Le "imam" delle carceri di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 1 ottobre 2017 È stato avviato un progetto sperimentale anti-radicalizzazione su un migliaio di reclusi di otto penitenziari italiani. Fra le guide spirituali ci sono anche quattro donne: "Spieghiamo il Corano, spesso ad analfabeti". La prima volta, al carcere di Bollate, non tutti le hanno prese sul serio: alcuni sono rimasti nelle celle, diffidenti o, forse, oltraggiati da quella presenza femminile. Ma lei e la sua collega Soraya non si sono perse d’animo. "Abbiamo parlato del perdono", dice: "Se il Creatore perdona noi, noi dobbiamo perdonarci a vicenda...". Libro alla mano, Sura 39, versetto 35: "Allah cancellerà le loro azioni peggiori e li compenserà per ciò che di meglio avranno fatto". Yamina e le altre - Già, perché Yamina Salah se l’è studiato a fondo, il Corano, s’è laureata in diritto islamico ad Algeri, è presidentessa delle donne musulmane d’Italia e può spiegare detti e precetti del Profeta a chi non è neppure in grado di leggerli ("in prigione abbiamo trovato un 70 per cento di analfabeti tra la nostra gente, tanti non hanno fatto neppure le scuole, per questo sono così rigidi, chiusi"). L’Ucoii, la più forte organizzazione islamica italiana, ha mandato lei e Soraya Houli a Milano, la marocchina Fatna Ajiz a Verona e la tunisina Fattum Boubaker a Canton Mombello, nel Bresciano, a predicare tra i detenuti che vengono da Paesi musulmani, per prevenire la radicalizzazione, sostituire parole di tolleranza a litanie di rancore: quattro guide spirituali in aggiunta a otto imam accreditati dal nostro ministero. "Un salto culturale", dice Gennaro Migliore, sottosegretario alla Giustizia: "Una delle maggiori distorsioni del radicalismo sta proprio nel disconoscimento del valore delle donne". Il progetto sperimentale - "La prima volta erano cinquanta detenuti, nel teatro del carcere", racconta Yamina (Bollate ha un’importante tradizione di recupero legata alle sue attività teatrali): "Poi abbiamo sentito le voci che giravano tra loro... "sono donne in gamba", dicevano. È andata meglio". Il progetto, in gestazione per oltre un anno, è infine partito sei mesi fa: in collaborazione tra il Dap (il nostro dipartimento penitenziario) e l’Unione delle comunità islamiche d’Italia. L’Ucoii, un tempo assai vicina alla Fratellanza Musulmana, è stata riformata con coraggio dal suo presidente Izzedin Elzir, palestinese di Hebron, imam a Firenze, convinto che la fede sia una libera scelta e il velo lo sia ancora di più (ha una figlia diciassettenne, Lin, che, benché credente, non lo indossa): "Alle donne che subiscono imposizioni o violenze noi diciamo: denunciate, denunciate, denunciate". I numeri - Le carceri coinvolte nel progetto pilota sono per il momento otto (Torino, Cremona, Modena, Sollicciano a Firenze, San Vittore a Milano oltre a Bollate, Canton Mombello e Verona). La partecipazione va dagli 80 ai 140 detenuti per carcere: dunque circa un migliaio di detenuti sugli undicimila provenienti da Paesi islamici oggi reclusi in Italia. È un inizio, un segno. Secondo il XIII rapporto dell’associazione Antigone (che cita il ministero della Giustizia) i detenuti islamici a rischio sarebbero 365. Di questi, 165 sono "monitorati" ("con condanne o precedenti di proselitismo"); 76 "attenzionati" (per atteggiamenti che fanno "presupporre la vicinanza all’ideologia jihadista", il più scontato dei quali è l’esultanza dopo gli attentati) e "124 segnalati" ("per relazioni con soggetti che appartengono ai due precedenti livelli"). Un aggiornamento delle cifre, benché non ufficiale (si tratta di dati riservati), induce a ritenere che sensibili al contagio jihadista possano essere al momento almeno quattrocento detenuti. I criteri sono elaborati dal Nic, il nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria, e dal Casa, il comitato di analisi strategica antiterrorismo. Migliore sostiene che al Casa circolino "ogni settimana notizie aggiornate che vengono dal carcere e dal mondo attorno al carcere". Il rapporto con le comunità "è fondamentale", dice, per conoscere e prevenire. Ma il terreno è assai accidentato. Il criminologo Alvise Sbraccia ha spiegato per il dossier di Antigone come gli imam venuti dall’esterno, per bravi e motivati che siano, vengano spesso considerati "spie" dai detenuti musulmani che preferiscono scegliersi un imam tra i compagni di prigionia (per l’Islam, imam può essere chiunque diriga la preghiera e venga eletto dagli altri). Ciò fa capire perché in dieci anni siano stati appena 22 gli imam accreditati dal ministero dell’Interno e ammessi nei nostri istituti di pena. E in fondo dà anche la misura della sfida lanciata dall’Ucoii. La sfida - Gli italiani convertiti all’Islam sono un centinaio. "E non devono assolutamente radicalizzarsi perché non potrebbero neppure essere espulsi, appunto in quanto italiani", ragiona Izzedin Elzir: "In carcere ci si può convertire per cose semplici, piccole, per gentilezza, per un dattero...". Nel totale dei detenuti a rischio vanno naturalmente compresi i più a rischio di tutti, quei 44 arrestati per reati di terrorismo internazionale, sottoposti al regime di As2 (alta sicurezza 2) a Sassari e Rossano Calabro. Da laggiù, la strada delle guide islamiche e della ragione contro il radicalismo appare ancora tutta da inventare. "Eppure dobbiamo spiegare a queste persone, che proclamano con durezza "il Profeta ha fatto così, il Corano dice così", come nella pratica dell’Islam ci siano tante cose che si possono fare in modo più leggero, più facile", sorride lieve Yamina. Che si coccola il ricordo migliore: "A giugno un ragazzo che doveva essere scarcerato mi ha detto: "Quale moschea mi consigli?". Aveva paura di finire in una moschea radicale, cercava già il pensiero più equilibrato. Uscendo ha pianto". Codice Antimafia. Cantone avverte: "C’è il rischio di incostituzionalità" di Conchita Sannino La Repubblica, 1 ottobre 2017 Nel Codice Antimafia, la legge varata l’altro giorno dalla Camera, secondo Raffale Cantone "ci sono criticità e più rischi che vantaggi ma, adesso, la norma va applicata". E tuttavia Cantone accentua i rilievi critici quando entra nel dettaglio, riferendosi all’estensione delle misure patrimoniali (sequestro e confisca di beni) anche a chi è indiziato di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione. Sulle nuove disposizioni in tema di misure di prevenzione, avverte, "si rischia l’intervento della Corte Costituzionale, che potrebbe far venire giù tutto l’impianto normativo, un istituto che finora ha funzionato". Rischio di incostituzionalità per il Codice Antimafia, dunque, riflette il presidente dell’Autorità anticorruzione. Cantone interviene a Somma Vesuviana alla Festa dei Giovani Democratici. Città simbolica perché alcuni partiti, tra cui il Pd, alle ultime elezioni non hanno presentato nemmeno la lista, in un’atmosfera pesante di minacce e sospetti. "Questa legge - osserva il presidente dell’Anac - contiene norme molto utili sull’uso dei beni confiscati ed è un peccato che ci siano tante polemiche. Avevo affermato in precedenza che non aveva molto senso applicare le norme del codice antimafia alla corruzione, perché non sono né utili né opportune, né aggiungono qualcosa se non elementi critici nel sistema. Ma - conclude Cantone - una volta che una legge è stata approvata da parte di una istituzione è corretto applicarla". Col rischio, però, aggiunge subito dopo, di sviluppi inattesi sul piano costituzionale. Insomma "non bisogna innamorarsi ideologicamente di questa norma, che potrebbe non aiutare nella lotta alla corruzione ed essere applicata solo in casi marginali. Le misure di prevenzione sono un istituto eccezionale, che non ha senso applicare ai reati di pubblica amministrazione, anche se non spetta a me dire se e quando la legge deve essere modificata". Alla festa si discute anche di abusivismo edilizio, dopo il terremoto a Ischia. "Un tema già passato di moda", sorride, amaro, Cantone. Che premette: "Sono contrario ad ogni forma di condono". Ma in zone ad alta densità urbanistica e non vincolate "gli abbattimenti non hanno senso, si può pensare ad acquisizioni al patrimonio o al riscatto da parte dei proprietari". Nelle aree demaniali o con vincoli, invece, "bisogna fare gli abbattimenti a cura del giudice penale e con i fondi della giustizia penale, senza sconti a nessuno, sottraendo la materia ai Comuni ". Quanto alla legge firmata dal presidente della giunta regionale Vincenzo De Luca, la bocciatura è secca: "Il criterio delle priorità negli abbattimenti giustifica il rinvio sine die ", sostiene Cantone. Quindi "sarebbe la solita soluzione all’italiana in cui la questione alla fine non viene mai affrontata". Ma il presidente dell’Anac vede un suo futuro in politica? Cantone confessa di aver pensato a una possibile candidatura a sindaco di Napoli ma annuncia che alla scadenza alla sua nomina all’Autorità Anticorruzione, nell’aprile 2020, tornerà in magistratura. E Napoli? Cosa pensa Cantone della condizione della città, tra boom del turismo e scarsa vivibilità quotidiana? "Vedendo la situazione di Roma, Napoli ha fatto grandissimi passi avanti", afferma. "Vive una primavera turistica e questo è un fatto, anche se hanno pesato fattori internazionali. E la città è ridiventata centrale sul piano della cultura, penso al ruolo del San Carlo, del cinema, della vita culturale in generale". Si torna sulla politica. Cantone, intervistato da Ottavio Ragone, responsabile della redazione di "Repubblica" a Napoli, non si sofferma a lungo sulla nascita di Mdp e sullo scontro con il Pd. Il ragionamento è rapido, pacato, ma con una punta acuminata: "Le scissioni non sono mai positive e sono un vizio storico della sinistra". Codice Antimafia. I critici esagerano: si sequestrerà solo per i reati "associativi" di Gian Carlo Caselli Il Fatto Quotidiano, 1 ottobre 2017 Si moltiplicano gli attacchi al nuovo "Codice antimafia". Turba la suscettibilità di vari commentatori l’estensione della disciplina della confisca dei beni mafiosi a chi è accusato di corruzione. L’elenco lunghissimo degli scandali "moderni" (Italcasse, Fondi neri Iri, Lockheed, Banane e Petroli, Teardo, Zampini, Mani pulite e via seguitando fino ad oggi), non consente affatto di ipotizzare che la corruzione sia un tratto genetico della stirpe italiana. Di corruzione infatti ce n’è ovunque nel mondo. Una specificità tutta italiana però è la lunghezza della black list di politici, amministratori, imprenditori, faccendieri ecc. che per quanto inquisiti, imputati, arrestati, condannati, patteggiati, indultati, prescritti (anche per fatti di incontestabile gravità) restano sempre saldamente al loro posto, dove possono continuare a "banchettare". Ciò che pone il nostro Paese fuori degli schemi delle democrazie europee. Con il corollario di inerzie, ricatti e veti incrociati che contribuiscono a spiegare perché in Italia la corruzione sia così diffusa ed il suo contrasto incontri tanta "resistenza". La corruzione non è riconducibile ad un circolo delimitato per quanto esteso, ma è sempre più un vero e proprio sistema. Sul piano legislativo significa che occorrono regole rigorose, non confuse e annacquate, che riescano a rendere la corruzione "non conveniente". Sia per la definizione delle fattispecie penali, sia per la certezza della pena e le sanzioni. Senonché questa "non convenienza" della corruzione di fatto resta ancora nel libro dei sogni (basti pensare all’inconsistenza del numero dei "colletti bianchi" detenuti nel nostro Paese rispetto alle altre democrazie). Forse anche per questo motivo, per introdurre finalmente un qualche deterrente efficace contro la corruzione, si è pensato all’estensione delle misure antimafia. Che in sostanza comportano (per chi sia accusato di corruzione e risulti aver dichiarato un reddito incompatibile con le ricchezze possedute) l’onere di dimostrare la provenienza legittima di tali ricchezze, a pena di espropriazione. Ma attenzione: non in tutti i casi di corruzione. Solo quando insieme alla corruzione sia contestata l’associazione per delinquere. Trattandosi di una misura che inverte l’onere della prova, certamente va usata con estrema cautela, esigendo dalla magistratura il rispetto di ogni garanzia. Ma in linea di principio, quel che funziona per l’antimafia dal 1982 e senza obiezioni dovrebbe funzionare anche per l’anticorruzione. Eppure c’è chi sembra volersi fasciare la testa anzitempo, perché - appena approvata la legge - si è vincolato il Governo, con un apposito ordine del giorno, a "monitorare" quel che accadrà per correggere eventuali défaillances. Ora, ben vengano - se utili - le rettifiche, purché in un quadro di effettiva lotta alla corruzione. E se l’accoppiata corruzione - reato associativo dovesse risultare statisticamente prossima allo zero, si abbia il coraggio di eliminarla, così che l’adozione di misure di prevenzione patrimoniali anche per la corruzione funzioni davvero. Altrimenti si farebbero ancora una volta "evaporare" i fatti gravissimi che la corruzione sistemica esprime. Che siano fatti gravissimi lo sostiene non qualche incorreggibile "giustizialista", ma papa Francesco: la corruzione è un "cancro sociale profondamente radicato nei governi, nell’imprenditoria e nelle istituzioni; - una pratica abituale nelle transazioni commerciali e finanziarie e negli appalti pubblici". Con la nefasta conseguenza di "ingiustizie che causano sofferenza: ospedali senza medicine, ammalati che non hanno cura, bambini senza educazione". E ancora, con ostacoli frapposti "al funzionamento della giustizia con l’intenzione di procurare impunità"; per cui si catturano "solo i pesci piccoli, mentre si lasciano i grandi liberi nel mare". Parole di cui tutti dovremmo fare tesoro, respingendo ogni retro-pensiero che declassi la corruzione a reato con cui si può convivere. In Italia si intercetta sempre di più, senza paragoni in Europa di Luciano Capone Il Foglio, 1 ottobre 2017 Secondo i dati pubblicati dal ministero della Giustizia sono 114 mila le utenze intercettate ogni anno. In Francia sono circa 40 mila, in Germania 23 mila e nel Regno Unito poco più di 3 mila. In questo periodo si è parlato molto di intercettazioni, soprattutto a causa del decreto legislativo del governo e per la concomitanza con lo scoperchiamento della vicenda Consip. Al centro della discussione, per entrambe le questioni, si è messo il tema della diffusione e della pubblicazione delle intercettazioni: da un lato chi chiede strumenti che limitino la trascrizione e la pubblicazione di intercettazioni non rilevanti ai fini dell’indagine, dall’altro chi protesta contro provvedimenti che limiterebbero il diritto d’informazione. Poco si discute, invece, non tanto della pubblicazione - che resta un problema rilevante - ma del numero di intercettazioni. Domenica 24 settembre il Sole 24 Ore ha affiancato all’intervista al ministro della Giustizia Andrea Orlando una tabella con i dati sulle intercettazioni in Italia che mostra un trend in crescita spaventosa: nel 2003 le intercettazioni ordinarie erano circa 156 mila, quelle antimafia 79 mila e quelle antiterrorismo 4,4 mila. Nel 2016 le intercettazioni ordinarie sono salite 265 mila (più 70 per cento), quelle antimafia a 113 mila (più 43 per cento) e quelle antiterrorismo a 8 mila (più 45 per cento). Se, data la situazione internazionale, si comprende la necessità di aumentare i controlli sul fronte del terrorismo e la lotta alle criminalità organizzate di stampo mafioso resta una peculiarità del nostro paese, stupisce un aumento così considerevole delle intercettazioni ordinarie a un livello che non ha pari negli altri paesi occidentali. I dati pubblicati dal ministero della Giustizia nella sua Relazione sull’amministrazione della giustizia sono più contenuti, probabilmente perché si riferiscono ai bersagli e non al numero di autorizzazioni e rinnovi, ma si tratta in ogni caso di un numero considerevole: 114 mila utenze intercettate ogni anno. Il giornalista del post Davide Maria De Luca ha provato a fare un confronto internazionale: in Francia sono circa 40 mila, in Germania 23 mila e nel Regno Unito poco più di 3 mila. "Se guardiamo alla popolazione, questo significa che in Italia, un paese di 60 milioni di abitanti, si intercettano più del doppio delle utenze telefoniche che in tre paesi dove abitano in tutto 212 milioni di persone", scrive De Luca. Naturalmente, come ogni strumento investigativo, anche le intercettazioni hanno un costo che non è affatto marginale se viene usato con questa intensità. Secondo i calcoli della rivista specializzata "Sicurezza e Giustizia" in dieci anni, dal 2005 al 2015, sono stati spesi circa 2 miliardi e 400 milioni di euro. Si tratta di una spesa media di 240 milioni l’anno, che rappresenta la voce principale di spesa per la giustizia (oscilla tra il 26 e il 35 per cento sul totale). L’andamento delle spese non è però omogeneo sul territorio, ad esempio nel decennio preso in considerazione, se la spesa per intercettazioni nel distretto di Palermo si è quasi dimezzata (da 51 a 27 milioni) in quello di Roma si è triplicata (da 5,8 a 17 milioni), se a Torino si è dimezzata (da 13 a 5,7 milioni) a Napoli è aumentata da 19 a 21 milioni. Secondo il rapporto di "Sicurezza e giustizia" dal titolo "Lost in interception", che segnala anche problemi nelle statistiche ufficiali sul tema, l’enorme difformità in merito alla distribuzione dei costi sostenuti nei vari distretti per le attività di intercettazione non è giustificata dai diversi listini applicati nei vari uffici giudiziari, "ma è dovuta alla durata delle stesse e delle relative proroghe che non sono monitorate a livello centrale". Insomma, si sa che in generale si intercetta molto e molto a lungo. Ma i dati e le statistiche sono grossolane e poco chiare, perché l’Italia è uno dei pochi paesi che non ha un sistema di monitoraggio centralizzato sulle intercettazioni. Cosenza: sottosegretario Ferri "un carcere efficiente e ben organizzato" Corriere della Calabria, 1 ottobre 2017 Lo ha detto il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Maria Ferri, intervenendo al convegno sul tema "L’alt(r)a Giustizia", visitando la struttura della città. "Investire nella rete che collega che unisce la realtà penitenziaria con al società civile". "Il tema della giustizia riparativa è importante e in questo senso è determinante una progettualità seria". Lo ha detto il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Maria Ferri, che è stato in visita a Cosenza dove ha partecipato, come rende un comunicato, a un convegno sul tema "L’alt(r)a Giustizia" organizzato da Rinnovamento nello Spirito Santo, da Prison Fellowship Italia Onlus e dall’Associazione Liberi Avvocati, ed ha poi visitato il carcere intitolato a Sergio Cosmai, accolto dal direttore Filiberto Benevento. "L’esperienza del "progetto Sicomoro", per esempio - ha aggiunto Ferri - è molto significativa per il recupero del detenuto e per una seria terapia trattamentale e rappresenta un ulteriore passo in avanti per soddisfare le esigenze di giustizia riparativa. Il progetto, patrocinato dal Ministero della Giustizia nell’aprile 2016, intende supportare migliaia di detenuti di diverse strutture italiane per favorirne il reinserimento sociale. Bisogna facilitare l’incontro tra vittima ed autore del reato perché si possa realizzare in concreto l’eliminazione delle conseguenze derivanti dal comportamento delittuoso e coniugare, al tempo stesso, sicurezza e riabilitazione all’interno di un circolo virtuoso. Il recupero sociale dei detenuti si rivela oggi ancora più indispensabile alla luce dei recenti fatti di cronaca. Penso ai femminicidi, agli omicidi familiari ed agli atti di violenza in genere compiuti nei confronti delle donne e dei soggetti vulnerabili. Emerge chiaramente come un sistema di detenzione senza cura e trattamento umano del detenuto non funzioni in maniera adeguata e spesso determini una ricaduta da parte del reo in questi terribili reati. Fare prevenzione durante l’esecuzione della pena e gli anni di detenzione non è sufficiente, se non si investe in una seria terapia, per garantire la sicurezza ed evitare la reiterazione del reato". "A tal fine il ministero della Giustizia - ha detto ancora il sottosegretario - ritiene fondamentale investire nella mediazione penale, come pilastro della giustizia riparativa, ed in tutta quella progettualità che possa portare a far comprendere all’autore del reato la gravità dei fatti commessi. È necessario investire sempre di più nella rete che collega la realtà penitenziaria con la società civile, un ponte che va costruito per realizzare la vera prevenzione a tutela della sicurezza a tutti i cittadini. Uno sforzo comune è necessario per garantire non solo la certezza della pena ma anche l’aspetto rieducativo ed il reinserimento sociale dei detenuti". Ferri ha espresso un giudizio positivo sul carcere di Cosenza, che ha definito "molto efficiente e ben organizzato". Padova: detenuto evaso, caccia all’uomo e polemiche di Enrico Ferro Il Mattino di Padova, 1 ottobre 2017 Maccari (Coisp) accusa, Ristretti Orizzonti replica: "I permessi sono un percorso valido". Da detenuto modello con laurea conseguita dietro le sbarre a latitante in fuga ricercato in tutta Italia. Un piano probabilmente covato per anni da Boris Rasnik, 43 anni il prossimo 6 ottobre, originario di Belgrado, alle spalle una condanna per omicidio e un fine pena previsto per il 26 maggio 2024. Mercoledì pomeriggio è scappato durante un permesso premio di tre giorni e mezzo nella comunità Piccoli Passi di via Po. È la seconda fuga in quattro mesi, sempre con le stesse modalità e sempre dalla stessa cooperativa. "Per quanto continueremo ad assistere imperterriti a questo scempio?", chiede polemico Franco Maccari, presidente del Coisp. Le indagini Ora ci sono polizia e carabinieri alle calcagna di Boris Rasnik, condannato a 23 anni di reclusione a Torino per aver ucciso a colpi di pistola nel 1996 un connazionale durante una lite. A questo carico già di per sé "pesante" si era aggiunta una condanna ad altri quattro anni per furti commessi in varie città d’Italia. Così era iniziato al suo percorso all’interno del carcere di Padova. Definito da tutti un detenuto modello, il serbo è riuscito a conseguire il diploma di scuola superiore, proseguendo poi con l’università. Il 16 giugno scorso ha conseguito la laurea in Filosofia all’università di Padova, con il massimo dei voti. Il suo caso veniva citato come esempio positivo di reinserimento nella società attraverso l’offerta di studi. Ora però cambia tutto. Dopo tre giorni nella struttura di via Po 262 gestita dalla cooperativa Piccoli Passi, sarebbe dovuto rientrare al Due Palazzi venerdì sera. C’è chi l’ha visto salire in un’auto, saltando a piè pari ben sette anni di galera che gli rimanevano per terminare la sua pena. Gli investigatori sospettano che sia tornato nella sua terra, ed è il motivo per cui è stata coinvolta anche l’Interpol. Il 31 luglio Rasnik aveva presentato la richiesta di permesso "per potersi recare nella comunità Piccoli Passi con possibilità di uscire qualche ora della giornata per piccoli acquisti a Padova sempre accompagnato dai volontari per tutta la durata del permesso o per mangiare una pizza con la famiglia proveniente da Belgrado". O almeno questa era la motivazione ufficiale. "Prendo atto dei risultati disastrosi di questi percorsi a suon di premi per i carcerati" è il commento duro di Maccari, che rappresenta il sindacato di polizia Coisp. "Il giudice di sorveglianza dovrebbe mettersi nei panni dei familiari delle vittime, prima di prendere certe decisioni". Posizione diversa quella dei sindacati delle guardie carcerarie. "Nei primi sei mesi del 2017 si sono verificate nelle carceri italiane 6 evasioni da istituti penitenziari, 17 evasioni da permessi premio, 11 da lavoro all’esterno, 11 da semilibertà e 21 mancati rientri di internati", spiega Giovanni Vona del Sappe. "Dati minimi rispetto ai beneficiari. Nel 2016 sono stati concessi 32.617 permessi premio e le evasioni in tutto sono state 34, ossia lo 0,1%". Sulla stessa lunghezza d’onda anche Ornella Favero, di Ristretti Orizzonti. "La libertà è la libertà e la tentazione esiste, come possiamo vedere in questo caso. Ma i percorsi con i permessi sono validissimi. Nell’immediato si corre un rischio ma alla lunga i benefici sono evidenti. Il reinserimento nella società non è uno scherzo". Frastornata Francesca Vianello, che ha seguito il serbo durante il percorso di studi universitari: "Avevamo investito molto su di lui. Non riusciamo a credere che abbia fatto una cosa del genere". Lo scorso mese di maggio c’è stata un’altra evasione, sempre dalla comunità Piccoli Passi. Mohamed El Hachimi, marocchino, spacciatore, stupratore e sostenitore delle posizioni più radicali dell’Islam, aveva beneficiato di quattro permessi premio in un anno. Durante l’ultimo è scappato. Reggio Calabria: l’On. Nico D’Ascola "il carcere non sia un luogo di conflitto" Corriere della Calabria, 1 ottobre 2017 Il presidente della Commissione Giustizia del Senato presenta a Reggio il master di Diritto penitenziario. E commenta il codice antimafia: "Risolve il problema della trasparenza sui beni confiscati". "È un master di diritto penitenziario che parte in concomitanza con l’approvazione della Riforma penitenziaria". Lo dichiara il presidente della Commissione Giustizia del Senato Nico D’Ascola alla presentazione del master dell’Università Mediterranea in "Criminologia e Sistema Penitenziario". "Questa Facoltà è stata fondata da un gruppo di professori reggini ed è stata portata a livello delle università che si trovano in contesti sociali più progrediti, collocandola al sesto posto nazionale come facoltà di eccellenza. La nostra società - prosegue D’Ascola - soffre la frantumazione di un contesto divisivo intellettualmente. Il carcere può diventare un luogo all’interno del quale si ricostruisce la società, si risocializza. Il punto del diritto penitenziario è l’attuazione del principio di rieducazione, attraverso la risocializzazione. La trasformazione del carcere da luogo di conflitto in luogo di reinserimento. Le società sono organiche allorquando sono coese, hanno obiettivi comuni. L’università diventa anche strumento di lavoro. Un grosso problema che riguarda la frequentazione delle università è quello del lavoro. I giovani vengono nelle università in numero inferiore rispetto a quello che sarebbe nelle aspettative perché c’è poco lavoro. Il master è lo strumento per dire che l’università si preoccupa anche della collocazione attraverso la formazione, dando delle possibili concrete di lavoro". A margine dell’incontro, il presidente è intervenuto sul codice antimafia: "Il codice risolve soprattutto un aspetto: quello della trasparenza delle amministrazioni dei beni soprattutto aziendali e delle aziende, sequestrati e poi eventualmente confiscati. Questo era un problema - continua il presidente - che si è addirittura manifestato, e che ha impostato la necessità al legislatore di intervenire sul punto della scelta, della nomina, ma anche di chi nominare quale amministratore giudiziario, si introducessero norme rispettose del principio di trasparenza, di modo che l’amministrazione delle aziende avvenisse intanto seguendo dei criteri economici. L’amministrazione delle aziende sia funzionale quindi al mantenimento dell’occupazione. Non è pensabile che l’arrivo dello Stato nella gestione di patrimoni sospetti, ovvero dichiaratamente di origine mafiosa, comporti il licenziamento dei dipendenti e quindi l’idea dell’arrivo dello Stato nell’amministrare beni di origine illecita coincida con la disoccupazione, la riduzione dei posti di lavoro. L’intendimento - conclude D’Ascola - che abbiamo perseguito è di rendere per un verso trasparente la nomina ma soprattutto funzionale al mantenimento dell’occupazione l’amministrazione dei beni sequestrati e confiscati". Roma: convegno "L’informatica al servizio del Paese, strategie per la giustizia" ilcorrieredelgiorno.it, 1 ottobre 2017 Un’enorme vantaggio dell’uso dell’informatica è la categorizzazione e classificazione delle rassegne e l’istantanea archiviazione dei provvedimenti, oltre che una rapida consultazione degli stessi per gli avvocati, giudici e magistrati, ma anche per il cittadino. Un interessante convegno in Cassazione. Si è tenuto nei giorni scorsi nell’Aula Magna della Suprema Corte di Cassazione il convegno "L’informatica al servizio del Paese: strategie per la giustizia" promosso dall’Innovation group (Ileana Fedele, Antonella Ciriello, Giuseppe Corasaniti) che sta lavorando da qualche mese per "informatizzare" il processo di legittimità e, soprattutto, per contribuire a creare una "sensibilità digitale" nella sfera ordinamentale della giurisdizione. Il convegno si è aperto con un ricordo del magistrato Renato Borruso, pioniere dell’uso dell’informatica nella giustizia sin da prima che l’attuale rivoluzione digitale fosse lontanamente immaginabile in cui è stato fatto il punto sul percorso che l’informatica ha compiuto nel campo giuridico, e sulla strada ancora da fare Al convegno sono intervenute molte personalità della giustizia e dell’informatica italiana, fra cui il Primo Presidente della Suprema Corte di Cassazione Giovanni Canzio, Maria Rosaria San Giorgio consigliere della Suprema Corte di Cassazione e componente togato del Consiglio Superiore della Magistratura, Giovanni Amoroso, Direttore dell’ufficio del Massimario, il magistrato Ercole Aprile consigliere della Suprema Corte di Cassazione e componente togato del Consiglio Superiore della Magistratura, Donato A. Limone e Giovanni Sartor entrambi professori di informatica giuridica, il primo all’Università di Bologna ed il secondo alla Sapienza di Roma, Sebastiano Faro, direttore dell’ITTIG del CNR di Firenze, Giuseppe Corasaniti sostituto procuratore della procura presso la Suprema Corte di Cassazione, Vincenzo Di Cerbo direttore del CED della Suprema Corte di Cassazione, e Pasquale Liccardo direttore della Direzione Generale sistemi informativi automatizzati del Ministero della Giustizia. chiamati ad illustrare le innovazioni più recenti già operanti in altri Paesi, e nonostante l’Italia è stato il primo Stato in Europa ad avere informatizzato il processo civile, è altresì vero che non è stata ancora assorbita la funzione dell’apporto digitali che potrebbe consentire alla giustizia italiana di poter fare il "salto di qualità" in termini di efficacia e tempi processuali. Il convegno è stato concentrato sulla parte "tecnica" dell’uso dell’informatica nell’ambito della giurisprudenza sia da parte "attiva" di avvocati, giudici e magistrati, sia da parte del cittadino con la sua parte di archivio: il primo vagito di supporto all’archiviazione è stato nel 1924, ma è nel corso degli ultimi 3 decenni che la necessità di un sistema efficiente di catalogazione e controllo dei vari e molteplici documenti ha superato il limite assoluto gestibile dall’analogico, sia nel Civile che nel Penale. Un’enorme vantaggio dell’uso dell’informatica è infatti la categorizzazione e classificazione delle Rassegne e l’istantanea archiviazione dei provvedimenti, oltre che una rapida consultazione degli stessi. In conclusione c’è ancora molta strada da fare per poter fruire di tutti i vantaggi che il digitale permette ; l’obbiettivo finale è quello di trasformare le pagine "biblioteca" in veri e propri portali per l’uso da parte di avvocatura e cittadini, che oltre all’aspetto informativo per il quale il digitale potrà in concreto contribuire alla velocizzazione dei procedimenti poiché uno dei principali, se non il principale ostacolo per investimenti e tutela dei diritti è l’eccessiva durata dei procedimenti e la percepita scarsa trasparenza dei meccanismi che li regolano, ed è stato proprio in questo senso che nel corso del convegno è stato posto l’accento sui nuovi processi telematici che si muovono in questo campo. Torino: al bar di Palagiustizia dovranno lavorare anche alcuni detenuti di Carlotta Rocci La Repubblica, 1 ottobre 2017 L’ultima gestione del tribunale era durata appena sei mesi, poi sul vincitore dell’appalto si era abbattuta un’inchiesta giudiziaria della guardia di finanza e una serie di aste andate deserte. A salvare la pausa caffè di magistrati e avvocati saranno, ora, i detenuti. Martedì mattina a palazzo di giustizia, infatti, il Comune - che è proprietario dei muri - il carcere di Torino e i vertici del tribunale firmeranno un protocollo d’intesa per affidare la gestione del punto ristoro a chi presenterà un progetto per il reinserimento lavorativo di detenuti ed ex detenuti. Per trovare il soggetto che organizzerà il servizio bar sarà aperto un nuovo bando di gara, vincolo è che coinvolga i detenuti con un ruolo attivo e i soggetti in grado di farlo a Torino non sono poi molti. Alla firma dell’accordo saranno presenti la sindaca Chiara Appendino, il presidente della corte d’appello Arturo Soprano, il Provveditore del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, Liberato Guerriero, il Procuratore generale presso la Corte d’Appello, Francesco Enrico Saluzzo, il direttore del carcere Lorusso e Cutugno, Domenico Minervini e la garante dei diritti delle persone private della libertà, Monica Cristina Gallo. Il bar aveva chiuso, per la seconda volta in pochi mesi, il 20 giugno di un anno fa. L’ultima gestione della Service Companies, arrivata dopo il fallimento della Ristor Matik che aveva gestito lo spazio per 10 anni, era durata appena 6 mesi, travolta da un’inchiesta della guardia di finanza. Quell’appalto vinto con una super-offerta di 205 mila euro su una base di 103 mila euro aveva creato i primi sospetti anche perché subito dopo l’aggiudicazione la società non era più riuscita a pagare il canone d’affitto accumulando oltre 100mila euro di debiti. ll pm Enrica Gabetta aveva aperto un’inchiesta per turbativa d’asta, truffa e corruzione. Sette persone erano finite in carcere, tutte coinvolte, secondo la procura, in un giro di bustarelle per aggiudicarsi l’appalto. Sempre secondo l’accusa tra i soci occulti della società ci sarebbe anche un affiliato del clan Nuvoletta, in altre parole la camorra. Dopo che la serranda si era abbassata a giugno, il Comune si era rimesso al lavoro per cercare, tra i secondi e i terzi arrivati nella vecchia gara d’appalto, società ancora interessate ma non c’era stato niente da fare: si erano tirati tutti indietro. Il nuovo protocollo che sarà siglato al settimo piano del palagiustizia segna, dunque, una svolta per la gestione dello spazio che è ormai diventato come un cono d’ombra all’interno del tribunale: se prima era il punto di ritrovo per gli avvocati e i magistrati, oggi nessuno si ferma davanti alla vetrina nemmeno per una sigaretta. L’arrivo dei detenuti, forse, invertirà la tendenza. Milano: il nido del carcere di Bollate che piace alle famiglie del territorio Il Giorno, 1 ottobre 2017 La maggior parte dei bambini iscritti arriva da fuori. Passa attraverso i bambini dai 3 ai 36 mesi un’inedita esperienza di integrazione e inclusione nel carcere di Bollate. All’avanguardia per il trattamento dei detenuti, è proprio nell’istituto di pena alle porte di Milano che è stato aperto l’asilo nido Blubaobab, gestito dalla Cooperativa sociale Stripes. Un caso unico all’interno di una casa di reclusione che ospita 1.200 detenuti: ventiquattro bambini, figli di agenti di polizia penitenziaria, di detenute ma soprattutto di famiglie del territorio, con un’offerta pedagogica innovativa all’insegna dell’educazione e della sostenibilità ambientale. Nell’equipe, accanto ad educatori e pedagogisti, c’è anche Artù, un cane Bovaro del Bernese, vero e proprio "pet therapist" a quattro zampe. C’è l’orto didattico realizzato dai bambini in cui si sperimenta un percorso di conoscenza e di scoperta di frutti e ortaggi. Ci sono i cavalli del maneggio aperto in carcere dall’associazione Salto Oltre il Muro. E un grande giardino per il gioco. "Il nostro asilo nido è parte di un programma di welfare più ampio per garantire il benessere di chi lavora in carcere, stiamo parlando di 480 persone tra polizia penitenziaria e amministrativi - dichiara Massimo Parisi, direttore del carcere. Inizialmente è stato aperto come nido aziendale, ma ci siamo scontrati con la loro diffidenza e le iscrizioni sono state pochissime. Da qui la sfida, cioè quella di aprire il nido al territorio offrendo un servizio alle famiglie in lista d’attesa nelle strutture comunali. C’è voluto del tempo, abbiamo dovuto superare dei pregiudizi, della paure, ma alla fine il territorio ha risposto e sono arrivate tante iscrizioni. Il tassello finale, nei mesi scorsi, quando abbiamo aperto una sezione per detenute mamme con figli. Oggi ci sono anche i loro bambini al nostro nido". Una scommessa vinta, dunque, che si è evoluta in modo differente rispetto ai progetti iniziali, ma che proprio per questo oggi rappresenta un caso unico in Italia. Ventiquattro bambini, di cui quattro stranieri, due figli di detenute mamme che hanno fatto l’inserimento "al contrario", cioè sono state le educatrici ad andare dalle mamme (in cella) e dai bambini per farsi conoscere e che ogni mattina vengono accompagnati al nido da operatori o volontari. Dieci figli di agenti di polizia penitenziaria che al mattino arrivano al nido del carcere accompagnati da papà e mamma, quattordici bambini di famiglie del territorio. Al mattino forse non varcano tutti lo stesso cancello, ma quando superano la porta dell’asilo nido, tolgono le scarpe e infilano le calzine antiscivolo, sono bambini che giocano e crescono insieme senza barriere culturali, senza pregiudizi. Ferrara: detenuti giornalisti e attori, quando scrivere e recitare rende liberi di Federica Pezzoli estense.com, 1 ottobre 2017 Il carcere di Ferrara ha aperto le sue porte ai cittadini e ai protagonisti di Internazionale per presentare "Astrolabio" e uno spettacolo teatrale. Una redazione giornalistica e una compagnia teatrale. Fin qui nulla di strano o particolarmente originale, se non fosse che entrambe sono formate da detenuti, per i quali la scrittura e la recitazione diventano strumenti per avere una voce e per farsi ascoltare, per tornare a essere riconosciuti come persone. Venerdì 29 settembre, in occasione del Festival di Internazionale 2017, un pubblico formato da ferraresi e giornalisti ha potuto entrare nel carcere di via Arginone per incontrare la redazione di "Astrolabio", il giornale della Casa Circondariale di Ferrara, e per assistere alla prima assoluta de "L’ascesa degli Ubu", un primo studio della nuova produzione della compagnia dei detenuti-attori del Teatro della Casa Circondariale "Costantino Satta". Sono stati i giornalisti-detenuti - David, Desmond, Flavio, Alberto, Pierluigi, Marsel, Hassane e Francesco - a rompere il ghiaccio presentandosi al pubblico e ai colleghi attraverso la lettura di frammenti dei propri pezzi: "La parola quando è scritta non è più privata, diventa bene comune", "Scrivere è come vivere fuori dalla prigione". Se il carcere è "un’isola", che fa notizia "solo quando c’è un fatto di cronaca nera", lo scopo di "Astrolabio" è "far conoscere la realtà carceraria alla società" e "rendere trasparente la realtà detentiva". "La scrittura - ha affermato uno dei redattori - è diventata parte della nostra vita, una necessità: ti senti vivo e quando non scrivi o non leggi ti senti quasi in colpa". "Dentro - ha continuato un suo collega - se gridi non ti ascolta nessuno, mentre se scrivi c’è la speranza che qualcuno legga e ascolti ciò che hai da dire" e anche qualcosa di più: "Scrivere mi fa sentire libero perché si possono scrivere cose che non si direbbero a nessuno", ha detto un altro giornalista detenuto. La testata, ha spiegato il curatore Mauro Presini, si chiama Astrolabio perché la redazione per chi partecipa "è uno strumento di orientamento". Quest’anno, ha continuato Presini, "diventiamo maggiorenni"; "l’obiettivo è creare un dialogo creativo con la città". Poi le luci si sono spente e il pubblico ha assistito alla "Irresistibile ascesa degli Ubu". Père e Mère Ubu sono nati dalla penna di Alfred Jarry nella Francia di fine Ottocento, ma il titolo dell’allestimento fa riferimento anche al brechtiano "L’irresistibile ascesa di Arturo Ui". Ed ecco allora questo guerriero, questo capitano dei Dragoni del re di Polonia, all’apparenza forte, ma in realtà fragile e incapace di prendersi le proprie responsabilità. Dietro di lui, a tessere i propri intrighi, una Mère Ubu sfrontata e determinata, plasmata sul personaggio di Lady Macbeth. Entrambi sono assetati di potere e di ricchezze, ma non ne sono altezza. Qui non c’è la tragedia del Macbeth shakespeariano, c’è solo una caustica e grottesca messa in scena del potere e di ciò che si fa per arrivare al potere, fra sfilate di soldati nord coreani e un trono che, sotto un’apparente maestosità, è e rimane la tazza di un water. Nove attori e sei mesi di lavoro che ha dato i suoi frutti: mentre si assiste si dimentica che a recitare sono detenuti e, anche grazie alla regia di Horacio Czertok e alla musica dal vivo di Davide Della Chiara, che si è dietro le mura di un carcere. Dopo i meritati applausi, anche il direttore Paolo Malato, si è complimentato con il regista e gli attori per l’impegno e i risultati raggiunti e l’assessora ai Servizi alla Persona del Comune di Ferrara, Chiara Sapigni, ha aggiunto che da serate come questa "usciamo tutti più ricchi". Dal canto suo Horacio Czertok, che ormai dal 2005 cura il progetto Teatro Carcere di Ferrara, ha ringraziato tutto il personale della casa circondariale per la preziosa "complicità" senza la quale la serata, e il laboratorio stesso, non potrebbero essere realizzati. "Grazie per aver voluto costruire con noi questo momento di teatro - ha aggiunto rivolto al pubblico. È un modo di fare cultura attraverso la pratica di una visione: questa sera era la visione di teatro di Jarry". L’appuntamento ora è per maggio al Teatro Comunale Claudio Abbado con la caduta degli Ubu. Aversa (Ce): inaugurata area giochi presso ex Opg per figli in visita ai genitori detenuti di Anzia Cardillo larampa.it, 1 ottobre 2017 È stata presentata ieri mattina presso la Casa di reclusione in via Saporito l’area giochi realizzata grazie all’associazione Soroptimist International club di Aversa. Una novità significativa, che permetterà ai figli dei detenuti di usufruire del parco e di trascorrere del tempo all’aperto durante l’orario di visita. L’iniziativa è stata presentata dalla dottoressa Elisabetta Palmieri, direttrice della struttura detentiva, dal sindaco Enrico de Cristofaro, dalla presidente dell’associazione Soroptimist club di Aversa, la dottoressa Maria Pia Velardi e dal senatore Lucio Romano. Presenti all’incontro di oggi anche sua eccellenza il Vescovo Monsignor Angelo Spinillo, la dottoressa Elisabetta Garzo, presidente del tribunale di Napoli Nord, tantissime altre autorità e rappresentanti delle più importanti associazioni del nostro territorio. L’area giochi rientra in un progetto dal grande valore che riabilita il detenuto al contatto con i propri familiari e che rende la struttura improntata ad una nuova etica di convivenza sociale. Il sindaco ha espresso l’intenzione di voler contribuire ad ampliare ancora di più progetti di questo tipo che rendono sicuramente meno dura la permanenza del detenuto e anche meno tristi le visite dei minori ai loro genitori. É intervenuto anche il Vescovo che ha considerato questa importante iniziativa un valido tentativo di umanizzazione della realtà carceraria che contribuisce alla crescita della comunità. Roma: "Zero scuse", nel carcere di Rebibbia ha vinto l’integrazione progettodiritti.it, 1 ottobre 2017 Atletico Diritti è arrivata alla sua quarta stagione e per presentarsi non poteva scegliere luogo e occasione più capaci di sintetizzare la sua mission. Il 26 settembre nel carcere di Rebibbia la squadra di calcio di Atletico, composta da migranti, rifugiati, studenti universitari e persone in esecuzione penale, ha incontrato in un triangolare la squadra dei detenuti del penitenziario, e la squadra di Magistratura Democratica al suo esordio su un campo da calcio. L’incontro, dal titolo Zero scuse. Il calcio per l’integrazione è stato introdotto da un convegno cui hanno partecipato, oltre ai rappresentanti delle due associazioni che hanno dato vita ad Atletico Diritti, Progetto Diritti e Antigone e dell’Università Roma Tre che dall’inizio ha sostenuto questo progetto, il sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore, il direttore della Casa di Reclusione di Rebibbia Rosella Santoro, la Responsabile strategia e responsabilità sociale del Coni Teresa Zompetti e il Direttore di Banca Etica Alessandro Messina. È stato proprio quest’ultimo a illustrare una delle principali novità di quest’anno per quanto riguarda la squadra, ovvero la sponsorizzazione da parte di Banca Etica. "Ci piace supportare il progetto di questa squadra - ha dichiarato - perché oltre ad affermare diritti e la necessità di una politica inclusiva, rappresenta un’attività concreta che favorisce l’incontro tra persone e tra persone e istituzioni, che riteniamo coerente con la nostra idea di finanza etica". Banca Etica si è anche impegnata a donare materiale tecnico e sportivo per i detenuti del carcere di Rebibbia. Anche Zerocalcare ha voluto dare il suo in bocca al lupo, realizzando un disegno per Atletico Diritti che accompagnerà la squadra per l’intera stagione. Durante il convegno, la presidente dell’Atletico Diritti, Susanna Marietti, ha richiamato la campagna #Sign&Pass, lanciata dal Barcellona e dall’Unhcr con l’obiettivo di far crescere la consapevolezza sulla drammatica condizione che milioni di rifugiati stanno vivendo in tutto il mondo. Hanno firmato ("sign") e passato ("pass") questo pallone simbolico quasi 1 milione e mezzo di persone, con il campione Lionel Messi tra i primi ad apporre il suo nome. "Il calcio, in particolare - ha detto la Presidente - sa arrivare davvero a tutti con i propri messaggi. È per questo che oggi chiediamo che anche i club italiani si uniscano a #Sign&Pass. Ed è per questo che da anni ci battiamo per un nuovo regolamento, affinché la Figc allarghi le maglie per l’accesso al calcio così da non escludere i richiedenti asilo". Ma non solo calcio c’è nell’avventura di Atletico Diritti. Già da due stagioni la Polisportiva è impegnata nel cricket, con il Fondi Cricket Club - Atletico Diritti, squadra composta da migranti indiani e bengalesi che nel sud pontino ha ottenuto ottimi risultati. E per la stagione 2017-218 farà il suo esordio anche una formazione di Basket che disputerà il suo primo campionato di Promozione. Il Ministro della Giustizia Andrea Orlando, che non ha potuto essere presente all’iniziativa, ha inviato un suo messaggio di sostegno: "l’impegno agonistico di questi ragazzi testimonia più di tante parole come lo sport sia uno strumento per combattere disagi ed emarginazione. Ci auguriamo che iniziative del genere e percorsi di integrazione sociale simili a questo siano sviluppati in tutto il territorio nazionale". Ed è stata proprio questa la richiesta che a fine giornata veniva da tutti i partecipanti alla manifestazione. Che queste iniziative non restino isolate e superino il carattere dell’eccezionalità per diventare eventi ordinari, che lo sport con la sua forza aggregativa e la sua capacità di abbattere i muri diventi sempre più occasione per sentirsi alla pari. Anche i Magistrati di MD, che per una volta non entravano in un penitenziario per lavoro, hanno parlato di un’occasione densa di emozioni e significato. "Sono convinto che, forse solo per un giorno e a prescindere dal risultato sul campo, ieri le vite di molti di loro sono state attraversate da un raggio di luce. L’ho visto nei loro sguardi a fine partita, l’ho sentito negli abbracci che ci siamo scambiati, me lo hanno detto", così Rocco Maruotto, della Procura di Rieti. Una sfida sportiva vinta dagli ospiti di casa e una sfida dell’integrazione vinta, per una volta, da tutti. Teramo: il Progetto Lectus va anche in carcere di Elisabetta Di Carlo certastampa.it, 1 ottobre 2017 Per "Lectus. Vox Populi" è uno degli appuntamenti più significativi, certamente quello che ha richiesto la maggiore attenzione da un punto di vista artistico, emotivo e culturale: le letture in carcere. Grazie alla collaborazione degli operatori della Polizia penitenziarie e dell’Area Educativa della Casa Circondariale e al team degli operatori sociali che gravitano sul pianeta Castrogno, tra cui citiamo la Direttrice dell’Ufficio Locale di Esecuzione Penale Esterna, Teresa Di Bernardo e la volontaria Emiliana Colaiuda, l’appuntamento di martedì 3 ottobre - dalle 9.30 alle 11.30 - è il frutto di un laboratorio svolto dal comitato Lectus insieme ai detenuti e alle detenute. Alcuni di loro non sono nuovi a simili esperienze: quest’anno, a cura della casa editrice Evoè, è stato pubblicato "I numeri dispari sono di troppo" scritto da Salvatore D’Ascenzo (giuliese classe 1982, da anni dedito ad attività umanitaria in diverse parti del mondo) in collaborazione con otto detenuti della sezione maschile di Castrogno, autori di altrettanti racconti. Con Lectus è stato possibile lavorare anche con la sezione femminile, per la prima volta le detenute faranno ascoltare la loro voce, con scritti autografi e con letture selezionate insieme al direttore artistico Renato Pilogallo. Tre detenute porteranno fuori la loro voce partecipando ad alcuni degli appuntamenti di Lectus: saranno presenti a "Sottosopra", negozio di abbigliamento su Corso San Giorgio, dove si leggerà anche di moda e di gossip. Da citare l’accorata "Lettera sulla felicità" scritta da un’ospite della sezione femminile. "Abbiamo ascoltato, noi siamo entrati con degli scritti e loro ci hanno accolto con le parole, alcune inaspettate - sottolinea Renato Pilogallo - portavamo con noi duecentocinquanta letture: le scelte fatte dai detenuti, nessuna banale, rispecchia da una parte il rimpianto per quello che non hanno vissuto in questi anni e dall’altra il desiderio di tornare a far parte della parte sana della comunità. Quattordici proposte e fra queste Calamandrei, Aldo Moro, Chaplin, tanta storia e saggistica: emerge forte la coscienza di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato e questo ci ha fatto riflettere molto sull’aspetto rieducativo del carcere. C’è un grande desiderio di comunicare e molto di quello che comunicano è rivolto a sé stessi, alla propria coscienza. Per tanti il carcere è stato il primo vero approccio con la lettura, i libri, i giornali: ciò ha fatto maturare una diversa interpretazione della loro vita". Mentre alcuni detenuti potranno leggere fuori dal carcere, dentro la Casa Circondariale ci saranno anche alcuni lettori di Lectus: il prorettore di UniTe, Dino Mastrocola; la presidente della Fondazione Tercas, Enrica Salvatore; il presidente della Provincia, Renzo Di Sabatino; la scrittrice e giornalista Alessandra Angelucci; l’insegnante Daniela Sangiovanni; la giornalista Sara De Santis; i bibliotecari Dimitri Bosi e Nadia Di Luzio. Cuneo: teatro in carcere, l’esperienza del "Morandi" di Saluzzo di Sara Tricarico piemontemese.it, 1 ottobre 2017 "È cominciato tutto così, per caso. Il tempo non passava, mi annoiavo, cercavo qualcosa da fare ed ecco che vedo nella bacheca in sezione la proposta di un corso di teatro. Ho pensato: per continuare a far niente posso iscrivermi a questo laboratorio… sono un po’ timido, un po’ chiuso, questo magari mi servirà a qualcosa… se non altro a distrarmi dalla monotonia quotidiana". A pronunciare queste parole è Ilario, uno dei tanti uomini che, dopo una condanna, è stato obbligato a passare una parte della sua vita in carcere a Saluzzo. Come lui, altre persone relegate a questa condizione, hanno deciso di approfittare della proposta di un corso di teatro. Il progetto "Teatro in Carcere" nasce infatti nel 2002 nella Casa di Reclusione "Rodolfo Morandi" di Saluzzo. La richiesta di organizzare questa attività arriva dall’allora direttore del carcere Marta Costantino, che chiese all’associazione "Voci Erranti" di incominciare un percorso teatrale con i detenuti della struttura. Il progetto, diretto e portato avanti da Grazia Isoardi, ha attratto molti carcerati fin dal primo momento; la maggior parte ammette che inizialmente il laboratorio rappresentava solo una buona opportunità per poter passare qualche ora fuori dalla sezione, tenendo impegnata una parte della giornata. Il laboratorio nasce seguendo il filone del teatro sociale, definendosi per lo stretto rapporto che si instaura tra il singolo individuo e il gruppo di lavoro in relazione alla vita all’interno dell’istituzione carceraria. Inoltre non assume come finalità principale la realizzazione di un prodotto esteticamente bello, come nel teatro convenzionale; l’obiettivo è invece dare vita a un processo di costruzione e maturazione degli individui coinvolti. Il teatro sociale che, vede come suo precursore Jacob Levi Moreno, psichiatra statunitense, inizia ad affermarsi in Italia nei primi anni Settanta come una forma d’arte che prevede un lavoro profondo e significativo sui ruoli sociali e psicologici del soggetto, sfruttando le potenzialità terapeutiche del teatro e utilizzandolo come vero e proprio trattamento e cura di persone che vivono una situazione di difficoltà psicologica ed emarginazione sociale. All’interno del carcere di Saluzzo niente di quello che è portato in scena viene studiato a tavolino, i detenuti portano sul palco solo la verità del loro essere uomini e, affinché questo riesca, è essenziale concentrarsi su un teatro molto fisico, d’impatto, di presenza. Il lavoro si basa sull’ascolto dei detenuti, sui loro desideri, sulle loro paure e l’obiettivo è riuscire a spogliarsi da stereotipi e maschere per entrare in scena puri portando la propria condizione di esseri umani. "Ci piace affermare che il teatro è un’arte di tutti, che la teatralità appartiene all’essere umano e che la sua pratica non può che aiutarci ad abbattere le tante barriere che ci siamo costruiti nel tempo. Sentiamo il bisogno di relazioni autentiche, di poter esprimere pensieri e sentimenti in libertà, di ascoltare noi stessi e ritrovare aspetti di noi nello sguardo degli altri. Ritornare all’essenza, al piacere del gesto involontario, alla presenza priva di rumori. Il Laboratorio Teatrale è lo spazio dove poter intraprendere questo viaggio della necessità". Il teatro in carcere non si impone di creare attori, ma è un teatro che fa riemergere l’uomo nudo e la sua biografia, togliendogli di dosso l’identità coatta che la prigione impone. I detenuti lo descrivono come un lavoro che pulisce, purifica e non fa pensare; come un’occasione per portare in scena alcuni aspetti del male che loro stessi hanno vissuto all’interno delle loro esistenze e della condizione carceraria. Il progetto di Saluzzo, però, non vuole solo essere uno strumento terapeutico per i detenuti, ma anche un collegamento sociale tra il carcere e il mondo esterno. Nei primi anni, infatti, il laboratorio teatrale iniziava a settembre e proseguiva fino a giugno, concludendosi con uno spettacolo a porte aperte. Una decisione tanto innovativa quanto provocatoria, forse. Per un giorno all’anno il carcere apriva le sue porte per invitare tutta la comunità a presenziare alla messa in scena dello spettacolo. Inizialmente molti sono stati gli scettici; l’occhio dello spettatore può fare molta fatica a guardare l’attore in modo neutro, spogliandolo dell’etichetta, dal momento che è consapevole della sua condizione di non libertà. Ad aumentare i dubbi è stata anche la paura di un contatto così ravvicinato con un mondo che è quotidianamente nascosto e con persone che vivono relegate ad una condizione di espulsione. In realtà, superate le prime incertezze e diffidenze, gli spettacoli hanno avuto un successo inaspettato, riempiendo gli spazi del carcere di persone interessate a conoscere questa realtà. Spettacoli - come "Amunì" e "Non calpestare i fiori" - sono stati acclamati e ogni data ha fatto il tutto esaurito, tanto da rendere necessario fissare più appuntamenti all’anno. Gli spettacoli sono stati portati fuori delle mura del carcere, dando la possibilità ai detenuti di esibirsi in luoghi diversi dalla prigione. Dal 2004 il gruppo partecipa a rassegne e festival; nel 2006 Rai Tre ha dedicato al progetto una puntata della trasmissione Racconti di vita e la televisione belga KVS nel 2008 ha prodotto un documentario sull’esperienza del gruppo. Nel febbraio 2008 è stato rappresentato lo spettacolo "Lividi" all’interno della stagione di Teatro Sociale del teatro Eliseo a Roma. È in questo scambio che avviene il contatto fondamentale, obiettivo poi del progetto: la società entra nel carcere ma, allo stesso tempo, il carcere esce e si mischia alla società, pur necessitando una mediazione tra equilibri e disequilibri che emergono in tutta la loro delicatezza. Le produzioni carcerarie sono ormai una realtà solida, ora anche riconosciuta dal Coordinamento Nazionale del Teatro in carcere oltre ad aver riscosso grande consenso come attività di qualità, d’avanguardia e altamente significativa per la cultura e l’integrazione nel nostro territorio piemontese. Diverse sono le persone che da anni sostengono e credono nel progetto come realtà formativa e riabilitante per i detenuti e, come occasione di apertura verso la cittadinanza e il territorio. In questa prospettiva il teatro in carcere è cultura che diventa occasione di cambiamento, luogo in cui il detenuto può rivedersi e sperimentare un modo nuovo di relazionarsi, scoprire capacità espressive e rielaborare il proprio vissuto. Perché, come disse un giorno Mario, "se invece che pane e pistole avessi mangiato pane e cose belle, oggi non sarei in galera". Roma: concerto della christian rock band Kantiere Kairòs a Rebibbia il 7 ottobre agensit.it, 1 ottobre 2017 La christian rock band Kantiere Kairòs sbarca per la prima volta nella capitale con il tour "Un passo oltre", titolo dell’inno scelto quest’estate per la 37a Marcia francescana del perdono di Assisi. E arriva a Roma per due concerti: il primo è in programma sabato 7 ottobre alle 14,30 circa presso il carcere di Rebibbia, riservato ai detenuti della Terza Casa e alle loro famiglie. Non è la prima volta che il gruppo cosentino varca la soglia di un penitenziario: "Era il 23 marzo dello scorso anno quando abbiamo avuto la grazia di esibirci nella casa circondariale Sergio Cosmai di Cosenza. È stata un’esperienza profonda, toccante - ricordano i membri della band. Ci sarà una seconda volta. Canteremo come sempre la speranza, e come sempre porremo l’accento sulla bellezza dell’incontro con Cristo e della gioia che ne scaturisce". Domenica 8 ottobre alle 16,30 il teatro della parrocchia San Giovanni Battista de la Salle (via dell’Orsa minore 59, zona Torrino) ospiterà lo spettacolo della band calabrese, formata da cinque musicisti professionisti. "Sarà il nostro primo concerto nella capitale, aperto a tutti"", commentano. L’esibizione, a ingresso libero, è inserita nell’ambito della missione parrocchiale e della Giornata dell’accoglienza promossa dal parroco, don Massimiliano Nazio. Durante il concerto sono previste le testimonianze di alcuni detenuti; inoltre verranno raccolti fondi per l’associazione "Mandorlo in fiore", formata da familiari di detenuti a Rebibbia, e per la Onlus "Oltremare" che li destinerà alla missione in Eritrea delle Francescane Missionarie del Cuore Immacolato di Maria, suore impegnate in parrocchia. Kantiere Kairòs nasce nel 2013. Ha un nome greco che significa "tempo di grazia, momento favorevole"; ciascuno dei cinque componenti del gruppo si sente come un operaio di un cantiere, al lavoro per la sua conversione e per l’annuncio dell’amore di Dio attraverso la musica. Info: www.kantierekairos.it All’armi siam razzisti di Guido Barbujani Corriere della Sera, 1 ottobre 2017 Con l’accentuarsi delle diseguaglianze, gli atteggiamenti discriminatori sono meno espliciti, più diffusi e politicamente trasversali È possibile, è giusto, giudicare in blocco i comportamenti di un intero popolo? La risposta di Primo Levi, come sappiamo, era sì. Ci sono tendenze generali, a cui i singoli possono sottrarsi (e così facendo non condividerne la responsabilità) ma a cui la maggioranza obbedisce: e questa obbedienza di massa legittima un giudizio collettivo. Levi pensava alla Germania ai tempi della Shoah; nel loro "Non sono razzista, ma" (Feltrinelli), Luigi Manconi e Federica Resta si interrogano invece sull’Italia dei nostri giorni. La loro risposta è netta: dire che gli italiani sono razzisti è una sciocchezza, ma è vero che in Italia comportamenti apertamente razzisti sono sempre più tollerati e giustificati. Come hanno notato i linguisti (in particolare Federico Faloppa in Contro il razzismo, a cura di Marco Aime, Einaudi), la frase "non sono razzista, ma" è carica di significato. Dimostra come il razzismo non stia bene sbandierarlo, ed è già un progresso: nel 1938, su La Difesa della razza si proclamava invece che "è tempo che gli italiani si dichiarino apertamente razzisti"; però il "ma" introduce una conclusione che, c’è da scommetterci, negherà la premessa. Oggi gli atteggiamenti discriminatori, scrivono Manconi e Resta, sono appunto così: meno espliciti di un tempo e più diffusi. Si mettono le mani avanti, ma si finisce per manifestare opinioni e pregiudizi fino a pochi anni fa giudicati volgari o inaccettabili. Sembrerebbe insomma che la fenomenale capacità italica di assuefarsi a qualsiasi cosa si stia estendendo al discorso razzista, meglio se soggetto a preventivo maquillage: per esempio, in nome della tutela dei diritti degli autoctoni, o di preziose tradizioni messe a repentaglio nella società multietnica. Quanto poco fondamento abbiano queste posizioni, quanto poco corrispondano ai fatti, Manconi e Resta lo documentano fin dalle prime pagine. Non è vero né che il nostro Paese sia sottoposto a un tasso di immigrazione insopportabile, né che gli immigrati godano di privilegi rispetto agli altri cittadini, né che l’immigrazione produca costi per il bilancio dello Stato. È vero il contrario, come tutti sanno ma molti dimenticano: secondo Confindustria, nel prossimo decennio l’Italia avrà bisogno di 150mila immigrati l’anno, e qui Italia vuol dire, per esempio, il sistema pensionistico, l’Inps. E allora? È sotto gli occhi di tutti: Libertà ha stravinto, di Uguaglianza e Fraternità non si sente più parlare, o se ne parla malissimo. Con l’accentuarsi delle disuguaglianze, la fraternità - oggi la chiamiamo solidarietà - ha cambiato connotati. Era la risorsa dei più deboli, adesso i deboli la vedono come un lusso che solo i ricchi possono permettersi E allora "se gli immigrati vi piacciono tanto, prendeteli a casa vostra", punto. Ma se si attenuano o saltano i legami di solidarietà, se non ci si sente più in qualche modo sulla stessa barca, cambiano tante cose. Pratiche di esclusione e discriminazione diventano prima concepibili, poi praticabili, infine vengono reclamate come ultima risorsa davanti a conflitti che sembrano senza uscita. Così, in uno dei passi più intensi e sorprendenti del libro, Manconi e Resta provano a interpretare le parole "non siamo razzisti, ma" in chiave diversa. Possono anche, ci dicono, essere lette come una richiesta d’aiuto: fate funzionare lo stato sociale, aiutateci a non diventare razzisti. Nell’età che qualcuno ha chiamato della post-verità, non stupisce trovare in questo libro la dimostrazione, una volta di più, che cose non vere, se ripetute a sufficienza e a voce sufficientemente alta, possono penetrare un po’ alla volta nel senso comune. Come ci siamo arrivati? Per un intero capitolo, con accuratezza da antropologi e (il che non è semplice) con grande equilibrio, Manconi e Resta si concentrano su una figura esemplare, quella di Roberto Calderoli. Un razzismo bonario, il suo, anche quando chiama orango una ministra della Repubblica, Cécile Kyenge; una "xenofobia strapaesana", fatta di dichiarazioni virulente, ma presto banalizzate e minimizzate; un sistema "di stereotipi, di pregiudizi e di cliché" di cui si coglie subito la fragilità, camuffata da buon senso. Il tutto, però, accompagnato da una strategia comunicativa elementare ma efficace, e da quella che gli autori battezzano giustamente "la tendenza a una puerile e spensierata irresponsabilità". Si lancia il sasso e si ritira la mano; si mostra in televisione una maglietta con una vignetta islamofoba, e se poi (attraverso una catena di eventi che Calderoli non poteva prevedere, ma a cui non è estraneo) si finisce con undici morti, pazienza, tanto sono morti a Bengasi. Un solo, piccolo appunto. A questo libro, bello, intenso e (il che non è semplice) mai sopra le righe, manca secondo me un capitolo. "Doctor Ho is in the house", dicevano gli americani in Vietnam, quando avvertivano la vicinanza del nemico: abbiamo in casa il dottor Ho, i vietcong. Nel maggio di quest’anno, il presidente Pd della regione Friuli-Venezia Giulia, Debora Serracchiani, che pure ha frequentato le aule dei tribunali e ci avrà senz’altro letto che la legge è uguale per tutti, ha dichiarato che una violenza sessuale è "più inaccettabile" se perpetrata da un richiedente asilo; a luglio, Patrizia Prestipino, del Pd, ha invocato misure in difesa della razza italiana; a settembre, Alice Zanardi, sindaco Pd di Codigoro, ha pensato di tassare chi offrisse ospitalità a immigrati nel suo Comune. La scelta degli immigrati come capro espiatorio su cui far sfogare la frustrazione dei cittadini, in una ricerca degradante di consenso a buon mercato, non è più il triste monopolio della destra estrema; ormai trova spazio anche nel partito di Luigi Manconi. Abbiamo in casa il dottor Ho, senatore Manconi: facciamo qualcosa per neutralizzare, prima di tutto, il razzismo di chi ci sta vicino o finiremo per perdere, senza quasi combatterla, la battaglia di civiltà più importante dei nostri tempi. Minniti: solidarietà nazionale contro terroristi e trafficanti di uomini di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 1 ottobre 2017 Il ministro dell’Interno: "Non ho strizzato l’occhio a FdI. Io da sempre di sinistra, la mia famiglia di militari". E sugli scissionisti: "Hanno commesso un grandissimo errore" Ministro Minniti, ma lei è di sinistra o di destra? "Mi sento profondamente di sinistra. Quand’ero ragazzo ho scelto un partito politico…". Il Partito comunista italiano. "E non l’ho mai cambiato; ho contribuito a cambiarlo dall’interno. Con la rottura traumatica ma necessaria dell’89. E con la svolta di dieci anni fa. Se non avessi contribuito allora a far nascere il Pd di Veltroni, l’avrei fatto adesso. Perché il Pd nasce per rispondere alle grandi sfide del mondo globale, come l’immigrazione e il terrorismo. Non è possibile leggere fenomeni così complessi se si ritorna all’identità precedente". E gli scissionisti, quindi? "Hanno commesso un gravissimo errore. Un grande democratico americano disse: "Un partito che si batte per i diritti delle minoranze non può essere minoritario; deve parlare alla maggioranza". Lei viene da una famiglia di destra? "Vengo da una famiglia di militari. Mio padre ebbe otto fratelli: tutti e nove fecero i militari". Combatterono la Seconda guerra mondiale? "Molti sì. Nell’aeronautica mio padre servì la patria in tutti i modi e i luoghi in cui poteva farlo: Dodecaneso, Spagna, Africa settentrionale, Russia; e, dopo l’8 settembre, con gli Alleati. Mio zio era nei diavoli rossi, la pattuglia acrobatica". L’aeroporto della sua città è intitolato a Tito Minniti: asso dell’aviazione fascista, vero? "Era anche lui di Reggio Calabria. Fu abbattuto in Africa orientale, decapitato, la testa portata in trionfo dalle truppe del Negus. È medaglia d’oro al valor militare". Lei alla festa di Fratelli d’Italia ha un po’ strizzato l’occhio: la scrivania del Duce, la scrivania di Italo Balbo… "Non ho strizzato l’occhio; ho raccontato la mia storia. Il testone mi ha sempre perseguitato, l’avevo già a sei mesi. Persi i capelli a 19 anni: non sopportavo il cappellino, trovavo ridicolo il riporto; mi rasai a zero. Quando entrai a Palazzo Chigi come sottosegretario mi toccò la scrivania di Mussolini, da sottosegretario alla Difesa quella di Balbo, sul muro era scritto: "Chi vale vola, chi non vale non vola, chi vale e non vola è un vile". Ma ai giovani di destra ho detto che non devono permettere al morto di afferrare il vivo. Mi viene in mente un verso di Catullo: "Povero Catullo, smettila di fare follie, e quel che è finito consideralo finito per sempre"". Ma in giro c’è parecchio neofascismo, o no? "Certo che c’è. Non ho timore di assumere posizioni nette, come quando ho detto alla Camera che una manifestazione che si richiama alla marcia su Roma e al 28 ottobre per me non si può fare. Alla festa di Atreju c’è stato un confronto vero, anche duro. Quando ho sentito dire che il Pci era estraneo alla storia positiva del Paese, mi sono ribellato. E ho rivendicato la funzione nazionale del Pci negli anni di piombo". Oggi qualcuno la accosta a Pecchioli, il contraltare comunista di Cossiga. "Lasci stare, Pecchioli era un grande. L’essenziale fu che, quando qualcuno definì le Brigate rosse "compagni che sbagliano", il Pci disse: chi spara non è un compagno. Questo ha consentito alla democrazia italiana di reggere la sfida del terrorismo interno. Di più: ha creato un modello italiano di lotta al terrorismo". Anche per questo finora siamo stati al riparo dagli islamisti? "Certo. Abbiamo un know-how. Sappiamo come fare. Ma la guardia deve restare sempre alta. E la profonda unità delle grandi forze politiche su questi temi dovrebbe essere un valore sentito da tutti". Una nuova solidarietà nazionale sul contrasto al terrorismo e al traffico di esseri umani? "Sì. Sui grandi temi di fondo, un grande Paese non si divide. La mia scelta di metterci la faccia, senza entrare nel campo aperto della contrapposizione politica, ha questo significato. Solo così si affronta il tema cruciale della società moderna". Quale? "La paura. Perché la paura non va esorcizzata. Non si può far finta che non esista. È un sentimento molto profondo, che a volte viene negato perché si prova disagio a confessarlo; ma c’è. Se tu ti rapporti a un cittadino che ha paura dicendo di non capirlo, di biasimarlo, non lo aiuti. La cultura della sinistra riformista ci impone il contrario: dimostrare al cittadino che abbiamo percepito il suo sentimento; e lavorare per liberarlo dalla paura. Questo ci distingue dai populisti. Che vogliono tenere le persone incatenate alla paura". Lei ha appena ricevuto il generale Haftar. Chi comanda in Libia? Lui o il premier Serraj? "Se vogliamo fermare il traffico più inaccettabile che esista, il traffico di esseri umani, dobbiamo stabilizzare la Libia. I trafficanti hanno bisogno di istituzioni deboli, di sovranità sfumata, di controllo del territorio. Noi abbiamo sviluppato un rapporto molto forte con il governo riconosciuto dalla comunità internazionale: il governo Serraj". Perché incontrare Haftar allora? "Era giusto fare un passo anche verso di lui, in un percorso di riconciliazione nazionale. Dobbiamo essere riconoscenti per quanto hanno fatto i libici contro lo Stato islamico: per liberare Sirte i giovani di Misurata hanno avuto 500 caduti. La comunità internazionale, Italia compresa, ha un debito verso la Libia, perché siamo intervenuti contro Gheddafi senza avere un piano per la ricostruzione del Paese. Che per noi è strategico: per i flussi demografici; per l’energia; per il contrasto al terrorismo". Ci sono terroristi in Libia, che potrebbero imbarcarsi per l’Italia? "Ci possono essere. La situazione è attentamente monitorata. Per l’Isis hanno combattuto 30 mila foreign fighters: la più grande legione straniera della storia. Ora che l’Isis viene sconfitto, i legionari tornano a casa, a piccoli gruppi o individualmente. E qualcuno potrebbe tentare la sorte lungo la rotta dei flussi migratori". Un grande inviato di guerra del "Corriere", Lorenzo Cremonesi, ha raccolto testimonianze secondo cui il governo italiano avrebbe pagato trafficanti per fermare gli sbarchi. La notizia è stata ripresa all’estero, "Le Monde" ci ha aperto il giornale. Cosa risponde? "Ho già smentito". Una smentita di rito. "Una smentita vera. Noi abbiamo investito in Libia, in Africa. Ma sulla legalità; non sull’illegalità". A quali investimenti si riferisce? "Stiamo formando gli equipaggi della Guardia costiera, abbiamo risistemato e restituito quattro motovedette, altre sei le daremo a fine anno: in nove mesi i libici hanno salvato e portato indietro 16.500 persone. I capi dei Tuareg, dei Tebu e dei Suleiman, le tribù guardiane del deserto, sono venuti qui a Roma a firmare la pace dopo anni di guerre. Un sultano mi ha detto: "Fate sì che i nostri figli non siano costretti a fare i trafficanti". La Libia è vittima del traffico, proprio come l’Italia. Perché nessun Paese può reggere a lungo prosperando su un mercato di esseri umani". Qual è l’alternativa? "Riconvertire l’economia libica: voi vi impegnate a sganciarvi dai trafficanti, e noi vi aiutiamo a costruire il futuro. Una scommessa che i sindaci delle 14 principali città hanno accettato. Sono venuti con le slide, per illustrare il loro piano di sviluppo: la tac per gli ospedali, il parco per i bambini; ma al primo punto tutti hanno messo l’assistenza ai migranti. E noi abbiamo coinvolto l’Europa. Per chiudere la rotta balcanica l’Europa ha dato tre miliardi alla Turchia, con la promessa di altri tre; ora deve aiutare anche la Libia". Qual è la sorte dei migranti nei campi? Testimonianze inoppugnabili parlano di violazione dei diritti umani, stupri, assassini. "Per noi è un impegno assoluto: non possiamo e non vogliamo voltarci dall’altra parte. È inaccettabile che si riproducano le condizioni dei tempi di Gheddafi. Ma ora l’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, è tornata in Libia. E vi ha messo piede l’Unhcr, l’Organizzazione Onu per i rifugiati. Ci sono le Ong. E c’è l’impegno diretto dell’Italia: viveri, medicinali. L’Unhcr ha visitato 27 campi su 29. Ha individuato mille tra donne, bambini e anziani che verranno accolti in Europa". Una goccia nel mare. C’è stato un voltafaccia dell’Italia, dall’accoglienza ai respingimenti? "L’accoglienza ha un limite nella capacità di integrazione. Un giovane del Sahara che si mette in viaggio verso Nord è mosso dalla radicale speranza di una vita migliore. Se si rovescia in una radicale disillusione, la sua forza costruttiva diventa una forza distruttiva verso la società che l’ha disilluso. Si arriverà in Italia legalmente, tramite le ambasciate, le richieste, i visti; ma tutto questo sarà possibile se sconfiggeremo l’immigrazione illegale". E i migranti bloccati nel deserto? Che ne è di loro? "L’Oim è anche nel deserto, ha cominciato i rimpatri assistiti, ne ha già fatti 7.300. Abbiamo realizzato una cabina di regia con Niger, Ciad, Mali, costruendo un rapporto diretto con tre Paesi da sempre nell’orbita francese. Si deve affermare l’idea che il confine Sud della Libia è il confine dell’Europa. E si sta affermando: gli ingressi sono diminuiti del 35%. Non è un fatto casuale; abbiamo una visione, una strategia. Può essere criticata, presentata come un libro dei sogni; ma c’è. L’immigrazione dev’essere separata dall’emergenza. L’emergenza è l’approccio caro ai populisti, perché crea allarme e paura". D’Alema la accusa: "Minniti dice di essere tormentato. Ma lui è ministro: dovrebbe agire per mettere riparo alle conseguenze delle sue decisioni". "Mi pare che in queste due ore di conversazione abbiamo dato una risposta esaustiva a D’Alema". Ius soli, troppe ipocrisie di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 1 ottobre 2017 Se la legge sulla cittadinanza ha una sua necessità storica bisogna aprire gli occhi sugli effetti che avrà su di noi, cambiando la nostra identità. L’incerta gestione politica che il Pd ha fatto della legge sulla cittadinanza e il relativo rimpallo di responsabilità non devono far perdere di vista il merito del provvedimento. Che è giusto che vada in porto - dal momento che alla necessaria integrazione degli immigrati serve una simile legge - ma con alcune modifiche dettate da circostanze che fin qui, invece, non sembrano essere state prese in considerazione. Circostanze che secondo me sono soprattutto le seguenti: 1) Se è demagogica l’immagine agitata dalla Destra di un’Italia a rischio d’invasione dall’Africa, è pure demagogica e falsa l’idea divulgata da certa Sinistra e da certo cattolicesimo, che approvare la legge sarebbe dettato da un elementare dovere di umanità. Fino a prova contraria, infatti, coloro che oggi si trovano in Italia, tanto più se con un regolare permesso di soggiorno (ed è a questa condizione che fa sempre riferimento anche il progetto di legge) non si trovano certo in una condizione di reietti, di non persone prive di diritti. Non sono condannati a un’esistenza immersa nell’illegalità. Essi e i loro figli, nati o no che siano qui da noi, sono protetti dai codici e dalla giustizia della Repubblica, hanno diritto all’assistenza sanitaria, hanno diritto a fruire del sistema d’istruzione italiano, possono iscriversi a un partito o a un sindacato. Non sono dei paria, insomma. 2) La cittadinanza una volta concessa non può essere tolta se non eccezionalmente. È una decisione in sostanza irrevocabile. Ma concederla o non concederla è una decisione che deve ispirarsi a criteri esclusivamente politici (non giuridici: nessuno ha diritto a divenire cittadino di alcun Paese se una legge non glielo riconosce. Non esiste, infatti, né può esistere, una sorta di diritto "naturale" a essere cittadino di questo o quello Stato: tanto più quando, come è ovviamente il caso di tutti coloro che mettono piede in Italia, si tratta di persone che una cittadinanza già ce l’hanno). Ho detto criteri politici: vorrei sottolineare "drammaticamente" politici, dal momento che con una nuova legge sulla cittadinanza come quella oggi in discussione si tratta niente di meno che di modificare il demos storico di un Paese. Proprio perciò nel definire i caratteri di una tale legge una classe politica degna del nome non dovrebbe guardare solo all’oggi ma al domani e al dopodomani. Immaginare tutti i possibili sviluppi della situazione attuale valutando attentamente ogni eventualità. 3) In questa valutazione non può esserci posto per alcuna ipocrisia dettata dal politicamente corretto: bensì solo per il realismo, per un saggio realismo. Ora questo ci dice che non tutte le immigrazioni sono eguali (e dunque alla cortese obiezione che mi ha mosso il direttore di Repubblica Mario Calabresi circa la mia proposta di vietare la doppia cittadinanza - "non si capisce perché sia lecito e pacifico poter avere il passaporto italiano e quello statunitense ma sospetto mantenere quello marocchino o senegalese" - la risposta è semplice: perché il Marocco e il Senegal non sono gli Stati Uniti). L’immigrazione islamica, infatti, è un’immigrazione particolare per almeno due ordini di ragioni: a) perché non proviene da uno Stato ma da una civiltà, da una cultura mondiale rappresentata da oltre una ventina di Stati, e con la quale la cultura occidentale ha avuto un aspro contenzioso millenario che ha lasciato da ambo le parti tracce profondissime; b) perché alcuni degli Stati islamici di cui sopra mostrano - non finga la politica di non sapere e non vedere certe cose - un particolare, diciamo così, dinamismo antioccidentale. Da un lato, alimentando sotterraneamente radicalismo e terrorismo, dall’altro (ed è soprattutto questo che deve interessarci) svolgendo un’insidiosa opera di penetrazione di natura finanziaria nell’ambito economico, e di natura politico-religiosa (apertura di moschee e di "centri culturali") all’interno delle comunità islamiche presenti nella Penisola. Le quali da tutto questo lavorio ricavano la spinta a un forte compattamento cultural-identitario di un contenuto tutt’altro che democratico (ci si ricordi per esempio dei sentimenti antiisraeliani/antisemiti già così diffusi in quel mondo). 4) La cittadinanza significa il diritto di voto. In una tale prospettiva e alla luce di quanto appena detto è necessario evitare nel modo più assoluto che, complice il prevedibile aumento dell’immigrazione africana e no solo, domani possa sorgere la tentazione di un partito islamico. Il quale, sebbene forte di solo il 3-4 per cento dei voti, tuttavia, con l’aiuto del proporzionalismo congenito del nostro sistema politico, potrebbe facilmente diventare cruciale per la formazione di una maggioranza di governo. C’è qualcuno che ha pensato a queste cose, a evitare che esse possano prendere una simile piega? In realtà la legge di cui stiamo discutendo si chiama impropriamente dello ius soli mentre molto meglio sarebbe pensare a una legge fondata sullo ius loci. Il testo attuale, infatti, non riconosce per nulla l’essere nato in Italia come condizione sufficiente per ottenere la cittadinanza, come dovrebbe fare una legge realmente ispirata a quel principio. Vi aggiunge essa per prima condizioni ulteriori di natura culturale e non, le quali riguardano sia il richiedente sia la sua famiglia (l’adempimento di un ciclo scolastico, il possesso di un regolare permesso di soggiorno da parte di un genitore, ecc.) sono personalmente convinto che a queste condizioni sia opportuno aggiungerne altre, in obbedienza a un principio basilare: e cioè che vanno, e possono essere, integrate le persone, non le comunità. E che proprio per far ciò è necessario, nei limiti del possibile e rispettando i diritti di tutti, cercare di allentare il più possibile il vincolo identitario-cultural-comunitario che spesso, specialmente nelle comunità islamiche, chiude gli individui in un involucro antropologico ferreo (si pensi alla condizione delle ragazze e delle donne in genere). Solo allentando un tale vincolo è possibile il reale passaggio ad una nuova appartenenza ideale e pratica quale è richiesta dal partecipare realmente ad una nuova cittadinanza. Per favorire e insieme accertare quanto ora detto penso che almeno queste altre tre condizioni dovrebbero essere poste per ottenere la cittadinanza italiana da parte degli immigrati: l’obbligo di abbandonare la cittadinanza precedente; la conoscenza della lingua italiana in entrambi i genitori del giovane candidato, non già solo in uno di essi come nel testo attuale (genitore che poi finirebbe per essere quasi sempre il genitore maschio: mentre la conoscenza dell’italiano anche nella madre costituirebbe un indizio assai significativo di superamento della condizione d’inferiorità della donna tipica di molte culture diverse dalla nostra); infine l’obbligo di accertamenti sull’ambiente familiare ad opera dei servizi sociali sotto l’egida di un apposito ufficio presso ogni prefettura. Droghe a uso terapeutico, a che punto è la ricerca? di Nadia Ferrigo La Stampa, 1 ottobre 2017 A Torino il convegno "Terapie stupefacenti" fa il punto sulle sperimentazioni internazionali sulle sostanze stupefacenti e psicotrope. Non esistono piante buone e piante cattive: tutto dipende da come vengono usate. Nonostante le straordinarie potenzialità delle sostanze stupefacenti e psicoattive, la ricerca scientifica deve ancora scontare decenni di proibizionismo. Ci si è limitati a vietare, dimenticandosi - e anzi, rendendo nella maggior parte dei casi impossibile - ricerca e sperimentazione. Venerdì 29 settembre nell’Aula Magna del Campus Luigi Einaudi si è tenuto il convegno "Terapie Stupefacenti" organizzato dall’associazione Luca Coscioni e dedicato al diritto alla scienza e alla libertà di ricerca sulle sostanze stupefacenti e psicotrope: accademici ed esperti internazionali hanno affrontato sia i profili legali che scientifici del possibile uso terapeutico delle droghe. Prendiamo la storia dell’MdMa, sintetizzata per la prima volta nel 1912 dall’azienda chimica e farmaceutica tedesca Merk, che la voleva usare come agente coagulante. Non se ne fece nulla per molti anni: negli anni Settanta negli Stati Uniti era ancora legale, così alcuni terapisti iniziarono ad usarla, come ha spiegato nel suo intervento Natalie Lyla Ginsberg della Maps, la Multidisciplinary Association fo Psychedelic Studies. Quando iniziò la guerra alla droga, fu ribattezzata ecstasy: l’uso ricreativo si diffuse, fino a che diventò illegale. La Mpas ora sta portando avanti un trial clinico approvato dalla Fda perché l’MdMa possa presto diventare una medicina che può essere prescritta. Così l’ibogaina, molecola psicoattiva presente in diverse piante, illegale in diverse nazioni a causa delle sue proprietà allucinogene, ma sempre più usata per il trattamento della tossicodipendenza, come ha spiegato nel suo intervento Jose Carlos Bouso, ricercatore dell’International Center for Ethnobotanical Education Research and Service. David Erritzoe ha presentato i risultati della ricerca condotta all’Imperial College nella cura della depressione con la psilocibina, triptammina psichedelica presente in alcuni funghi psichedelici, mentre il collega Chris Timmerman studia la dinamica delle attività celebrali indotte dalla Dmt, triptammina psichedelica endogena presente in molte piante e nel fluido cerebrospinale degli esseri umani, sintetizzata per la prima volta nel 1931. "Purtroppo l’Italia con le droghe dai primi anni Novanta ha un rapporto molto complicato e la scienza ne ha pagato le conseguenze. Sulla cannabis si sono mossi prima i pazienti, ora anche l’accademia si sta aggiungendo - commenta Marco Perduca, dell’associazione Luca Coscioni -. Tra le priorità, c’è quella di investire nella ricerca e mettere a punto dei trial clinici". Come ha dimostrato il lavoro di Nicola Bragazzi, ricercatore del dipartimento di medicina sperimentale di Genova, che ha analizzato gli studi scientifici sulla cannabis terapeutica, manca una ricerca scientifica sistematica e abbastanza ampia. "Ora la cannabis terapeutica si può prescrivere, ma esclusivamente "off label" - ha spiegato Paolo Poli, presidente della Sirca, la Società italiana ricerca cannabis ed esperto di terapia del dolore -, cioè una situazione in cui mancano indicazioni scientifiche su dosaggi e tempi di somministrazione". Secondo Poli, che a Pisa sperimenta da alcuni anni la cannabis su pazienti affetti da varie patologie, i problemi da risolvere in Italia sono quattro: "Bisogna concentrarsi su studi clinici, investimenti economici, il reperimento della cannabis e sulla formazione dei medici". Burundi. Migliaia di rifugiati rischiano di tornare nella repressione di Riccardo Noury Corriere della Sera, 1 ottobre 2017 Da quando, nell’aprile 2015, in Burundi è scoppiata l’ennesima crisi, a seguito della decisione del presidente Nkurunziza di candidarsi per il terzo mandato, 400.000 persone si sono rifugiate all’estero e altre 200.000 hanno dovuto trasferirsi altrove nel piccolo paese africano, la cui popolazione è di poco superiore ai 10 milioni. Per oltre la metà dei 400.000 rifugiati si profila il rischio di essere rimandati in Burundi. Lo vuole, per convincere la comunità internazionale e i donatori che nel paese va tutto bene, lo stesso presidente Nkurunziza. Lo pretendono i governi dei due paesi che ne hanno accolti di più, Tanzania e Uganda, delusi anche dal mancato finanziamento del programma dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (solo il 7 per cento di quanto necessario). Mentre funzionari del governo burundese vanno nei campi per rifugiati oltre-confine per convincere i loro connazionali a rientrare, l’esodo continua. Le forze di sicurezza e gli Imbonerakure, l’ala giovanile e sempre più militarizzata del Consiglio nazionale per la difesa della democrazia - Forze per la difesa della democrazia, il partito al potere, continuano a torturare e a uccidere chi è sospettato di parteggiare per l’opposizione. La buona notizia, l’unica, è che ieri il Consiglio Onu dei diritti umani ha rinnovato il mandato della Commissione d’inchiesta sul Burundi che appena un mese fa aveva dichiarato di aver raccolto prove attendibili di crimini contro l’umanità commessi nel paese durante gli ultimi due anni. Birmania. Rohingya, un popolo braccato di Bernard-Henry Levy* Corriere della Sera, 1 ottobre 2017 Sono oltre 500 mila le persone che sono passate in qualche settimana dallo status di sottospecie umana a quello di bestie braccate. Per le Nazioni Unite sono la minoranza più perseguitata del mondo. Un artista, come spesso accade, ci aveva messi in guardia. Si chiama Barbet Schroeder. Lo ha fatto attraverso un film bello e profondo - Le Vénérable W, ritratto del monaco birmano Ashin Wirathu, detto "W" - che mostra l’altro volto (razzista, fascista, di una violenza da mozzare il respiro e le teste...) di un buddismo universalmente percepito come il prototipo della religione di amore, di concordia e di pace. Il film è stato presentato a Cannes. Ha beneficiato di una copertura mediatica impressionante. Ricordo una trasmissione di Ali Baddou, su un canale del servizio pubblico, dove questo conduttore televisivo annunciava, con una sicurezza che retrospettivamente fa paura, come la minoranza musulmana della Birmania occidentale, i Rohingya, fosse sotto la mira del partito del "Venerabile". Bastava informarsi per sapere che tale minoranza era una comunità martire, apolide nel proprio Paese, ridotta alla fame per volere dei militari che opprimono il Paese da oltre mezzo secolo, pogromizzata quando i persecutori sono stanchi di affamarla: un milione di uomini e donne cui è vietato votare e avere una rappresentanza politica, l’accesso a ospedali e scuole; un milione d’anime cui viene imposta la condizione unica, inconcepibile per la sua crudeltà calcolata, di essere erranti (perché private di esistenza ufficiale in un Paese che spinge l’ossessione razziale fino a censire 135 "etnie nazionali", numero che però non include i Rohingya, facendo di loro, letteralmente, una razza di troppo) e al tempo stesso costrette ai "domiciliari" (infatti, per legge, non hanno diritto di circolare, né di lavorare e nemmeno di sposarsi al di fuori del loro villaggio d’origine). Solo che non ci si è informati. Non si è ascoltato il cineasta, né i pochi giornalisti che, da anni, parlano al vento. E ora, ecco che ci siamo. Per una di quelle accelerazioni storiche che nulla sembra annunciare ma di cui dovremmo sapere, per esperienza, che hanno il ritmo della pulsione genocidaria, sono oltre 500 mila le persone che sono passate in qualche settimana dallo status di sottospecie umana a quello di bestie braccate. Asfissiate da incendi nei villaggi in cui erano state relegate, spinte sulle strade, mitragliate, ancora incalzate, torturate per puro piacere, violentate in stupri di massa, queste persone giungono, quando per miracolo sopravvivono, fino ai campi di fortuna installati alla frontiera con il vicino Bangladesh. Per le Nazioni Unite che, eccezionalmente, hanno attinto in quel che rimaneva loro di onore per denunciare questi crimini, i Rohingya sono oggi la minoranza più perseguitata al mondo. Per chiunque sappia ascoltare e abbia almeno un po’ di memoria, ci troviamo di fronte a una situazione che ricorda la pulizia etnica in Bosnia o, peggio, i massacri nel Ruanda. E poiché i Rohingya non hanno volto, poiché i loro persecutori, grazie al blocco delle immagini che hanno predisposto, stanno effettivamente per riuscire a disumanizzarli, poiché i Rohingya sono musulmani e di questi tempi non è bene esserlo, tutti, o quasi, se ne infischiano. Davanti a questa tragedia annunciata, si può meditare su ciò che l’amico Jean-François Revel chiamava conoscenza inutile o passione dell’ignoranza. Si può imprecare contro la ingenuità che ha portato tutti noi a santificare la famosa "signora di Rangoon", cui è stato dedicato un altro film, stavolta agiografico, che però, se guardato con distacco, è sconfortante: infatti è lei, Aung San Suu Kyi, diventata di fatto la leader del Paese, ad aver dato il colpo di grazia ai Rohingya. Si può segnalare en passant (ma senza molte speranze, purtroppo, che vada in porto) la petizione con la quale si chiede le sia ritirato il premio Nobel; un premio che, ai tempi in cui sembrava reincarnare in un unico corpo Mandela, Gandhi o il Dalai Lama, le avremmo attribuito molto volentieri; ma che ora, da quando Aung San Suu Kyi ci garantisce, con la mano sul cuore, che non ha visto nulla nella città di Sittwe, che non è successo niente nell’Arakan e che tutte queste notizie preoccupanti sono soltanto la "punta emersa di un iceberg di disinformazione", è diventato un premio-alibi. Intanto, possiamo formulare soprattutto un augurio: giovedì scorso, è stata la signora di Dacca, Sheikh Hasina, primo ministro del Bangladesh, a salire sulla tribuna delle Nazioni Unite per invitare a una mobilitazione e per chiedere aiuti. Conosco Hasina da quasi cinquant’anni; fin dai nostri lontani tempi della giovinezza ho avuto tante occasioni di apprezzare non solo la sua nobiltà d’animo, ma anche il suo attaccamento viscerale a un Islam moderato, illuminato, amico dei diritti dell’uomo e delle donne. Mi auguro che a New York le coscienze che hanno ascoltato quest’altra signora siano state sufficienti a far sì che la campana da lei suonata non abbia la funebre risonanza del rintocco a morte. *Traduzione di Daniela Maggioni Yemen. Una commissione Onu sui crimini commessi nella guerra civile di Luca Geronico Avvenire, 1 ottobre 2017 Ispettori dell’Onu verranno inviati in Yemen per indagare su presunti crimini contro l’umanità commessi nella guerra civile. Il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, espressione dell’Assemblea generale Onu, ha deciso di avviare un’inchiesta su presunti crimini contro l’umanità commessi nello Yemen e di inviare nel Paese una squadra di esperti internazionali. La risoluzione, presentata dai Paesi arabi e sostenuta da quelli occidentali, è stata approvata venerdì sera dopo una trattativa serrata nella sede Onu di Ginevra, riuscendo cosi a superare la resistenza dell’Arabia Saudita. Riad dal marzo del 2015 guida, infatti, una coalizione di Paesi sunniti che hanno attaccato i ribelli sciiti Houthi - sostenuti dall’Iran - per reinsediare a Sanaa il presidente yemenita, il sunnita Abdel Rabbo Mansour Hadi. Gli investigatori dovranno accertare anche sui presunti crimini commessi dagli Houthi. Nel fascicolo della risoluzione è stata pure allegata rassegna stampa che contiene pure le inchieste di Avvenire sul commercio di armi italiane con lo Yemen. In particolare l’inchiesta di Avvenire denuncia come la Rwm Italia, espressione della multinazionale tedesca leader dell’industria bellica, ha prodotto nello stabilimento di Domusnovas, m Sardegna, ordigni venduti alla coalizione saudita: oltre 21mila le bombe consegnate solo nell’anno 2016. L’invio degli ispettori Onu in Yemen rappresenta un successo per un gruppo di Paesi europei ed il Canada che avrebbero, però, preferito una Commissione di inchiesta internazionale (il più alto livello di verifica di crimini in ambito Onu) del tutto indipendente dalle autorità yemenite. Paesi con stretti legami commerciali con Riad, come Usa, Gran Bretagna e Francia - che vendono armi ai sauditi per fatturati di miliardi di dollari - hanno chiesto una azione più morbida. "La risoluzione è una vittoria per gli yemeniti, la cui sofferenza è stata finora ignorata dalla comunità internazionale: una speranza per chi chiede giustizia e un passo avanti verso l’accertamento delle responsabilità", ha dichiarato Anna Neistat di Amnesty International. La guerra in Yemen ha ucciso oltre 8.500 persone e ne ha ferite quasi 49.000 secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità, mentre oltre 17 milioni di yemeniti sono a corto di cibo e da aprile, un’epidemia di colera, ne ha uccisi oltre 2.100.