavorare su un testo più avanzato, anche solo sulla cannabis terapeutica”. La Coldiretti invece chiede “l’estensione della produzione nelle serre abbandonate o dismesse a causa della crisi nell’ortofloricoltura”, prospettando un “giro di affari di 1,4 miliardi e almeno 10 mila posti di lavoro”. Droghe. Cannabis, il nostro interesse e quello delle mafie di Daniele Farina Il Manifesto, 20 ottobre 2017 La legge approvata dalla Camera è un’occasione persa. Sulla cannabis abbiamo avuto un’occasione ma il Parlamento non l’ha colta se non in minima parte. Approvando un testo assai blando sui soli impieghi terapeutici. Eppure proprio in questo tornante è apparso chiaro che non i numeri difettassero per una soluzione più avanzata quanto la volontà politica. Volontà politica di quella maggioranza che così ha voluto e di quel Ministero della Salute che si conferma un buco nero della ragione, ancor prima che della scienza. Era l’occasione, dopo oltre quattro anni di zigzagante discussione, per una norma cooperativa in cui la regolazione dello Stato e la libertà individuale vincevano entrambe. In cui perdevano solo le mafie e il loro incomprensibile appalto delle sostanze stupefacenti. A noi, italiani, una parte di quei 13 miliardi di euro annui stimati dall’Istat a fini di Pil, avrebbero fatto comodo. Comodo qualche decina di migliaia di posti di lavoro, comodo qualche milione di turisti in più e molte migliaia di detenuti in meno. Comodo ci avrebbero fatto strumenti utili a contrastare il degrado delle nostre periferie, dei nostri quartieri verso diverse misure per la sicurezza e la convivenza. Quattro anni fa nel dire queste cose si rischiava l’internamento, oggi, il fallimento di quel gigantesco dispositivo che per convenzione chiamiamo proibizionismo, ci consegna esperienze concrete, qua e là nel mondo, e dati sui quali fondare politiche nuove. Le culture politiche elette in Parlamento, quelle almeno che ne compongono la maggioranza, non sono state purtroppo all’altezza mentre il Paese è cresciuto molto nel frattempo. E in questa distanza possiamo trovare i perché una Conferenza Nazionale sulle droghe che la legge pure prevede sfugga da nove anni: evaporate le teorie pseudoscientifiche, le falsificazioni, nel tracollo dei meccanismi di controllo della proibizione semplicemente la politica che ci ha governato in questi anni non sa cosa dire, cosa fare, se non reiterare il pessimo esistente. Un provvedimento limitato alla cannabis terapeutica è sembrato ad alcuni risposta sufficiente al vuoto pneumatico delle idee. Peccato che contenga poco di più di ciò che dal 2007, decreto Turco, era già nelle facoltà del Ministero fare. Bisognerebbe chiedersi perché non sia stato fatto ma la risposta viene da sé. Sarebbe bastato inserire la liceità della coltivazione per uso personale per cambiare radicalmente la qualità della legge. Obiettivo sfuggito per pochi segreti voti. In uno scenario nel quale si intravedono grandi potenzialità ma anche grandi interessi economico-farmaceutici evidentemente è sembrato troppo. Tutto da buttare? No. Qualche vantaggio nell’uniformare le normative regionali ci sarà per i pazienti e per il processo formativo del personale medico, per la disponibilità dei farmaci, di produzione nazionale o d’importazione. Sempre che il Senato della Repubblica, cui il provvedimento è avviato, non lo vanifichi nell’ingorgo di fine legislatura. E che il prossimo Ministro non lo saboti come l’attuale. C’era l’occasione per un salto epocale per cui molti si sono spesi, associazioni, singoli, avvocatura e magistratura. Dispiace non si sia conseguito. Soprattutto dispiace che l’attuale Testo Unico sugli stupefacenti continuerà ad esercitare i suoi pessimi effetti. Per fortuna gran parte del mondo rotola in un’altra, positiva, direzione ed è questione di tempo e di una classe politica all’altezza della storia che cambia. Tra qualche mese, con le elezioni politiche generali potremmo averne l’occasione. Terrorismo. L’errore dell’Europa sulla questione sicurezza di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 20 ottobre 2017 È lo scoglio contro il quale può infrangersi ogni previsione per il futuro. Ragioni politiche esasperate dalle tecnologie rendono ancora più lontani i rilassati anni 90. È lo scoglio contro cui possono infrangersi le previsioni economiche come altre più o meno plausibili ipotesi sul futuro. È l’incognita-sicurezza. Si tratti dell’evoluzione della crisi fra Stati Uniti e Corea del Nord, o della minaccia rappresentata dal terrorismo islamico, o dalle manovre poste in essere da Stati autoritari ai danni dei Paesi democratici, i problemi della sicurezza, per lo meno in Europa, sono diventati molto più gravi e pressanti di quanto fossero ancora un decennio fa. Per non parlare dei “favolosi” anni Novanta, quando - prima dell’11 Settembre 2001 - vivevamo in quella atmosfera rilassata, piacevole, che segue sempre la fine di una guerra, persino la fine di una Guerra fredda. Da molto tempo l’atmosfera è tutt’altra. Per ragioni politiche, naturalmente, amplificate però, e anche esasperate, dagli sviluppi tecnici. Fino a poco tempo addietro non era pensabile che le elezioni nei Paesi democratici potessero essere pesantemente condizionate dall’azione intossicante di hacker professionisti al soldo di potenze autoritarie (leggi: Federazione russa). Ma è accaduto nelle elezioni presidenziali americane. E c’è stato anche un tentativo russo di influenzare le elezioni presidenziali francesi. D’ora in poi, tutti i Paesi democratici correranno il rischio di manipolazioni dall’esterno. Il ministro degli Interni Marco Minniti, come i suoi colleghi delle altre democrazie, sta predisponendo barriere. Minniti sta cercando di aumentare la cyber-sicurezza del nostro Paese, in vista delle prossime elezioni, per difenderlo dai tentativi di manipolazione esterna. È giusto e doveroso. Gli esperti però dicono che, in questa materia, difendersi è molto più difficile e costoso che attaccare. Significa che nelle elezioni che si terranno nelle democrazie occidentali, d’ora in poi, potranno esserci continue intrusioni. Si consideri anche un altro fatto, ancor più grave. Non c’è solo la possibilità di manipolazioni politiche. In virtù dell’uso aggressivo delle tecnologie informatiche, c’è anche un forte rischio di destabilizzazione delle relazioni internazionali sul piano militare. La guerra cibernetica sposta l’equilibrio dalla difesa all’attacco (nel senso che diventa, anche in questo caso, più difficile e costosa la difesa rispetto all’attacco) e rende più pericolose e meno controllabili di un tempo le crisi internazionali. Gli sviluppi tecnici, però, esasperano condizioni di insicurezza le cui cause di fondo sono sempre politiche. Nel caso dell’Europa le condizioni di insicurezza dipendono da ciò che accade a Sud, dal disordine mediorientale, grande generatore di radicalismi e terrorismi, nonché, a Est, dalla pressione russa sui confini orientali della Nato. L’insicurezza europea è aggravata dall’allentamento - già in corso prima dell’elezione di Donald Trump ma che ha subito ora un aggravamento - delle relazioni atlantiche. Anche se sicuramente riuscirà a fare molti danni, Trump prima o poi passerà. È bene che gli europei si rendano conto che ricucire strappi e buchi nelle relazioni atlantiche sarà allora essenziale per la loro sicurezza. La difesa europea, oggi tanto sponsorizzata dal presidente Macron, se ci sarà, sarà forse una buona cosa. Ma non basterà a sostituire le relazioni atlantiche. Solo il “partito antiamericano”, così forte in Europa, ha sempre sostenuto che fosse possibile costruire un giorno una Unione Europea militarmente autosufficiente. Ma è dubbio che ci abbia mai davvero creduto. In genere, chi parla di una Europa autosufficiente immagina semplicemente di sostituire gli Stati Uniti con la Russia quale garante della sicurezza europea. In materia di sicurezza l’Europa balbetta e resta inattiva persino quando è in gioco la sopravvivenza fisica dei propri cittadini. La sconfitta militare dello Stato Islamico è un’ottima cosa ma se verrà mal gestita provocherà una valanga di guai. La provocherà in Medio Oriente ove sono già cominciati i regolamenti di conti fra i gruppi che lo hanno combattuto(che fine faranno i curdi? Con lo Stato Islamico in agonia, i curdi non saranno più di alcuna utilità militare e sono in molti, da quelle parti, ad aspettare solo l’occasione per massacrarli). La provocherà anche in Europa con il ritorno di migliaia di reduci, di ex combattenti dello Stato Islamico. Giovani, fanatici, addestrati all’uso delle armi. Basta che solo un pugno di loro si attivi e qui in Europa ci saranno morti per ogni dove. Sarebbe ovvio e necessario dichiararli criminali di guerra e toglierli dalla circolazione prima che colpiscano. Ma pare che non si possa. Perché? Perché i cosiddetti foreign fighters non sono (ancora?) per le opinioni pubbliche europee dei “mostri”. Ciò ha fin qui impedito agli Stati democratici di approntare difese legali adeguate. Dal G7 della sicurezza attualmente in corso a Ischia forse uscirà qualcosa di buono (soprattutto per contrastare la propaganda jihadista sul web) ma è difficile che ne vengano decisioni efficaci per neutralizzare i foreign fighters. Purtroppo, sappiamo che quegli ex combattenti si trasformeranno in mostri(e per conseguenza quelle difese legali verranno infine erette) solo quando alcuni di loro entreranno in azione. Con conseguenze devastanti. Sarebbe logico prevenire piuttosto che attendere l’inevitabile. Interpellati uno per uno, gli europei, i singoli individui, a maggioranza, sono perfettamente in grado di comprenderlo. Un gruppo organizzato di individui(una società), invece, non è in grado di farlo. Di qua,l’intelligenza individuale. Di là, l’ottusità collettiva. “In Romania celle-lager, il detenuto resti in Italia” di Angela Pederiva Il Mattino di Padova, 20 ottobre 2017 Bucarest reclama un proprio condannato, ma la Cassazione ferma i giudici di Venezia. Era stato sorpreso a guidare un’auto con le targhe rubate, senza patente, sotto l’effetto di alcol. Per la Romania ce ne sarebbe abbastanza per riprendersi il proprio concittadino e tenerlo in carcere per venti mesi, ma l’Italia non potrà estradare il 27enne arrivato a delinquere anche qui, finché non avrà la certezza che il detenuto non corre “un rischio concreto di trattamento inumano o degradante” nelle patrie galere. L’ha deciso la Cassazione, annullando la sentenza della Corte d’Appello di Venezia, che pure aveva disposto la consegna del condannato. Il protagonista della vicenda è Daniel Cristi Enache, un cittadino romeno finito nelle cronache trevigiane nell’estate di tre anni fa, quand’era stato arrestato prima dai carabinieri e poi dalla polizia a Conegliano. In quest’ultimo caso il ragazzo era stato accusato di furto aggravato e false generalità, dopo essere stato trovato a rubare superalcolici in un centro commerciale e aver dichiarato un’identità fittizia. Attualmente il giovane si trova in carcere, ma su di lui pende anche una condanna a un anno e otto mesi di reclusione, emessa da un tribunale del suo Paese per i reati di guida in stato di ebrezza e circolazione con targhe false, commessi nell’aprile del 2015. Lo scorso 11 maggio i giudici lagunari competenti a pronunciarsi sui mandati di cattura europei avevano disposto la consegna del 27enne, sulla base delle rassicurazioni fornite dalle autorità di Bucarest circa le condizioni carcerarie a cui sarebbe stato destinato, “in quanto era comunque garantito un regime tale da compensare, con la libertà di movimento durante il giorno, l’insufficiente assegnazione dello spazio chiuso nella cella”. Contro questo verdetto Enache, assistito dall’avvocato Ilaria Felini, aveva però presentato ricorso alla Suprema Corte, lamentando in particolare l’incerta adeguatezza delle condizioni detentive a cui sarebbe destinato. Secondo quanto sostenuto dalla difesa e riassunto dal collegio, “le informazioni fornite dalle autorità rumene risulterebbero imprecise e non individualizzanti: non sarebbe indicato con sicurezza il carcere di destinazione, il tipo di regime di detenzione (se o meno semi-aperto), le condizioni di detenzione (numero di detenuti, numero dei bagni e docce, presenza di acqua calda, la privacy dei bagni, le modalità di somministrazione dei pasti, il riscaldamento, l’effettiva pulizia delle celle, lo spazio individuale minimo, escluso il mobilio)”. Nell’udienza del 19 settembre, la Cassazione aveva acquisito la documentazione supplementare chiesta da Venezia. “Due paginette - spiega però l’avvocato Felini - che si limitano ad ipotizzare la reclusione nel penitenziario di Braila, senza dare garanzie di rispetto dei diritti umani, a cominciare dallo spazio minimo individuale: si parla di due soli metri quadrati, compresi il letto e gli arredi”. Una tesi infine accolta dagli “ermellini”, che hanno rinviato ad una diversa sezione della Corte d’Appello l’accertamento “se sussistono motivi seri e comprovati per ritenere che il ricorrente, a causa delle condizioni di detenzione nello Stato membro di esecuzione, corra un rischio concreto di trattamento inumano o degradante, in caso di consegna al suddetto Stato”. Indonesia. Liberato Sciaudone, l’italiano detenuto da un anno per un errore giudiziario La Stampa, 20 ottobre 2017 Assolto dall’accusa di immigrazione clandestina era ancora dietro le sbarre. Il ministro Alfano: “Un epilogo positivo”. Carmine Sciaudone, detenuto a Bali da oltre un anno, è libero e sta rientrando in Italia. L’annuncio è stato dato dal ministro degli Esteri, Angelino Alfano, che aveva sollevato il caso perché si giungesse a una veloce soluzione anche in occasione dell’incontro con l’omologa indonesiana, l’11 ottobre scorso. “Un epilogo positivo, che accogliamo con gioia - si legge nella nota di Alfano - di un caso che ho personalmente seguito passo dopo passo sin dall’inizio. Nel corso di questi mesi, Carmine Sciaudone e i suoi familiari qui in Italia sono stati assistiti con la massima attenzione dalla Farnesina e dalla nostra ambasciata a Jakarta”, ha proseguito il ministro. Carmine Sciaudone, 35enne film-maker originario di Latina, era stato fermato nel maggio dello scorso anno con l’accusa di immigrazione clandestina, dal momento che era stato trovato in possesso di un visto scaduto. Assolto dall’accusa, non era stato liberato perché la procura era ricorsa in appello