Un carcere sano fa bene a tutti di Nerina Dirindin* quotidianosanita.it, 19 ottobre 2017 Gli istituti carcerari intercettano la domanda di salute di una parte della popolazione, la più fragile e la più vulnerabile; il servizio sanitario dovrebbe essere in grado di rendere effettiva la tutela della salute della popolazione detenuta e di coloro che operano negli istituti penitenziari. E invece la salute in carcere è ormai una vera urgenza, per il carcere ma anche per le istituzioni, la società civile e la politica. Di questo si è parlato il 2 ottobre a Regina Coeli in occasione di un seminario sulla salute mentale, in carcere e nel territorio, con l’obiettivo di dire No alla rassegnazione e di dire Si alla presa in carico delle persone. La giornata è stata organizzata dal Forum Nazionale per la Salute in Carcere e dalla CC Regina Coeli, grazie all’impegno di tanti operatori, volontari e responsabili della salute in carcere e con la partecipazione di autorevoli esponenti della giustizia, della sanità e della regione Lazio. Sono state ascoltate le testimonianze di persone, famigliari e operatori e sono stati chiesti impegni precisi alle istituzioni, anche rilanciando il lavoro degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale del 2016 (in particolare nel tavolo 10 “Salute e disagio psichico”). Garantire la salute in carcere deve essere una occasione per il sistema sanitario, e per l’intero Paese, per dimostrare la propria capacità di occuparsi dei più deboli. Non può essere considerato solo un onere, ma un impegno civile. Una opportunità per la realizzazione di percorsi condivisi, per la formazione di operatori della salute in sinergia con gli operatori della sicurezza, per l’adozione di un vocabolario comune tra professionisti. Punto di incontro deve essere la presa in carico, i percorsi individuali, le équipe multidimensionali, il rapporto con il territorio. Non è un’utopia, si può incominciare, anzi in alcune realtà è già iniziato. È una battaglia culturale, professionale e civile che il sistema deve saper affrontare, come 30 anni fa ha affrontato il tema delle tossicodipendenze con l’ingresso degli operatori dei Sert in carcere. E invece sono emerse tante difficoltà: dalla semplice irregolarità nelle forniture di materiali per la cura delle persone e dell’ambiente, ai percorsi terapeutici troppo spesso solo abbozzati e subito interrotti (anche a causa dei frequenti trasferimenti), fino al disagio vissuto dagli operatori. Si registrano difficoltà ad accedere alle prestazioni sanitarie, in particolare per i detenuti con patologie croniche e anziani, nonché alle strutture sanitarie esterne di cura e riabilitazione (anche in presenza di esecuzione di misure alternative alla detenzione). Alle difficoltà delle liste di attesa, si sommano quelle derivanti dalle differenti procedure seguite da ogni ufficio. Si pensi alla lunga e complessa procedura per l’inserimento in RSA. L’accesso ai servizi è impossibile per chi non ha la residenza o per chi non ha una rete sociale di protezione (come le persone senza fissa dimora). Preoccupante è la situazione degli stranieri, che in alcuni istituti superano il 60% della popolazione detenuta. Gli Istituti Penitenziari sono infatti tante piccole Lampedusa che hanno come front office la Polizia Penitenziaria e i volontari. Si ascoltano storie personali drammatiche, spesso segnate da esperienze terribili. C’è una generazione di giovani stranieri, con un disagio sociale e psicologico importante. E purtroppo - non ce lo possiamo nascondere - spesso il carcere è l’unica risposta che le istituzioni sono in grado di dare. Mancano i mediatori culturali, i rapporti con ambasciate e consolati sono difficili, l’accesso alle cure di continuità sul territorio sono quasi impossibili e i percorsi terapeutici avviati sono spesso sospesi. Non è più il tempo di semplici enunciazioni di principio: bisogna passare, in ogni realtà, alle azioni concrete, grazie all’impegno faticoso e paziente di tutti. La regione Lazio si è impegnata a dare concreta attuazione alle iniziative in capo ai Dipartimenti di salute Mentale: l’impegno del Forum Salute in Carcere è monitorarne la realizzazione. *Presidente Forum Nazionale Salute in Carcere Hanno da zero a sei anni ma sono già detenuti di Antonio Crispino Corriere della Sera, 19 ottobre 2017 Lo scandalo dei bambini che vivono in carcere. Nelle carceri italiane ci sono 60 bambini detenuti. L’ingresso in carcere dei bambini è una scelta della donna. Che però, quasi sempre, non ha una vera opzione. Escono solo il sabato con i volontari. Hanno da pochi mesi a sei anni e vivono dietro le sbarre. Condividono la reclusione delle madri, anche se il regime carcerario a cui sono sottoposti è attenuato rispetto al resto della popolazione carceraria. Non hanno fatto niente (e cosa potrebbero mai fare?), eccetto nascere al momento sbagliato, in prossimità di un arresto o una condanna. L’ingresso in carcere dei bambini è una scelta della donna. Che però, quasi sempre, non ha una vera opzione. Spesso il marito è in carcere o non ci sono altri parenti a cui affidare il bimbo. Il numero dei bambini nei penitenziari è più o meno sempre costante negli anni. Non influiscono i vari provvedimenti di legge. Dal 1975 (la legge 354) a oggi (la legge 62 del 2011) ci sono stati cinque interventi legislativi. Ma i bambini restano sempre lì. Non si contano, invece, le promesse solenni di quasi tutti i ministri della Giustizia che si sono succeduti negli ultimi dieci anni (senza andare troppo indietro con il tempo). Il ministro Clemente Mastella nel 2007 partecipò a un convegno dal titolo: “Che ci faccio io qui? Perché nessun bambino varchi più la soglia di un carcere”. Nel 2009 lo sostituì Angelino Alfano e dichiarò: “Un bambino non può stare in cella. Approveremo una riforma dell’ordinamento carcerario che consenta di far scontare la pena alle mamme in strutture dalle quali non possano scappare ma che non facciano stare in carcere il bambino”. Poi fu il turno del ministro Paola Severino: “In un Paese moderno è necessario offrire ai bambini, figli di detenute, un luogo dignitoso di crescita, che non ne faccia dei reclusi senza esserlo”. Era il 2012. L’anno dopo in via Arenula arrivò Anna Maria Cancellieri: “Stiamo lavorando perché vogliamo far sì che non ci siano mai più bimbi in carcere”. Infine, l’attuale ministro della Giustizia Andrea Orlando che nel 2015 promise: “Entro la fine dell’anno (2015, ndr.) nessun bambino sarà più detenuto. Sarà la fine di questa vergogna contro il senso di umanità”. L’istituto penitenziario che reclude il maggior numero di bambini si trova a Roma ed è il Rebibbia femminile “Germana Stefanini”, uno dei più attrezzati e meglio tenuti. Ci vivono quindici bambini, quasi tutti sotto i tre anni di età. Ma prima della sentenza Torreggiani (la decisione con la quale la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo stabilì che “il prigioniero sia detenuto in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana”) se ne contavano ventuno. La maggior parte delle mamme sono Rom ma troviamo anche un’italiana. La prevalenza Rom si spiega con l’alta percentuale di recidiva che impedisce loro di accedere alle pene alternative. Così vivono con i figli nelle celle, anche se di giorno le porte sono aperte. Alle 20,00 una poliziotta penitenziaria le rinchiude. I bambini crescono con i ritmi carcerari, tra divise e chiavistelli. Un’eccezione sono considerati gli Icam, Istituti a custodia attenuata per madri detenute (il progetto pilota partì a Milano) che si distinguono unicamente per il fatto che ci sono ambienti più familiari, i poliziotti non indossano la divisa ma abiti civili e c’è una maggiore presenza di educatori. Restano le sbarre alle finestre, le porte blindate, la videosorveglianza e il controllo degli operatori. “Chiedono perché li rinchiudono, credono di aver fatto qualcosa di sbagliato e piangono” ci dice una mamma. Non sanno di essere in un carcere ma percepiscono le restrizioni. I racconti sono questi: “Di notte mio figlio non dorme, si affaccia continuamente alla cancellata, chiama la guardia e chiede “Mi apri?”; Quando so che si avvicina l’ora della chiusura lo porto in bagno ma lui capisce, indica gli agenti con il dito e si nasconde, è brutto”; “I bambini qui diventano aggressivi, non hanno relazioni sociali. Tra l’altro vedono solo donne e manca del tutto una figura maschile”. Una situazione che induce a gridare allo scandalo ma che, in realtà, è molto complessa perché mette il legislatore nella difficoltà di contemperare tre diverse necessità, ugualmente sacrosante: garantire l’espiazione della pena, tutelare i diritti del bambino così come il rapporto che deve esserci tra una madre e il figlio poco più che neonato. Cosa, quest’ultima, che fa escludere a priori l’ipotesi di separare il figlio dalla madre al momento dell’ingresso in carcere. I danni si colgono il sabato, quando i bambini possono oltrepassare il confine carcerario grazie all’associazione “A Roma insieme”. La fondò Leda Colombini, onorevole del Pci, un passato di grande sofferenza personale e di lotta per i diritti che la portò dai campi di riso ai banchi del Parlamento. Volle fortemente i cosiddetti “Sabati di libertà”, giornate che da più di vent’anni rappresentano l’unica boccata d’ossigeno per i bambini detenuti. Elisa, Roberta, Paola, Alessandra, Fabrizio e Vanessa sono i volontari che ci accompagnano. Li chiamano “articolo 17” con riferimento all’ordinamento penitenziario che consente l’ingresso in carcere a persone esterne purché legate a un progetto. Spesso fanno tutt’altro mestiere. Roberta è un avvocato di un noto studio legale romano. Paola è un’amministrativa dell’ospedale San Giovanni. Poi c’è chi come Fabrizio lavora nel mondo del volontariato, Vanessa che vuole fare un’esperienza compatibile con il suo percorso di studi o Elisa che lavorava come pubblicitaria e dopo aver scoperto la realtà dei bambini in carcere si è iscritta all’Università ed è diventata una educatrice. Un pullman dell’Atac messo a disposizione dal Comune di Roma (per il servizio l’Atac chiede 25mila euro l’anno) preleva i bimbi da Rebibbia e li porta all’esterno. La nostra presenza coincide con la visita al mare di Ladispoli e alla casa famiglia “Carolina Morelli” gestita dalle suore dell’ordine “Figlie di Maria ausiliatrice”. “Molti di loro non sanno cosa siano gli spazi aperti, quando arrivano sulla riva restano stupiti ma anche spaventati”, nota Giovanni Giustiniani, volontario della prima ora. È impressionante vedere dei marmocchi che a stento si reggono in piedi varcare i cancelli del carcere. Così come fa specie sentirli pronunciare poche parole ma alcune con estrema chiarezza: porta, chiave, apri, chiudi. Restano cupi fin quando non scendono e i volontari li fanno giocare. Arrivano sulla spiaggia procedendo con prudenza. Si fermano, guardano e scoprono. Alcuni restano attaccati ai volontari. Come Eliot che stringe forte il dito di Claudio Enei, l’autista che li accompagna ogni settimana. “Prima era solo un lavoro. Ora, quando arriviamo, tolgo la divisa dell’Atac e divento un volontario a tutti gli effetti. Spesso mi scambiano per il papà”, racconta. Subiscono una metamorfosi quando devono risalire sul pullman per il ritorno. Non è solo per la fine di una giornata di giochi, come fanno tutti i bambini. Associano l’imbrunire con la chiusura delle celle e s’intristiscono. Qualcuno piange, sbatte la manina sul vetro dell’autobus. Rientrati a Rebibbia non corrono verso le rispettive mamme. “Più di una volta è capitato che restano attaccati addosso e non vogliono andare dalla mamma” ricorda Paola, un’altra volontaria. Gli aneddoti che raccontano sono infiniti. Come quel giorno in cui capitò che un agente lasciò una chiave sul tavolo. Uno dei bimbi la prese e corse dalla mamma: “Mamma, vieni, ti porto fuori, ci sono un sacco di cose belle”. Pastorale ai detenuti. L’ispettore dei cappellani: “portiamo misericordia” di Luca Liverani Avvenire, 19 ottobre 2017 Don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani: va rivista la pastorale per l’alto numero di reclusi stranieri. “È un ministero faticoso, ma meraviglioso”. Don Raffaele Grimaldi, cappellano per 23 anni a Secondigliano, non ha dubbi. Da gennaio ispettore generale dei cappellani delle carceri, a conclusione del consiglio pastorale nazionale dei delegati regionali illustra i passi intrapresi e gli obiettivi di questa pastorale di frontiera: il consiglio pastorale allargato, con l’inclusione del vescovo di Cerignola Luigi Renna e di suor Annuccia Maestroni come referente nazionale delle suore impegnate in carcere. Poi il prossimo convegno nazionale, messo in cantiere, dal 22 al 24 ottobre 2018 a Napoli, con tutti i protagonisti della pastorale dei detenuti, cappellani, religiose, volontari. E infine un’intesa ecumenica con i sacerdoti ortodossi romeni che volontariamente visitano i connazionali in cella. Il consiglio pastorale è stata anche l’occasione per ragionare su un tema delicato: “Con il vescovo Silvano Maria Tomasi, segretario delegato del Dicastero per lo sviluppo umano integrale, abbiamo affrontato il tema della scomunica ai corrotti e mafiosi. La nostra presenza in carcere - dice don Grimaldi - vuole essere un aiuto al detenuto perché prenda coscienza del suo male. E invitarlo alla conversione e alla riparazione. Una presenza di Chiesa che non giustifica il male, ma testimonia la Misericordia”. Oggi comunque la principale difficoltà pastorale, spiega il cappellano, “è la presenza, nelle carceri da Roma in su, di un gran numero di detenuti stranieri. A Secondigliano tuttora su 1.250 detenuti, gli stranieri sono un centinaio. Nei penitenziari del Centro e del Nord Italia invece quasi la metà sono nordafricani, romeni, albanesi. Questo impone una revisione della nostra missione: un conto è incontrare persone battezzate, altra cosa è confrontarsi con detenuti di religioni diverse”. La presenza dei detenuti esteuropei è anche l’occasione per un lavoro ecumenico, spiega don Grimaldi: “Il 3 ottobre scorso ho invitato al santuario del Divino Amore a Roma tutti i sacerdoti romeni ortodossi - dice - che in Italia da volontari già visitano i loro connazionali detenuti. Ne sono arrivati venticinque da Roma, Chieti, Catania, Reggio Calabria. Con loro c’era il vicario del vescovo ortodosso di Roma. Non sono veri e propri cappellani, ma ho chiesto loro di vivere in profonda comunione la nostra comune missione”. E per i musulmani? L’Islam non ha l’equivalente dell’opera di misericordia “visitare i carcerati”. Anzi, considera fuori dalla comunità chi delinque: gli imam non entrano in carcere. “Noi cappellani siamo visti comunque dai detenuti musulmani come un punto di riferimento, non solo per le necessità materiali. Siamo comunque una figura in comunione con tutti”. Il sovraffollamento, spiega don Grimaldi, è ancora un problema, nonostante i passi avanti fatti dall’amministrazione. “Ma ce ne sono molti altri”. Uno è l’estrema povertà materiale di molti: “Dobbiamo aiutarli in tutto: non hanno gli indumenti, il necessario per l’igiene personale, nemmeno la scheda telefonica per chiamare la famiglia. Ci aiutano le Caritas diocesane, e un volontariato laico preparato e motivato. In un carcere da 80 posti il cappellano può cavarsela da solo. Ma a Rebibbia o Secondigliano è impossibile”. Tra i problemi quotidiani l’ispettore cita anche la burocrazia: “Noi e i volontari siamo bene accolti dalle direzioni e dalla polizia penitenziaria, anche solo perché contribuiamo a creare un clima più sereno. Ma organizzare una qualsiasi iniziativa è sempre una grande fatica”. Un ministero mai facile, in ogni caso: “Dobbiamo essere uomini di ascolto, affrontare storie di grande sofferenza. Non abbiamo la bacchetta magica, ma dietro di noi c’è la Chiesa che ci invia. In carcere c’è una comunità cristiana: forse disobbediente, che ha fatto sbagli, ma che attende un annuncio. E i cappellani debbono fare da ponte tra carcere e parrocchie, coinvolgere le comunità “fuori”, perché la pastorale “dentro” non diventi debole o nascosta”. Dalla loro i cappellani hanno il magistero di Francesco: “Le parole e i gesti del Papa hanno fatto crescere l’attenzione sul carcere della società e anche della politica. A maggio 2016 a Strasburgo ci ha espresso la sua gratitudine ‘per la nostra difesa della dignità umana’. Come diceva don Oreste Benzi, ‘la persona non è mai il suo errorè. I detenuti devono scontare una pena, ma non devono sentirsi emarginati, esclusi, marchiati. Lo dico sempre ai cappellani: ricordate ai fratelli detenuti che conservano comunque la dignità di Dio”. Tutti con Pignatone: “adesso basta iscrizioni frettolose” di Giulia Merlo Il Dubbio, 19 ottobre 2017 Il plauso di Legnini, Albamonte e di molti procuratori. La stretta garantista del procuratore della Repubblica di Roma Giuseppe Pignatone piace a tutti. Dal vicepresidente del Csm Giovanni Legnini ai procuratori di Palermo, Messina e Catania, il plauso per la circolare contro le iscrizioni frettolose degli indagati nel registro delle notizie di reato è generale. Scrive Pignatone che considerare un “atto dovuto” l’iscrizione “automatica” nel registro delle notizie di reato in seguito a querela o denuncia è un “errore”, che “finisce per attribuire impropriamente alla Polizia giudiziaria o al privato denunciante il potere di disporre delle iscrizioni a modello 21 (quello delle “notizie contro noti”, ndr), mentre invece la scelta spetta in via esclusiva alla “ponderata valutazione” del pm, fondata su “specifici elementi indizianti”. Per questo, Pignatone invita i cento pm del suo ufficio - che ogni anno si trovano a gestire oltre 350mila notizie di reato a valutare con attenzione gli indizi a carico degli indagati e il contenuto delle notizie di reato, prima di procedere all’iscrizione nel registro, perché “procedere a iscrizioni non necessarie è tanto inappropriato quanto omettere le iscrizioni dovute”. Il procuratore, infatti, sottolinea come “l’iscrizione abbia un “costo” significativo anche per colui nel cui (astratto) interesse viene effettuata ed è inoltre soggetta ad essere sollecitata per ragioni di carattere strumentale del tutto estranee alle fisiologiche dinamiche processuali. Questo impone di abbandonare una concezione formalistica imperniata sull’approccio ispirato ad una sorta di favor iscritionis”. Facile cogliere il riferimento a soggetti più o meno noti del mondo politico o industriale, iscritti “frettolosamente” nel registro delle notizie di reato in modo automatico in seguito a denunce o querele. Tecnicamente, l’iscrizione nel registro delle notizie di reato “attiva una filiera che porterà, prima o poi, all’incontro con un giudice”, spiega Giorgio Spangher, professore emerito di Procedura penale, “sia che si concluda con un provvedimento archiviativo che con la richiesta di rinvio a giudizio. Una notizia che finisce nel registro di cui all’articolo 335 necessita di un provvedimento giurisdizionale e l’iscrizione di un soggetto nel registro provoca anche l’inizio del decorrere dei termini per le indagini”. Per questo, l’ordinamento affida solo al pm il compito di valutare in quale registro iscrivere la notizia di reato: se nei due registri “tipici” - il modello 44 (degli atti costituenti notizie di reato) o il modello 21 (delle notizie di reato contro noti) - o in quello residuale, ovvero il modello 45 degli atti non costituenti notizia di reato. Secondo Pignatone, il critero per scegliere a quale registro iscrivere deve essere quello di “procedere all’iscrizione a modello 21 solo nei casi in cui a carico del soggetto identificato emergano specifici elementi indizianti, ovverosia una piattaforma cognitiva che con sente l’individuazione a suo carico degli elementi essenziali di un fatto astrattamente qualificabile come reato e le indicazioni di fonti di prova”. In tutti gli altri casi in cui si riconosca solo l’esistenza di un reato, dunque, si deve optare per il modello 44. Il plauso maggiore all’iniziativa della più grande procura italiana arriva dal vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, che in un’intervista al Corriere della Sera definisce l’atto di indirizzo “uno dei buoni frutti della riforma del processo penale” e aggiunge che “la corretta attuazione dell’indirizzo interpretativo contenuto nella circolare di Pignatone non indebolisce, ma rafforza le garanzie. Per altro la norma contenuta nella riforma del processo penale, in attuazione della quale la circolare è stata emanata, va letta in parallelo a quella, pur discussa, che rafforza l’obbligo di concludere le indagini disposto dalla legge”. Il riferimento di Legnini è alla riforma del codice penale, che attribuisce al Procuratore della Repubblica il compito di assicurare “l’osservanza delle disposizione relative all’iscrizione delle notizie di reato”: una responsabilità specifica che impone uno specifico potere di vigilanza sulla tempestiva iscrizione delle notizie di reato. “Condivido la circolare del procuratore Pignatone. Si tratta di uno spazio aperto dal legislatore con la riforma del processo penale e, quindi, andava percorso”, è stato il commento di Eugenio Albamonte, presidente dell’Anm, che ha sottolineato “la buona risposta anche di molti altri procuratori”. In favore della linea di Pignatone, infatti si sono espressi i procuratori di Messina, Maurizio de Lucia, il cui ufficio “si è già munito di un provvedimento organizzativo molto simile”, di Bologna, Giuseppe Amato e di Palermo, Francesco Lo Voi, che annuncia entro la prossima settimana una circolare “gemella” anche per Palermo: “L’indirizzo del collega è totalmente condivisibile. Per effetto della nuova legge e per altre già in vigore, è necessario ribadire alcuni principi che sono pacifici, ma metterli per iscritto è utile anche a dare una linea uniforme a tutto l’ufficio”. Il Procuratore capo di Catania, Carmelo Zuccaro, ha aggiunto come “sia necessario un approfondimento della circolare del Procuratore di Roma Pignatone”, spiegando come “va escluso che l’iscrizione di un nominativo rappresenti un atto dovuto. Tale errata conclusione, che talora si riscontra nella prassi, è frutto di una interpretazione impropria dell’art. 335 c.p.p”. Accanto al plauso dei colleghi, però, Pignatone incassa anche un invito alla prudenza da parte dell’Unione Camere Penali. “Ha ragione Pignatone quando dice che l’iscrizione nel registro degli indagati non è un atto dovuto quando mancano gli elementi. Ma la sua circolare non diventi un modo per eludere la necessità di una data certa di inizio delle indagini”, ammonisce il presidente Beniamino Migliucci, che invita a riflettere caso per caso: “Il fatto che l’iscrizione non sia un atto dovuto se mancano gli elementi è vero, ma bisogna stare attenti: se vi sono invece i presupposti si corre il rischio che le indagini inizino a scapito dell’iscrizione”. Intervista a Luciano Violante: “Così l’avviso di garanzia è diventato una sentenza” di Paola Sacchi Il Dubbio, 19 ottobre 2017 “Ora speriamo che anche le altre Procure adottino la circolare di Pignatone, un vero punto di svolta, figlio della legge Orlando” (la riforma del processo penale che porta il nome del ministro della Giustizia). Luciano Violante, ex magistrato ed ex presidente della Camera, plaude alle disposizioni del Procuratore capo di Roma volte ad avere oculatezza nell’uso degli avvisi di garanzia. Giuseppe Pignatone sottolinea che non ci deve essere “una lettura meccanica” delle norme sulle notizie di reato e l’iscrizione nel registro degli indagati e il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini osserva che l’avviso di garanzia da strumento di difesa per l’indagato si è trasformato in “gogna”. Che ne pensa, presidente Violante? È vero; l’avviso di garanzia, un atto con il quale la Procura invita il cittadino indagato a difendersi, è diventato uno strumento di pubblicizzazione della qualità dell’indagato e grazie ai rapporti incestuosi che intercorrono tra molti uffici giudiziari e mezzi di comunicazione si è trasformato in uno strumento di criminalizzazione dell’indagato. Con effetti sulla reputazione, sulla carriera professionale e effetti anche economici rilevanti perché bisogna pagare un avvocato. La circolare Pignatone dispone che la comunicazione va inviata non come “atto dovuto”, sulla base di una semplice denuncia o di un rapporto di polizia ma solo quando, dopo una seria analisi dei fatti emergano “specifici elementi indizianti”. Come nasce questa svolta? Sostanzialmente nasce dalla legge 103, del 2017, la legge Orlando, dove si invitano i capi delle procure ad assicurare “l’osservanza delle disposizioni relative alla iscrizione delle notizie di reato”. Perdoni, presidente, ma, secondo un modo di dire romano, si potrebbe chiosare che si interviene un po’ a “babbo morto”, e se la vogliamo buttare in politica a Prima Repubblica morta. Glielo chiedo perché l’episodio gogna-simbolo furono le monetine del Raphael quando Bettino Craxi aveva ancora solo avvisi di garanzia. Ma la gogna non nasce dall’avviso di garanzia, nasce dalla comunicazione sull’avviso di garanzia. E lei ricorderà che le televisioni Mediaset stazionavano permanentemente davanti al Tribunale di Milano proprio per dare questa notizia, gli altri mezzi di comunicazione televisiva poi si associarono tutti, ma la prima linea era tenuta da quelle reti che poi, francamente, si trovarono in modo un po’ incongruo ad apparire come difensori della figura di Craxi. E chi fece le marce contro furono la Lega e il Msi. Sono le vendette della storia. Ma tra i tiratori di monetine del Raphael c’erano soprattutto militanti dell’ex Pci. Può darsi benissimo. Questo era il clima di allora. Ora cosa accadrà dopo quella che lei ha definito “una svolta”? Lei recentemente ha avuto parole un po’ dure nei confronti di certa magistratura accusata di fare politica. Sì, io dissi che in alcune Procure aleggia la figura del “tipo di autore” e cioè che se sei un politico o un pubblico funzionario sei per forza colpevole di qualcosa. E quindi ho parlato di una certa leggerezza nel mandare comunicazioni giudiziarie o agevolare fughe di notizie quando l’indagato sta nella sfera pubblica. Ora che accade? La circolare di Pignatone stabilisce che occorre fare una valutazione seria per stabilire che ci siano gli specifici elementi indizianti. E questo tra l’altro con particolare riferimento ad atti amministrativi, tenendo presente che più del 60 per cento dei procedimenti per abuso in atti d’ufficio finisce con assoluzioni o proscioglimenti. E però, intanto, dopo la comunicazione giudiziaria la persona è stata diffamata e ha avuto danni per la reputazione e la carriera. Ora spero che anche le altre Procure adottino le disposizioni di quella di Roma. Recentemente Antonio Di Pietro ha ammesso che ci fu un eccesso di manette in Mani pulite. Che ne pensa? Ho rispetto per Di Pietro. Se lo dice lui, c’è da credergli. Ma c’erano anche personalità di primissimo ordine, da Borrelli a Colombo ecc. Starei attento che non si tratti di quelle forme di pentimento a posteriori che servono a rilegittimarsi. Ecco, io sono contrario ai pentimenti pubblici; preferisco quelli che si fanno in privato e in silenzio. In attesa di giudizio per una fake news, ma già condannato dalla gogna mediatica di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 ottobre 2017 Oggi nuova udienza per Alberto Cubeddu, arrestato il 25 maggio 2016, per l’omicidio di Gianluca Monni. I legali del ragazzo hanno confutato l’informativa dei carabinieri che si basava su una notizia falsa. Dubbi anche sul riconoscimento fotografico fatto da una testimone. Una storia tortuosa di botte, omicidi e sparizione di un cadavere ambientata in Sardegna. Ma anche gogna mediatica, persone coinvolte - giovanissime - in un’inchiesta giudiziaria. Un ragazzo, in particolare, insieme alla sua famiglia, ne è uscito stritolato sia sulla stampa locale sia dalle chiacchiere, inevitabili, degli abitanti del paese. Ma andiamo con ordine. Tutto iniziò l’8 maggio del 2015, con l’omicidio di Gianluca Monni avvenuto a Orune (provincia di Nuoro), e con il sequestro, l’omicidio e la distruzione del cadavere, mai trovato, di Stefano Masala (28 anni, di Nule), che sarebbe avvenuto la sera prima. Le prime indagini portarono all’iscrizione nel registro delle notizie di reato di due ragazzi, Alberto Cubeddu (attualmente 21 anni, di Ozieri, provincia di Sassari) e il cugino Paolo Enrico Pinna (ora 19enne di Nule, provincia di Sassari). Entrambi, il 25 maggio del 2016, furono arrestati con l’accusa di omicidio. Paolo Enrico Pinna era minorenne all’epoca dei fatti per i quali era stato accusato. È stato condannato al massimo della pena, 20 anni, dal Gup del Tribunale dei minori di Sassari, mentre Alberto Cubeddu è ancora in attesa di giudizio, attualmente recluso al carcere duro di Bancali. Oggi è previsto lo svolgimento di un’altra udienza. L’informativa - Ed è proprio Alberto Cubeddu che si è ritrovato immerso in un ciclone mediatico giudiziario che, per certi aspetti, ha dell’inverosimile. Uno dei motivi per cui la magistratura ha ritenuto di convalidare l’arresto nei confronti di Alberto è relativo a una informativa dei carabinieri ritenuta veritiera per tutte le successive fasi delle indagini fino al processo. Nell’informativa risalente al 9 maggio 2015 c’era scritto che “il ragazzo risulta indagato per tentato omicidio e rapina in concorso con il cugino Paolo Enrico Pinna”. Si riferisce a un episodio avvenuto ad Ozieri il 6 gennaio 2014, ovvero una sparatoria contro un automobilista che stava facendo rifornimento di benzina con il solo obiettivo di rubare la macchina. I magistrati hanno prestato fede all’informativa e l’hanno ritenuta sufficiente a supportare la custodia cautelare descrivendo Alberto Cubeddu come una persona violenta, dedita alle rapine, un tipo pericoloso capace quindi anche di uccidere. Peccato che tale informativa si è rivelata una bufala. A smascherarla, nel corso dell’udienza del 27 luglio scorso, sono stati gli avvocati Mattia Doneddu e Patrizio Rovelli facendo mettere agli atti una certificazione della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Sassari (competente per Ozieri) dalla quale risulta che il presunto procedimento penale contro Alberto Cubeddu non è mai esistito, era contro ignoti e come tale è stato archiviato un anno prima del suo arresto. Quindi, detta in soldoni, la principale motivazione che dette via al suo arresto e giustificazione a quello preventivo, si è basata su una fake news. Una falsa notizia che però ha dato adito alla stampa locale nel dipingere Alberto come un delinquente abituale e alla magistratura di tenerlo in galera. Ma non finisce qui. C’è anche un altro elemento che è stato utilizzato dalla Procura e sbattuto sulle prime pagine della stampa locale come la prova regina che Alberto Cubeddu era stato senz’altro coinvolto nel duplice omicidio. Eppure, anche in questo caso, la vicenda ha quasi del surreale. Ma per capire meglio, ripercorriamo i fatti del famigerato “delitto di Orune” del maggio 2015. Sullo sfondo, secondo l’ipotesi investigativa, c’è una lite tra ragazzi di Orune e altri di Nule per una ragazza. Tutto iniziò il 13 dicembre del 2014 ad Orune, nel corso della manifestazione “Cortes Apertas” quando scoppiò un violento litigio tra giovani orunesi e nulesi in trasferta. In una sala da ballo un giovane di Nule (ospite di orunesi) molestò alcune ragazze, tra le quali la fidanzata di Gianluca Monni, che reagì, con i compaesani, cacciando via i nulesi. Uno di loro si ripresentò poco dopo con una pistola in mano, puntandola alla tempia di Monni. A farlo fu pro- prio Paolo Enrico Pinna, all’epoca minorenne. Da precisare che il cugino Alberto non era presente in quella festa. L’aggressore fu disarmato e ricacciato via da Orune a suon di botte. Qualcuno però giurò vendetta e pare che a giurarlo fosse proprio Pinna. L’ipotesi giudiziaria vuole che per mesi i due cugini, Paolo e Alberto, avrebbero pianificato l’omicidio, sapendo che Monni prendeva ogni mattina il pullman per andare all’Istituto “Volta” di Nuoro, dove frequentava la quinta classe. E la mattina dell’8 maggio, con una Opel Corsa nera, Pinna e Cubeddu avrebbero compiuto l’omicidio. Quella Opel Corsa era stata rubata la sera prima a Stefano Masala: quest’ultimo sarebbe stato ucciso - il corpo non fu mai trovato - proprio per rubargli l’auto e far ricadere su di lui la responsabilità dell’omicidio. Ora ritorniamo alla prova: sarebbe la testimonianza di una ragazza che avrebbe visto poco prima del delitto l’auto di un forestiero, con all’interno un ragazzo somigliante ad Alberto Cubeddu, che gli inquirenti ritengono sia quella dell’omicida. Dai giornali locali era stata definita una super testimone, ma i fatti oggettivi ridimensionano la sua testimonianza. Secondo la tesi, la ragazza avrebbe visto l’auto rubata a Stefano Masala passarle davanti qualche minuto prima che avvenisse l’omicidio di Monni nel paese. Ma non solo. Avrebbe visto anche il volto del passeggero che poi, in seguito ad un riconoscimento fotografico, sarebbe stato attribuito ad Alberto Cubeddu. Punto primo: la ragazza, inizialmente, ha descritto la macchina grigia e simile alla Punto, mentre in realtà la macchina rubata - quindi dell’assassino - è nera ed è una Opel. Punto secondo: la ragazza chiarisce che sopra il tetto del veicolo vi fosse un grosso pacco nero ed arancione: l’auto rubata a Masala ed utilizzata nell’omicidio del Monni non aveva alcunché sul tetto, come dimostrano i filmati che l’hanno ripresa pochi minuti prima del delitto. Punto terzo: la ragazza aveva descritto il volto del conducente - la macchina sarebbe passata una seconda volta e il passeggero si sarebbe esposto fuori dal finestrino - con i capelli chiari e a spazzola, mentre in realtà Alberto è moro e porta i capelli in maniera diversa. La foto - Ma non finisce qui. La testimone, la sera stessa dell’omicidio viene convocata dai carabinieri del paese per fornire la descrizione. Dopo sei giorni - quando circolarono già i nomi dei presunti coinvolti, quindi anche quello di Alberto a causa di quella falsa informativa - viene riconvocata per fare il riconoscimento fotografico. I carabinieri le mostrarono 30 foto con caratteristiche simili ad Alberto, e lei ha indicato quest’ultimo dicendo che è “il più somigliante” alla persona osservata, aggiungendo però che in quella foto risultava più giovane. A quel punto i carabinieri la riconvocano mettendo altre fotografie, tra le quali la foto più recente di Alberto, unica foto non segnaletica. La peculiarità è che la foto di Cubeddu era stata tratta da quelle pubbliche del profilo facebook del ragazzo, modificandone lo sfondo. Una modalità legale, ma inusuale perché si è scoperto che oltre al fondo, hanno anche fatto dei tagli: i legali hanno dimostrato che la foto originale ritraeva lui assieme al cugino Paolo Pinna. Non poteva altro che accadere la conferma del riconoscimento. La vicenda rimane comunque complessa. Nell’ordinanza di custodia cautelare compare anche il nome di Alessandro Taras, 40 anni, di Ozieri, accusato, in concorso con Alberto Cubeddu, di aver incendiato l’auto di Stefano Masala. Il pubblico ministero Andrea Vacca aveva concluso la sua requisitoria sollecitando una condanna a 10 mesi per incendio doloso. Ad aprile è stato assolto, ma nel frattempo era diventato il superteste dell’accusa. Ma è una storia che merita un approfondimento a parte. Mafia. Riina non sta bene: processo sospeso a Milano. Il giallo dell’operazione La Repubblica, 19 ottobre 2017 La notizia al processo in cui è imputato per le minacce al direttore del carcere di Opera. La notizia dell’intervento chirurgico diffusa da un sito viene smentita dal Dap. Totò Riina sta male e sarebbe stato sottoposto a un intervento chirurgico. Lo hanno comunicato i giudici della sesta sezione penale del Tribunale di Milano in apertura dell’udienza del processo in cui il ‘capo dei capi’ di Cosa Nostra è imputato per le minacce al direttore del carcere di Opera Giacinto Siciliano. Dietro l’uso del condizionale “sarebbe” si nasconde una sorta di giallo, visto che la notizia - diffusa da un sito - è stata poi smentita da alcune fonti del Dap, il dipartimento che sovrintende l’amministrazione penitenziaria. La notizia di un possibile intervento aveva comunque portato il presidente del collegio, Raffaele Martorelli, a sospendere l’udienza per chiedere informazioni più precise al carcere di Parma e valutare se si potesse riconoscere al boss il legittimo impedimento. Ricco di dettagli, il sito quotidianosanità.it, spiegava che Riina sarebbe stato operato nella mattina del 16 ottobre all’ospedale di Montecchio Emilia. Il boss di Cosa nostra sarebbe stato trasferito e operato nella struttura specializzata per interventi al pavimento pelvico. L’intervento avrebbe avuto esito positivo e Riina sarebbe già stato trasferito subito dopo all’ospedale Maggiore di Parma dove è ricoverato da tempo in regime di 41 bis. Nell’udienza dell’11 luglio sulla base di una relazione dei medici dell’ospedale emiliano, il Tribunale di Milano aveva stabilito che, malgrado “l’età avanzata” e le numerose “patologie”, il boss ha la “piena capacità di intendere e di volere” e il procedimento deve andare avanti. Da un lato, infatti, hanno scritto i medici, Riina soffre di una “cardiopatia” di “tale entità da condizionarne ogni attività” e che lo “espone costantemente” al “rischio di morte improvvisa”. Dall’altro lato, però, è “vigile e collaborante, discretamente orientato nel tempo e nello spazio”. I suoi legali, gli avvocati Luca Cianferoni e Mirko Perlino, avevano provato a chiedere per il boss mafioso lo stop del processo (scaturito da intercettazioni ambientali di 4 anni fa nella casa di reclusione milanese dove era detenuto all’epoca) o in subordine una perizia per valutare la “capacità processuale”, ossia di comprendere di essere sottoposto a un processo. Richiesta bocciata. “Riina non ha subito alcun intervento, nessuna operazione - spiega in serata il legale Cianferoni - le sue condizioni restano difficili e critiche, ma è stazionario. Le notizie circolate in merito sono del tutto infondate”. Mafia foggiana, impuniti 8 omicidi su 10 La Repubblica, 19 ottobre 2017 “Le imprese pagano il pizzo ancora prima che i boss lo chiedano”. Il Csm tira le somme di un giro di audizioni dopo l’agguato nel Gargano costato la vita anche a due testimoni. “Spesso sono gli imprenditori ad anticipare le richieste estorsive da parte dei boss”. L’80 per cento dei 300 delitti di sangue che dagli anni Ottanta a oggi sono ascrivibili alla mafia del foggiano “sono ancora irrisolti”, cioè senza un colpevole. Il dato allarmante è nella risoluzione della sesta commissione del Csm, il Consiglio superiore della magistratura, che tira le somme di un giro di audizioni di vertici degli uffici giudiziari, delle forze di polizia e dell’avvocatura effettuate in Puglia all’indomani dell’ultimo sanguinoso agguato nel Gargano e costato la vita anche a due testimoni. Il quadro che emerge è preoccupante: si tratta di una mafia “feroce e profondamente radicata sul territorio, su cui esercita un vero e proprio controllo militare”. Un radicamento che in alcuni contesti “è così forte da produrre una generalizzata omertà”, che in alcuni casi diventa “connivenza” se non addirittura “consenso”. Non è un caso che dal 2007 non ci sono più pentiti e che le denunce sono “pressoché inesistenti”. Peraltro “i pochi cittadini che le presentano, quasi sempre ritrattano in sede processuale”. Gli imprenditori vittime di estorsioni negli ultimi anni sono passati addirittura a “un atteggiamento di volontaria sottomissione al fenomeno mafioso”: spesso sono loro stessi a recarsi autonomamente dal mafioso per pagare il pizzo, “anticipandone in tal modo la richiesta”. E lo fanno “non per lucrare vantaggi”, ma nella consapevolezza che la loro attività e la loro stessa vita “non possono affrancarsi dalla protezione mafiosa”. La mafia foggiana, quella garganica e quella di Cerignola hanno in comune la capacità di coniugare tradizione e modernità: “La tradizione - si legge nel documento, che ha come relatori i consiglieri Ercole Aprile, Antonello Ardituro e Paola Balducci - è quella del ‘familismo mafioso’ tipico della ‘ndrangheta e della ferocia spietata della camorra cutoliana. La modernità, invece, è la vocazione agli affari, la capacità di infiltrazione nel tessuto economico-sociale, la scelta strategica di colpire i centri nevralgici del sistema economico della provincia: l’agricoltura, l’edilizia e il turismo”. La riprova arriva dalle recenti inchieste che “hanno dato conto della capacità della mafia foggiana di infiltrarsi nella pubblica amministrazione”. Magistratura (che pure deve fare i conti con una “forte percentuale di posti scoperti”, fenomeno “da affrontare al più presto”) e polizia “sono impegnate in una continua opera di prevenzione e contrasto delle attività criminose, che già portato all’accertamento delle responsabilità penali di numerosi esponenti dei clan”. Ma prima di tutto, avvertono i consiglieri del Csm, bisogna “rompere l’omertà” con l’azione sinergica di tutte le istituzioni. Serve “l’impegno di quanti ricoprono incarichi pubblici”, che devono essere innanzitutto capaci di “espungere chi al loro interno si è dimostrato permeabile a influenze criminali”. Nel documento si chiede di “assumere tutte le più utili e urgenti iniziative volte ad assicurare Palazzi di giustizia agli uffici giudiziari di Bari e di Foggia che siano adeguati alle esigenze di buon funzionamento del servizio, in condizioni di sicurezza e di logistica sufficienti a garantire l’efficienza e il decoro delle funzioni giudiziarie”. E il ministero della Giustizia ha reso noto che finanzierà l’avvio della progettazione del Polo giudiziario di Bari. Carcere preventivo limitato di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 19 ottobre 2017 Corte di cassazione - Sentenza 47970/2017. Alt al carcere preventivo se il Riesame deposita oltre i 30 giorni l’ordinanza emessa in sede di rinvio. Anche nei casi di particolare complessità. Lo hanno deciso le Sezioni unite penali con la sentenza n. 47970 depositata ieri. La pronuncia sottolinea, scegliendo il più rigido orientamento interpretativo, che la previsione di un termine breve per la decisione sulla richiesta di riesame è già stata ritenuta ragionevole dalla Corte costituzionale per il suo stretto legame con l’esercizio del diritto di difesa. Un giudizio condiviso anche in sede europea: la Corte europea dei diritti dell’uomo, infatti, ha chiarito che la velocità in materia cautelare ha lo scopo di tutelare la persona da detenzioni arbitrarie assicurandogli un riesame veloce con particolare riferimento all’esistenza di indizi fondati contro il detenuto e alla legittimità della sua detenzione. Fatta questa premessa, allora, le Sezioni unite ricordano che l’articolo 311 comma 5-bis del Codice di procedura penale, che disciplina il termine di deposito dell’ordinanza in sede di rinvio, prevede il massimo di 30 giorni senza richiamare però la possibilità di proroga che è invece prevista dall’articolo 309 comma 10. Entrambe le misure sono state introdotte dalla stessa legge, la n. 47 del 2015. Se il legislatore avesse voluto, avverte la sentenza, equiparare la disciplina dei due termini, lo avrebbe fatto esplicitamente. L’assenza di questa previsione “consente pertanto di interpretare in modo restrittivo la disposizione in oggetto, convergendo in tal senso univocamente sia la lettera della legge che l’intentio legis”. Va infatti considerato che, se già la detenzione dell’imputato giustifica l’esigenza di una decisione in tempi rapidi su un eventuale ripristino delle condizioni di libertà, nel rispetto del principio costituzionale del minimo sacrifico necessario per la libertà personale, tempi serrati sono a maggior ragione necessari quando, dopo un annullamento con rinvio, l’imputato, pur rimanendo in carcere, matura una maggiore aspettativa di libertà. E la proroga a 45 giorni per i casi più ardui non può essere applicata per analogia. Quest’ultima, infatti, rappresenta un procedimento attraverso il quale, quando c’è una lacuna nell’ordinamento, vengono applicate alla situazione da disciplinare le norme previste per casi simili o materie analoghe. Nella materia esaminata, tuttavia, non esistono questi presupposti. Il Codice infatti disciplina in maniera esplicita il termine di deposito, e, pertanto, non ci sono vuoti da colmare. Inoltre, il comma 5 bis dell’articolo 311 disciplina una situazione che le Sezioni unite ritengono del tutto diversa. La prorogabilità del termine poi non rappresenta espressione di un principio generale. Così, la disciplina dei termini contenuta nel Codice di procedura penale al Titolo VI del Libro II esprime i principio di tassatività dei termini stabiliti a pena di decadenza e dei casi in cui è consentita la proroga. “Con specifico riferimento al riesame, il legislatore ha espressamente disciplinato i casi in cui è consentita la proroga dei termini previsti per la decisione del tribunale, ricollegandoli ad una situazione personale dell’imputato o ad una sua richiesta”. La confisca dimentica alcune fattispecie penali e si allarga agli eco-reati di Valerio Vallefuoco Il Sole 24 Ore, 19 ottobre 2017 È sul restringimento del novero dei reati-presupposto della confisca allargata che si è concentrato uno dei richiami del capo dello Stato che, nel firmare la legge di modifica del Codice antimafia, ha sollecitato con una lettera al premier Paolo Gentiloni modifiche in tempi brevi. Le nuove norme incidono su alcuni punti-chiave della lotta alla criminalità organizzata: misure di prevenzione, controllo giudiziario delle aziende nei casi di pericolo di infiltrazione mafiosa, amministrazione dei beni sequestrati e confiscati. In particolare, in tema di misure di prevenzione patrimoniale la novella sembra imporre una riconsiderazione dell’ambito di applicazione della confisca allargata. Istituto disciplinato dall’articolo 12 sexies del Dl 306/92 che, in relazione ad alcuni gravi reati, quali l’associazione per delinquere di stampo mafioso, l’estorsione, l’usura, la ricettazione, il riciclaggio, prevede che “è sempre disposta la confisca del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica”. Dunque, questo tipo di confisca ha come presupposto la sola condanna del soggetto che dispone dei beni quando sia provata l’esistenza di una sproporzione tra il valore economico dei beni stessi e il reddito da lui dichiarato; di conseguenza l’adozione del provvedimento ablativo prescinde da un nesso di pertinenzialità del bene con il reato per il quale è intervenuta la condanna. Ben si intuisce allora l’importanza che tale misura riveste sul piano applicativo laddove incombe al condannato l’onere di allegare la legittima provenienza del bene. Tuttavia, l’articolo 31 del nuovo Codice antimafia nel modificare l’articolo 12-sexies non ha riprodotto alcune ipotesi di reato (ad eccezione dell’auto-riciclaggio), a suo tempo inserite dall’articolo 5 del Dlgs 202/16, in attuazione della direttiva 2014/42/Ue. Ne consegue che per i reati di associazione per delinquere finalizzata alla commissione delle fattispecie di falso nummario, di corruzione tra privati, di indebito utilizzo di carte di credito o di pagamento, dei delitti commessi con finalità di terrorismo internazionale e dei reati informatici quando le condotte di reato riguardano tre o più sistemi informatici, non sarà più possibile disporre, in caso di condanna, la confisca allargata. Una riforma così concepita, rischia di introdurre elementi di disorganicità e illogicità in quanto se da un lato si restringe l’area dei reati che in caso di condanna legittimano la confisca allargata dall’altro si introduce l’obbligatorietà della misura stessa per alcuni eco-reati. Non di meno, si porrebbe una seria questione di conformità dell’ordinamento interno agli obblighi imposti dal legislatore Ue, visto il venir meno di norme direttamente attuative di direttive. Da qui l’invito del capo dello Stato a intervenire in tempi brevi. I divorzi “stranieri” di Giusi Fasano Corriere della Sera, 19 ottobre 2017 C’è il tizio che per sua moglie avrebbe tanto voluto il Talaq, il ripudio, secondo i vecchi precetti della sharia. C’è la coppia che ha chiesto al tribunale civile di applicare la Kafala prevista dalla legge islamica. C’è la moglie che invece ha ottenuto il Mout’a, dono di consolazione, e l’Iddà, indennizzo per la “vedovanza” post-divorzio, stabiliti dal codice di famiglia marocchino, il Mudawwana Al’Usra. Un giudice ha dovuto decidere se fosse valido o no un matrimonio celebrato in videoconferenza fra l’Italia e il Pakistan, altri si sono pronunciati su nozze decise per gioco a Las Vegas ma diventate reali quando poi uno dei due partner le ha registrate. La legge del 1995 Paese che vai, divorzio che trovi. Ma la domanda è: quando e come - in caso di coppie miste o di coniugi entrambi stranieri - i giudici italiani tengono conto del diritto di altri Paesi nel decidere le loro sentenze di divorzio? La risposta segue percorsi complicatissimi partiti da una legge del 1995 - la 218 che disciplinava il diritto internazionale privato - e approdati a più regolamenti europei che sono un’evoluzione di quella legge (in particolare il nr. 1259 del 2010, applicato dal 2012 in poi). In materia di divorzio un punto fermo importantissimo dal quale partono i tribunali civili italiani è che i giudici debbano rifiutare di applicare una legge contraria all’ordine pubblico: che contrasti, cioè, con i valori fondamentali della società civile o non tenga conto della parità di diritti dei coniugi. Per questo nel tempo sono stati respinti vari tentativi di introdurre in Italia il concetto islamico del ripudio. Non è accettabile un marito che dica a un giudice italiano: l’ho ripudiata quindi non le pago gli alimenti, nemmeno se lei accetta quell’accordo. Altro principio chiave: il regolamento europeo attivo dal 2012 non ha i confini dell’Europa. È universale, quindi non vale soltanto per gli Stati Ue ma è applicabile a qualunque legge straniera purché il giudice sia di uno Stato che aderisce al regolamento. Giuseppe Buffone, ex giudice civile a Milano e ora alla Direzione generale della giustizia civile, dice che “purtroppo non sono molti i magistrati e gli avvocati che si muovono con disinvoltura fra le norme che regolano questo genere di questioni. Così capita che molte volte la coppia non sia informata, e ne avrebbe diritto, sulle possibilità che renderebbero tutto più semplice e veloce. Mi è capitato di sentirmi dire che il regolamento europeo fosse escluso perché lui era ecuadoriano, lei cilena. Sbagliato: devi chiederti di che nazionalità è il giudice, non loro”. È fondamentale sapere che, quando sono d’accordo, i divorziandi possono scegliere la legge da applicare e magari rivolgersi allo Stato che prevede il divorzio diretto senza passare dalla separazione. È di questo genere l’ultimo caso registrato dalle cronache, a Padova. Le avvocatesse Ghita Marziano e Barbara Gerardo hanno ottenuto il divorzio immediato per i loro assistiti - lui marocchino, lei italiana di origini marocchine - chiedendo al giudice l’applicazione del codice di famiglia del Marocco che lo prevede. Ma più del divorzio immediato la novità di quella sentenza è stata l’applicazione della legge marocchina anche ai rapporti patrimoniali. La moglie si è vista riconoscere il Mout’a (dono di consolazione stabilito in base alla durata del matrimonio e alla situazione finanziaria del coniuge) e il Sadaq, la dote nuziale che l’uomo (secondo i riti del suo Paese) si era impegnato a pagare per poterla sposare. L’avvocatessa Marziano ha studiato il Mudawwana Al’Usra e dice che con quel codice “il legislatore marocchino si è sforzato di conciliare il diritto positivo con quello musulmano che prevede come ancora possibili, a certe condizioni, il ripudio e la poligamia. Due concetti - chiarisce - che non esistono e non possono entrare nel nostro sistema giudiziario anche se mi sono capitati casi in cui la controparte ha provato invano a farli riconoscere come validi”. I ricorsi in Europa A parte la certezza su termini come poligamia e ripudio, le regole del gioco non devono essere poi così chiare se capita che di tanto in tanto i divorzi arrivino fino alla Corte di Giustizia europea. Per esempio è pendente il caso di una causa di separazione aperta in Italia alla quale è seguita una causa di divorzio aperta successivamente da uno dei due partner in Romania. Qual è il giudice che “vince”, diciamo così? Di norma quello arrivato per secondo dovrebbe sospendere il procedimento e invece stavolta non è successo e il magistrato romeno ha concesso il divorzio facendo così cessare la separazione in Italia. Un errore? O l’oggetto in discussione è diverso quindi è tutto corretto? La questione è aperta e i nodi non saranno sciolti in fretta. È stato piuttosto complicato venire a capo anche di un’altra storia singolare. Distretto giudiziario di Bologna. Lei italiana, lui pachistano. Si sono sposati in videoconferenza senza essersi mai conosciuti di persona, come consentono le leggi del Pakistan, ma poi è arrivato il tempo dell’addio, in Italia. La causa, fra ricorsi e controricorsi, è approdata in Cassazione. Risultato: il matrimonio era valido perché non in contrasto con i nostri valori fondamentali. Come non lo era in un’altra vicenda (e anche in quel caso c’è voluto l’intervento delle Sezioni unite) l’applicazione della kafala, la regola che in alcuni Paesi islamici stabilisce che, in accordo fra loro, i genitori separandosi possono affidare un figlio che viva laggiù a parenti o amici. “Il criterio della statura in Polizia discrimina le donne” di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 19 ottobre 2017 Corte Ue - Causa C-409/16. Accesso ai concorsi di polizia senza requisiti fisici, come l’altezza, che di fatto provocano una discriminazione a danno delle donne. È la Corte di giustizia dell’Unione europea a stabilirlo con una sentenza depositata ieri (C-409/16). Per Lussemburgo, un obiettivo, anche legittimo, come il buon funzionamento dei servizi di polizia, può essere conseguito con misure “meno svantaggiose per le donne” come una preselezione fondata su prove specifiche. Un principio che evidenzia una contrarietà della Corte a requisiti fisici predefiniti e automatici per l’accesso al lavoro che nella maggior parte dei casi, pur essendo identici per entrambi i sessi, procurano una discriminazione indiretta verso le donne. È stato il Consiglio di Stato greco a chiamare in aiuto gli euro-giudici prima di risolvere la controversia tra il ministero degli Interni e una donna che non aveva potuto partecipare al concorso per l’arruolamento in polizia perché non possedeva il requisito di statura minima (1 metro e 70 centimetri) imposto dalla normativa nazionale (condizione eliminata in Italia con il decreto 207/2015). Per la Corte Ue si tratta di una discriminazione indiretta perché il requisito può apparire neutro ma, di fatto, “sfavorisce un numero molto più alto di donne che di uomini”. Tuttavia, la direttiva 76/207 sull’attuazione del principio della parità di trattamento fra uomini e donne per l’accesso al lavoro (modificata dalla 2002/73, recepita in Italia con Dlgs n. 145/2005) lascia spazio a una certa discrezionalità degli Stati che possono introdurre condizioni a prima vista discriminatorie ma necessarie e giustificate dal perseguimento di una finalità legittima come il buon funzionamento dei servizi di polizia. In ogni caso, per essere compatibili con la direttiva, le misure previste non devono andare “oltre quanto necessario al conseguimento” dell’obiettivo legittimo. Questo vuol dire che lo Stato deve tenere conto che tra le forze di polizia possono esserci posizioni che non richiedono “un ragguardevole impegno fisico” e individuare, in ogni caso, le misure che incidono di meno sul principio della parità di trattamento. E qui la Corte suggerisce, come misure a minore tasso di discriminazione per le donne, la preselezione dei candidati con prove specifiche per testare le capacità fisiche in modo effettivo. Una conclusione che fa ipotizzare che anche altre condizioni fisiche precostituite dai legislatori nazionali potrebbero correre il rischio di non superare il vaglio di Lussemburgo. Como: donna muore in carcere. Il Sappe: “questa è la realtà dei penitenziari italiani” ilcorrieredellasicurezza.it, 19 ottobre 2017 “Ieri la donna, 40 anni circa, ristretta per furto e spaccio di stupefacenti, tossicodipendente, è stata trovata morta nella sua cella”, spiega Alfonso Greco, segretario regionale Sappe della Lombardia. “Nulla ha potuto l’intervento del sanitario”. Aggiunge da Roma Donato Capece, segretario generale Sappe: “La situazione nelle carceri resta allarmante: altro che emergenza superata! Dal punto di vista sanitario è semplicemente terrificante: secondo recenti studi di settore è stato accertato che almeno una patologia è presente nel 60-80% dei detenuti. Questo significa che almeno due detenuti su tre sono malati. Tra le malattie più frequenti, proprio quelle infettive, che interessano il 48% dei presenti. A seguire i disturbi psichiatrici (32%), le malattie osteoarticolari (17%), quelle cardiovascolari (16%), problemi metabolici (11%) e dermatologici (10%)”. “Altro che dichiarazioni tranquillizzanti, altro che situazione tornata alla normalità. I problemi del carcere sono reali, come reale è il dato che gli eventi critici nei penitenziari sono in aumento da quando vi sono vigilanza dinamica e regime aperto per i detenuti”, conclude il leader del Sappe. “Quelli del carcere non sono problemi da nascondere come la polvere sotto gli zerbini, ma criticità reali da risolvere. I numeri dei detenuti in Italia sarà pure calato, ma le aggressioni, le colluttazioni, i ferimenti, i tentati suicidi, i suicidi e purtroppo anche le morti per cause naturali si verificano costantemente, spesso a tutto danno delle condizioni lavorative della Polizia Penitenziaria che in carcere lavora 24 ore al giorno”. Roma: 22enne suicida in carcere, l’Associazione Antigone si rivolge all’Onu Il Fatto Quotidiano, 19 ottobre 2017 “Il 24 febbraio 2017, giorno in cui si è tolto la vita impiccandosi, Valerio non avrebbe dovuto trovarsi detenuto presso il carcere di Regina Coeli - spiega il presidente dell’associazione, Patrizio Gonnella. Non vogliamo che si vada alla ricerca di capri espiatori e che tutto si risolva in una questione di mancata sorveglianza”. Valerio Guerrieri, 22 anni, si è tolto la vita lo scorso 24 febbraio nella cella in cui era detenuto nel carcere romano di Regina Coeli. Per la sua morte il 3 ottobre è stato chiesto il rinvio a giudizio per omicidio colposo dei due agenti di polizia Penitenziaria che in quel momento erano in servizio in quella sezione del carcere e che non sono arrivati alla cella del ragazzo in tempo per evitare che si impiccasse: hanno tardato di sette minuti il controllo programmato per chi è a rischio. L’associazione Antigone, attiva nell’ambito dei diritti e delle garanzie nel sistema penale, farà arrivare il caso sul tavolo del Comitato Onu contro la tortura. Per chiarire, innanzitutto, se Valerio in carcere ci dovesse davvero stare. Antigone ha seguito il caso fin da subito, dietro richiesta della madre del suicida. È il presidente dell’associazione, Patrizio Gonnella, a intervenire per spostare il focus della questione. “Non vogliamo che si vada alla ricerca di capri espiatori e che tutto si risolva in una questione di mancata sorveglianza - spiega Gonnella. Questa prima parte delle indagini non tiene conto dell’elemento probabilmente principale, ovvero se Valerio Guerrieri si dovesse trovare in carcere o meno. Da quanto evidenziano le memorie della difesa, sembrerebbe infatti di trovarsi dinanzi ad un caso di detenzione che non avrebbe dovuto esserci”. Il 22enne era stato arrestato in flagranza lo scorso 2 settembre 2016 per resistenza e lesioni a pubblico ufficiale e danneggiamento aggravato. Viene portato al Regina Coeli perché l’abitazione dei genitori viene giudicata non idonea per gli arresti domiciliari. “Tuttavia il giudice - continuano dall’associazione - quasi due mesi dopo, il 25 ottobre 2016, ha modificato questa misura, disponendo la detenzione domiciliare presso la casa dei genitori. Un’ordinanza che non viene mai eseguita. Il ragazzo resta quindi in carcere senza titolo”. Ma non è l’unica disposizione per togliere Valerio dal carcere che non viene attuata. “La seconda misura cautelare in carcere - prosegue Antigone - viene applicata con un’ordinanza del 21 dicembre 2016. Misura definitivamente revocata il 14 febbraio del 2017, data in cui si conclude il procedimento scaturito dall’arresto. Anche in questo caso, però, non viene data esecuzione al provvedimento di revoca”. E il ragazzo, per la seconda volta, resta al Regina Coeli. Nel frattempo gli viene applicata una misura di sicurezza che prevede il ricovero presso una Rems (le strutture in cui vengono “internati” i non imputabili) in esecuzione di un’altra sentenza del 9 marzo 2015, perché assolto dalle accuse mossegli a quel tempo per incapacità di intendere e di volere. Guerrieri, infatti, aveva già avuto a che fare con la giustizia in precedenza, anche da minore. Ma dal Tribunale per i minorenni era sempre stato ritenuto non imputabile per vizio di mente. Il 14 febbraio 2017, dunque, il giudice condanna Valerio alla pena di quattro mesi di reclusione ma, come misura di sicurezza, dispone di mandarlo “in una casa di cura in regime residenziale per sei mesi”, con “revoca della misura cautelare della custodia cautelare in carcere”, come ricostruisce Antigone. L’associazione spiega che la decisione era motivata proprio dal fatto che a Valerio era stato riconosciuto “un vizio parziale di mente”: il perito del Tribunale, presente all’udienza del 14 febbraio, aveva detto che era presente “un rischio suicidario non basso, quindi non trascurabile” e che questo era “un elemento che va ovviamente soppesato dal punto di vista trattamentale”. Ma anche questa volta il giovane rimane in cella. “Il 24 febbraio 2017, giorno in cui si è tolto la vita impiccandosi, Valerio non avrebbe dovuto trovarsi detenuto presso il carcere di Regina Coeli - conclude Patrizio Gonnella - Per questo la difesa ha chiesto alla Procura della Repubblica di Roma di indagare individuando possibili profili di responsabilità in merito alla illegittima detenzione”. Ma l’associazione vorrebbe andare oltre. “Vorremmo che la giustizia si interrogasse intorno a come è stato affrontato dai servizi territoriali e da tutti gli attori del sistema un caso come quello di Valerio Guerrieri. Come mai era in carcere? Come mai per un fatto lieve si può finire nel girone infernale della prigione? È questo un caso di abbandono terapeutico?”. Qualche chiarimento potrebbe arrivare dal ricorso alle Nazioni Unite. Bologna: il Garante dei detenuti “confronto positivo con il sindacato Sinappe” bolognatoday.it, 19 ottobre 2017 Confronto positivo in ordine alla situazione degli istituti penitenziari collocati nel territorio comunale: “Necessario però che intervengano anche ulteriori azioni concrete”. Nei giorni scorsi il Garante delle persone private della libertà personale, Antonio Ianniello, ha incontrato rappresentanti del sindacato di Polizia penitenziaria della sigla Sinappe (Vitaliano Cinquegrana, Nicola D’amore, Simone Salzano), ponendo in essere un confronto positivo in ordine alla situazione degli istituti penitenziari collocati nel territorio comunale. Si è ravvisata la necessità di percorsi condivisi e azioni sinergiche che possano coinvolgere tutti gli attori della comunità penitenziaria al fine di individuare gli interventi più adeguati in ordine alle questioni penitenziarie, passando attraverso la piena valorizzazione della specificità delle esperienze. Si valuta positivamente l’azione riformatrice messa in campo in questi anni dall’Amministrazione Penitenziaria, ma si ritiene, altresì, necessario che intervengano anche ulteriori azioni concrete affinché possa compiutamente dispiegarsi il significato del modello detentivo a custodia aperta: in particolare, sarebbero opportune, da un lato, la previsione di investimenti in strumentazione elettronica che possa agevolare le condizioni di lavoro nonché garantire la sicurezza degli operatori penitenziari e, dall’altro, la destinazione di risorse adeguate per le attività lavorative e trattamentali a favore della popolazione detenuta. Sarebbero, inoltre, auspicabili politiche di adeguamento dell’organico tanto della Polizia penitenziaria - sia relativamente alla Casa circondariale di Bologna che alle strutture del Centro Giustizia Minorile, con particolare riferimento all’annosa problematica del Cpa ove spesso vengono impiegate unità dell’Ipm, sguarnendone il relativo contingente - quanto delle aree educative nonché delle aree amministrativo-contabili. Si è convenuto, inoltre, con riferimento alle criticità di carattere stagionale - si pensi per esempio al caldo estivo, che sarebbe auspicabile la programmazione di interventi che possano risolvere o, quantomeno, attenuare gli effetti negativi, contribuendo al miglioramento delle condizioni detentive e di lavoro. Alla luce dell’attuale e complessa realtà penitenziaria, i rappresentanti della sigla sindacale hanno rimarcato l’esigenza di aggiornamento professionale nonché di interventi di sostegno psicologico in caso di stress lavorativo. Turi (Ba): canali tv oscurati, i detenuti protestano mettendo i televisori fuori dalle celle telebari.it, 19 ottobre 2017 La denuncia arriva dal Coordinamento sindacale penitenziario e riguarda la Casa circondariale di Turi dove l’altro ieri i detenuti hanno dato vita ad una inusuale forma di protesta mettendo fuori dalle loro celle tutti i televisori. Da più di una settimana la popolazione carceraria lamenta problemi nella ricezione dei 10 canali televisivi disponibili a cui si è aggiunto l’oscuramento di alcune reti nazionali. Un malfunzionamento al quale non è stata trovata soluzione ma che allunga l’elenco dei disservizi e dei disagi all’interno della struttura carceraria. Il sindacato autonomo Co.s.p. aveva già denunciato la situazione delle docce non funzionanti nella prima sezione detentiva a causa della rottura di tubazioni e di infiltrazioni che hanno reso inagibili i locali, con i reclusi costretti a spostarsi in altra sezione attigua compromettendo l’ordine e la sicurezza. Disagi anche per l’uso del telefono fisso della prima sezione a disposizione dei detenuti per le comunicazioni con i familiari. Anche quello - lamenta il Co.s.p. - è guasto da mesi e costringe gli agenti penitenziari a trasferire i detenuti in altre sezioni per effettuare o ricevere le telefonate dai familiari. “Situazioni - precisa il Co.s.p. - che finiscono col generare diffuso malcontento e che sfociano, come molto spesso accade, in aggressioni e in comportamenti per i quali a pagarne le conseguenze sono sempre i poliziotti penitenziari. Genova: dalla Fondazione Rava progetto per la tutela di bambini con genitori detenuti La Repubblica, 19 ottobre 2017 Sostegno a 240 minori e alle famiglie a Marassi e Pontedecimo. Salpa a Genova “La barchetta rossa e la zebra”, progetto che intende tutelare i diritti dei bambini con genitori detenuti nel carcere di Genova Marassi o di Pontedecimo. Il progetto, promosso dalla Fondazione Rava in collaborazione con le principali istituzioni liguri e con l’associazione “Il Cerchio delle Relazioni, che è capofila del progetto, punta al sostegno di questi bambini e delle loro famiglie in situazione di grave vulnerabilità dovuta all’alto livello di esclusione sociale e “rappresenta una novità nell’ambito del Terzo Settore - si legge in una nota della Fondazione. Il progetto nasce grazie all’intesa delle Fondazioni di origine bancaria rappresentate da Acri, Forum Nazionale del Terzo Settore e Governo destinato al contrasto alla povertà educativa”. Il progetto, che si rivolge al supporto sociale di circa 240 bambini, avrà durata triennale e si concretizzerà attraverso il restyling di alcuni luoghi già esistenti all’interno delle case circondariali genovesi, che saranno ripristinati e trasformati in accoglienti, confortevoli e colorati spazi a misura di bambino. Dopo sei mesi di cantiere, dedicati alla ristrutturazione degli ambienti e circa 24 mesi tra operatività e formazione dei team, i bambini potranno essere finalmente accolti nei nuovi spazi a loro dedicati. “Creando spazi protetti - ha detto Maria Chiara Roti, vice presidente della Fondazione Francesca Rava - sarà possibile sostenere e tutelare i bambini, evitando loro lunghissime attese prima di poter accedere all’interno delle strutture penitenziarie e offrendo attività formative e ludiche che favoriscano l’incontro e la relazione con il genitore”. Palermo: i detenuti realizzano un cortometraggio e diventano operatori della pet therapy superabile.it, 19 ottobre 2017 Due laboratori per alleviare i giorni di reclusione in carcere. Un’iniziativa che ha visto protagonisti 15 detenuti dai 25 ai 60 anni, di cui due immigrati, nelle case circondariali Pagliarelli e Ucciardone di Palermo. Artale (Centro Padre Nostro): “Il problema resta il dopo carcere”. Due laboratori realizzati con lo scopo di alleviare i giorni di reclusione in carcere. Un’iniziativa che ha visto protagonisti 15 detenuti dai 25 ai 60 anni, di cui due immigrati, i quali si sono dapprima cimentati nel ruolo di cine-operatori nel cortometraggio dal titolo “La lettera, missiva scritta e mai spedita da un detenuto del carcere Pagliarelli”, e poi hanno partecipato ad un corso di addestramento di cani per la pet therapy. I due laboratori sono stati realizzati dal centro Padre Nostro di Brancaccio, rispettivamente dentro le case circondariali Pagliarelli e Ucciardone. Nel corto si narra la storia di un detenuto scritta in una lettera che poi viene recuperata fuori dal carcere e diventa un pretesto per fare rincontrare un gruppo di ex detenuti. L’opera è il prodotto finale del corso operatori del cinema, che ha coinvolto 15 cittadini detenuti con la partecipazione dell’associazione Seven Communication, S.A.C.T. Scuola d’Arte per il Cinema guidata da Paolo Brancati. Il cortometraggio è stato premiato l’anno scorso a Roma in occasione di Medfilm festival nella sezione “corti dal carcere”. Kira e Sara sono invece due cani labrador che hanno incontrano 10 detenuti della casa di reclusione “Ucciardone” di Palermo per la formazione in incontri settimanali di pet terapy. Nel pomeriggio di oggi a tutti i corsisti verranno consegnati gli attestati di competenza acquisita dalla d.ssa Nadia Adragna, volontaria del Centro di Accoglienza Padre Nostro e operatrice specializzata in Pet Therapy, dalla dott.ssa Avara Mariapia, vicepresidente del Centro di Accoglienza Padre Nostro Onlus e dallo staff educativo e dalla direzione del carcere Ucciardone. “Da diverso tempo lavoriamo con i detenuti - dice Maurizio Artale presidente del centro Padre Nostro - per una doppia finalità che da un lato è quella di riuscire a fare trascorrere il loro tempo in maniera sana e dall’altro quello di fare acquisire delle competenze che potrebbero sfruttare fuori una volta usciti dal carcere. Il cortometraggio ha permesso ai detenuti di usare una telecamera e di fare gruppo sperimentando le loro capacità. Purtroppo ancora il carcere è un posteggio forzato in cui c’è chi si lascia andare e si scoraggia. Proprio per questo il laboratorio è una possibilità di conoscersi scommettendo sulle loro potenzialità. Naturalmente da questi corsi non escono attori ma l’esperienza serve per attivare percorsi culturali e relazionali che per loro sono molto significativi”. “Un nostro operatore è entrato in carcere con due cani che fanno pet terapy per insegnare ai detenuti come addestrarli - aggiunge Maurizio Artale -. L’anno prossimo abbiamo intenzione, invece, di far fare pet terapy proprio ai detenuti perché la presenza di questi cani è terapeutica anche per allontanare una serie di patologie di cui soffrono. Tra l’altro, in cantiere, c’è anche l’idea, di riconoscere al detenuto la possibilità di portare un proprio animale in carcere in aree appositamente adibite. Questa possibilità, che per il momento verrà valutata dalla direzione del carcere Ucciardone sulla base delle normative vigenti, permetterebbe al detenuto di accudire nelle ore consentite un proprio animale, cosa che sarebbe molto importante dal punto di vista affettivo- relazionale”. Ma se tali laboratori cercano in qualche modo di alleviare i giorni di reclusione, il grande problema, come ci tiene a sottolineare il presidente del centro Padre nostro, resta il dopo carcere. “Sicuramente siamo soddisfatti dei risultati che riusciamo ad avere con i diversi laboratori - continua Artale - ma il vero problema resta per il detenuto quello che farà una volta fuori dal carcere. Lo Stato ancora non crea quelle condizioni per cui chi è stato un detenuto riesce a lavorare regolarmente. Chi ha compiuto reati contro il patrimonio non può fare neanche il commerciante ambulante. Ci sono tante persone che una volta liberi, manifestano la buona volontà di cambiare vita ma non possono lavorare e rimangono bollati per sempre come ‘ex detenuti’ senza essere dei cittadini come tutti noi. Nel caso in cui hanno una famiglia da sfamare la situazione diventa pure molto complicata. Bisogna spingere allora lo Stato a cambiare le regole per favorire il reinserimento sociale dell’ex detenuto altrimenti la recidiva resta ancora molto alta. Se chi esce dal carcere si sente solo e abbandonato dalla società è molto più facile che cada di nuovo in giri malavitosi. Il salto di qualità il nostro Paese lo farà soltanto quando l’ex detenuto verrà considerato persona come noi con il diritto di fare una vita dignitosa come tutti a partire dal lavoro”. Il centro Padre Nostro ha inoltre sei cittadini detenuti in esecuzione di pena esterna presso le proprie strutture. “Nella nostra esperienza, oggi alcuni ex detenuti che avevano scontato la pena alternativa da noi, non solo non hanno commesso più reati ma, i più meritevoli li abbiamo pure assunti all’interno del centro. Certamente queste buone esperienze che si sono realizzate diventano nel tempo dei buoni esempi da seguire per tutti gli altri”. Firenze: Villa La Nave, il rudere che diventa uno spazio artistico per detenuti 055firenze.it, 19 ottobre 2017 È un rudere annesso a Villa La Nave, diventerà uno spazio dedicato alla cultura e all’espressione artistica per i detenuti. Un luogo di incontro e promozione del reinserimento nel tessuto sociale con aree polifunzionali, biblioteca, foresteria e servizi. L’intervento, come riporta il Comune di Firenze, di recupero dell’immobile ha avuto ieri il via libera della giunta di Palazzo Vecchio su proposta dell’assessore all’Urbanistica Giovanni Bettarini. “È stato riconosciuto l’interesse pubblico dell’intervento di recupero - ha detto l’assessore Bettarini - Un immobile ridotto a rudere ormai dagli anni 40 che conserva integre solo le pareti e che sarà ristrutturato per dare nuove opportunità ai detenuti in pena alternativa nella casa di accoglienza di Villa La Nave attraverso l’arte e la cultura”. L’intervento riguarda la ristrutturazione dell’originaria copertura a capanna, del solaio del piano primo, con recupero delle originarie superfici, e il risanamento degli elementi ancora presenti dell’originario fabbricato, oltre alle opere di consolidamento statico, edili e impiantistiche. L’Opera della Divina Provvidenza Madonnina del Grappa, proprietaria dell’immobile di via di Caciolle, e la cooperativa sociale Rifredi Insieme si impegnano a destinare l’immobile solo alle attività previste dal progetto. Le opere di ristrutturazione saranno realizzate a cura e spese della cooperativa sociale Rifredi Insieme. Napoli: le carceri tra sovraffollamento e degrado, questa sera esperti a confronto Il Mattino, 19 ottobre 2017 Il Movimento “Orgoglio campano” e l’associazione di volontariato “Figli di Barabba” organizzano un convegno sul tema del “Sovraffollamento e degrado, carcere e territorio da emarginazione a integrazione”. L’iniziativa si terrà giovedì il 19 ottobre, alle ore 19, presso la sala teatro dei salesiani “Don Bosco” di Napoli in via Don Giovanni Bosco 8. All’iniziativa interverrà l’onorevole Clemente Mastella, sindaco di Benevento e già Ministro di Grazia e Giustizia. I lavori saranno aperti da Anna Ulleto, consigliere comunale di Napoli. Al dibattito interverranno Samuele Ciambriello, Garante dei detenuti della Regione Campania; onorevole Michela Rostan, componente della commissione Giustizia della Camera; avvocato Francesco Urraro del foro di Nola; Giovanni Corona, magistrato della Procura della Repubblica presso il Tribunale “Napoli Nord”; avvocato Maria Chiara Parisi, presidente associazione “Figli di Barabba”; Teresa Fusco, psicoterapeuta minori area penale; avvocato Antonio Parisi, volontario presso il l’istituto penitenziario di Secondigliano; don Franco Esposito, direttore dell’ufficio diocesano Pastorale Carceraria; Espedito Pistone, giornalista. Le conclusioni saranno affidate all’avvocato Pasquale Marrazzo, portavoce di “Orgoglio campano”. Il dibattito sarà moderato da Franco Buononato, giornalista de “Il Mattino”, responsabile della Redazione di Benevento. Inoltre, durante il confronto sono previste testimonianze dirette dell’associazione “Figli di Barabba” e di importanti figure che operano nelle carceri della Campania. Un dibattito che in questi giorni ha trovato spunti nel carcere minorile di Airola. “Si tratta di un’iniziativa nata per promuovere l’integrazione tra diversi soggetti e diversi sistemi che si misurano sul versante della legalità e del sociale sullo sfondo di un modello di società inclusiva che vive la differenza come risorsa - dichiara Vincenzo Nocerino, segretario nazionale di Orgoglio campano”. Una serata di dibattito e di studio, con esperti di primo livello, sulla questione carceri in Italia, sulla vita del detenuto dietro le sbarre e per il loro futuro, quando, pagato il debito con la società, deve tornare a fare i conti con la normalità, reinserirsi in famiglia, nei luoghi di lavoro e nel sociale. Un punto, questo, da sempre all’attenzione di esperti ed operatori del settore e che giustamente muove le “corde” dei volontari, di chi si batte per una giustizia giusta, senza preconcetti e inutili vessazioni, dove il detenuto è una persona, un uomo o una donna, che deve essere trattato sempre con la massima attenzione e umanità. Roma: “Altri Sguardi”; cinema e solidarietà in carcere, oggi la premiazione rbcasting.com, 19 ottobre 2017 Giovedì 19 ottobre si chiude la prima edizione della rassegna Altri Sguardi con la giornata di premiazione, durante la quale la giuria, composta da 20 detenuti, assegnerà il premio al film vincitore di quest’anno. Un progetto promosso dall’Associazione Mètide con il sostegno del Mibact. I film che sono stati presentati e che concorrono al premio sono: “Tutto quello che vuoi” di Francesco Bruni, “La Ragazza del Mondo” di Marco Danieli, “L’ora Legale” di Ficarra e Picone, “Non è un paese per giovani” di Giovanni Veronesi e “Lasciati andare” di Francesco Amato. Non è la prima volta che i detenuti affrontano, anche attraverso un confronto e un dibattito sui temi proposti dai film selezionati, un’esperienza che nasce dalle suggestioni e dagli spunti di riflessione del racconto cinematografico. È senza dubbio l’occasione di un confronto speciale, però, la formula che Altri Sguardi, ideata e promossa dall’Associazione Mètide, mette in campo - con il sostegno del Mibact, Direzione Generale per il Cinema - costruendo un confronto d’opinione sugli spunti suggeriti dalle sceneggiature dei film scelti per questa prima esperienza. Con questa rassegna l’Istituto accoglie un progetto articolato, oltre i film, sulla creazione di uno sportello di counseling, un supporto insomma per il personale al lavoro nell’Istituto, e un laboratorio che seguirà la rassegna - esclusivamente destinato alle detenute - con un’esperienza formativa attraverso la sceneggiatura. “Parole e segni di libertà: la storia di Ortolibero” liberainformazione.org, 19 ottobre 2017 “OrtoLibero: nome poetico per definire un pugno di ore rubate alla routine del carcere. Una strana esperienza ove si vedono aspetti inattesi di persone che si pensa di conoscere, perché valutati esclusivamente sui reati e gli atteggiamenti, che meravigliano per delicatezza, sensibilità, dedizione, dedicata alla trasformazione di un prato a un orto ricco di ortaggi e verdure iniziando con l’arte antica della semina e poi con la cosa più difficile l’attesa.” Inizia così il libro: “Parole e segni di libertà: la storia di OrtoLibero”, con le parole di Stefano, detenuto della Casa di reclusione di Verziano. Il libro, scritto da un gruppo di detenuti, uomini e donne, e da un gruppo eterogeneo di “non addetti ai lavori” di una rete virtuosa, composta dal Comune di Brescia, Libera, le Cooperative Pandora e La Mongolfiera e da Terra e Partecipazione, ci racconta in modo originale quanto successo attorno a un orto sinergico realizzato nel 2015, e tutt’ora florido, coltivato per esaudire un desiderio espresso dai detenuti in laboratori condotti da Libera e Pandora sui temi della legalità e dell’alimentazione sostenibile. Ne è derivata una splendida esperienza, un laboratorio sociale, una esperienza umana di crescita individuale e collettiva per tutti. È stato generato, con umiltà e passione, un cambiamento; è stata creata una “pausa nell’orto” in cui sono state coltivate emozioni, silenzi ricchi di umanità, parole e gesti quotidiani ricchi di intimità. Tania, giovane volontaria di Terra e Partecipazione scrive: “Mi ricordo la prima volta. Ero emozionata. Non sapevo chi avrei incontrato, come mi sarei relazionata e se ne fossi capace. La cosa più stupefacente e banale è che ho incontrato degli esseri umani spogliati di colpe.” Il libro è un racconto emozionante, a tratti molto intimo, a tratti un manuale di educazione civica e di sostenibilità ambientale, senza rinunciare a una favola. Accanto all’orto, infatti, sono state svolte innumerevoli attività: laboratori di creatività, disegno, haiku, si è parlato di legalità, sempre in modo irrituale con un occhio ad Antigone e uno a Peppino Impastato, Don Beppe Diana, Placido Rizzotto e Gino Bartali. Ortolibero ha avuto anche l’onore di conoscere personalmente Margherita Asta e di leggere il suo libro “Sola con te in un futuro aprile”. Il 2 dicembre 2015, in una indimenticabile cena in carcere aperta alla cittadinanza, si è creato un ponte, una relazione, una scossa che è rimasta nei cuori di tutti. Il libro “Parole e segni di libertà: la storia di Orlibero” è stato presentato nella rassegna Librixia in data 5 ottobre 2017 con una recitazione di estratti del libro con un accompagnamento di chitarra e batteria e un vivace dibattito stimolato dagli studenti delle scuole medie di Caionvico e del Liceo Veronica Gambara. La magia del gruppo si è confermata, il ponte si è nuovamente materializzato fra carcere e città, fra detenuti, studenti e cittadini. Un messaggio di Mimmo su whatsapp di commento sulla serata e sulla performance dei detenuti (“i ragazzi”) descrive egregiamente quanto accaduto e il senso più autentico di questo progetto: “I ragazzi erano emozionati e contenti. Sono stati molto bravi e, nonostante la tensione del pubblico e del palco, davvero attenti e misurati. È venuta fuori la fragilità e l’umanità, la tristezza e l’allegria che nessuna grata può negare, può cancellare, nonostante gli errori, anche gravi, che si possa aver commesso. Credo sia arrivato questo. Ed è stato un rispecchiamento. I detenuti non hanno facce, non hanno cuori, non hanno voci, incerte e tremolanti, diverse da quelle di chiunque altro, diverse da chi sta fuori da quelle celle”. La morale del libro la descrive Gianni: “Come abbiamo già detto, il progetto OrtoLibero non è soltanto un modo di coltivare la terra, rispettando la, ma soprattutto è la condizione delle idee, lo stare insieme all’aria aperta, riempirsi gli occhi e l’anima di natura dimenticando per un momento la nostra triste condizione. Se riusciamo a render ci conto di tutto questo allora siamo pronti per una riflessione profonda: la tua storia magari non ha un periodo tanto felice, ma non è questo a renderti ciò che sei, ma bensì il resto della storia che tu scegli di essere.” Nel frattempo Ortolibero ha ricevuto un importante riconoscimento vincendo il Cresco Award 2017 di Fondazione Sodalitas sui comuni sostenibili! Il libro è disponibile rivolgendosi a: Comune di Brescia - Casa Associazioni. Email: epalladino@comune.brescia.it. Tel: 030.2309280 La giustizia dimidiata, tra crimini e processi di Andrea Salvatore Il Manifesto, 19 ottobre 2017 “Delitto e castigo nella società globale”, un saggio di Daniele Archibugi e Alice Pease per Castelvecchi. Pinochet, Milosevic, Saddam Hussein e altri. Che i leader politici, e massimamente i capi di governo, debbano essere considerati responsabili delle loro azioni è un principio della cui urgenza l’attualità offre riprove quotidiane, stretti come siamo tra le minacce ora farsesche ora sinistre di una nuova guerra nucleare e più diffusi esempi di irresponsabilità politica tutta interna ai confini nazionali. In questo scenario l’analisi svolta da Daniele Archibugi e Alice Pease in Delitto e castigo nella società globale. Crimini e processi internazionali (Castelvecchi, pp. 334, euro 25) prende le mosse dal piano giuridico per dirci qualcosa di importante sui limiti e le potenzialità di un controllo dell’azione dei governi da parte di un’opinione pubblica idealmente globale. Il libro si presenta innanzitutto come una disamina critica, una sorta di bilancio provvisorio, dell’operato della giustizia penale internazionale per come essa ha dato prova di sé negli ultimi trent’anni, ovvero da quando, sfuggendo almeno in parte al diretto controllo dei governi nazionali, l’azione penale contro determinati crimini si è di fatto globalizzata. La tesi che i due autori argomentano in modo convincente è netta: nonostante le buone intenzioni (assumendone la sincerità), la giustizia penale contemporanea ha finito per essere - o forse ha continuato a essere - uno strumento politico di cui gli Stati più potenti si sono inderogabilmente serviti per regolare i conti con i propri nemici, con ciò condizionando anche alleati e potenziali oppositori. Il limite più evidente di quella che dunque appare a tutti gli effetti una giustizia politicizzata è lo stesso che in buona parte compromise i risultati ottenuti con il processo di Norimberga: oggi come allora non si può non rilevare la più che dubbia indipendenza del potere giudiziario da governi nazionali che di fatto finanziano e nominano gli organi giudicanti. Si tratta, insomma, della vecchia - ma non per questo meno attuale - questione della giustizia esercitata dai vincitori nei confronti dei vinti, un fantasma di cui non solo le aule dei tribunali non riescono evidentemente a liberarsi. La parte centrale del libro è dedicata a una scrupolosa disamina di alcuni tra i più rilevanti procedimenti penali degli ultimi anni: da Pinochet a Milosevic, fino ai recenti e dibattuti casi di Saddam Hussein e Omar al-Bashir. Sulla base di tali analisi, gli autori giungono alla realistica conclusione che un esercizio realmente imparziale della giustizia penale internazionale incontra una contraddizione probabilmente insanabile nel fatto che i governi tenderanno sempre a sottrarsi a quegli strumenti di controllo penale sul loro stesso operato che si rivelano tuttavia necessari per il darsi di una credibile, e dunque efficace, giustizia penale globale. Non solo: si sottolinea opportunamente come sia oggi in atto un tentativo di indirizzare i tribunali internazionali verso questioni e problemi tali da non suscitare forti controversie, quali i crimini contro il patrimonio archeologico e ambientale, o più semplicemente perseguendo figure di secondo piano (quando non politicamente irrilevanti). Alla questione capitale di una giustizia dimidiata e coartata si somma dunque quella di una giustizia resa finanche irrilevante, mero complemento di arredo di una politica internazionale che appare sempre più determinata da quanto deciso all’interno di una ristretta cerchia di decisori globali, non necessariamente di carattere pubblico. E tuttavia gli autori non intendono lasciare la giustizia penale internazionale al suo destino. Se è vero, infatti, che ben poche sono le speranze di un inveramento dei suoi fini per opera dei governi, ciò non toglie che nuovi attori possano addivenire a un mutamento radicale nei modi del suo esercizio, innanzitutto nel senso di una reale universalità e imparzialità dell’azione penale. I nuovi attori chiamati a una svolta in tal senso vengono individuati negli stessi cittadini, coadiuvati da organizzazioni indipendenti e gruppi di pressione di diversa natura. Gli autori elogiano i tribunali d’opinione, come quelli intentati da Bertrand Russell, Jean-Paul Sartre e Lelio Basso per i crimini di guerra commessi in Vietnam e dalla società civile globale per la guerra in Iraq. Tribunali senza potere coercitivo se non quello di denunciare il crimine della guerra prima ancora dei crimini di guerra. Con la stessa schiettezza e onestà di cui dà prova il libro, si potrebbe dubitare del fatto che questa sorta di lobbismo umanitario possa conseguire risultati significativi. E tuttavia è un fatto parimenti rilevante che se si escludono gli Stati per i motivi detti, non restano molte alternative. La strada è dunque stretta, ma vale forse la pena provare a percorrerla. I numeri sul declino della democrazia di Danilo Taino Corriere della Sera, 19 ottobre 2017 L’indice sulla salute della democrazia globale elaborato da Freedom House calcola che nel 2016 ci sia stato un declino dei diritti politici e delle libertà civili in 67 Nazioni, contro un miglioramento in 36. La democrazia è in recessione, nel mondo. Dopo gli anni seguiti alla caduta dell’impero sovietico, durante i quali ha conquistato numerosi nuovi Paesi, oggi è in arretramento. L’indice sulla salute della democrazia globale elaborato da Freedom House calcola che nel 2016 ci sia stato un declino dei diritti politici e delle libertà civili in 67 Nazioni, contro un miglioramento in 36. Ma quanto credono i cittadini nella democrazia rappresentativa, quella a cui l’Occidente è abituato? E vedono alternative? Se l’è chiesto il Pew Research Center che ha condotto un sondaggio in 38 Paesi di tutti i continenti. Con alcuni risultati che sorprendono. Globalmente, la democrazia rappresentativa è ritenuta “buona” dal 78% delle persone, “cattiva” dal 17%. Il 66% considera positivamente anche la democrazia diretta - tipo referendum - contro il 30% che non la sceglierebbe. La prima sorpresa è che il 49% è anche a favore di un governo degli esperti (il 48% no), il 26% vede bene il potere a un solo leader (il 71% è contrario) e il 24% dice che sarebbe una buona cosa se il suo Paese fosse guidato da militari (il 73% rifiuta l’idea). La democrazia è insomma nettamente maggioritaria nel mondo ma le alternative elitarie o autoritarie sono forti. In Russia, per dire, solo il 7% si dice impegnato nettamente a favore della democrazia rappresentativa: il 61% la appoggia con una certa freddezza e il 22% vorrebbe un governo non democratico. Percentuali alte di cittadini che vorrebbero vivere in un sistema autoritario si trovano in Sudafrica (22), Perù (28), Messico (27), Colombia (25), Cile (24), Brasile (23). Il record però spetta alla Giordania (36%) seguita dalla Tunisia (32%). I Paesi con una lunga tradizione democratica sono i più solidi nel sostenerla. Negli Stati Uniti e in Canada solo il 7% vorrebbe un governo non democratico, in Germania solo il 5%, il 9% in Italia, il 10% in Gran Bretagna e in Francia. In Paesi europei con esperienze tutto sommato recenti di regimi dittatoriali, un governo autoritario è desiderato dal 12% in Polonia, dal 15% in Ungheria, dal 17% in Spagna: mentre in Grecia solo dal 6%. Anche tra chi sceglie la democrazia, però, molti non sono chiusi all’idea di forme di governo alternative. In Italia, per esempio, il 17% pensa che un regime militare potrebbe essere positivo, il 29% accetterebbe un leader forte, il 40% apprezza un governo degli esperti. Mentre fai benzina, finanzi le milizie libiche e i mafiosi di Antonio Massari Il Fatto Quotidiano, 19 ottobre 2017 “Dirty oil”. L’inchiesta di Catania ha scoperto un traffico di gasolio che parte dai miliziani, transita a Malta per arrivare nei distributori italiani. L’inchiesta del procuratore Zuccaro svela la rete del contrabbando di oro nero: dalle milizie di Zawyia, una zona che è stata in mano ai jihadisti, alle navi gestite da Malta fino a serbatoi in tutta Italia. E da lì ai distributori. Con documenti falsi, si poteva ripulire il carburante depredato. L’Isis potrebbe aver guadagnato - e anche parecchio - con il pieno di benzina fatto dagli automobilisti italiani. E anche i boss libici del traffico di migranti. Ipotesi plausibili, spiega il procuratore capo di Catania, Carmelo Zuccaro, anche se nell’inchiesta non hanno trovato prove. Quel che è certo, invece, è che il Mediterraneo descritto nell’indagine “dirty oil” - che ieri ha portato a nove ordini d’arresto - sembra in mano ai pirati del petrolio: c’è Fhami Ben Khalifa, boss dei miliziani libici, che dalle raffinerie di Zawyia, alle porte di Tripoli, trafuga il petrolio per trasportarlo sulla costa di Abu Kammash, caricarlo a bordo di pescherecci trasformati in mini petroliere, trasbordarlo in navi gestite da un gruppo maltese, trasferirle infine nei serbatoi a terra - sparsi tra Augusta, Civitavecchia e Venezia - gestiti dalla società Maxcom Bunker guidata dall’ad italiano Marco Porta. E da lì, di passaggio in passaggio, finiva poi nei distributori di mezza Italia. Secondo la Procura il gruppo avrebbe agito favorendo la mafia: non manca infatti l’uomo legato alla mafia catanese - ma secondo il gip non vi sono elementi sufficienti per quest’accusa - che ha fondato una società a Malta. Parliamo di Nicola Orazio Romeo, che alcuni collaboratori di giustizia indicano come appartenente al gruppo mafioso degli Ercolano. C’è persino un ex calciatore della Nazionale di calcio maltese, Darren Debono, socio di Romeo nelle società che, inducendo in errore le Camere di commercio dell’isola, riuscivano a certificare che il petrolio contrabbandato era perfettamente in regola. L’impressione è che quello di Ben Khalifa non fosse l’unico canale di petrolio contrabbandato dalla Libia. E che le raffinerie libiche fossero in preda a una sorta di emorragia con più d’un predone all’opera per svuotarle. L’impressione è data da alcune conversazioni intercettate dalla Guardia di Finanza di Catania, guidata dal generale Antonello Quintavalle, che dimostrano un dato: era Marco Porta, l’ad di Maxcom Bunker, a fare il prezzo, e non Ben Khalifa, che dei 30-35 centesimi agognati per metro cubo, riusciva a spuntarne solo 28. Segno che il libico non poteva detenere il monopolio - per usare le parole della Procura - del “cartello del contrabbando” che ha operato almeno a partire dal giugno 2015. E l’affare era davvero conveniente: l’intero gruppo era in grado di gestire un flusso di gasolio libico praticamente continuo, poteva acquistarlo a un prezzo notevolmente più basso rispetto alle quotazioni ufficiali e, in questo modo, la Maxcom Bunker poteva garantirsi un profitto costante ed elevato. Per immettere il petrolio di contrabbando nel mercato legale veniva utilizzata una falsa documentazione: si attestava che il greggio era di origine saudita e la cessione del carburante risultava opera di una società sussidiaria della National Oil Corporation, compagnia petrolifera nazionale libica. Quando un rapporto dell’Onu dimostra ai trafficanti che il loro gioco era stato scoperto, però, si procede con un’altra strategia: iniziano a cercare e a utilizzare falsi certificati libici. L’inchiesta - che ha visto anche la collaborazione dello Scico guidato dal generale Alessandro Barbera - nasce in parte da una denuncia dell’Eni, che in questa storia è parte lesa, poiché il colosso petrolifero italiano s’era accorto che alcuni suoi distributori vendevano un petrolio difforme rispetto ai suoi standard. Incrociando altri filoni d’indagine la Procura catanese ha acceso il faro sul gruppo di libici, italiani e maltesi che avevano formato il “cartello del contrabbando” in questione. “Non possiamo escludere che parte dei proventi di questi traffici illeciti sia andata all’Isis - ha osservato il procuratore Zuccaro - ma non ne abbiamo evidenza. L’unica cosa di cui abbiamo evidenza è che nel passato nei territori controllati da queste milizie dedite anche a questo contrabbando vi erano anche soggetti dell’Isis. E siccome una delle persone coinvolte è a capo di una milizia in Libia, per esempio controlla la città di Zwara, noi abbiamo ragione di ritenere che sia uno degli smuggler più importanti e quindi uno degli autori dei traffici di clandestini”. I numeri dell’inchiesta Dirty Oil sono rilevanti. Secondo l’accusa, tra il giugno del 2015 e del 2016, sarebbero arrivati nel nostro Paese oltre 82 milioni di chili di gasolio libico rubato. Valore d’acquisto? Circa 27 milioni di euro. Il suo valore industriale di mercato? Circa 51 milioni. Risultato: oltre al rischio di aver finanziato l’Isis, vi sarebbe la certezza, secondo l’accusa, che la frode abbia comportato - tra bilancio nazionale e comunitario - un buco di 11 milioni per l’Iva non versata. Agli arresti sono finiti Marco Porta, l’ad della Maxcom Bunker Spa, che si occupa di commercio all’ingrosso di prodotti petroliferi e bunkeraggio delle navi, e Nicola Orazio Romeo. Il libico Ben Khalifa è già agli arresti in Libia per altre accuse, mentre tra i destinatari dell’ordinanza si contano anche i due maltesi Darren e Gordon Debono. Ai domiciliari i collaboratori di Porta Rosanna La Duca, Stefano Cevasco e Antonio Baffo. La Maxcom ha dichiarato di essere estranea alle accuse e ha avviato indagini interne. Di certo, tra le principali vittime del contrabbando, si conta la compagnia petrolifera nazionale della Libia, la National Oil Corporation. Ben Khalifa secondo l’accusa aveva i suoi complici, che gli fornivano documenti utili a camuffare il contrabbando, anche all’interno della Noc. L’accusa è di associazione per delinquere transnazionale dedita al riciclaggio di gasolio. Malta. Spunta la “pista libica” per la reporter assassinata Corriere della Sera, 19 ottobre 2017 Indagò sul traffico dei visti medici per i miliziani. Usato esplosivo militare. Quarantadue piste. “Tutte possibili, nessuna sicura”. Gli investigatori si riuniscono a metà pomeriggio, sotto la tenda a pochi passi dal luogo dell’esplosione. Scotland Yard, Fbi, olandesi, danesi, collaborano anche gl’italiani. La collina di Bidinija è chiusa da poliziotte che bloccano chi s’avvicina, nemmeno gli amici di famiglia possono arrivare alla casa per le condoglianze. Sul tavolo ci sono 42 ipotesi investigative: i dossier che Daphne Caruana Galizia aveva nel pc e che il figlio Matthew sta decrittando, uno per uno. Inchieste sulla corruzione fiscale, sul traffico di petrolio e di droga, sulle prostitute dei politici. Le mille ramificazioni dei Panama Papers. E pure una traccia che la blogger aveva ripreso a seguire negli ultimi mesi: lo scandalo dei “falsi feriti” della Libia. Un affare che attraverso intermediari maltesi, da anni, garantisce a cliniche di mezza Europa (anche a Roma) rimborsi milionari per ricoveri inesistenti. Una rete - era convinta Daphne - di politici maltesi e criminali internazionali che avevano trovato il modo di far soldi sulla guerra civile fra Tripoli e Bengasi. Daphne Caruana Galizia, 53 anni, era una reporter e aveva 3 figli si basa su diversi elementi di queste prime indagini. Il principale è l’esplosivo usato, il Semtex, quello dell’attentato di Lockerbie, che a Malta sarebbe arrivato via Sicilia da uno dei grandi depositi (700 tonnellate) ereditati dall’era Gheddafi. Un altro è l’enorme flusso di denaro libico che passa per l’isola: nelle mediazioni petrolifere, nella custodia dei fondi sovrani e ultimamente, aveva scoperto Daphne, nel finanziamento delle milizie. Che cosa c’è nei dossier della giornalista uccisa? Per esempio: indagando sulla strana carriera d’un ottico della Valletta, in poco tempo passato dal bancone del suo negozio agli staff riservati del governo, la giornalista aveva scoperto alcune agenzie private maltesi che offrono assistenza umanitaria alla Libia. Un grande traffico di “visti medici” a pagamento che per lungo tempo ha permesso a migliaia di miliziani di Tripoli, di Misurata o di Tobruk - talvolta autentici criminali - d’entrare senza problemi con le loro famiglie in area Ue. Tutti questi viaggi erano coperti dalla necessità di curare ferite di guerra che, in realtà, non esistevano. Dopo aver ricoverato per mesi i reduci in Croazia o in Italia, ma anche in Turchia, in Libano e in Tunisia, era facile presentare conti taroccati e salatissimi di terapie mai praticate: in realtà, gli stipendi dei miliziani e le tangenti a chi di dovere. Che i governi libici hanno sempre pagato. Medio Oriente. Due prigioni finanziate recentemente dall’Unione Europea in Cisgiordania di Cesare Burdese (Architetto) Ristretti Orizzonti, 19 ottobre 2017 Tra la fine del 2016 ed i primi mesi del 2017, su incarico di Human Dynamics, società austriaca leader nel settore dei servizi di consulenza per il settore pubblico, ho partecipato ai lavori di “Assistenza tecnica per l’ulteriore sviluppo delle capacità istituzionali dell’Autorità Palestinese” in carico all’Unione Europea. Più precisamente il mio compito è stato quello di verificare l’idoneità e la congruità funzionale/tecnico/economica delle attrezzature e degli arredi già selezionati, per le nuove prigioni di Nablus Muquata’a e di Jenin e per le nuove sedi di tribunali di Dura, Jenin, Qalqilya e Selfeet; tutti questi edifici sorgono o sorgeranno tra breve in Cisgiordania (West Bank). Per questo motivo, lo scorso Gennaio per un breve periodo, ho risieduto a Ramallah visitando, tra il resto, le sedi non ancora funzionanti delle nuove prigioni di Nablus Muquata’a e di Jenin e la prigione di Gerico, in funzione dal 2012 e ritenuta dagli addetti ai lavori locali molto generosamente “una prigione modello”, anche dal punto di vista della sua architettura. Quell’incarico mi ha consentito quindi di approcciare la dimensione architettonica più recente e più “progredita” del carcere dei territori gestiti dall’Autorità Palestinese. A riguardo va detto che, se si escludono le tre prigioni citate, la Cisgiordania non ha prigioni in “stile occidentale”, le prigioni sono per lo più ricavate in edifici nati con destinazione residenziale, solo successivamente sistemati ad hoc. Tutte o quasi necessitano di ristrutturazione edilizia ed impiantistica, alcune sono da dismettere. Ovunque si presentano condizioni di sovraffollamento, dotazioni igienico-sanitarie inadeguate, mancanza di locali per le attività trattamentali e di relazione con l’esterno. Sulla base di questa mia limitata ma significativa attività, oltre i contenuti dell’incarico affidatomi, ho voluto soffermarmi specificatamente sulla dimensione architettonica delle due nuove “ prigioni modello” di Nablus e di Jenin, progettate da progettisti locali e finanziate dalla Unione Europea. Ho condotto la mia analisi principalmente con lo spettro del rispetto dei diritti umani in carcere, sanciti dalle Risoluzioni delle Nazioni Unite e dalle Convenzioni, Raccomandazioni e Risoluzioni Europee. Riporto di seguito una breve sintesi delle mie conclusioni in merito. La prigione di Nablus Muquata’a - sita in un contesto urbano - è prevista per ospitare complessivamente 250 persone detenute, così come quella di Jenin - sita in una zona agricola. Entrambe prevedono, sezioni detentive separate tra loro per maschi adulti, per donne adulte e per minorenni; circa la detenzione minorile, attualmente sono presenti due centri detentivi giovanili: uno a Ramallah e uno per ragazze a Betlemme; i minori in generale sono però ristretti nelle restanti prigioni per adulti in sezioni differenti. Tornando alle due prigioni in questione, in termini di quantità delle dotazioni spaziali il fabbisogno per un trattamento penitenziario improntato a sicurezza e trattamento, come peraltro previsto dalla legge sui Centri di Correzione e Riabilitazione (“Prigioni”) - Legge n.6 del 1998 promulgata dall’Autorità Palestinese, e secondo gli standard minimi internazionali, parrebbe sostanzialmente soddisfatto. Infatti in ciascuna delle due prigioni, oltre alle celle tradizionali (nella fattispecie a più posti letto sino a otto ciascuna), sono presenti locali per lo studio, il lavoro, gli incontri con il mondo esterno, per il culto e per le cure sanitarie, ecc., oltre a modesti spazi interni e all’aperto per lo sport. Del tutto inadeguate risultano invece le due prigioni per come si caratterizzano architettonicamente e questo per la loro composizione tipologica “non al passo con i tempi” e per le soluzioni costruttive che riconducono il costruito allo stereotipo della prigione “non luogo”, negazione della possibilità di esperienze sensoriali molteplici, gratuitamente oltremodo afflittiva. Nelle celle come nei luoghi di soggiorno, di studio e di lavoro, nei corridoi ecc., si rileva la mancanza di superfici finestrate adeguate, di luce naturale, di visuali prospettiche e di trasparenze. Gli spazi “a verde” sono inesistenti e gli spazi per le attività all’aperto fortemente limitati. Nella fattispecie, queste due prigioni, tipologicamente sono del tipo compatto (a “cavedio” centrale la prigione di Nablus Muquata’a, a raggera quella di Genjn); circostanza questa che per esperienza riconduce ad una condizione detentiva fortemente incentrata sulla sicurezza a scapito dell’attività trattamentale. Quel tipo di costruito configura una quotidianità detentiva priva di articolazione nel tempo e nello spazio e non “normalizzata”; ad esso appartiene una dimensione detentiva afflittiva, incapacitante e infantilizzante. Quel costruito, negando i bisogni materiali e psicologici dell’utenza attraverso la configurazione dei suoi elementi architettonici, viene ad assumere il ruolo di strumento di tortura. Il riscatto non potrà venire dall’auspicabile progredita organizzazione e gestione della quotidianità detentiva che al loro interno sarà organizzata, dal momento che al momento mancano quasi del tutto le professionalità interne ed esterne qualificate. Quelle strutture, insieme a una serie di fattori negativi ineluttabili in quello scenario territoriale, produrranno ulteriore disumanità. Non sono al momento a conoscenza dei termini progettuali che “il committente/finanziatore” ha posto agli architetti locali che hanno progettato le prigioni di Nablus Muquata’a e di Jenin. Mi domando se essi non abbiano potuto o non abbiano saputo tradurre in termini architettonici i principi di umanità e dignità che la comunità internazionale condivide e auspica. Resta il fatto che in fase progettuale non sembra esserci stata, da parte di tutti gli attori in campo, la dovuta sensibilità e la coscienza di realizzare quella coerenza spaziale che un carcere umano e dignitoso richiede. Paradossalmente l’Unione Europea in questa circostanza è complice della progettazione e della realizzazione di due carceri che sono l’espressione di una visione architettonica antiquata della detenzione ed in contraddizione con le regole di buone prassi che essa promulga in stretto raccordo con il resto del mondo occidentale, presso le Nazioni che riunisce. Sarebbe opportuno che i responsabili motivassero perché gli Organismi UE responsabili abbiano acconsentito che nella circostanza delle realizzazioni delle prigioni di Nablus Muquata’a e di Jenin si sia trascurato sino a tal punto il tema della loro appropriata dimensione architettonica e perché non siano stati presi in considerazione e adottati i progressi architettonici riscontrabili nello scenario internazionale in materia di architettura penitenziaria. Sono convinto che non siano state le condizioni legali, sociali, economiche e geografiche locali che possano aver determinato quelle scelte architettoniche. Certamente si è trattato di una trascuratezza e sottovalutazione culturale collettiva del problema, circostanza che ovunque ha origini profonde. Da tempo, insieme a pochi compagni di avventura, sono impegnato a livello nazionale a dare corpo ad una azione rivolta a far si che si riequilibri, nel carcere riformato, il peso che la dimensione giuridica ha assunto rispetto alla dimensione architettonica. Salve rare eccezioni, a volte anche sciupate, continuiamo ad assistere ad una ingiustificata indifferenza per la dimensione architettonica della pena, con il risultato di appunto di uno squilibrio abissale tra dimensione giuridica e dimensione costruita del carcere. Questo succede peraltro non solo in Italia ma anche in sede di Comunità Europea: Cisgiordania docet. Ritengo pertanto che l’impegno per una pena umana e dignitosa anche attraverso l’Architettura, debba proseguire oltre i nostri confini nazionali sino in sede europea. Non ho timore a sostenere con forza che progettare in maniera disumana e non dignitosa un carcere - cioè non considerando e rispettando i bisogni di tipo fisico e fisiologico e di carattere psicologico-relazionale - possa configurarsi, da parte del soggetto istituzionale committente e ovviamente dei progettisti, violazione della Convenzione Europea dei Diritti Umani la dove all’art. 3 recita che Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti. Myanmar. Amnesty: “Contro i Rohingya campagna sistematica di omicidi, stupri, incendi” di Emanuele Giordana Il Manifesto, 19 ottobre 2017 Un esodo di oltre 530mila persone. La Ue: “Basta shopping di armi in Europa”. Alle agenzie Onu vietato arrivare nel Rakhine. Msf: assistenza medica al collasso. “Una sistematica campagna di crimini contro l’umanità per terrorizzare e costringere alla fuga i rohingya”. Dopo che il vocabolario dell’orrore sembrava ormai aver esaurito tutte le parole - esodo forzato, violenza, genocidio, stupro, pulizia etnica - Amnesty International, nel suo ultimo rapporto, aggiunge l’aggettivo “sistematico” a una campagna che ha come risultato il più numeroso esodo della storia recente da un Paese non in conflitto, una nuova biblica cacciata dai propri luoghi di origine. Il popolo senza identità, invisibile nei registri delle autorità birmane, accusato di essere la prole di un’immigrazione illegale dal Bengala, è così fisicamente minacciato che il governo birmano sembra aver in mente un solo obiettivo: cacciarli finché non resti un solo rohingya. Amnesty non lo dice ma le “nuove prove” raccolte dall’organizzazione, che con Human Rights Watch ha immediatamente preso le difese della minoranza, mettono in chiaro un quadro sistematico di violenza continuata con una “campagna di omicidi, stupri e incendi di villaggi” portata avanti - dicono decine di testimonianze - da “specifiche unità delle forze armate, come il Comando occidentale, la 33ma Divisione di fanteria leggera e la Polizia di frontiera”. La contabilità è ormai oltre quota 530mila, un record possibile solo se, in un Paese apparentemente in pace, c’è in realtà una guerra che ha come obiettivo l’esodo di intere famiglie, tribù, villaggi. “Centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini - scrive Amnesty International - sono vittime di un attacco sistematico e massiccio che costituisce un crimine contro l’umanità”, così come lo concepisce lo Statuto di Roma del Tribunale penale internazionale. Il Tpi elenca 11 atti che, se commessi intenzionalmente durante un attacco, costituiscono il più grave dei reati. E Amnesty ne ha riscontrati almeno sei: “Omicidio, deportazione, sfollamento forzato, tortura, stupro e altre forme di violenza sessuale, persecuzione oltre a ulteriori atti inumani come il diniego di cibo e di altre forniture necessarie per salvare vite umane”. Alla voce di Amnesty si aggiunge quella di organizzazione come Msf: “Le strutture mediche, incluse le nostre cliniche, sono al collasso. E in poche settimane - scrivono i Medici senza frontiere - abbiamo ricevuto 9.602 pazienti in ambulatorio e 3.344 pazienti in pronto soccorso. Tra loro, anche adulti sul punto di morire a causa della disidratazione: il sintomo che una catastrofe sanitaria è dietro l’angolo”. La voce dell’Onu è risuonata molte volte ma con scarsi risultati. E lo sa bene il sottosegretario Jeffrey Feltman che martedì a Yangoon si è sentito fare una reprimenda dal generale Min Aung Hlaing, il capo di stato maggiore birmano, che non vuole le Nazioni unite tra i piedi: la maggior parte delle agenzie del palazzo di Vetro infatti nel Rakhine, il luogo del delitto, non ci può andare. Sono di parte, dicono i generali, che si apprestano a rilasciare un loro dossier su come sono andate le cose. Ai militari birmani non basta evidentemente che, per non turbare troppo gli equilibri, il Programma alimentare mondiale (Wfp) abbia fatto sparire un dossier “imbarazzante” e che per molto tempo, fin dal 2016, le agenzie dell’Onu abbiano fatto di tutto per evitare polemiche e scandali. Una mediazione senza risultati. La diplomazia comunque batte un colpo e ieri l’Alto commissario Ue per gli esteri Federica Mogherini ha comunicato per telefono ad Aung San Suu Kyi, ministro degli Esteri ma premier de facto, che tutti i 28 membri Ue (inclusa l’Italia che ha recentemente inviato il suo ambasciatore, Pier Giorgio Aliberti, nel Rakhine) hanno chiesto l’immediato accesso alle agenzie umanitarie nel Paese ma che soprattutto, per via dello “sproporzionato uso della forza”, hanno deciso che né il generalissimo, né altri soldati birmani potranno mettere piede in Europa sino a che esista questa situazione. L’embargo sulle armi, già in essere da tempo, non solo continuerà ma gli uomini in divisa non potranno nemmeno venire a girare le fiere degli armamenti che probabilmente si procurano con oculate triangolazioni. È almeno un primo passo e a ridosso di due incontri importanti: il meeting nella capitale birmana dell’Asem il 20 novembre (Asia-Europe Meeting, un processo di dialogo tra i Paesi Ue, altri due paesi europei, e 22 paesi asiatici più il segretariato dell’Asean) e, subito dopo, la visita di papa Francesco il 26. Anche li è già in corso una guerra delle parole: i vescovi locali non vogliono che il pontefice parli di “rohingya”, termine che la stessa Suu Kyi non utilizza mai. I self-identifying Rohingya Muslims come li chiamano i giornali più progressisti birmani (sempre molto attenti a non incorrere nelle maglie della censura) oltre a non aver più la casa non hanno nemmeno più un’identità.