Del Gaudio (Dap): “per la sorveglianza dinamica ci sono eccellenze e criticità” di Valentina Stella Il Dubbio, 18 ottobre 2017 Intervista a Marco Del Gaudio, vice capo del Dap. Si è svolta ieri la prima riunione della commissione di valutazione sullo stato e le modalità di applicazione della custodia aperta negli istituti penitenziari. Parla per la prima volta, da quando è stato nominato vice capo del Dap (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria), il dottor Marco Del Gaudio e lo fa con il Dubbio a margine della prima riunione della Commissione di valutazione sullo stato e le modalità di applicazione della custodia aperta negli istituti penitenziari italiani che si è tenuta ieri e dalla quale al termine verranno emanate delle linee guida. Una modalità di esecuzione della pena destinata ai detenuti di media e bassa sicurezza, istituita nel 2013, con lo scopo di potenziare per i reclusi gli spazi dedicati alle attività trattamentali e per realizzare fattivamente lo scopo riabilitativo della pena. A quattro anni da quel provvedimento da cosa nasce l’esigenza di questa commissione? Da un importante monitoraggio. I principi sulla sorveglianza dinamica risultano applicati in maniera disomogenea sul territorio. Ciò, da un certo punto di vista, era prevedibile, perché la capacità di attuare i provvedimenti deriva anche dalle diverse strutture dei penitenziari. La nostra non è una operazione di controllo: si tratta innanzitutto di avere una fotografia dell’esistente. C’è bisogno di circolazione di informazioni. Quanti sono attualmente gli istituti che applicano la sorveglianza dinamica? Non si può fare questo tipo di ragionamento perché spesso all’interno di alcuni istituti solo una piccola fetta di detenuti è sottoposta alla sorveglianza dinamica. Quello che a noi interessa sono le modalità. Anche la rilevazione dal nostro applicativo informatico particolarmente avanzato, che ci viene invidiato dalle altre amministrazione europee, risente della mancanza di conoscenza sulle modalità. Quali sono le criticità attualmente rilevate? Mi sono stati riferiti esempi di istituti come assolute eccellenze che andrebbero esportati altrove, accanto a criticità notevoli e non sempre la responsabilità è da addebitare esclusivamente alla natura delle strutture, ma dipende da altri fattori che dobbiamo individuare e superare, ad esempio con più risorse o accorpando negli istituti che hanno le caratteristiche giuste quei detenuti che possono usufruire della custodia aperta. Alcuni sindacati di polizia penitenziaria si sono detti contrari alla sorveglianza dinamica. Questa commissione nasce proprio dall’esigenza di dare dei riferimenti chiari alla polizia penitenziaria che invece - mi è sembrato di capire non è affatto contraria, anzi spesso ha manifestato piena adesione alla sorveglianza dinamica. Ci sono sicuramente delle difficoltà e su questo sono d’accordo con i sindacati, che chiedono certezze e uniformità di trattamento. “Da Anm e avvocatura una proposta comune sulla depenalizzazione” di Marco Mazzù Adnkronos, 18 ottobre 2017 Intervista a Eugenio Albamonte (Anm). I rapporti tra magistratura e politica e quelli con Davigo, il sovraccarico delle Procure e la possibilità di decongestionarle attraverso una proposta di depenalizzazione sulla quale l’Anm “ha avviato una riflessione comune con l’avvocatura”: in un’ampia intervista, il presidente dell’Anm Eugenio Albamonte tocca molte delle questioni che saranno discusse anche al congresso del “sindacato” dei magistrati, in programma da venerdì a domenica prossimi a Siena. Presidente Albamonte, il tema del rapporto tra magistratura e politica resta centrale. E resta da risolvere un quesito: se un magistrato si candida, è giusto che poi torni nelle aule giudiziarie? Non credo si possa arrivare a un pregiudizio secondo cui un magistrato debba essere considerato un cittadino di serie B, che non può partecipare alla vita politica. Anche perché può contribuire a migliorare la qualità di scrittura delle leggi. Ora, la Costituzione prevede il divieto per i magistrati di partecipare alla vita dei partiti. Potrebbe bastare, ma oggi si è un po’ attenuato, sul piano della Costituzione materiale, il principio del divieto di vincolo di mandato. E per questo, considerato anche il sistema elettorale che abbiamo, ci sono meno spazi per quelli che una volta erano gli indipendenti nelle file dei partiti. Dobbiamo farci carico del rischio che presso l’opinione pubblica sia intaccata l’immagine di terzietà dei magistrati. Ed ecco perché l’Anm, seppur con una delibera a maggioranza, si è espressa per l’ipotesi che il magistrato non rivesta più la toga, mantenga la qualifica ma lavori in altri settori, per esempio nelle compagini ministeriali, negli uffici legislativi. Non perché il magistrato possa perdere oggettivamente la capacità di essere terzo, ma per ripristinare, anche con una rinuncia a qualcosa delle nostre prerogative, una generale fiducia nei magistrati di cui c’è bisogno. Ci sono magistrati che parlano troppo spesso in tv? Non intervengo su singole vicende che hanno anche mostrato possibilità di interpretazione contrastanti. L’Anm ha un codice deontologico, che non prevede limitazioni al diritto di parola ma che ci esorta vivamente ad avere dei toni compatibili col nostro ruolo. Se ogni volta che un magistrato parla in tv si ricorda che il giorno dopo dovrà vestire una toga e che i cittadini davanti ai quali compare non devono temere una sua faziosità, può dare un contributo, senza interferire appunto nella fiducia che i cittadini devono avere nella giustizia. Lei ha detto che l’allungamento della prescrizione incide sugli effetti e non sulle cause del problema: si riferiva ai carichi di lavoro che avete nelle Procure? Certo. Da anni siamo continuamente investiti da nuove ipotesi di reato. Anche per dare una risposta formale a quella richiesta di sicurezza pubblica che anima, a volte fondatamente e a volte meno, il dibattito sociale. Ogni volta si fa una norma penale. Il che sovraccarica il sistema della giustizia, la cui struttura invece resta invariata. Da qui li disavanzo tra richiesta di giustizia e capacità di darle risposta. Uno squilibrio che produce, a sua volta, frustrazione: sia nel cittadino, il quale trova inaccettabile che la risposta consista nella prescrizione del reato, sia in noi. Finiamo per essere, cittadini e magistrati, vittime di un’immagine d’inefficienza. E la riforma della prescrizione è un rimedio? Si è trattato di un intervento inevitabile che però ha senso se da domattina si mette mano alle reali cause, e si trovano soluzioni che non siano solo un tampone ma abbiano un ampio respiro. Una depenalizzazione delle fattispecie che creano minore allarme sociale andrebbe in questa direzione? Sicuramente. Noi abbiamo pensato come Anm di aprire un dibattito ampio, coinvolgendo i penalisti e l’avvocatura nel suo complesso attraverso il Consiglio nazionale forense, nel tentativo di definire tutti insieme una depenalizzazione più ampia, che restituisca funzionalità proprio con il riequilibrio tra domanda di giustizia e risposta possibile. Parliamo di Anm. Davigo, con la sua corrente, è uscito dalla giunta. Vi siete sentiti? La frattura è ricomponibile? La rottura della giunta unitaria non ha inciso sui rapporti personali, per fortuna, e quindi ovviamente ci sentiamo e c’è sempre stima reciproca e disponibilità alla collaborazione. L’unitarietà delle cosiddette correnti che animano l’Anm e la vita della magistratura era per noi un risultato importante, perché era la prima volta che si riusciva dopo anni a presentarsi, anche rispetto al mondo che ci circonda, in modo compatto e coeso. E ripeto: la magistratura ha bisogno di recuperare credibilità nei confronti degli altri interlocutori e nei confronti dei cittadini, e il modo miglior per farlo era presentarsi in modo unitario. Si è verificato un incidente non facilmente comprensibile per alcuni. Io sono tra quelli che non hanno ben capito quali fossero le cause di questa rottura. Sicuramente c’è sempre la disponibilità a riprendere un percorso comune anche con i colleghi del gruppo di Piercamillo Davigo. Senta presidente, se dal vostro congresso di questo fine settimana dovesse rivolgere un appello al legislatore, quale tema sceglierebbe? Dopo anni di tagli, per la prima volta stiamo vivendo un’inversione di tendenza in tema di risorse per la giustizia. Chiediamo che la tendenza a ricominciare a investire venga mantenuta e che l’approccio nuovo, persino rivoluzionario di questa legislatura, sia garantito anche dai governi che verranno. Codice antimafia, il Colle chiede modifiche di Lina Palmerini Il Sole 24 Ore, 18 ottobre 2017 Firma e promulga la legge sul Codice antimafia perché non ci sono “evidenti profili critici di legittimità costituzionale”, ma allo stesso tempo Sergio Mattarella sollecita in “tempi necessariamente brevi” un nuovo e “idoneo intervento normativo” per rimediare ad alcuni errori evidenti. Lo fa con una lettera indirizzata a Paolo Gentiloni in cui mette a fuoco due aspetti: il primo è un’omissione, ossia l’assenza, tra le ipotesi in cui scatta la confisca allargata in caso di condanna, di alcuni gravi reati che erano stati inseriti dal decreto legislativo n. 202, attuativo di una specifica direttiva dell’Unione europea. Il secondo aspetto riguarda la necessità - come da ordine del giorno votato dal Parlamento - di procedere a un attento monitoraggio sull’applicazione della disciplina che prevede, tra le misure di prevenzione, di procedere al sequestro anche per i reati associativi finalizzati alla corruzione. “Proprio l’estensione degli interventi effettuati e gli aspetti di novità che alcune delle norme introdotte presentano - scrive Mattarella al premier - rendono di certo opportuno che, particolarmente con riferimento all’ambito applicativo delle misure di prevenzione, il Governo proceda a un attento monitoraggio degli effetti applicativi della disciplina, come è stato previsto dall’ordine del giorno approvato dalla Camera dei deputati nella seduta del 27 settembre 2017”. Un punto, questo, su cui si erano sollevate forti critiche politiche e del mondo dell’impresa - e anche tecniche come quelle di Raffaele Cantone. La lettera di ieri del capo dello Stato rafforza l’impegno assunto dalle Camere a un monitoraggio “attento”. Anzi, sollecita il Governo affinché provveda subito con iniziative concrete. Ma è il primo aspetto quello su cui il Quirinale chiede di rimediare in tempi brevi, quell’omissione - ritenuta grave - della confisca allargata a ipotesi di reato come i delitti commessi con finalità di terrorismo internazionale, l’associazione per delinquere finalizzata alla commissione dei reati di falso in monete e banconote, la corruzione tra privati, l’indebito utilizzo di carte di credito o di pagamento e alcuni reati informatici. È qui che il Colle punta l’indice, su questi “vuoti” che pur “non costituendo una palese violazione di legittimità costituzionale” contengono aspetti fortemente critici. E la ragione non è solo quella “del rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea”, ma “il grave effetto prodotto dall’impossibilità di disporre il congelamento e la confisca dei beni e dei proventi a seguito di condanna per questi reati”. La lettera, quindi, si conclude rinviando al Governo “la responsabilità di individuare in tempi necessariamente brevi, dei modi e delle forme di un idoneo intervento normativo”. Non è chiaro con quale strumento l’Esecutivo rimedierà all’errore - alcuni dicono che sarà il Milleproroghe - sta di fatto che la lettera del Capo dello Stato mette la legge sul binario di una modifica. Con la motivazione che è necessario “assicurare la conformazione del nostro ordinamento agli obblighi comunitari oltreché una piena efficacia dell’azione repressiva in caso di condanna per tali reati”. Whistleblowing al traguardo di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 18 ottobre 2017 Si stringono i tempi sull’rafforzamento delle misure di tutela per i whistelblower, per chi cioè, da dipendente (ma non solo) segnala o denuncia condotte illecite. Ieri si sono concluse le votazioni sugli emendamenti e oggi con le dichiarazioni finali il testo del disegno di legge (già varato dalla Camera) dovrebbe essere approvato per poi tornare all’esame di Montecitorio, visto che sono state introdotte modifiche. La normativa, sollecitata da tempo anche dall’Autorità anticorruzione, punta a introdurre misure di protezione sia nel settore pubblico sia in quello privato per il dipendente che porta a conoscenza della magistratura, ma anche dell’Anac o al responsabile della prevenzione della corruzione condotte illecite di cui è venuto a conoscenza nell’ambito del proprio rapporto. Il disegno di legge consiste in due articoli, uno dedicato alla pubblica amministrazione e l’altro al settore privato. Il dipendente pubblico non può essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito, o sottoposto ad altra misura organizzativa con effetti negativi sulle proprie condizioni di lavoro per effetto della segnalazione. Notevole l’estensione, rispetto alla disciplina attuale, del perimetro della tutela: sotto il profilo soggettivo, l’ambito di applicazione è allargato ai lavoratori pubblici diversi dai lavoratori dipendenti e ai lavoratori, collaboratori e consulenti degli enti pubblici economici; a quelli degli enti di diritto privato sottoposti a controllo pubblico; ai lavoratori ed ai collaboratori, a qualsiasi titolo, di imprese fornitrici di beni o servizi e che realizzino opere in favore dell’amministrazione pubblica. Sotto il profilo oggettivo, si specifica che la tutela riguarda le segnalazioni o denunce effettuate nell’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione. Una modifica approvata dalla commissione Affari costituzionali del Senato ha soppresso il requisito della buona fede dell’autore della segnalazione o denuncia. Nel caso di adozione di una misura discriminatoria scatterà una sanzione amministrativa pecuniaria, da 5.000 a 30.000 euro, a carico del responsabile che abbia adottato la misura; l’esistenza di una misura discriminatoria è accertata dall’Anac, che è competente a infliggere la sanzione. Nel settore privato, la chiave di volta è rappresentata dalle modifiche introdotte nel decreto 231 del 2001 sulla responsabilità amministrava degli enti. Nei modelli organizzativi, la cui adozione può rappresentare esimente dalla contestazione all’impresa dei reati presupposto, andranno inseriti uno o più canali che dovranno permettere a coloro che a qualsiasi titolo rappresentano o dirigono l’ente (o società o associazione) e a coloro che sono sottoposti alla direzione o alla vigilanza di uno dei suddetti soggetti di presentare, a tutela dell’integrità dell’ente, segnalazioni circostanziate di condotte costituenti reati o di violazioni del modello di organizzazione e gestione dell’ente, di cui siano venuti a conoscenza in ragione delle funzioni svolte. Questi canali devono garantire, anche con modalità informatiche, la riservatezza dell’identità del segnalante nelle attività di gestione della segnalazione. Necessarie anche sanzioni disciplinari nei confronti di chi violi le misure di tutela del segnalante e nei confronti di chi effettui, con dolo o colpa grave, segnalazioni che si rivelino infondate. Estradizione in Italia, tutela ampia per la persona di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 18 ottobre 2017 In Gazzetta Ufficiale il decreto che novella il libro XI del Codice di procedura penale in materia. Ampie tutele per la persona di cui si chiede l’estradizione in Italia. Il decreto legislativo n. 149/2017 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 242 del 16 ottobre 2017) novella il libro XI del Codice di procedura penale in materia di rapporti giurisdizionali con autorità straniere e da ampie garanzie a chi si trova all’estero ed è reclamato dalle autorità italiane. Ma vediamo i punti salienti del provvedimento, che riscrive le disposizioni del codice di procedura a partire da un principio generale e cioè che il codice di procedura penale ha efficacia residuale; il Cpp cede ai diversi accordi internazionali: se ci sono, prevalgono alle norme del codice di rito penale. Tra gli istituti oggetto della novella si segnalano le modifiche alla normativa in materia di assistenza giudiziaria, e cioè la parte della cooperazione penale internazionale: l’obiettivo è aiutarsi a raccogliere le prove per colpire forme di criminalità globalizzata, specialmente le mafie e la criminalità organizzata. Questo obiettivo viene perseguito con una semplificazione dei rapporti sia tra paesi dell’Unione europea sia tra autorità degli Stati che non fanno parte dell’Ue. Nel dettaglio delle disposizioni, il decreto legislativo stabilisce espressamente il principio di prevalenza del diritto dell’Unione europea, delle convenzioni e del diritto internazionale generale: nei rapporti con gli Stati componenti dell’Unione europea, quindi, soltanto in assenza di strumenti di attuazione dei Trattati o quando questi lascino agli Stati membri margini per introdurre disposizioni più specifiche, troveranno applicazione le convenzioni internazionali e le norme di diritto internazionale generale e, in via residuale, le norme del codice di procedura penale. Invece, nei rapporti con gli stati extra Ue valgono le convenzioni internazionali e delle norme di diritto internazionale generale e, in via residuale, nel rispetto delle disposizioni del libro XI del codice di procedura penale: le richieste di cooperazione giudiziaria potranno essere rifiutate anche in difetto di adeguate garanzie di reciprocità. Il decreto legislativo detta, inoltre, i principi generali del mutuo riconoscimento delle decisioni e dei provvedimenti giudiziari tra gli stati componenti dell’Unione europea e modifica la disciplina in materia di estradizioni, domande di assistenza giudiziaria internazionali, effetti delle sentenze penali straniere, esecuzione all’estero delle sentenze penali italiane e di altri rapporti con le autorità straniere, relativi all’amministrazione della giustizia in materia penale. Quanto all’estradizione essa potrà essere negata se vi è motivo di ritenere che la persona verrà sottoposta ad atti persecutori o discriminatori o alla pena di morte o a pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti o comunque ad atti che configurano violazione di uno dei diritti fondamentali della persona: stop all’estradizione anche per ragioni di salute o di età da cui derivi il rischio di conseguenze di eccezionale gravità per la persona richiesta. Quanto, invece, all’estradizione dall’estero la persona estradata non può essere sottoposta a restrizione della libertà personale in esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza detentiva, né assoggettata ad altra misura restrittiva della libertà personale per un fatto anteriore alla consegna diverso da quello per il quale l’estradizione sia stata concessa. Mondo di mezzo. I giudici “Buzzi e Carminati, solo corruzione: la loro non era una cosca” di Federica Angeli La Repubblica, 18 ottobre 2017 Duecento pagine scarse su 3.200, per spiegare le motivazioni della sentenza che ha cancellato l’aggravante mafiosa. “Accertati fatti di estrema gravità”. Buzzi e Carminati non avevano il controllo della città. E non essendo stata riconosciuta neanche per la Banda della Magliana, la holding di Mafia Capitale non poteva essere considerata una cosca mafiosa. Sono le motivazioni del tribunale che ha giudicato lo scorso 20 luglio i 46 imputati alla sbarra per reati che vanno dal 416bis alla corruzione e che arrivano con qualche giorno di anticipo rispetto i 90 giorni richiesti dal presidente Rossana Ianniello. L’associazione a delinquere - La parte che riguarda l’associazione a delinquere di stampo mafioso è quella finale delle motivazioni. Duecento pagine scarse su 3.200 per spiegare perché tutto questo non era mafia. “La seconda questione da dirimere riguarda la mafiosità delle due associazioni criminose, quella costituita presso il distributore di corso Francia e composta da Carminati, Brugia, Calvio e Lacopo Roberto (il reato associativo non è stato contestato a Lacopo Giovanni) e quella operante nel settore degli appalti pubblici, della quale debbono essere ritenuti partecipi Buzzi, Gramazio, Testa, Ietto, Gaglianone, Panzironi, Cerrito, Caldarelli, Guarany, Garrone e Di Ninno oltre Carminati e Brugia”, scrive Ianniello. “Tralasciando il clamore mediatico, non vi è dubbio che i fatti accertati siano di estrema gravità, intanto per il loro stesso numero, poi per essere stati i reati realizzati in forma associata e infine per la durata stessa della condotta antigiuridica, che è proseguita nel tempo e che, con l’affinamento dei metodi di azione, ha creato le premesse per una permanente operatività, interrotta soltanto dalle indagini prima e dal processo poi”. I due gruppi criminali del mondo di mezzo - Per il collegio, presieduto da Rosanna Ianniello “i gruppi criminali - come individuati - appaiono distinti per la diversità dei soggetti coinvolti nelle due categorie di azioni criminose, per la diversità stessa della azioni criminose e per la eterogeneità delle condotte organizzative ed operative; sicché non può essere condivisa la lettura unitaria proposta dall’accusa circa l’esistenza di un unicum criminale che, cementando le sue diverse componenti (criminali di strada, imprenditori e soggetti esterni alla amministrazione, pubblici funzionari corrotti) giunge ad avvalersi di una carica intimidatoria condizionante, da un lato, la legalità dell’agire amministrativo e, dall’altro, la libertà di iniziativa dei soggetti imprenditoriali concorrenti nelle pubbliche gare e ciò al fine di controllare ed orientare in proprio esclusivo favore gli esiti delle relative procedure”. “Prima di entrare nel merito della valutazione appena indicata, va detto che il Tribunale non ha individuato, per i due gruppi criminali, alcuna mafiosità”. Il collegio parte con il paragone tra la holding di Buzzi e Carminati e la storica banda della Magliana che, ai tempi che furono “aveva realizzato la coalizione tra bande criminali, costituendo un unicum nella storia della città, solitamente pervasa - forse per strutturale incapacità organizzativa - da una pluralità di realtà criminali tra di loro intersecantesi e talora aspramente confliggenti. Si tratta tuttavia di un gruppo ormai estinto”. Carminati e la banda della Magliana - Quindi il punto di collegamento, tra i due gruppi facenti capo al Cecato e al ras delle coop e la banda della Magliana “è dunque costituito dalla sola persona di Massimo Carminati, destinatario - per le l’importanza delle vicende giudiziarie in cui è stato coinvolto e per l’interesse mediatico che le ha accompagnate - di una notevole e duratura fama mediatica, che ne ha consolidato l’immagine e gli ha creato intorno un alone di inafferrabilità : per essere sopravvissuto; per aver riportato, per quelle vicende, condanne complessivamente modeste; per essere andato assolto da alcune gravi imputazioni. Fama a parte, l’esistenza di un collegamento soggettivo non significa, però, automatico ripristino o prosecuzione del gruppo precedente: non è sufficiente l’intervento di Carminati, “erede della banda della Magliana”, a stabilire un rapporto di derivazione tra detta banda e successive organizzazioni in cui Carminati si trovi coinvolto. Peraltro, neppure per la banda della Magliana si è potuti giungere ad affermare che si trattasse di un’associazione di tipo mafioso. I contatti con la politica - “La lunga esperienza maturata” dal ras delle cooperative Salvatore Buzzi “nel settore della cooperazione sociale e gli stessi contatti, con politici ed amministrativi, costruiti nel tempo in relazione all’attività delle cooperative, sono stati da lui sapientemente utilizzati e sfruttati per la commissione di reati finalizzati - consentendo una innaturale espansione sul mercato - a potenziare i profitti delle cooperative e dei soggetti che di esse avevano la direzione e la gestione”. Evidenzia ancora il tribunale di Roma nelle motivazioni. “Il dato appare ancor più grave - si legge - ove si tenga conto del percorso di Buzzi, che pure aveva tentato di recuperare il suo passato criminale, e della conoscenza di tale percorso che avevano i suoi collaboratori e sodali, conoscenza che avrebbe dovuto indurrre a salvaguardare l’esperienza della creazione di cooperative sociali finalizzate al recupero di ex detenuti e non ad orientarle verso la commissione di reati gravi, e commessi in forma associata. Il ruolo di Buzzi, quale capo di detta associazione, si desume dall’esame dell’intera vicenda, che lo vede sempre impegnato in prima persona, e con ruolo decisamente centrale, nella incessante attività di accaparramento di appalti pubblici, attraverso la rete di conoscenze e contatti da lui abilmente coltivata”. Nel settore del recupero crediti, l’altra associazione, quella che ha al centro le figure di Massimo Carminati e Riccardo Brugia, “ha confermato le capacità criminali dei singoli, potenziandone le possibilità“. Mazzetta Capitale: mafia no, “sistema di assegnazione” dei bandi sì di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 18 ottobre 2017 Corruzione, non mafia. Spartizione politica, non intimidazione. Il mondo di mezzo è, per i giudici della X sezione penale, il malaffare diffuso di una città logorata ma non condizionata, infiltrata ma non sottomessa. Mirko Coratti, Daniele Ozzimo, Luca Gramazio e Giordano Tredicine, protagonisti bipartisan di Mafia Capitale, sono corrotti e non, per così dire, picciotti: “I fatti accertati - scrive la presidente Rosaria Ianniello - denotano dunque non già una imposta da Buzzi grazie alla costituzione di un’associazione mafiosa ma l’esistenza di un diffuso sistema di assegnazione delle gare pubbliche secondo criteri di spartizione politica, realizzati attraverso il sistematico ricorso a gare truccate destinate a garantire la spartizione”. Sono queste le motivazioni alla base di una condanna pesante che ha visto infliggere a Salvatore Buzzi 19 anni di carcere (ed esultare per avere evitato l’aggravante mafiosa) e 20 anni all’ex Nar Massimo Carminati, trasfigurato dall’”alone di inafferrabilità” che lo accompagna. Un criminale di provata militanza che però non può essere definito uomo d’onore. Non si può parlare di criminalità organizzata, secondo i Consigliere giudici, bensì di “sostanziale e gravissimo inquinamento dei rapporti fra politica e imprenditoria”. In questo senso si “giustifica il sentire comune che attribuisce a tale sistema di potere una complessiva “mafiosità” intesa, appunto, fra virgolette. Un modo di dire non una presenza reale. In assenza di “scorrerie” armate restano i traffici al tavolo di coordinamento per i rifugiati del superburocrate Luca Odevaine che approfitta di un disorientamento istituzionale per passare informazioni agli imprenditori amici (“Il dato che emerge da tutte le deposizioni - scrive la Ianniello - è che vi era un’emergenza umanitaria continua che lo Stato Italiano era impreparato ad affrontare”. O la stagione di Franco Panzironi, prezzolato tesoriere della Nuova Italia di Gianni Alemanno. Ma la sfida repressiva al malaffare romano non è nel 416 bis, scrivono i giudici, ritenendo “estensive” della normativa antimafia le interpretazioni fornite dalla procura. E come tali spettanti solo al legislatore. A Roma, secondo il tribunale che ha depositato in tempi record le motivazioni, esistono due diverse associazioni criminali: la prima specializzata in estorsioni e usura e collegata al famoso benzinaio Eni di Corso Francia (Roberto Lacopo) e l’altra, rappresentata da Buzzi, leader nell’infiltrare la pubblica amministrazione. Diversamente da quanto sostenuto dalla procura i due gruppi agiscono parallelamente e indipendentemente, considerato anche che le coop preesistono a Lacopo e ai suoi metodi. Scrive il tribunale : “Non è dunque possibile affermare che il “nucleo Buzzi” abbia conosciuto, condiviso e recepito i metodi praticati presso il distributore di Corso Francia per il recupero dei crediti”. Più che di mafia si trattava di mazzette. Sono ben 12 i colpi esplosi dalla pistola dell’avvocato Francesco Palumbo, indagato per omicidio volontario, che domenica dopo aver sorpreso tre ladri nell’abitazione del padre in via Palermo, a Latina, ha fatto fuoco uccidendone uno, Domenico Bardi, 41enne di Napoli. La polizia scientifica ha recuperato 11 bossoli, ma nel caricatore c’erano 13 proiettili. Due hanno ucciso Bardi, colpito alla schiena e morto nel giardino della palazzina, accanto alla scala dalla quale il quarantenne è precipitato dopo essere stato colpito. La famiglia ha nominato un suo consulente. Torna a colpire la banda di rapinatori di Rolex. Questa volta a essere stato preso di mira è un professionista che tre banditi in sella a due scooter hanno atteso e minacciato davanti al cancello della sua abitazione in viale della Tecnica. La vittima è stata costretta a consegnare un orologio del valore di alcune migliaia di euro. I tre potrebbero aver messo a segno altri colpi. Scoprono sui social network chi a piazza Re di Roma, alla vigilia degli esami di maturità, aveva staccato un manifesto di Lotta Studentesca, movimento di estrema destra legato a Forza Nuova, li rintracciano e li picchiano davanti ai loro amici. Per la spedizione punitiva del giugno scorso durante la quale due giovani erano stati aggrediti nei pressi della fermata della metropolitana, altri due ragazzi sono stati identificati dalla Digos e dal commissariato San Giovanni: il gip ha stabilito per loro l’obbligo di firma. La pena accessoria non esclude la depenalizzazione di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 18 ottobre 2017 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 17 ottobre 2017 n. 47818. La previsione di una pena accessoria non preclude la depenalizzazione del reato. La Corte di cassazione, con la sentenza 47818, ha accolto il ricorso di un farmacista contro la decisione del giudice di primo grado di escludere l’applicazione della cosiddetta depenalizzazione cieca (articolo del Dlgs 8 del 2016) al reato di vendita di farmaci senza autorizzazione (articolo 147, comma 3 del Dlgs 219/2006). La commercializzazione senza il bollo Aifa, era costata al farmacista 600 euro di ammenda e la sospensione dall’esercizio della professione per 10 giorni. Ed è proprio su questa pena “aggiuntiva” che si era concentrata l’attenzione del giudice di prima istanza, che aveva ritenuto non applicabile la depenalizzazione. Per il Tribunale, infatti, nel caso in esame, la contravvenzione era punita oltre che con l’ammenda anche con la sospensione dall’esercizio della professione. Secondo la Cassazione però la conclusione raggiunta è sbagliata. L’ambito applicativo della depenalizzazione attuata dal Dlgs 8\2016 - precisa la Suprema corte - é individuato dalla legge delega (67/2014) in base a due diversi di criteri di selezione: il primo formale di carattere sanzionatorio, il secondo, sostanziale, che passa per l’individuazione dei comportamenti che possono essere sanzionati per via amministrativa. Quello che interessa nello specifico è il primo criterio (lettera a) comma 2, articolo 2 delle legge delega) che - facendo riferimento a “tutti i reati per i quali è prevista la sola pena della multa o dell’ammenda” - costituisce la clausola generale della depenalizzazione “cieca”, utilizzata in già in passato dal legislatore per individuare i reati meno gravi perché non sanzionati con l’arresto o con la reclusione. Per la Cassazione è evidente l’intenzione del legislatore di riferirsi alla pena principale “che esprime il nucleo essenziale del disvalore del fatto e non anche alle eventuali pene accessorie, le quali potrebbero essere previste anche per le fattispecie punite con la sola pena pecuniaria”. Lo scopo della riforma è infatti - sottolineano i giudici - quello di deflazionare il più possibile il sistema penale, sostanziale e processuale. Nello specifico la depenalizzazione, rispetto al reato contestato, scatta sul semplice presupposto della pena pecuniaria. Il legislatore ha poi ritenuto di “non comminare sanzioni accessorie per gli illeciti risultanti dalla clausola generale di depenalizzazione “cieca”, solo per la difficoltà di formulare, sia sul piano redazionale che di compatibilità con i limiti derivanti dalla delega, una disposizione altrettanto generale di conversione delle (eventuali) originarie pene accessorie”. E non perché considerava le pene accessorie escluse dalla depenalizzazione. Sanzioni “aggiuntive” sono espressamente prese in considerazione (articolo 4 comma 1 del decreto) solo per alcune fattispecie oggetto di depenalizzazione normativa. Ma anche in tal caso non sono di ostacolo al “colpo di spugna” sul reato. Bologna: senegalese suicida in questura, c’è l’archiviazione per i due poliziotti La Repubblica, 18 ottobre 2017 La procura ha chiesto l’archiviazione del fascicolo che era stato aperto a seguito del suicidio di Oumar Ly Cheikou, il 39enne senegalese che si è impiccato in una cella della questura dopo essere stato arrestato per maltrattamenti in famiglia. L’inchiesta era stata aperta sulla base delle richieste fatte dai familiari della vittima e per consentire l’autopsia. Secondo la procura non sono affiorate responsabilità penali dei due agenti di turno quella sera, indagati per omicidio colposo. Dunque nessuna colpa è stata rilevata per i due giovani poliziotti di guardia alle camere di sicurezza, dove nemmeno dopo l’ispezione del garante dei detenuti sono state riparate le telecamere di scurezza. Oumar Ly Cheikou, che risultava irregolare in Italia e con diversi precedenti specifici per violenza domestica, si è ucciso impiccandosi con una maglietta nella cella mentre la moglie formalizzava la denuncia contro di lui. Era rimasto solo per pochi minuti mentre il piantone si occupava di un altro fermato. Il senegalese era stato fermato per maltrattamenti alla compagna, italiana, e per resistenza, avendo reagito agli agenti. Lecce: 44enne ritrovato morto in cella, aperta indagine sul decesso Corriere Salentino, 18 ottobre 2017 Una morte sospetta nel carcere di Lecce. È quella di Roberto De Salve, 44enne di Tuglie su cui la Procura di Lecce ha aperto un fascicolo d’indagine. Il pubblico ministero di turno, il sostituto procuratore Roberta Licci, ha disposto l’autopsia che verrà eseguita nei prossimi giorni dal medico legale Alberto Tortorella. Il corpo del detenuto è stato ritrovato senza vita nel letto della sua cella questa mattina dal personale del carcere. Si trovava in posizione supina senza apparentemente segni di violenza. I tentativi di rianimare De Salve si sono rivelati inutili. Il detenuto stava scontando un residuo di pena di 6 mesi di una condanna di 1 anno e mezzo di reclusione per furto e spaccio. Apparentemente, l’uomo non aveva problemi di salute. Non soffriva di patologie particolari così come sarebbe emerso in questa prima fase d’indagine. È stata acquisita la cartella clinica di De Salve che verrà ora spulciata con attenzione. I familiari si sono affidati all’avvocato Luigi Greco che dovrà seguire gli sviluppi dell’indagine. Milano: morto il serial killer Marco Bergamo, fatale un’infezione polmonare di Valentina Leone Corriere del Trentino, 18 ottobre 2017 Detenuto nel carcere di Bollate, aveva 51 anni. Uccise cinque donne tra il 1985 e il 1992. Un killer efferato, condannato a quattro ergastoli e ulteriori trent’anni di carcere per l’omicidio di cinque donne. Nei giorni scorsi, però, Marco Bergamo è deceduto in ospedale a seguito di un’infezione polmonare. Il pluriomicida aveva 51 anni, e lo scorso anno era stato trasferito nel carcere di Bollate, una struttura “a custodia attenuata” e che prevede dunque una detenzione meno afflittiva. Dieci giorni fa il direttore dell’istituto aveva però dovuto disporre il ricovero d’urgenza in ospedale a seguito dell’infezione sopraggiunta: il pluriomicida è poi andato in coma, non risvegliandosi mai più. Sono cinque le donne che Bergamo ha assassinato nell’arco di sette anni: Marcella Casagrande, all’età di 15 anni, la sua più giovane vittima; Anna Maria Cipolletti, 41 anni, Renate Rauch, 24 anni, Renate Troger, di appena 18 anni e infine Marika Zorzi, uccisa a 19 anni. Bergamo venne arrestato il 6 agosto del 1992, poche ore dopo l’assassinio di Marika Zorzi e nel giorno del suo 26esimo compleanno, ma il primo omicidio, quello di Marcella Casagrande, si consumò nel 1985. L’uomo fu poi processato in Corte d’Assise a Bolzano e venne condannato in via definitiva a quattro ergastoli e trent’anni di reclusione. Dopo alcuni anni nel carcere di Rebibbia, Bergamo fu poi trasferito a Opera, a Milano e, infine, recentemente, nell’istituto di Bollate. Nel 2010 il killer usufruì per la prima volta di un permesso premio di poche ore, mentre proprio lo scorso anno si tornò a parlare insistentemente dell’ipotesi della semilibertà, in quanto il legale dell’uomo, Gianluca Pammolli del foro di Roma, ne aveva depositato richiesta proprio lo scorso anno, puntando a rintracciare una comunità in cui l’uomo potesse svolgere delle attività in orario diurno, lavorando per alcune ore al giorno. Uno dei protagonisti di quegli anni di indagini serrate per scovare il serial killer, e di terrore per la comunità bolzanina, è il magistrato Guido Rispoli, attualmente Procuratore capo a Campobasso e allora sostituto procuratore in forze a Bolzano, che come pm coordinò le indagini per incastrale il pluriomicida. “Il nostro sistema costituzionale prevede che il carcere debba tendere al recupero di chi viene condannato, ma va detto - spiega Rispoli - che nel suo caso si era capito che l’origine profonda dei suoi omicidi era da ricercare in una sua sfera personale, e dunque i margini di recupero erano decisamente stretti. La giustizia ha fatto il suo dovere condannandolo e tenendolo in carcere, ma per il resto, rispetto alla sua situazione psichica, si è potuto agire poco”. Negli anni in cui commise gli efferati delitti, Bergamo svolgeva il lavoro di carpentiere e saldatore in una ditta del capoluogo. Fu dopo l’assassinio di Zorzi che il killer, messo alle strette dagli inquirenti, decise di confessare. Anche perché nella sua auto vennero trovati indumenti ancora sporchi di sangue e gli stessi documenti d’identità della giovane. Nell’abitazione dell’uomo furono inoltre trovati altri indumenti ancora intrisi di sangue. Nei giorni successivi, Bergamo confessò anche l’omicidio di Marcella Casagrande, uccisa con venti coltellate nella sua casa di via Visitazione. S.M. Capua Vetere: Radicali “in carcere acqua rossastra, i detenuti temono per la salute” di Fabrizio Ferrante quotidianoitalia.it, 18 ottobre 2017 Si è conclusa la tre giorni di visite ispettive che Radicali Italiani, nell’ambito di un’iniziativa nazionale, ha sostenuto nelle carceri campane. Dopo Secondigliano e Poggioreale nelle giornate del 13 e 14 ottobre, domenica 15 la delegazione si è recata a Santa Maria Capua Vetere. Presenti un gruppo di militanti guidato da Raffaele Minieri, della direzione nazionale di Radicali Italiani, con la partecipazione di Pietro Ioia per gli ex detenuti organizzati di Napoli. La casa circondariale casertana di Santa Maria Capua Vetere è tristemente noto per la mancanza cronica di acqua potabile con approvvigionamento mediante autobotti e per la vicinanza con il sito di San Tammaro per il trattamento dei rifiuti che rende spesso l’aria viziata, per usare un eufemismo. La struttura, diretta da Carlotta Giaquinto, ospita al momento 960 detenuti in un carcere progettato per ospitarne non più di 850. Presenti 900 ristretti di sesso maschile e 60 donne, detenute nel reparto Senna. Gli stranieri sono circa 200 in ossequio alla politica interraziale praticata a Santa Maria Capua Vetere. Qui infatti le celle sono miste e ospitano insieme italiani e stranieri. Attualmente sono 200 i detenuti che svolgono mansioni nel carcere, sebbene alla luce dei recenti aumenti delle paghe (circa 800 euro al mese) e di un budget invariato, si sia stati costretti a ridurre il numero di ore lavorate per poter garantire gli emolumenti. Sono al momento attivi percorsi di istruzione che vanno dalle elementari alle superiori anche se il liceo artistico per le detenute non è ancora partito a causa di carenza di personale a disposizione del Ministero. Attivi per le donne anche laboratori di cucito dove si producono borse e zaini, venduti agli agenti o anche all’esterno, un centro estetico e corsi di scrittura creativa e writing. Obiettivo è quello di trovare cooperative che possano inserire lavorativamente chi esce dal carcere formato. Una carenza significativa dal punto di vista educativo è l’assenza di corsi di italiano per i detenuti stranieri. Gli uomini, a differenza delle donne, hanno meno occasioni formative se si eccettuano la scuola, la palestra, la biblioteca e qualche corso di teatro. I detenuti chiedono quindi opportunità che - come per le donne - possano consentirgli un reinserimento lavorativo una volta scontata la pena ma non ci sono i fondi, viene puntualmente risposto. “Non vogliamo stare con le mani in mano, vogliamo darci da fare”, ha esclamato un ristretto al passaggio della delegazione. Tutto dipende dal ruolo delle associazioni di volontariato, dato che risorse al momento non ce ne sono. Anche dal punto di vista della qualità della vita c’è differenza fra il reparto Senna (femminile) e quelli come ad esempio il Tamigi (alta sicurezza) in cui soggiornano gli uomini. Dal punto di vista estetico il padiglione riservato alle donne appare più curato sia per quanto concerne le pareti colorate dalle detenute, i pavimenti puliti e le brande più nuove, che per “comodità” come le docce in cella. Per gli uomini invece nella maggior parte dei casi la doccia si fa in corridoio nell’apposita sala ma le condizioni generali (oltre alle dimensioni dello spazio) dei servizi igienici, dell’umidità e della fatiscenza della struttura è decisamente meno grave rispetto a quanto riscontrato altrove. Rispetto a Poggioreale, dove la zona bagno non è separata da quella cucina, qui almeno vi sono porte che separano le due aree. Le donne sono ristrette in celle che variano da 16 a 25 metri quadrati di spazio, dove soggiornano fino a quattro detenute. Celle per due invece nel reparto Tamigi, dove per i maschi vige il sistema dei letti a castello. Il vero dramma del carcere casertano di Santa Maria Capua Vetere rimane la cronica assenza di acqua potabile. I detenuti non dovrebbero neppure lavarsi i denti con l’acqua che fuoriesce dai rubinetti, di colore rossastro per l’alto contenuto ferroso, per un problema imputato alla Regione. Così come problematica è la condizione degli ammalati: ad esempio pur essendoci un dentista non sempre è chiaro quali interventi siano coperti e quali no, con il risultato che in molti ricorrono al dentista privato pagato a proprie spese, anche solo per un’estrazione. Sebbene la direttrice si sia già rivolta all’Asl per avere delucidazioni in merito alle prestazioni da erogare, ad oggi permangono un’incertezza e una burocrazia che scatenano i propri effetti sui ristretti. Altra fonte di preoccupazione, la continua inalazione di gas e sostanze presenti nell’aria, provenienti da una vicina discarica e dalla lavorazione dei rifiuti nel non lontano impianto di San Tammaro. Col risultato di cattivi odori che avvolgono la struttura, penetrandola, in particolare di mattina presto e qui, a buon peso, siamo in piena terra dei fuochi. I ristretti temono dunque per gli effetti di questa continua esposizione e del continuo respirare aria inquinata, sulla propria salute. Quando poi un detenuto si ammala, ecco tempi lunghissimi per una visita o una tac e, anche dopo gli accertamenti, difficilmente si va oltre un mero tamponamento con medicinali non sempre adeguati. A Santa Maria Capua Vetere non vige il regime delle celle aperte e dunque i detenuti possono sì trascorrere otto ore al giorno fra passeggio (in un’area grande e circondata da verde anche se non curato) e socialità ma non hanno la possibilità di girare nei corridoi. I detenuti lamentano l’essere trasferiti di volta in volta da una “gabbia più piccola a una più grande” riferendosi al grande salone della socialità dove, però, i ristretti trascorrono il tempo sempre e comunque rinchiusi. Dal carcere spiegano che la politica delle celle aperte non convince a causa dei rischi che possono derivare da possibili assembramenti nei corridoi o per tutelare coloro i quali non gradissero la presenza di altri nella propria cella. Altre rimostranze dei detenuti, i molti rapporti che subiscono anche per azioni semplici come passare una pentola da una cella a un’altra e le continue perquisizioni a cui sono sottoposti, due o tre volte a settimana, di mattina presto con tutti i disagi del caso. Disagi che in misura differente scontano anche i pazienti ospitati nel reparto di salute mentale. Anche qui, come a Secondigliano, ci sono problemi derivanti dalla chiusura degli Opg e dalla mancanza di sufficiente vigilanza delle Rems. È infatti accaduto che pazienti tentassero di evadere lanciandosi dai balconi, causando danni a sé stessi o ad altre persone. Per questo in molti tornano in un carcere che non sempre può adeguatamente gestirli in un unico reparto a loro dedicato, col risultato che alcuni malati psichici si ritrovano in cella con detenuti normodotati. Roma: la circolare di Pignatone ai pm “prudenza sull’iscrizione di un indagato” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 18 ottobre 2017 Il Procuratore: è una condizione che nuoce alle persone e può essere strumentalizzata per fini politici o economici. Atto dovuto solo con indizi specifici. L’iscrizione sul registro degli indagati nasce da esigenze di garanzia nei confronti delle persone coinvolte in un procedimento penale, ma “la condizione di indagato è connotata da aspetti innegabilmente negativi”. Più danni che vantaggi. Non fosse altro perché “dall’iscrizione e dai fisiologici atti processuali che ne conseguono (per esempio un avviso di garanzia, ndr), si dispiegano, per la persona indagata, effetti pregiudizievoli non indifferenti, sia sotto il profilo professionale sia in termini di reputazione”. Da queste e altre considerazioni, sollecitate dalla recente riforma che prevede novità anche in questa materia, il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone ha preso le mosse per inviare ai colleghi nuove disposizioni sulle modalità di “iscrizione delle notizie di reato”. Un invito alla prudenza, soprattutto di fronte a esposti contro soggetti indicati con nome e cognome; in quei casi, sostiene il procuratore, non si deve procedere alla immediata e meccanica trasformazione del denunciato in “indagato”, ma solo in presenza di “specifici elementi indizianti”. Nella circolare del 2 ottobre, svelata dalla rivista telematica Questione giustizia, Pignatone ricorda che “frequentemente” un atto meramente burocratico “diventa strumentalmente utilizzabile, dai denuncianti o da altri, per fini diversi da quelli dell’accertamento processuale, specie in contesti di contrapposizione di carattere politico, economico, professionale, sindacale”. Di qui “l’esigenza di non procedere a iscrizioni in modo affrettato”, anche perché “procedere a iscrizioni non necessarie è tanto inappropriato quanto omettere le iscrizioni dovute”. Nella logica della circolare, l’attenzione su come e quando procedere è tanto più necessaria in presenza di iniziative da parte di un privato cittadino o degli investigatori; se infatti da una denuncia o da una querela derivasse una meccanica iscrizione della persone chiamate in causa, si finirebbe per “attribuire impropriamente alla polizia giudiziaria, o addirittura al privato denunciante” la possibilità di attribuire la qualifica di indagato. Invece, scrive il procuratore, “quel potere non può essere che esclusivo del pubblico ministero, e al suo ponderato esercizio questo ufficio non intende sottrarsi”. Per fare degli esempi concreti, Pignatone evoca situazioni in cui sono tirate in ballo società o enti, nelle quali “risulta quasi sempre laboriosa l’individuazione della condotta umana che sta alla base dell’atto decisivo ai fini dell’addebito penale”. Niente più avvisi di garanzia in automatico quindi, prima di qualsiasi verifica, per amministratori delegati o cariche di vertice di una struttura amministrativa. Altro esempio sono i casi di “responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario”. Troppo spesso, avverte il procuratore, si procede ad iscrizioni a raffica di tutto il personale che ha avuto a che fare con una singola vicenda, anche solo per dare loro la possibilità di partecipare con un consulente all’autopsia della vittima. Sbagliato: “Sino a quando non vi siano indizi specifici sulla condotta di questo o quell’operatore sanitario, non vi sono i presupposti perché alcuno di essi sia avvertito del compimento di atti, e in seguito nessuno potrà validamente opporre di non essere stato iscritto o avvisato”. È prevedibile che non tutti gli avvocati siano d’accordo con questa impostazione. Se infatti è vero che diventare indagato ha un costo, soprattutto sociale, dovuto anche alle inevitabili strumentalizzazioni, l’iscrizione immediata (o quasi) serve a far scattare i termini delle indagini e impedire tempi indefiniti, oppure il compimento di attività in assenza dei difensori. Anche per evitare problemi di garanzie negate, la circolare di Pignatone prevede che quando si debbano compiere atti invasivi verso persone non direttamente coinvolte nelle indagini (per esempio intercettazioni o perquisizioni nei confronti di terzi) “si proceda ad uno scrutinio particolarmente attento, e in alcuni casi sia necessario dare adeguata e succinta motivazione della scelta di procedere all’atto di indagine pur nei confronti di un soggetto non indagato”. San Gimignano (Si): Cenni (Pd) “venga nominato un direttore del carcere al più presto” gonews.it, 18 ottobre 2017 Accelerare il processo di designazione del direttore e garantire migliori condizioni di vita per i detenuti e lavorative per la polizia penitenziaria a Ranza. È quanto richiesto dalla parlamentare del Pd, Susanna Cenni che ha inviato una lettera al Ministro della Giustizia Andrea Orlando. La missiva con le richieste arriva dopo la visita di ieri, lunedì 16 ottobre all’interno dell’istituto penitenziario di San Gimignano. Al centro dell’incontro con la dirigenza e i rappresentanti della polizia penitenziaria, a cui hanno preso parte Susanna Cenni e l’assessore alle politiche sociali di San Gimignano, Ilaria Garosi, le questioni strutturali dell’istituto di pena, a partire dall’assenza di una guida stabile, la carenza di personale e le difficili condizioni della struttura, a partire dai problemi della rete idrica. “Negli anni scorsi le condizioni di vivibilità della struttura di Ranza erano state più volte denunciate dagli agenti di polizia penitenziaria - ha ricordato Susanna Cenni - ma oggi la situazione è aggravata dall’assenza da oltre due anni di una guida stabile, come quella del direttore, che rende ancora più difficile la gestione dell’istituto. Per questa ragione, ho sollecitato, attraverso una lettera, l’intervento del Ministro Andrea Orlando, affinché si possa arrivare in tempi brevi all’assegnazione del direttore”. “Sovraffollamento e difficoltà strutturali, oltre a una localizzazione infelice, sono da anni i problemi di Ranza - chiarisce Cenni - Questioni che, grazie alla professionalità della polizia penitenziaria, sono state attenuate, ma per cui occorrono interventi urgenti, a partire da una direzione stabile che potrà sicuramente garantire sia migliori condizioni di vita ai detenuti che lavorative per il personale di polizia”. “In questi anni - conclude la parlamentare senese - mi sono occupata tante volte della situazione di Ranza, incontrando più volte durante l’anno i rappresentanti della polizia e della dirigenza, e ho potuto apprezzare lo sforzo del personale che, nonostante il numero ridotto, ha cercato in tutti i modi di lavorare con professionalità. Sforzi che sono stati sostenuti anche dalle istituzioni locali, che non hanno mai fatto mancare sostegno e attenzione. Un impegno che non è mai mancato, ma che adesso necessita di un intervento immediato da parte dello Stato, per dare finalmente alcune risposte risolutive in merito alla designazione della figura del direttore, alla situazione di carenza del personale e per rendere duraturi anche i progetti lavorativi che coinvolgono i detenuti”. Trani (Bat): firmato protocollo di intesa per il reinserimento lavorativo dei detenuti Il Sole 24 Ore, 18 ottobre 2017 Firmato un protocollo di intesa tra Regione, provincia e amministrazione penitenziaria per il reinserimento professionale dei detenuti. Una seconda opportunità per chi ha sbagliato e vuole rifarsi una vita. Grazie al protocollo firmato nel carcere di Trani da Regione Puglia, provincia di Barletta Andria Trani e provveditore dell’amministrazione penitenziaria di Puglia e Basilicata i detenuti della casa circondariale tranese saranno coinvolti in programmi di reinserimento professionale e lavorativo. Ieri mattina, presso la casa circondariale di Trani, l’assessore all’istruzione, alla formazione e al lavoro della Regione Puglia Sebastiano Leo, il Presidente della Provincia di Barletta-Andria-Trani Nicola Giorgino, il Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria di Puglia e Basilicata Carmelo Cantone e la Direttrice del Carcere di Trani Bruna Piarulli hanno firmato un protocollo di intesa tra Ministero della Giustizia, Regione Puglia e Provincia Bat per l’avvio, in forma sperimentale, di una pluralità di servizi nei confronti di detenuti ed internati per la fruizione di misure di politica attiva del lavoro. “Grazie a questo Protocollo - fa sapere l’assessore Leo - sperimenteremo nuove forme di fruizione da parte dei detenuti di misure di politica attiva del lavoro mirate ad un reinserimento, non solo lavorativo, ma anche sociale di queste persone. I centri per l’impiego della Provincia, il personale della Casa Circondariale e le strutture regionali collaboreranno per profilare i detenuti con i requisiti per partecipare a questo programma, per individuare percorsi di politica attiva coerenti lo status occupazionale e detentivo e per percepire uno dei trattamenti di sostegno al reddito previsti dall’ordinamento”. Roma: “Destinazione Rebibbia”, dai tassisti romani un kit per le donne detenute di Teresa Valiani Redattore Sociale, 18 ottobre 2017 Tre auto station-wagon caricate fino all’orlo: consegnati al reparto femminile del carcere romano 43 scatoloni pieni di indumenti e biancheria intima destinati alle recluse. Un successo la raccolta avviata all’esterno. Tre auto station wagon caricate fino all’orlo, una quarantina di scatoloni destinati al controllo pacchi, al loro interno tutto l’occorrente per confezionare i kit di primo ingresso e offrire alle detenute la possibilità di affrontare dignitosamente i primi giorni di carcere. “Destinazione Rebibbia” è la nuova iniziativa avviata dall’associazione di tassisti romani “Tutti Taxi per Amore” che questo pomeriggio ha consegnato il materiale ai responsabili del reparto femminile dell’istituto di pena. Vestiti, tute, magliette, scarpe in ottimo stato o nuove. E, soprattutto, biancheria intima, quella che manca sempre, quella che donne libere hanno donato a donne recluse, in gran parte nuova. La parola d’ordine, nel nuovo evento promosso dai tassisti, è “dignità”. “L’invito a raccogliere e donare questo tipo di materiale - racconta il presidente dell’associazione, Marco Salciccia - è arrivato proprio dall’istituto e noi ci siamo subito attivati. All’inizio è stato difficile parlare di carcere alle persone ma poi è bastato poco per “abbattere il muro” e la risposta non si è fatta attendere: in poco tempo abbiamo raccolto 3 macchine di indumenti”. All’iniziativa partecipano anche ‘Samarcanda Radio Taxì, Radio Rock, l’associazione ‘Il Viandantè e il Centro antiviolenza di Tor Bella Monaca. Nato a maggio 2011, il Centro registra numeri molto alti, circa 2 mila presenze dall’inizio dell’attività, soprattutto tra gli utenti che arrivano dagli altri quartieri romani. “Raccogliamo denunce di ogni genere - spiega la presidente, Stefania Catallo -, dagli abusi fisici alle violenze psicologiche, dal mobbing alle truffe a sfondo sentimentale, ai maltrattamenti subiti anche da donne anziane. L’evento promosso con “Tutti Taxi per Amore” è molto significativo. Collaboriamo da tempo con il carcere perché gestiamo anche una sartoria solidale con la quale riusciamo a proporre qualche inserimento, insegnando alle detenute un lavoro. Inoltre prestiamo abiti da sposa alle donne recluse che si stanno per sposare. Sappiamo che contare su un kit di primo ingresso che ti garantisce un cambio, soprattutto per l’intimo, in carcere è molto importante. Da quando abbiamo lanciato la raccolta c’è stata molta solidarietà e tutto questo movimento dimostra una grande disponibilità che ci spinge a fare sempre di più per aiutare gli altri”. “I primi giorni di carcere - sottolinea Mario Pontillo, dell’associazione “Il Viandante” - sono molto pesanti e diventano ancora più difficili per chi non ha fuori una famiglia che provvede a portare gli indumenti di ricambio. Si rischia di restare con gli stessi vestiti per giorni, con tutte le conseguenze che possiamo immaginare. E allo stress del momento processuale si somma la pressione di una condizione difficile”. Alla consegna dei kit è seguito un momento di intrattenimento curato da Giulia e Max Palagetti. “Siamo molto soddisfatti di questa prima esperienza con il carcere - commenta il presidente di Tutti Taxi per Amore (tuttitaxiperamore.it), dopo le persone con disabilità, i nonnini e i bambini speciali, abbiamo voluto dare un piccolo aiuto anche a una parte della popolazione detenuta: donne, in questo caso, che spesso la società considera “invisibili” e alle quali, invece, la nostra associazione vorrebbe riconsegnare un po’ di dignità”. Terni: dal carcere un aiuto per i disabili, arrivano i detenuti assistenti alla persona tuttoggi.info, 18 ottobre 2017 Si è concluso nei giorni scorsi il corso di base formativo per “detenuti assistenti alla persona”, un progetto sperimentale sviluppato nella Casa Circondariale di Terni e dedicato alle persone in regime di detenzione, che si è rilevato di grande interesse e di utilità vista l’alta adesione dei partecipanti. Già dal 2015 il Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria), aveva analizzato il tema della condizione di disabilità motoria nell’ambiente penitenziario e, nel rispetto dell’art. 3 della Commissione Europea per la salvaguardia dei Diritti Umani, dell’art.15 della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità e della sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, ha affrontato le questioni relative all’accessibilità delle strutture, alla presa in carico delle persone con disabilità attraverso un programma di trattamento rieducativo individualizzato, all’assistenza sanitaria e alla formazione di altri detenuti al lavoro di caregiver sul modello di quello familiare Sulla scorta di questo impegno, la Casa Circondariale di Terni, in collaborazione con l’Azienda Umbria 2 Servizio Formazione ha organizzato il corso per detenuti assistenti alla persona, curato dalla psicologa dott.ssa Morena Bellanca in collaborazione con il responsabile medico della struttura dr. Antonio Marozzo il coordinatore infermieristico dott. David De Santis. Al corso formativo, in qualità di docenti, hanno preso parte inoltre la dr.ssa Sonia Biscontini, direttore del dipartimento delle Dipendenze e il dr. Angelo Trequattrini, responsabile del Spdc, Servizio psichiatrico di diagnosi e cura di Terni, con l’obiettivo di garantire il sostegno ai detenuti con disagi fisici e psichici. I disabili in carcere con patologie e limitazioni sono assistiti, come tutte le altre persone ristrette, dalla Struttura Interna del Servizio Sanitario Nazionale e il corso appena concluso si propone di creare le condizioni idonee affinché queste persone possano vivere una vita decorosa in istituto. Il progetto formativo, infatti, ha avuto come scopo quello di colmare tale lacuna formando i detenuti caregivers attraverso lo scambio di nozioni teoriche e pratiche in materia di primo soccorso al paziente acuto, primo soccorso al soggetto in arresto cardiaco, igiene della persona, dei luoghi e degli alimenti, modalità di relazione, assistenza nella mobilizzazione del soggetto con minorazione fisica, assistenza alla persona con problematiche psichiche e dipendenze. Si è inteso trasmettere ai partecipanti conoscenze di base per il supporto “assistenziale” alla persona, da impiegare all’interno del carcere e, in prospettiva futura nella vita quotidiana. Tale progetto, fortemente voluto dal direttore della struttura penitenziaria Ternana dr.ssa Chiara Pellegrini e dal direttore generale dell’Azienda Usl Umbria 2 dr. Imolo Fiaschini, potrà valorizzare il potenziale dei detenuti in quanto persone e trasformare il tempo della detenzione in qualcosa di significativo ed utile per sé e per l’altro, in modo che non sia tempo “sospeso”, ma tempo vissuto attraverso esperienze che possano consentire il recupero di abilità sociali oltre che dare una risposta concreta alle esigenze organizzative dell’Istituto. Dunque non solo formazione e assistenza ma anche uno strumento in più per incentivare la solidarietà dietro le sbarre. Salerno: malato di mente non trova posto nelle Rems, la Procura chiede il carcere La Città di Salerno, 18 ottobre 2017 Vana la ricerca di una struttura che accogliesse il malato di mente. Dopo ventisei giorni in cui Procura e Ministero della giustizia hanno cercato vanamente in tutta Italia una struttura che lo accogliesse, adesso per un malato psichiatrico salernitano rischiano di aprirsi le porte del carcere. Anche le ultime richieste, inviate a tutte le 24 Rems italiane che hanno sostituito gli ospedali psichiatrici giudiziari, non hanno trovato risposta. E così la Procura ha chiesto che la misura di sicurezza del ricovero coatto in una residenza assistita sia sostituita da quella della custodia cautelare in carcere, per evitare che l’uomo continui ad abitare con i genitori, che già sono stati vittima di comportamenti violenti. Secondo il giudice che ha firmato la misura di sicurezza il paziente è infatti non solo infermo di mente ma “socialmente pericoloso”, e le conseguenze, se resta in casa con i familiari, sono imprevedibili. Per questo il 20 settembre ne è stato disposto il ricovero, con un provvedimento che si è però scontrato con la carenza di posti nelle Rems. Ora la Procura ha chiesto l’emissione di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere, per poter usufruire degli otto posti che la casa circondariale ha destinato a detenuti con patologie psichiatriche, in attesa che si renda disponibile una residenza. La decisione del giudice delle indagini preliminari è attesa per questa settimana. È stato invece risolto con il ricovero temporaneo in una casa di cura privata, Villa Chiarugi a Nocera, il caso di una donna che dal 25 settembre attendeva anche lei l’ingresso in una Rems. Il suo caso è stato considerato gestibile anche in clinica, mentre per l’uomo la situazione risulta più grave. Napoli: volontariato in carcere; la testimonianza di don Franco, cappellano a Poggioreale di Flavia Capriello linkabile.it, 18 ottobre 2017 Tante le Associazioni che a Napoli si occupano di volontariato penitenziario. Iniziamo questo viaggio con la testimonianza di Don Franco Esposito. Nato nel 1960 e ordinato Sacerdote nel 1988, Don Franco è attualmente Cappellano al carcere di Poggioreale ed animatore dell’Associazione “Liberi di volare”. Di recente viene pubblicato “Liberi di pregare” una guida spirituale, ma anche un diario dell’anima che Don Franco ha preparato per i detenuti e per coloro che con essi si incontrano (parenti, volontari, polizia, professionisti, ecc.). In questo libro si evince l’amore che può nascere nei confronti dei detenuti lavorando a stretto contatto con loro. La pastorale carceraria vuole coinvolgere la Comunità Cristiana in un percorso di attenzione verso la realtà del carcere, inoltre vuol far sentire il detenuto parte della famiglia della Chiesa locale, attraverso iniziative e cammini di fede. Il vero protagonista è l’intera Comunità Cristiana, non il singolo. Purtroppo, oggi, l’impegno è ancora limitato perché la comunità è insensibile e indifferente al mondo penitenziario. Il cammino di fede nel carcere, inoltre, può essere utile per iniziare un percorso di redenzione del detenuto, ma è importante che il lavoro continui anche al di fuori per far sì che, sebbene in un contesto di libertà, l’ormai ex detenuto riscopra la legalità. Il volontariato deve essere soprattutto un ponte tra dentro e fuori ed è molto importante che le varie associazioni che operano in questo settore si organizzino in rete, tenendo sempre presente, però, che il volontariato non può sopperire alle negligenze delle Istituzioni. I Sacerdoti ed i volontari sono le prime figure che il detenuto incontra appena arrivato in carcere, spesso ancor prima di incontrare gli educatori, quindi il detenuto si aggrappa a queste figure e ripone in loro tutte le proprie speranze. Durante la detenzione nasce il bisogno di sentirsi ancora accettati da qualcuno, è importantissimo che venga data al detenuto un po’ di fiducia, ed è proprio attraverso le varie iniziative ed attività proposte dai volontari che le persone ristrette all’interno delle carceri iniziano a sentirsi parte di un qualcosa. Tanti sono i progetti che la comunità “Liberi di volare” propone: tra questi troviamo laboratori di scrittura creativa, laboratori di artigianato, creazione di un giornalino, attività di catechesi, ecc. L’impegno e la passione di Don Franco sono sempre al primo posto nella sua attività, tanto da scontrarsi anche con le Istituzioni. Nel 2015 scrisse una lettera aperta all’Assessore al welfare del Comune di Napoli, Roberta Gaeta, dove richiedeva fortemente l’introduzione della figura del Garante dei diritti dei detenuti (ricoperta oggi da Samuele Ciambriello) che non era stata ancora istituita. Inoltre è costante la denuncia dei disagi che vengono vissuti negli Istituti di pena: in primis il sovraffollamento, ma anche la mancanza di attività, di momenti di aggregazione e socializzazione oppure il problema del vitto (Poggioreale, ad esempio, ha solo due cucine, di cui una sola serve il vitto per 2000 persone, ed il cibo quando arriva nelle celle è immangiabile, tonnellate di cibo vengono gettate ogni giorno). Don Franco afferma che se lo Stato volesse dare un aiuto concreto dovrebbe superare l’idea che il carcere, così com’è, risolva realmente i problemi legati alla delinquenza, bisognerebbe investire in comunità e strutture che riabilitino il reo e non che quest’ultimo venga “parcheggiato” in una cella a far nulla, inoltre, così facendo, potrebbe anche essere risolto il problema del sovraffollamento. Bollate: sussurrare ai cavalli aiuta i detenuti a riscattarsi di Paola D’Amico Corriere della Sera, 18 ottobre 2017 Terapia sperimentale a Bollate, veterinari e psicologi indagano l’evoluzione delle emozioni tra i detenuti al lavoro col branco. È in corso al carcere di Bollate, dove vive un branco di 40 cavalli, uno studio pilota che mira a misurare l’empatia nei detenuti, prima e dopo aver imparato a prendersi cura degli animali. Insieme le facoltà di Medicina e di Veterinaria con il Sert di Bollate. Cavalli e detenuti protagonisti di un inedito studio sull’empatia e la regolazione degli impulsi. Nel carcere di Bollate, dove nella scuderia gestita dall’associazione di volontariato Asom, costruita dai detenuti sotto la guida di Claudio Villa, da anni trovano casa 40 cavalli, molti dei quali recuperati da situazioni di maltrattamento o abbandono, veterinari e psicologi dell’Università degli Studi di Milano cercano di dimostrare ciò che empiricamente si è spesso osservato. La relazione con i cavalli può essere una “medicina” per migliorare l’empatia, il controllo degli impulsi e la regolazione delle emozioni. Empatia, come spiega Emanuela Prato Previde docente di psicologia alla facoltà di Medicina e Chirurgia, è “la capacità di rispondere a livello affettivo, cognitivo e comportamentale allo stato emotivo dell’altro, di entrare in risonanza”. È noto che la scarsa empatia è componente caratteristica del comportamento violento e criminale unita alla difficoltà a controllare gli impulsi ma “gli effetti dell’interazione con gli animali su questi aspetti sono poco studiati in campioni di persone che hanno commesso crimini, quali la popolazione carceraria”, aggiunge Prato Previde che ha avviato lo studio con la facoltà di Medicina Veterinaria, il Policlinico di Milano, il Sert del carcere di Bollate e Asom. I detenuti volontari per lo studio pilota sono stati sottoposti a test psicologici e neuropsicologici standardizzati per valutare eventuali cambiamenti dopo la partecipazione alle attività con i cavalli. Così è stato osservato il comportamento dei cavalli, di cui va garantito il benessere. Il cavallo è una preda, è sensibile agli stimoli potenzialmente minacciosi e comunica le proprie emozioni con segnali non evidenti. Per questo lavorare con loro - i detenuti frequentano un corso di mascalcia -, può aiutare i detenuti a “sviluppare delle abilità, autocontrollo, inibire le proprie reazioni impulsive, osservare il comportamento non verbale - continua l’esperta -, allenare la capacità di assumere punti di vista diversi dal proprio e preoccuparsi dello stato emotivo del cavallo, che sono anche fondamentali nelle relazioni interpersonali e possono essere valutate con test e questionari validati”. Il 25 ottobre, presso la II Casa di Reclusione di Bollate, un seminario presenterà i primi risultati dello studio: 60 i posti ed è necessario prenotarsi subito scrivendo ad asombollate@libero.it. Caltanissetta: “Coltiviamo la vita”, all’Ipm il vescovo benedice l’orto urbano seguonews.it, 18 ottobre 2017 Si è svolta lunedì 16 ottobre, presso L’Istituto Penale per i Minorenni di Caltanissetta, la benedizione dell’orto urbano realizzato dai giovani detenuti, grazie ad un’attività di giardinaggio realizzata dall’Eap Fedarcom e precedentemente da Promimpresa. A benedire l’orto sua Eccellenza Monsignor Mario Russotto, Vescovo di Caltanissetta che ha voluto incontrare i ragazzi ospiti dell’Istituto trasmettendo un messaggio di sostegno e di speranza. Accompagnato dal Cappellano Padre Alessandro Giambra che sostiene spiritualmente i ragazzi che hanno voluto leggere una riflessione da loro prodotta sull’attività presentata questa mattina. Presenti il Sostituto Procuratore per i Minorenni Stefano Strino e i responsabili dell’Eap Fedarcom. L’orto intitolato “Coltiviamo la vita” vuole diventare un modello virtuoso di produzione biologica all’interno del tessuto cittadino, l’attività inoltre ha previsto anche la realizzazione di una compostiera che prevede il riutilizzo dell’umido per le concimazioni, grazie all’uso di un bio trituratore che produce biomassa per completare il ciclo dei rifiuti. L’iniziativa fortemente voluta dalla Direttrice Maria Grazia Carneglia, realizzata dal docente Michele Sberna instancabile sognatore, ha voluto offrire attraverso l’impegno dei ragazzi inseriti nel progetto, una possibilità di reinserimento attraverso l’acquisizione di competenze nel campo dell’agricoltura. L’orto rappresenta il legame con la nostra terra, che attraverso tanto impegno e fatica riesce a dare degli ottimi frutti. I giovani impegnati nella realizzazione dell’orto sono stati cinque, dal mese di aprile ad oggi, giornalmente hanno lavorato costantemente, guidati sapientemente dal docente Agronomo Michele Sberna, che li ha accompagnati nell’acquisizione delle necessarie competenze teoriche e pratiche. Pertanto si sono messe in atto tutte le moderne tecniche di coltivazione auto sostenibili, utilizzando metodi di cura biologici, tenendo conto che l’orto può avere anche scopo ornamentale. Alla fine della manifestazione lo chef Angelo Rizzo, docente del laboratorio presso il Centro Diurno Polivalente di Caltanissetta, ha cucinato un couscous di verdure appena raccolte e offerte ai partecipanti a conclusione della benedizione. Oggi non si raccolgono solo i frutti offerti dalla nostra terra, ma anche il frutto della sinergia tra le aree sicurezza e educative dell’Istituto grazie all’impegno del Comandante Vice Commissario Corrado Pintaldi e di tutto il Personale di Polizia Penitenziaria e dagli educatori Anna Lisa Arcoleo e Vincenzo Indorato. Riportiamo parte del messaggio di uno dei detenuti che ha partecipato al progetto: “In questi mesi abbiamo visto crescere sotto i nostri occhi piccole piante, germogliare semi e raccolto frutti del nostro lavoro, ma anche le nostre piante in questi mesi hanno visto crescere noi. Aiutandoci con i loro silenzi a capire che la vita si coltiva”. Palermo: pet therapy all’Ucciardone, formati dieci detenuti di Stefania Brusca meridionews.it, 18 ottobre 2017 “Grazie al contatto coi cani sono tornati a sorridere”. Una volontaria del centro di accoglienza Padre Nostro parla della sua esperienza di 150 ore con le persone che hanno preso parte al percorso. Da una parte hanno imparato l’approccio corretto con i cani Kira e Sara, dall’altra hanno sperimentato le cure offerte da un metodo ormai ufficialmente riconosciuto dal ministero. In 150 ore non si può restituire la libertà a chi è in carcere ma si può far tornare la voglia di sorridere. Dieci detenuti dell’Ucciardone hanno concluso il percorso per diventare assistente operatore per la Pet therapy, un’iniziativa portata avanti dal Centro di accoglienza Padre Nostro. Kira e Sara sono i due cani Labrador che hanno accompagnato la formazione in incontri settimanali. Oggi alle ore 15 le persone che hanno preso parte alla formazione riceveranno gli attestati di competenza. Un progetto guidato anche da Nadia Adragna, volontaria e operatrice specializzata in Pet therapy. “È stata un’esperienza meravigliosa - racconta - finalmente il ministero della Salute ha riconosciuto questo tipo di terapia come valida ed emanato delle linee guida che prevedono ad esempio l’applicazione del metodo gentile che si contrappone al metodo coercitivo: ovvero se prima si ordinava al cane di stare seduto accompagnando il comando, ad esempio, con una pacca sul sedere adesso non si fa più ma si premia l’animale con un bocconcino che mangerà soltanto in quel contesto”. Una figura, quella dell’assistente specializzato, molto utile quando ad esempio “ci si trova in contesti come le scuole, alle prese con gruppi di bambini”. Quando la dottoressa è arrivata per la prima volta in carcere ha potuto costatare le difficoltà, anche emotive, dei detenuti: “Ho visto delle persone che non mi guardavano nemmeno in faccia, perché probabilmente temevano di essere giudicate - ripercorre - poi attraverso la presenza del cane, che ha fatto da catalizzatore, anche io sono riuscita a mettermi in contatto con i loro bisogni al di là di quelli a cui prestano maggiore attenzione, che scandiscono la loro giornata, come l’ora d’aria o leggere un libro. Attraverso la Pet therapy se non si può dare loro la libertà sicuramente si può trasmettere affettività e dargli la possibilità di mettersi in contatto con i propri sentimenti e poterli così esprimere”. La dottoressa spiega che per queste persone è utile vedere un cane per combattere la depressione che spesso si portano dietro: “Vedere il loro sorriso per me è stata la soddisfazione più grande”. La Pet therapy ultimamente è stata riconosciuta come valida scientificamente, ricorda la dottoressa, anche perché attraverso questa si aumenta la presenza di ormoni come l’ossitocina o di sostanze come le endorfine, ritenute responsabili del benessere, e si è visto che i livelli aumentano quando il paziente entra in contatto con l’animale. Inoltre l’attestato che queste persone riceveranno potrà essere fonte di occupazione per loro: “La Sicilia è all’avanguardia. C’è sempre più interesse a livello europeo e adesso anche l’Italia vuole tenersi al passo”, conclude Adragna. “Sicuramente è una cosa che noi tenevamo a fare - afferma Maurizio Artale, presidente del Centro di Accoglienza Padre Nostro - perché lavorando all’interno del carcere abbiamo visto che nelle persone private della libertà si accentuano disturbi o vengono fuori patologie che prima non avevano. Abbiamo visto che in qualche modo riescono a gestire meglio la propria salute, decentrando l’attenzione sull’animale”. Artale spiega che si è partiti inizialmente con l’idea di formare dei collaboratori per la Pet Therapy ma che per il prossimo anno l’intenzione è quella di sviluppare “la parte medica, per affrontare eventuali patologie sempre in stretto contatto con il personale dell’ospedale interno al carcere”. In definitiva il bilancio è quello di “un’esperienza positiva che ci ha spinto, in collaborazione con la direttrice del carcere Rita Barbera, a lavorare su una proposta di legge per introdurre i cani all’interno del carcere. Oggi è vietato - conclude Artale - mentre con la nostra proposta gli animali sarebbero custoditi in spazi dedicati e durante l’ora d’aria il detenuto potrebbe prendersi cura di loro, un modo per vivere meglio la propria condizione”. Domani il Centro di Accoglienza Padre Nostro donerà alla polizia penitenziaria una targa raffigurante il volto del Beato Giuseppe Puglisi, “affinché il suo sguardo possa sostenere gli agenti nello svolgimento del loro impegno quotidiano”. La targa è stata realizzata in occasione del bicentenario del corpo della Polizia Penitenziaria, celebrato lo scorso 20 settembre. Aversa (Ce): “E adesso la palla passa a me”, in un libro carcere e società a confronto Il Mattino, 18 ottobre 2017 Caritas diocesana di Aversa e l’Ufficio per la Pastorale sociale propongono un momento di riflessione su una questione di particolare rilevanza nel nostro territorio e nel nostro tempo. Il reato e la pena carceraria: responsabilità personali e condizioni sociali è tema che sollecita un’attenzione non occasionale per una crescita della nostra comunità territoriale, non solo etica e culturale, ma anche sociale ed economica. L’occasione è offerta dalla presentazione del lavoro di Antonio Mattone “E adesso la palla passa a me”, che avrà luogo domani, giovedì 19 ottobre, alle 17,30 presso l’Aula magna del Centro Caritas di Aversa (via S. Agostino n.4). Il libro in questione è frutto di una lunga ed efficace presenza in diverse istituzioni carcerarie, oltre che di un perdurante impegno di vicinanza a chi si trova in condizioni di deprivazione e di bisogno. Oltre alla presenza dell’autore Antonio Mattone, l’incontro vedrà la partecipazione del vescovo di Aversa, monsignor Angelo Spinillo, di Domenico Airoma, procuratore aggiunto presso il Tribunale di Napoli Nord e vicepresidente nazionale del Centro Studi Rosario Livatino, e di Salvatore Acerra, già Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria di Calabria. L’auspicio di Don Carmine Schiavone - Direttore della Caritas diocesana - e di Stefano Di Foggia direttore dell’Ufficio diocesano per la Pastorale sociale e del lavoro - è che “questo primo momento di riflessione comune sul tema possa favorire l’avvio di una fattiva condivisione di idee e di iniziative future”. “Pietro. La vita è una galera”. In carcere con la matita di Edoardo Semmola Corriere Fiorentino, 18 ottobre 2017 Il vignettista Giuliano Rossetti racconta il nuovo libro sull’ergastolano Pietro. “È uno dei miei primi personaggi, anzi sono io. La prigione? Metafora della vita”. Si intitola “Pietro. La vita è una galera”, il nuovo libro di Giuliano edito da Festina. Racchiude le storie del detenuto n. 35, alias Pietro, uno dei primi personaggi umoristici nati dalla penna graffiante di Giuliano Rossetti, già firma de “Il Male”, di molte riviste satiriche e ben noto ai lettori dei “Corriere Fiorentino” per le sue vignette che ogni giorno disegna per la prima pagina. “Quasi quasi, un’esperienza in carcere la farei anche”. Ma che dice, Giuliano Rossetti? Sta scherzando vero? “Fino a un certo punto. La galera ha qualcosa che mi affascina, un’idea di nido, di chiusura in se stessi, di isolamento. E poi di mestiere faccio il vignettista, il mio è un lavoro per cui rimanere chiusi e isolati è un bene. E potrei farlo anche da dietro le sbarre”. C’è da scommetterci che il secondo giorno vorrebbe subito scappar via... “Senza dubbio! L’evasione sarebbe la parte più bella. Ma dovrebbe essere spettacolare: alla Clint Eastwood! Fuga da Alcatraz, il film, è un mito assoluto. Come Il condannato a morte è fuggito di Bresson”. Ha un’idea fin troppo romantica del carcere. Da buon vignettista satirico però (da “Il Male” a “Satyricon” fino all’impegno quotidiano per il “Corriere Fiorentino”), sa ben ibridare romanticismo e cinismo, sarcasmo, surrealismo. Misceliamo tutto e viene fuori “Pietro”, 112 pagine di storie disegnate appena pubblicate da Festina Lente. Chi è il protagonista Pietro? “Un ergastolano della vecchia scuola, di quelli che ergastolo voleva dire non uscire mai. E uno dei miei primi personaggi, di oltre 40 anni fa. Pietro sono io: un filosofo atipico, che studia continuamente piani d’evasione, ma solo per venderli agli altri detenuti. Lui non scapperebbe mai: si è talmente assuefatto alla prigionia che non la lascerebbe per nessun motivo. E odia le amnistie”. Perché la vita è una galera - come recita il sottotitolo - e la galera è vita. Non si può scappare dalla vita. “La prigione del libro è una metafora della vita. È la solitudine. A me piace moltissimo la solitudine. Pensi che quando sono in macchina con mia moglie non ci parliamo mai. O meglio ci parliamo senza parlare, stiamo con noi stessi”. In un certo senso è quasi un libro di auto-analisi. “In un certo senso. Pietro parla spesso dell’ora d’aria ma lo si vede sempre in cella. Senza nemmeno una finestra”. Il vignettista è a suo modo un carcerato? “È un mestiere che si fa da soli. Anche Socrate, il mio gatto, aveva l’anima di un carcerato. Era un altro Pietro”. L’identificazione è totale. “Come mi sentivo Gesù quando disegnavo crocifissi. Mia moglie lo sa, ci ha messo 20 anni dei 55 che abbiamo passato insieme ma ormai ha capito che suo marito è strano (ride). Sto quasi tutto il giorno da solo a un ottavo piano a Novoli. Vedo gli aerei atterrare e ripartire. È la mia prigione comoda”. Pietro si confronta con altri detenuti, coi secondini, il direttore... “E con il prete, un altro personaggio a cui sono affezionato: si chiama Padre Terno, e anche a lui ho dedicato un libro in passato e ne sto preparando un altro. Come con Pietro, che la prima volta è uscito in forma di libro 40 anni fa. È un padre assurdo, è il prete che vorrei essere io. Un cattolico atipico, come me che vado in chiesa solo volte all’anno. Alcuni amici dicono che forse sono un prete mancato. Forse eh”. Quasi tutte le scenette è come se preparassero una battuta, una freddura. Ma poi quella raramente arriva. “Ho preferito raccontare storie. Tendo l’arco ma non scocco la freccia: la situazione conta più della battuta”. Pietro è identificato da un numero: il 35. Perché? “È il mio anno di nascita. Si capisce che sono io?”. E ha una divisa che ricorda la maglia della Juventus. “È l’unico cruccio che ho, purtroppo i carcerati erano vestiti così. Io sono il più anti-juventino che esista. Lo sono da quando sono nato a lo sarò quando morirò. Solo quando ci giocava Baggio tolleravo la Juventus”. Serve qualche freddura anche per i Radicali, che vogliono sempre tirare fuori il protagonista di galera. “Li ho anche votati, ai tempi de Il Male. Ero amico di Spadaccia e adoravo Pannella. Ma mi stavano e mi stanno tuttora un po’ sui cosiddetti. Ho avuto un nonno anarchico, amico di Gaetano Bresci (tra l’altro citato nel libro, ndr) che mi ha condizionato molto. Era uno dei pochi nonni che sapeva leggere. Ma leggeva solo Bakunin e altri anarchici. L’unico romanzo era I Tre Moschettieri” (Infatti anche Dumas è nel volume). I temi trattati sono tanti: economia, politica, tasse, famiglia, perfino il riscaldamento globale. “Tutto il mondo entra in carcere. Il carcere è la somma e la memoria di tutto. Se io pago le tasse, Pietro paga l’Imu sulla sua cella”. Battuta facile: è un libro d’evasione. O non è forse più serio di quanto si pensi? “È un libro d’evasione. Come una vignetta. Ma la vignetta è sempre seria. Perché il vignettista è un moralista: critica il mondo perché non gli piace per come va”. Il libro si chiude con una finta lettera scritta da Clint Eastwood in persona. “Per Clint, Pietro è un personaggio leggendario. Dice che se fosse stato ad Alcatraz ai suoi tempi, forse non sarebbe mai evaso”. Dal processo mediatico o all’hate speech di Angela Azzaro Il Dubbio, 18 ottobre 2017 Il legame tra le “sentenze” emesse dal popolo e l’uso del web per insultare e minacciare. È un meccanismo ormai consolidato, apparentemente ineluttabile, invincibile: è l’odio in rete. I motivi scatenanti posso essere i più disparati, a volte addirittura uno il contrario dell’altro, ma l’esito è sempre quello: si prende di mira qualcuno e lo si molesta, insulta, offende, maledice, fino ad arrivare a vere e proprie minacce. I più colpiti sono i politici e i personaggi famosi, ma basta dire qualcosa di poco condivisibile che chiunque rischia di trovarsi nella stessa situazione. La famosa massima “non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire” è stata parafrasata nel modo più violento: non sono d’accordo con te e vorrei che per questo tu morissi o comunque subissi una sorte maledetta. E la maledizione sembra impossibile da fermare. Se qualcuno viene insultato e denuncia la persona che lo insulta, l’insultante verrà a sua volta insultato. E via all’infinito: una catena d’odio che ha un inizio ma sembra non avere una fine. Onde gravitazionali - In attesa che le onde gravitazionali ci regalino anche l’alchimia perfetta per fermare per sempre l’hate speech, è importante riflettere, capire, cercare in tutti i modi una via d’uscita. Quello che ha fatto il G7 dell’avvocatura, promosso dal Cnf, dovrebbe essere anche il compito principale della scuola e della cultura: perché l’hate speech è un virus che sta minando dall’interno la stessa convivenza civile. Non pensiate che chi odia si senta partecipe dell’umanità, come chiede la famosa poesia di John Donne. No, l’odio non rende immuni dall’errore, semmai spinge a sentirsi al di sopra del bene e del male, semidei a cui tutto è dovuto. Il processo mediatico - I motivi per cui nella società del terzo millennio si è affermato il linguaggio dell’odio sono tanti. Ma, insieme allo smottamento sociale che ha radicalmente cambiato la classe media, c’è un altro motivo che sicuramente ha influito più degli altri: il processo mediatico. Negli anni 80, i giornali e soprattutto le telecamere sono entrati prepotentemente nelle aule di giustizia. La spettacolarizzazione del processo è diventata, negli anni successivi, sempre più invasiva, tanto da far dire ad alcuni giuristi che la tv lo abbia vampirizzato. Le sentenze, ancora prima che nelle aule del tribunale, vengono emesse da giornalisti, esperti, spettatori. E anche se si viene assolti, la condanna emessa dal circo mediatico non viene meno: si è colpevoli per tutta la vita e difficilmente si riesce a costruirsi un’altra vita. Dal format al macroformat - Questo modo di fare televisione (e di intendere la giustizia) inizialmente confinata in alcuni programmi come Un giorno in pretura, Chi l’ha visto?, Quarto grado, Forum, ha (quasi) divorato l’intera televisione, diventando il modello anche dei talk show politici e pomeridiani, dei reali- ty e dei talent. Pensate ai programmi X Factor, The voice o Amici: servono a scoprire talenti nel campo della musica e nel caso del programma di Maria De Filippi anche della danza. Stiamo parlando di quanto più lontano ci possa essere da un processo. Eppure anche nei talent tv ci sono gli imputati (i ragazzi che devono dimostrare la loro bravura), i pm che li accusano (sorta di esperti che li mettono alla prova), gli avvocati (i loro tutor) che li difendono. Infine c’è il voto, con tanto di giuria popolare (il televoto). Questo modo di fare la televisione (che ora Raiuno con il vice di rete, Andrea Vianello, sta tentando di contrastare) è diventata invasiva. Non si racconta la realtà. Ma la si processa e tutti si sentono, più che imputati, giudici con il ditino puntato. Dallo schermo alla realtà - Decenni di questa televisione hanno modificato il nostro modo di discutere e di fare i conti con la realtà. Non si cerca più di capire le ragioni dell’altro, di trovare un punto di mediazione: come se si fosse in un’arena televisiva si urla metaforicamente per imporre la propria idea, i propri valori, il proprio ragionamento, anche quando questo è fondato su dati falsi o notizie false. Importante è aver ragione. Ma in questi anni è successa anche un’altra cosa. Non si analizzano i fatti nella loro complessità, ma secondo uno schema molto semplificato: chi è il colpevole? Chi dobbiamo mettere alla gogna? Su chi dobbiamo scaricare tutte le responsabilità? Il capro espiatorio è sempre esistito e forse sempre esisterà. Ma nella società mediatica è diventato il perno centrale dello stare insieme, di fare società. Dalla realtà al web - La ricerca del colpevole, anche quando non c’è reato, è diventata la caccia principale dei social, dove tutto - ma veramente tutto - viene vissuto come un processo con condanna annessa: il lancio delle pietre virtuali contro il reo. Matteo Renzi ha una posizione politica su questo o quell’altro? La risposta non sono le critiche, ma gli insulti. La giornalista Francesca Barra lascia il marito per mettersi con un attore famoso? La si giudica e la si insulta. Il ditino è sempre puntato, sentendosi come Gesù nel tempio. Eppure proprio Cristo, per restare a una delle figure più importanti e fondanti della cultura occidentale, è colui che ancora oggi ci insegna a non giudicare. Chi non ha peccato scagli la prima pietra... Delitto e castigo - La grande letteratura faceva proprio questo: ci permetteva di identificarci nell’altro, in colui che sbaglia, che delinque, che uccide. Ci portava nell’inferno del suo cuore, come fa Dostoevskij in Delitto e castigo, per renderci immuni dal giudizio facile, dal sentirci superiori agli altri. In un altro bellissimo romanzo dell’autore russo, I fratelli Karamazov, Dostoevskij fa una vera e propria lezione di come si debba “giudicare”. Il personaggio dello starets Zosima, un monaco anziano che ha l’aura del santone, lascia il suo testamento spirituale: “Ricorda soprattutto che non puoi essere giudice di nessuno. Perché non vi può essere sulla terra nessuno che giudichi un criminale se prima non abbia riconosciuto di essere egli stesso un criminale come chi gli sta dinanzi, e di essere forse il maggior colpevole del delitto da questi commesso. Quando l’avrà compreso potrà anche diventare giudice. Per quanto assurdo possa apparire è proprio la verità”. Lo scrittore anticipa in questo bellissimo passo del romanzo anche un altro tema, quello dell’indignazione: “Se poi la malvagità degli uomini ti riempie di sdegno e di una pena insopprimibile fino a farti desiderare la vendetta contro i malvagi, temi questo sentimento più di tutto; non indugiare: cercati subito una pena, come se avessi colpa tu stesso della malvagità degli uomini. Accetta questa pena e sopportala e il tuo cuore si placherà”. Fanatismo - In fondo il ritratto che viene fuori dell’hater, dell’odiatore, è quella di un fanatico, dedito completamente alle sue idee. E per questa ragione che forse dovremmo leggere tutti il libro appena pubblicato in Italia dello scrittore Amos Oz, “Cari fanatici” (ed. Feltrinelli). In un intervista pubblicata da Repubblica, così Oz ne traccia il profilo: “Il vero fanatico non è interessato alle persone concrete né alla vita sociale quotidiana. Il suo è l’interesse per una fede e un’idea. Pensa di agire per il bene dell’altro ma in realtà vuole... un mondo in cui non c’è più l’altro”. Lo scrittore, che ha pensato questo libro per i nipoti, per coloro che verranno, indica tre strade da seguire per uscire da questa impasse: la buona scrittura, la buona politica, l’umorismo. Il legame tra il linguaggio dell’odio e le fake news è molto stretto. Le notizie false vengono diffuse appositamente per istigare all’odio, ma chi ci crede, senza interrogarsi, molto spesso lo fa perché privo di strumenti per capire e agire in un mondo così complesso come il nostro. I problemi che porta con sé il web sono nuovi, ma la risposta sembra quindi la stessa: più Stato di diritto e più cultura. Violenza maschile contro le donne. Le statistiche e le rappresentazioni di Stefano Ciccone Il Manifesto, 18 ottobre 2017 Un’emergenza agitata per alimentare l’odio e nascondere il vero problema. La violenza maschile contro le donne è al centro dell’attenzione: spettacolarizzata, offerta allo sguardo voyeuristico sulla sofferenza delle vittime o delle famiglie. Una rincorsa pornografica in cerca del frammento di orrore o dell’effetto commozione. L’emergenza violenza è agitata per alimentare l’odio e l’intolleranza che crescono nel paese e che il governo insegue e riproduce. Lo stupro di Rimini è stata l’occasione per questa campagna inciampata poi sulla violenza da parte dei due carabinieri, fino alla ragazzina cinese aggredita da un italiano a Milano. In questo contesto i dati del Viminale sulle denunce per violenza sessuale, per cui il 60% delle violenze denunciate sarebbe ad opera di italiani e il 40% ad opera di “stranieri” pur essendo questi minoranza, sono stati impugnati, purtroppo, non solo dalla destra. Il femminismo e la sinistra sono stati accusati di essere troppo titubanti nel condannare la violenza degli stranieri per un “politicamente corretto” ipocrita. L’alternativa sarebbe un’intransigenza che sulla violenza sulle donne “non guarda in faccia nessuno”? In realtà è perfettamente l’opposto: l’allarme sociale sulla violenza, ridotto a emergenza di ordine pubblico, a frutto di un’invasione di altre culture, non solo alimenta la xenofobia, ma ha il risultato di marginalizzare e rimuovere il fenomeno. Più si rappresenta la violenza come emergenza più la si può considerare estranea alla nostra “normalità”, come un’alluvione: il segno di una pazzia, di una barbarie da allontanare e non un problema che riguarda la nostra società, la nostra cultura. E così, dopo la nostra dose di orrore, commozione o indignazione, possiamo passare ad altro tranquillizzati. Noi uomini italiani possiamo metterci l’animo in pace: non c’è bisogno di metterci in discussione, non c’è nulla da cambiare nelle relazioni tra i sessi, nel nostro immaginario, nella nostra sessualità: basta delegare alle forze dell’ordine. Che significatività statistica hanno i dati forniti? Lo stesso Viminale afferma che si tratta solo del 7% delle violenze avvenute: il 93% non viene denunciato. La parte conosciuta e quella sommersa sono omogenee ed equivalenti per cui la prima è rappresentativa della seconda? È evidentemente più facile denunciare la violenza di un aggressore sconosciuto che non quella di un datore di lavoro, un parente o un’autorità religiosa. Gli stessi dati del Viminale mostrano che il numero di stranieri nel nostro paese è aumentato ma la percentuale di stupri operati da questi è diminuito. Che significato avrebbe questo dato? Che aumentando il numero degli stranieri diminuisce la loro propensione alla violenza? In realtà si tratta di numeri così parziali da avere una scarsa attendibilità e un’oscillazione casuale non significativa. La categoria “stranieri”, poi, è stata da tutti letta come “immigrati provenienti dall’Africa, dal sud, neri, arabi”. In realtà gli stessi dati ci dicono il contrario: la categoria comprende, come è ovvio, belgi, statunitensi, cinesi, australiani, libici, siriani, norvegesi… e la frequenza delle violenze è proporzionale alla numerosità delle comunità presenti. Anzi: anche se l’emigrazione dalla Germania o dalla Siria verso l’Italia non hanno le stesse dimensioni le violenze ad opera di tedeschi sono il doppio di quelle commesse da siriani. Già Saporiti, sul Sole24ore del 17 settembre, mostra, confrontando la numerosità dei residenti italiani e dei residenti stranieri con la numerosità dei detenuti per reati sessuali, come i dati siano travisati. Studi come quelli di Elisa Giomi dell’Università di Roma 3, mostrano che la realtà è esattamente l’opposto: i casi di violenza ad opera di stranieri vengono riportati dai media 7 volte di più di quelli ad opera di italiani. Tornando al Viminale, e dunque non ai detenuti ma alle denunce, il risultato non cambia. 25 sono gli autori di stupro dell’Europa dell’ovest, 5 del nord America, 110 del sud e centro America, 173 dall’Asia. La nazionalità cinese, in genere in ombra, mostra 17 autori, il doppio della repubblica serba e più di cinque volte dei libici. Gli autori di stupro provenienti dai circa 50 stati dell’Africa sub sahariana sono 203, il 12,7 %, quelli provenienti dal Maghreb 330, poco meno del 21%. Ma, soprattutto, le vittime, che nella percezione della notizia sarebbero tutte italiane, corrispondono di nuovo a tutte le comunità. L’immagine di immigrati sbarcati sulle nostre coste che violentano le donne italiane non ha dunque corrispondenza statistica. Come diciamo da venti anni la violenza non può essere attribuita a una nazionalità, a una cultura o a un livello sociale: è opera di parenti, amici e colleghi. Le 1.539 denunce per stupro sono, inoltre, solo una piccola parte dei reati che riguardano la violenza maschile (lo stalking, le percosse, le uccisioni…). Sulle uccisioni i dati ci dicono che gli italiani sono la stragrande maggioranza. I numeri, dunque non giustificano la strumentalizzazione xenofoba della violenza. Ma la cultura securitaria e razzista che militarizza le nostre città non è solo contro gli immigrati, è contro le donne. La riproposizione di una società chiusa, anche se usa il rispetto delle donne come valore contro altre culture è nemica della libertà femminile. Lo stesso vale per la lettura dei diritti delle persone omosessuali in funzione islamofoba. La rappresentazione di una contesa tra uomini con le donne poste sotto tutela e protezione maschile è linearmente connessa con un ruolo di potere. Le donne e i minori posti sotto quella l’autorità paterna che, fino al 1975, esercitava l’uso dei mezzi di correzione anche sulla moglie. Ma possiamo negare le differenze tra culture? Certamente no. Eppure i media, come abbiamo visto, mescolano paesi africani islamici, cristiani e animisti. Se la violenza è trasversale, la condizione di segregazione coatta, di isolamento ed esclusione contribuisce a produrre comportamenti violenti. Le politiche di inclusione, di ricongiungimento familiare, di recupero di condizioni di vita e relazionali umane contrastano la violenza più di politiche che accrescono la marginalità. Sarebbe poi opportuno cogliere, con le differenze esistenti, gli elementi che attraversano culture rappresentate come incompatibili: la rimozione sociale del desiderio femminile, la tendenza a normare i corpi femminili, la rappresentazione di uno sguardo e un desiderio maschili che “consumano”, violano e degradano e che porta o a coprire i corpi femminili o a esporli come merce. E sarebbe opportuno riconoscere le differenti “culture” non come entità omogene e costanti nel tempo: l’irrigidimento integralista nelle diverse comunità islamiche non come residuo del passato ma moderna risposta politico identitaria, i conflitti agiti dalle donne nelle società non occidentali, la distinzione tra tradizioni culturali e dettami religiosi. Ma l’obiezione ricorrente è: “va bene ci sarà anche la violenza degli italiani, ma intanto cominciamo col non far entrare altri stupratori”. In questo avverbio: “intanto”, si nasconde l’ipocrisia della retorica xenofoba: rimandiamo la violenza contro le donne al momento remoto in cui avremo chiuso le frontiere e espulso l’ultimo “straniero”, nel frattempo parliamo d’altro. Malta. Pista azera e “alte sfere” per l’assassinio della giornalista Caruana Galizia di Yurii Colombo Il Manifesto, 18 ottobre 2017 Panama papers e altre storie. L’isola mediterranea governata da Joseph Muscat è diventata un mega-affare nelle mani dell’Azeirbaijian guidato dalla famiglia Aliev. La notizia dell’omicidio della giornalista maltese Dauphne Caruana Galizia è giunta come un uragano sulle scrivanie delle redazioni di tutto il mondo. Galizia era conosciuta per la sua tenace attività di denuncia del governo di Joseph Muscat, per il suo rigore e rettitudine tra i giornalisti di tutto il mondo. Un omicidio che sta sconvolgendo in queste ore il mondo politico di Malta e sta commuovendo e mobilitando l’opinione pubblica maltese e internazionale. Non a caso lo stesso Joseph Muscat, che era stato oggetto delle inchieste e delle accuse di Galizia, ha sentito la necessità non solo di condannare “l’atto barbaro” ma di chiedere aiuto della sezione europea delÌFbi per risolvere il caso. Anche la Chiesa maltese è scesa in campo ieri a suo modo. L’ arcivescovo monsignor Charles Scicluna, dopo aver condannato l’accaduto ha cercato di stendere un pannicello caldo sulla ingombrante vicenda: “Questo non è il momento di innescare guerre tra noi” bensì di “difendere la dignità di ciascuno… il grande valore della democrazia” ha affermato l’alto prelato. L’assassinio di Galizia riporta a galla uno dei più importanti scandali politico-finanziari del decennio, i Panama Papers, un fascicolo di oltre 11 milioni di files, reso pubblico nel 2015, che dimostrava come politici, managers e imprenditori di tutto il mondo avessero eluso al fisco o riciclato per molti anni enormi quantità di danaro nei paradisi fiscali, e il cui capitolo maltese porta a Baku e le cui trame si snodano fino a Londra e ad Ankara. Trame invisibili fatte di scatole cinesi finanziarie, riciclaggio, corruzione, business della rendita energetica. Da allora Galizia si mise con testardaggine a studiare i legami inconfessabili che intercorrevano tra il premier maltese e lo Stato azero. L’Azerbaijan, paese ricco di greggio e di gas naturale, è retto da dopo crollo dell’Urss dalla famiglia Aliev, che amministra il paese come una proprietà personale. Dopo la morte nel 2003 di Heidar Aliev, già boss del partito comunista azero, è subentrato alla presidenza il figlio Ihlam che governa il paese con il pugno di ferro, grazie alla onnipresente polizia segreta. Alle due figlie ha affidato la gestione della Socar, una società formalmente statale, che amministra la rendita petrolifera del paese. Spulciando nei files dei Panama Papers Galizia non solo venne a scoprire che le figlie di Alyev attraverso la Socar ammassavano all’estero enormi quantità di gioielli e azioni di aziende minerarie britanniche ma che la FA Invest di Malta aveva acquistato il 6.5% delle azioni della azienda di telecomunicazione azera Azercell, società anch’essa indirettamente controllata dalla famiglia Aliev. Nel gioco delle società offshores la FA maltese risultò poi collegata a società turche che venivano gestite dallo stesso amministratore panamense. Nel 2014 il premier maltese Muscat si recò, inusualmente senza informare la stampa, a Baku per firmare alcuni contratti di “collaborazione strategica” per lo sfruttamento di quote di gas azero, con la Socar, la società delle vistose figlie di Aliev. La riservatezza dell’incontro indusse a pensare - anche ai meno maliziosi - che fosse stata favorita nell’accordo una società maltese legata al ministro per l’energia Konrad Mizzi (il quale a sua volte era presente nei Panama Papers in qualità di socio di società offshores). Muscat continuò per lungo tempo a respingere le “insinuazioni” e a negare il “linkage” ma il 20 aprile scorso, Galizia inchiodò il primo ministro maltese pubblicando sul suo blog una serie di bonifici (di cui il più significativo di 1 milione di dollari) a favore della società panamense Egrant di proprietà della moglie di Moscat, provenienti dal conto corrente aperto a Malta presso la Pilatus Bank dalla Al Sahra Fzco, guarda caso, una società che fa riferimento alla primogenita di Aliev, Leyla. Una scoperta costata molto cara. Il puzzle criminale si compone perfettamente se si aggiunge, cosa che non ha potuto scoprire purtroppo Galizia, che lo Stato azero è azionista della nuova centrale elettrica di Malta e che la Egrant venne fondata proprio negli stessi giorni in cui Aliev ricambiava la precedente visita di Muscat, atterrando a La Valletta. Gran Bretagna. Lo scandalo dei clochard con un biglietto di sola andata di Luigi Ippolito Corriere della Sera, 18 ottobre 2017 Un viaggio senza ritorno. È la soluzione escogitata da molte città in Inghilterra per venire a capo del problema dei senzatetto, che dormono in gran numero per le strade dei centri urbani. Negli ultimi anni le autorità locali inglesi hanno speso migliaia e migliaia di sterline per comprare biglietti ferroviari di sola andata per gli homeless: che vengono caricati sui treni e spediti senza tanti complimenti verso altre destinazioni. La motivazione ufficiale è che si punta a rimandarli verso le famiglie di origine, ma un’inchiesta della Bbc ha svelato che i biglietti messi a disposizione erano in molti casi per posti mai visti prima. In Inghilterra si stima che ci siano oltre 4 mila persone che vivono per strada: una cifra che è cresciuta del 130 per cento negli ultimi sei anni (e le associazioni di beneficenza ritengono che si tratti di dati approssimati per difetto). La città di Manchester ha speso 10 mila sterline per mandar via i senzatetto con i treni e ha perso il conto di quante persone sono state coinvolte, mentre la località costiera di Bournemouth ha organizzato 144 di questi “viaggi”. Le associazioni umanitarie accusano: si tratta di una forma di “pulizia sociale” che vede le autorità locali “abdicare alle loro responsabilità”. E fanno notare che spedire i senzatetto da un posto all’altro senza offrire ulteriore sostegno non rappresenta certo una soluzione, anzi aggrava il problema perché li espone a ulteriore isolamento e rischi per la salute fisica e mentale. Anni di austerità e di tagli ai servizi pubblici hanno esacerbato la frattura sociale in Inghilterra: se nel centro di Londra si assiste a esibizioni di ricchezza a volte imbarazzanti, basta prendere un treno verso una città del Nord come Manchester per osservare scene da Terzo mondo, con giovani volontari che la sera vanno in giro per le strade a distribuire viveri e acqua ai senzatetto. Il governo sta investendo 550 milioni di sterline per affrontare la crisi. Ma qualcuno ha pensato che un biglietto di sola andata potesse essere una soluzione più rapida. Non è così. Stati Uniti. Giudice delle Hawaii blocca il nuovo bando agli immigrati La Repubblica, 18 ottobre 2017 Il magistrato è lo stesso che a marzo aveva fermato il provvedimento precedente. E anche la motivazione è sempre la stessa: il divieto crea discriminazione. La Casa Bianca: decisione “pericolosamente errata”. Anche l’ultima versione del “travel ban” di Donald Trump si arena in tribunale. Un giudice federale delle Hawaii ha bloccato l’ordine esecutivo firmato dal presidente il 24 settembre scorso, che prevede restrizioni per l’arrivo negli Stati Uniti da otto Paesi. Il provvedimento sarebbe dovuto entrare in vigore a mezzanotte ora locale (le sei di domani in Italia). Il giudice Derrick Watson, che a marzo aveva già bloccato il precedente bando di Trump, ha motivato ancora una volta la sua decisione con il fatto che il provvedimento crea una discriminazione e viola le leggi federali sull’immigrazione. Il magistrato ha accolto la richiesta dello Stato delle Hawaii, secondo cui la misura è la continuazione della “promessa di Donald Trump di escludere i musulmani dagli Usa”. Nell’ultima versione del provvedimento, firmata dal presidente il 24 settembre scorso, sono a maggioranza musulmana soltanto sei degli otto Paesi inclusi nel divieto di ingresso. A questi sei (Iran, Libia, Siria, Yemen, Somalia, Ciad) si riferisce la decisione del magistrato. Rimangono quindi valide le restrizioni imposte ai cittadini della Corea del Nord e ad alcune persone legate al governo venezuelano. La direttiva “soffre esattamente delle stesse tare del precedente: manca di prove valide del fatto che l’ingresso di oltre 150 milioni di individui da sei specifici Paesi sarebbe nocivo agli interessi degli Stati Uniti”, ha scritto nelle 40 pagine di motivazione il giudice Watson, nominato da Barack Obama. E ancora: “Discrimina platealmente sulla base della nazionalità, in modo già giudicato antitetico ai principi fondanti di questa nazione”. La Casa Bianca ha bollato come “pericolosamente errata” la decisione del magistrato. Esprimendo fiducia nelle deliberazioni future dei tribunali, ha ripetuto che “queste restrizioni sono vitali per garantire che le nazioni straniere rispettino gli standard di sicurezza minimi per l’integrità del sistema e la sicurezza” statunitensi. E ha annunciato che il dipartimento della Giustizia “difenderà vigorosamente l’azione legale del presidente”, il che significa che impugnerà la stop imposto da Watson. Nel nuovo ordine esecutivo (il terzo), fondato da Trump sull’assunto che quegli otto Paesi rappresentano una minaccia alla sicurezza nazionale, ci sono alcune importanti differenze rispetto ai primi due bandi. In primo luogo non si tratta di divieti temporanei, come i precedenti che avevano una durata di 90 giorni, ma di un blocco agli ingressi senza limiti temporali. Tuttavia i singoli Paesi possono eliminare il divieto rispettando una serie di richieste sulla sicurezza stabilite dall’amministrazione di Washington. Ogni divieto ha restrizioni e linee guida specifiche per ogni singolo Stato. Ad esempio l’Iran potrà continuare a mandare i propri cittadini a studiare negli Usa, anche se saranno sottoposti a controlli più approfonditi prima di entrare. I somali invece potranno viaggiare negli Stati Uniti, con controlli molto severi in entrata, ma non potranno più richiedere un visto di lavoro o di studio. Quella intentata dalle Hawaii non è l’unica azione legale contro il bando. Gli Stati di Washington, Massachusetts, California, Oregon, New York e Maryland hanno portato la questione davanti alla giustizia di Seattle, nella persona del giudice Robart in Seattle, lo stesso che in gennaio affossò la prima versione del provvedimento di Trump. Il quesito giuridico posto dalla vicenda è se il presidente abbia o meno l’autorità per intervenire in questa materia. E ci sono pochi dubbi sul fatto che questo ennesimo scontro legale dell’era Trump finirà alla Corte suprema. Libia. In corso i trasferimenti dei 14.000 migranti detenuti nei lager di Sabrata mediterraneocronaca.it, 18 ottobre 2017 Al termine del conflitto tra brigate nel distretto di Sabrata sono venuti fuori i lager in cui venivano detenuti i migranti che adesso vengono smistati in altri centro sotto l’egida dell’OIM. A casa molti sudanesi. Sabato, a Zawiya, il Consiglio municipale, il Consiglio degli anziani, la Direzione della sicurezza, gli ufficiali della zona militare occidentale, il capo della Guardia dei depositi petroliferi, il responsabile locale dell’intelligence e rappresentanti di diverse organizzazioni della società civile si sono seduti intorno ad un tavolo per discutere sulle sorti di Sabrata dopo gli scontri che hanno visto sconfitti i miliziani della Brigata 48 dello “Zio” al-Ammu Dabbashi. La preoccupazione per la provincia riguarda la sicurezza della zona ma anche gli affari. Dopo la riunione, le brigate Al-Farouq e Al-Kilani hanno annunciato la loro dissoluzione e la consegna delle loro armi al Ministero della Difesa del Consiglio Presidenziale. Lo riporta il quotidiano locale Libya Observer sottolineando la preoccupazione emersa nel corso della riunione circa la possibilità che Sabrata possa essere il teatro di una vera e propria guerra. Nel frattempo, la prima conseguenza degli scontri che hanno causato la dipartita dei Dabbashi è la rivelazione del numero e dello stato in cui venivano detenuti i migranti nel distretto. Oltre 14.000 migranti erano rinchiusi in vari centri di detenzione dislocati nella zona di Sabrata. Quotidianamente avvengono trasferimenti ed i migranti vengo smistati tra Zuwara - già porto di lancio dei trafficanti per le barche cariche di migranti - e altri centri dislocati tra Trig al Seka, Ghariyan, Tajoura, Trig al Matar e la capitale Tripoli. Che questa detenzione, illegale ed inumana, fosse conseguenza di un impegno preso dalla Brigata Dabbashi o degli accordi con l’Italia non è dato saperlo con certezza. Quel che è certo è che dei migranti si sta occupando l’Oim e che per loro la stessa Italia, come annunciato dal ministro degli Esteri Angelino Alfano lo scorso venerdì, sta inviando aiuti umanitari. Il volo, operato dell’Aeronautica Militare, trasporta tende, coperte, materassi e kit igienici destinati ai migranti ospiti del Centro di accoglienza di quella città. La stessa Organizzazione Internazionale per le Migrazioni sta gestendo con il Governo del Sudan il ritorno a casa dei migranti sudanesi trovati nei lager di Sabrata. L’ambasciata sudanese in Libia ha quindi rilasciato già domenica i primi documenti di viaggio temporanei per i cittadini detenuti nei centri-lager nei pressi di Tripoli. Il ritorno in patria dovrebbe avvenire dall’aeroporto di Mitiga, alle porte di Tripoli, che attualmente è chiuso a causa degli scontri a suon di artiglieria pesante con si è questa mattina risvegliata la zona. La condizione di instabilità della Libia, con la capitale assediata dai gheddafiani e minacciata dalle Forze di Haftar, non offre però grandi garanzie per i migranti che non riusciranno a tornare in patria o che non potranno farlo. Il rischio è quindi che le vecchie milizie di trafficanti che operavano nello stesso distretto di Sabrata e nei piccoli porti di Zawiya e Zuwara possano rimettere in piedi il traffico armando gommoni e carrette del mare per “sgomberare” l’area da subsahariani già sufficientemente spremuti dai loro precedenti aguzzini. Se così fosse, il flusso migratorio potrebbe ripartire anche in pieno inverno, perché l’obiettivo non sarebbero i proventi di spedizioni ben riuscite ma semplicemente quello di disfarsi di bocche da sfamare nel momento in cui le Ong dovessero abbassare la guardia. Myanmar. 15.000 rifugiati bloccati al confine con il Bangladesh La Repubblica, 18 ottobre 2017 L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) segnala le condizioni in cui versano migliaia di nuovi arrivati bloccati lungo il confine tra il Bangladesh e il Myanmar. A partire da domenica notte, tra i 10.000 e i 15.000 rifugiati Rohingya sono entrati in Bangladesh passando il confine a Anjuman Para nel distretto di Ukhia nel sud est del Paese. Molti riferiscono di aver scelto inizialmente di restare in Myanmar nel nord dello Stato di Rakhine nonostante le continue minacce di morte ricevute, e solo quando i villaggi sono stati incendiati le persone sono state costrette a scappare. Settimane di cammino prima del confine. I rifugiati con i quali i membri dello staff dell’Unhcr hanno parlato ieri, raccontano di aver camminato per una settimana intera prima di raggiungere il confine con il Bangladesh, alcuni lo hanno attraversato domenica notte, altri lungo tutta la giornata di lunedì tra il caldo e le piogge. Fino a questa mattina le persone occupavano le risaie del villaggio di Anjuman Para in Bangladesh. Stanno aspettando il permesso per allontanarsi dal confine, da dove è possibile sentire gli spari ogni notte dal versante del Myanmar. L’Unhcr e i suoi partner, la Mezzaluna Rossa del Bangladesh, Azione contro la Fame, stanno distribuendo cibo e acqua ai rifugiati in difficoltà, tra questi donne e bambini fortemente disidratati e affamati dopo un lungo cammino. Lo staff dell’Unhcr sta lavorando con Medici Senza Frontiere per identificare le persone malate e che hanno bisogno di assistenza medica. Una guerra contro il tempo. L’Unhcr sta chiedendo con urgenza alle autorità del Bangladesh di permettere l’ingresso a queste persone che fuggono dalle violenze e dalla difficile situazione nel loro Paese d’origine. Ogni minuto conta per queste persone in una condizione così fragile. Per far fronte a questo nuovo afflusso di persone, l’Unhcr sta lavorando con il governo e altri partner per ultimare un nuovo centro di transito dentro l’insediamento di Kutupalong con una capacità di 1.250 persone. Sono in corso anche i preparativi per accogliere i nuovi arrivati nelle scuole di Kutupalong. Allo stesso tempo, l’Unhcr sta lavorando per accelerare l’apertura del nuovo campo “Kutupalong extension” per evitare di aggiungere pressione nelle altre aree del campo già altamente congestionate. A partire dallo scorso 25 agosto sono circa 582.000 i rifugiati arrivati in Bangladesh dal nord dello Stato di Rakhine in Myanmar in seguito alla nuova ondata di violenze.