Giustizia, la lentezza va contrastata di Pietro Ichino Corriere della Sera, 17 ottobre 2017 Il ministero sta tergiversando, non solo per motivi economici, sull’utilizzo di una agenda elettronica che migliorerebbe la calendarizzazione. Pochi sanno che all’inizio di ogni giudizio civile la legge obbligherebbe il giudice a fissare e comunicare alle parti l’intero Calendario del processo, con data, orario e durata di ciascuna udienza, fino alla discussione finale. Ricerca teorica e osservazioni empiriche mostrano che se questa regola (articolo 81-bis disp. att.) venisse applicata, e se la programmazione rispettasse il principio di concentrazione e trattazione delle cause in modo sequenziale (first in, first out, per categoria di giudizio), si potrebbe ridurre e forse anche dimezzare la durata media dei procedimenti, a parità di carico di lavoro per i magistrati. Senonché questo non accade quasi mai, perché i magistrati non hanno lo strumento informatico indispensabile per farlo. Ora, immaginiamo che al ministro della Giustizia italiano, alle prese con l’amministrazione giudiziaria più lenta del mondo, un giorno venga offerto questo strumento: un’agenda elettronica intelligente e personalizzabile, che consente al giudice di fissare l’intero calendario di ciascun processo fin dall’inizio, secondo un ordine logico che tiene conto delle diverse categorie di giudizi, e gli consente di operare facilmente gli aggiustamenti necessari strada facendo. Immaginiamo, poi, che alcuni giudici stiano sperimentando questa agenda da tre anni e ne siano entusiasti; e che anche il giudizio degli esperti del ministero sulla funzionalità dell’applicazione sia, senza riserve, positivo. Immaginiamo infine che i suoi ideatori la offrano al governo gratis, con la sola richiesta che essa sia messa a disposizione dei magistrati interessati ad avvalersene. Non sarebbe questa un’occasione imperdibile per provare ad avviare a guarigione una delle piaghe più gravi del nostro Paese? Questo strumento che consente la fissazione e gestione del Calendario del processo esiste davvero: si chiama A-Lex. Da due anni, però, il ministero della Giustizia, pur investito della questione ai massimi livelli, sta tergiversando: manifesta apprezzamento a parole ma rinvia di mese in mese l’accettazione di quanto gli viene offerto e l’ampliamento della sperimentazione. Ne comprenderemmo le ragioni se il ministero rispondesse: “È troppo caro, non possiamo acquistarlo”; ma l’offerta è gratuita. Oppure se rispondesse: “I magistrati dispongono già di un’agenda elettronica che consente di fare il Calendario del processo”; ma i nostri giudici non ne dispongono affatto: quasi tutti usano soltanto agende cartacee, oppure ricorrono alle agende (non intelligenti) offerte da Google o da Microsoft Outlook. Cosa che rende sorprendente l’unica obiezione esplicitata dal ministero riguardo ad A-Lex, ossia il rischio di violazioni della “privacy”. Ma le agende di Google o di Microsoft Outlook che i giudici sono costretti a usare sono assai meno protette e più a rischio di intrusione di quanto sia un’applicazione come A-Lex, impostata secondo gli standard migliori per la sicurezza informatica, inserita all’interno del sistema informatico dell’amministrazione. Temiamo che il vero motivo del rifiuto sia un altro: in seno al ministero potrebbe esserci qualche dirigente preoccupato dal confronto di quanto si è fatto e speso fin qui per l’attrezzatura informatica degli uffici giudiziari con quanto un gruppo di cittadini volenterosi sono riusciti a realizzare in collaborazione con un piccolo ma efficientissimo produttore di software, con un costo di soli 300.000 euro raccolti dalla Fondazione Giuseppe Pera grazie al contributo e al sostegno di una Fondazione bancaria lucchese, quattro grandi associazioni imprenditoriali e alcune persone che non chiedono niente in cambio. Ma questa non è, evidentemente, una buona ragione per rifiutare di proseguire ed estendere la sperimentazione di una applicazione che potrebbe contribuire a guarire la malattia più grave della Giustizia italiana. Ministro Orlando, se ritiene di rifiutare la donazione, le chiediamo di spiegarne le ragioni all’opinione pubblica. Legittima difesa, legge che resta una priorità di Paolo Graldi Il Messaggero, 17 ottobre 2017 Si riaccende la polemica sulla legge che delimita i casi in cui invocare la legittima difesa. E configurare gli eccessi, fino all’omicidio volontario. Il caso che fa scendere in campo le opposte fazioni (chi la vuole più rigorosa e chi più larga) è quello dell’avvocato di Latina che ha sparato (alle spalle) a un ladro che stava assaltando la dimora del padre, arrampicato su una scala. Francesco Palumbo, avvocato, 47 anni, ha ripercorso attimo dopo attimo quei momenti terribili, da quando avvertito con tre sms collegati all’allarme elettronico ha capito che c’erano degli intrusi nella casa del genitore, a quando si è infilato in tasca la pistola (regolarmente denunciata) ed è accorso laddove ha visto dapprima il “palo” e poi i due complici, una “paranza” di pregiudicati napoletani. L’ucciso ha diversi precedenti per furto. “Ho perso la testa”, ha ammesso l’avvocato, sconvolto per l’accaduto. Si difende affermando di aver sparato in aria ma la ricostruzione dei fatti fissa precise responsabilità, che andranno tuttavia approfondite attraverso le perizie già in corso. Sta il fatto che, ascoltato per tutta la notte, Palumbo si deve difendere dall’accusa di omicidio volontario: i colpi alle spalle di un uomo su una scala. Dice che ha avuto paura: il ladro aveva messo una mano in tasca, come per afferrare un’arma. La legge esistente, si sa, fissa contorni abbastanza precisi sulle circostanze in cui è possibile far uso di un’arma. Il pericolo dev’essere reale, le circostanze di luogo e di tempo debbono rappresentare un comportamento non genericamente pericoloso. Si è dibattuto a lungo sulla materia. La nuova legge che è in discussione, e che tarda ad essere approvata, sembra riuscire a fissare un accettabile equilibrio, un onorevole compromesso, tra chi sostiene che sparare a chi viene scoperto in casa propria basta e avanza per giustificare l’atto e chi afferma che ciò non è accettabile a scatola chiusa e che, sempre, deve scendere in campo l’analisi dei fatti compiuta da un magistrato. Al togato si chiede di stabilire se il comportamento del derubato che ha sparato rientra nei binari considerati leciti. Chi insegue il ladro che scappa e lo fulmina sparandogli alle spalle, per esempio, è considerato colpevole, nessuna legittima difesa lo protegge. Ora che il tragico episodio di Latina ha rimesso in moto la macchina delle polemiche e delle contrapposte posizioni e ora che anche l’Associazione Nazionale Magistrati fa sentire la sua voce per chiedere di ridisegnare la legge in discussione, ecco che si riaccende il dibattito tra chi sostiene che le norme esistenti hanno bisogno di allargarsi o di restringersi, a seconda di chi vuole lo sparo libero e chi ne vuole ridurre la possibilità a rarissimi casi. La realtà è che un singolo episodio non può essere utilizzato per orientare i lavori del Parlamento. Perché legiferare sull’onda emotiva di casi caldi di cronaca, come anche cavalcare i furori e le paure (anche quelle fondate) della gente, non consente di elaborare norme che tengano conto di tutti gli interessi che sono in gioco. Quel che è certo è che la legittima difesa è un diritto sacrosanto e nessuno può metterlo in discussione; ovviamente, come tutti i diritti, deve avere un confine entro il quale tutti debbono riconoscersi, anche quelli che pensano che ammazzare i ladri, sempre e comunque, sia una buona e saggia cosa. Ma per indicare sapientemente quei limiti occorrono menti fredde, lucide e non condizionate dalle emozioni. Separazione carriere dei magistrati: raccolte più di 70mila firme per la proposta di legge di Patrizia Scotto di Santolo stamptoscana.it, 17 ottobre 2017 Il traguardo delle 50mila firme per la proposta di legge costituzionale che introduce la separazione delle carriere dei magistrati nel nostro ordinamento, promossa dall’Unione delle Camere Penali, per l’attuazione al precetto sulla terzietà del giudice inserito nella nostra Carta Costituzionale (art. 111), ha toccato nel mese di ottobre quota 70mila. Un bel numero di sottoscrizioni più che necessarie a presentare in Parlamento una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare. Ne parliamo con l’avvocato penalista con studio a Prato, Costanza Malerba, responsabile commissione carceri camera penale di Prato, già presidente delle camere penali di Prato, avvocato del comitato per la raccolta firme per la separazione delle carriere dei magistrati. Cosa si intende per “separazione delle carriere” in magistratura? “Innanzitutto a noi interessa attuare il dettato dell’art.111 della costituzione, che impone l’imparzialità e la terzietà del giudice e sottolineare che la terzietà vuol dire appartenenza di un Giudice ad un ordine diverso da quello del Pubblico Ministero. Noi chiediamo la separazione delle carriere attraverso concorsi differenti, in modo da garantire che il giudice sia diverso sia da chi accusa che da chi difende. Ci sarebbero dunque anche Csm separati, affinché un giudice non possa mai essere giudicato disciplinarmente da un pubblico ministero”. Secondo lei questa separazione potrebbe produrre nel nostro Paese un migliore andamento della giustizia penale? “Il giudice non può avere l’identica cultura di chi fa le indagini. Non devono essere colleghi, né legati nello scopo di combattere questo o quel crimine, ma soprattutto si deve sgomberare il campo dal fatto che la possibilità di carriera dell’uno possa dipendere dall’altro”. Un modo per avvicinare la magistratura italiana a quella europea? “La proposta di riforma delle Camere Penali che intendiamo portare avanti ha anche come obiettivo quello di modificare l’attuale assetto ordinamentale per allinearlo con i principi e valori del processo accusatorio e adeguarlo al resto dell’Europa. Infatti mentre in altri paesi c’è un “giudice terzo” che esercita il proprio ruolo in modo imparziale, nel nostro Paese a governare con le proprie decisioni non solo ciò che attiene ai diritti e alle garanzie individuali, ma che spazia in quelli dell’economia, dell’ambiente, dello sviluppo tecnologico, è un “giudice che non è giudice” in quanto privo del requisito costituzionale della “terzietà”. Se vogliamo ricollocarci all’interno di un contesto europeo dobbiamo tracciare una linea di confine all’azione della magistratura penale e operare affinché la politica assuma la responsabilità del governo della società, non delegandole ai giudici”. Come mai si è sentita soltanto ora l’esigenza di promuovere una raccolta firme per per “la separazione delle carriere?” “La tradizione inquisitoria del processo penale promossa dalla Carta Costituzionale del 1948 è stata definitivamente abbandonata con la riforma del codice di procedura penale del 1988 e successivamente dell’articolo 111 della legge costituzionale del 1999, che stabilì la formazione della prova in dibattimento, nel contraddittorio delle parti, davanti a un giudice terzo e imparziale, e dunque il Legislatore ha scelto già allora, di voler adottare il modello accusatorio nel processo penale. E oggi con oltre settantamila firme raggiunte in pochi mesi abbiamo dimostrato come il tema posto dall’Unione delle Camere Penali non sia solamente una necessità degli avvocati ma rappresenti, invece, una esigenza diffusa anche nei cittadini, nonostante l’apparente tecnicità dell’argomento. Molto probabilmente sono questi i tempi perché si arrivi ad una magistratura inquirente distinta e separata da quella giudicante, in virtù del principio costituzionale del giusto processo”. Magistrati e politica, a rischio la legge chiesta pure dall’Anm di Errico Novi Il Dubbio, 17 ottobre 2017 L’appuntamento è per sabato pomeriggio. Quella su “Magistratura, politica e informazione” sarà la sessione clou in programma nel secondo giorno del congresso Anm di Siena. Si parlerà di diversi temi. Di quelli affrontati da Sergio Mattarella, innanzitutto: la toga “non è un abito di scena”, ha ricordato il presidente della Repubblica, in un discorso ai giovani magistrati in cui ha esortato a non sovrapporre opinioni personali e giurisdizione. Nel dibattito interverranno il presidente dell’Anm Eugenio Albamonte e il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, il presidente delle Camere penali Beniamino Migliucci e alcuni parlamentari. E sarà inevitabile soffermarsi anche su un’altra questione: le regole sulla partecipazione di giudici e pm alla politica. Ambito in cui si registra un paradosso: proprio le toghe invocano una legge che fissi paletti severi, soprattutto sul rientro in servizio dei magistrati reduci da esperienze parlamentari o di governo, ma sono le Camere che rischiano di fallire colpo. “A riguardo”, ricorda Albamonte al Dubbio, “ho espresso un’opinione chiara: un magistrato che, legittimamente, abbia scelto di fare politica non dovrebbe più tornare né in Procura né in Tribunale. Il Csm ha approvato, più di due anni fa, una delibera in cui invita il Parlamento a prevedere appunto che dopo un’esperienza politica si venga assegnati per esempio al ministero o all’Avvocatura dello Stato. Norme senz’altro più severe di quelle previste nel testo approvato alcuni mesi fa alla Camera”. D’Ascola: “ci siamo” - Verissimo: come Albamonte, anche il Consiglio superiore ha chiesto nel luglio 2015 che ai magistrati eletti o investiti da un ruolo nell’esecutivo spettino sì le stesse condizioni retributive ma che non sia più concesso loro di reindossare la toga. Il punto è che il testo parlamentare citato da Albamonte difficilmente potrà ricevere il definitivo via libera prima che si concluda la legislatura. A meno di un imprevedibile scatto di reni: la Camera dovrebbe acconciarsi a timbrare, senza modificarla ancora, la nuova versione della legge che nel giro di poche settimane dovrebbe esser licenziata da Palazzo Madama. A spiegarlo è il presidente della commissione Giustizia del Senato Nico D’Ascola: “Vogliamo stringere i tempi. C’è un’ampia convergenza delle forze politiche su alcuni ritocchi all’articolato restituitoci da Montecitorio. Innanzitutto riguardo alla ricollocazione in ruolo dei magistrati candidati e non eletti: in prima lettura qui al Senato avevamo imposto una quarantena di almeno cinque anni prima di poter tornare in servizio in una circoscrizione corrispondente al collegio in cui ci si era presentati, poi la Camera l’ha ridotta a 2 anni, ma in Senato siamo fermamente convinti che quel limite debba essere reinnalzato, a 4 anni almeno. Si tratta del tempo d’attesa minimo ordinariamente previsto per poter chiedere trasferimento ad altra sede”. Precauzione necessaria, come provò a spiegare inutilmente a Montecitorio il forzista Francesco Paolo Sisto: tenere lontani i magistrati dal territorio in cui hanno fatto politica è essenziale a maggior ragione per gli sconfitti, che rischierebbero di tornarvi con un atteggiamento poco sereno proprio verso chi non ne ha favorito l’ingresso in Parlamento. Altra modifica ritenuta indispensabile, dice D’Ascola, è quella per i giudici che invece alla Camera o al Senato sono riusciti a farsi eleggere: si tratta della norma, inserita sempre a Montecitorio, che consentirebbe loro di filare dritti nei ranghi della Suprema corte di Cassazione. “Una previsione rischiosa”, secondo il presidente della commissione Giustizia, “potrebbe favorire, per il ruolo più ambito in magistratura, chi proviene dalla politica a discapito di chi ha sempre e solo esercitato funzioni giurisdizionali”. Obiezioni difficili da contestare. Che in fondo riporterebbero la legge su toghe e politica a una versione più vicina a quella già approvata, quasi all’unanimità, in prima lettura dallo stesso Senato. “Ma poi la Camera accetterà”, si chiede giustamente D’Ascola, “di votare senza modifiche il testo che le invieremo?”. Difficile. Rischia di restare incompiuto un intervento che i diretti interessati, i magistrati appunto, considerano urgente. “Faremo tutto il possibile: la legge è all’esame congiunto della commissione che presiedo e della Affari costituzionali”, aggiunge ancora D’Ascola. “L’arrivo del rosatellum dovrebbe interrompere l’iter, ma ho chiesto di fissare una riunione nelle prossime ore per indicare al più presto il termine degli emendamenti”. La linea di Albamonte - Il paradosso è evidente. Csm e Anm chiedono una disciplina stringente sull’impegno politico delle toghe che il Parlamento non riesce ad assicurare. “Intendiamoci, io posso riferirmi alla valutazione che ho espresso personalmente, alla delibera del Csm e alle posizioni che hanno assunto diversi rappresentanti della magistratura, tutte orientate in quella direzione”, precisa Albamonte, “il che non vuol dire che io possa anticipare l’esito del dibattito congressuale. Vedremo cosa emergerà: se a Siena ci sarà convergenza sul punto, il documento finale non potrà che segnalarlo con la dovuta chiarezza”. In ogni caso, aggiunge il vertice del “sindacato” dei giudici, “non credo potremo essere accusati di invasione di campo. Né sul tema delle toghe in politica e neppure per le sessioni dedicate ai nuovi diritti (come ieri, però, ha fatto un gruppo associativo, Magistratura indipendente, con un comunicato, ndr) : le abbiamo previste per segnalare il rischio che in campi come il fine vita sia proprio l’assenza di norme a determinare una funzione di supplenza che noi magistrati non vogliamo assumere. Anche perché apre la strada inevitabilmente a decisioni fra loro contrastanti”. Chiarissimo. Sarebbe imprudente, viceversa, ipotizzare che a scuotere il Parlamento affinché disciplini l’impegno politico dei giudici provveda il Capo dello Stato, pure presente al congresso di Siena. Una partecipazione che tradizionalmente non si traduce in interventi. Anche se, dopo quanto detto sui rischi di deragliare dalla giurisdizione alla tv con la toga indosso, c’è da credere che Mattarella sarebbe assai felice di poter promulgare una nuova legge in materia. Tutte le mafie portano a Roma di Andrea Palladino La Repubblica, 17 ottobre 2017 Ha la forma di una raggiera, con divisioni in assi di potere. Non solo zone, ma corridoi che, alla fine, convergono tutti verso Roma. Partono dal litorale, dove gli stabilimenti balneari sono turbine che fanno girare milioni di euro. Dal sud pontino, con i locali à la mode, dove tra cene con vista sul Circeo si stringono alleanze imprenditoriali e criminali. Tavolini a tre o quattro gambe, accordi di spartizione. Dai Castelli romani, chiamati qualche anno fa la “porta del Venezuela”, il varco spalancato alle droghe. E, come dice il proverbio, alla fine tutte le strade portano a Roma. Sarebbe un errore pensare alle mafie del Lazio come ad uno scenario a macchie, con isole infelici e zone stagne. Lo cosche sono, da sempre, fluide, mobili, opportunistiche. Quando nel 2009 scoppiò il caso Fondi - la città in provincia di Latina che il prefetto Bruno Frattasi voleva sciogliere per mafia - l’allora pm antimafia della Dda di Roma Diana De Martino stava sviluppando l’indagine Damasco. Pochi anni dopo seguirono i sequestri dei beni, da leggere come una sorta di mappa economica. Se segui i soldi, trovi che gli investimenti arrivavano fino nel cuore borghese della capitale, con villette ai Parioli. Fondi era - e in parte ancora è - la tappa obbligata dei tour elettorali per le elezioni regionali. Qui i candidati del centrodestra passavano per i bagni di folla, controllati a vista da improbabili agenzie di security. E, tra Latina e Frosinone, nel sud del Lazio, dove comandano le cosche di ‘ndrangheta e camorra si contano i voti decisivi per decidere chi governerà la regione. Se il cuore della ‘ndrangheta che parla romano è sul litorale tra Anzio e Nettuno, il mercato della coca gestito dalle cosche calabresi segue la via delle grandi borgate della zona est della capitale. San Basilio, Alessandrino sono lo scenario dove si sono saldate alleanze storiche tra i Gallace - a capo della Locale nel sud della provincia di Roma - e la famiglia Romagnoli, romani doc. Scambi di favore, alleanze, cartelli per la gestione delle piazze di spaccio. Questa è “Cosca capitale”. Un omicidio apparentemente di periferia, che occupa poche righe sulle pagine di cronaca, può essere la spia di movimenti importanti. Era accaduto nel 2009, a Velletri, sessantamila abitanti, sede del secondo Tribunale per importanza del Lazio. Alle otto di sera un motorino avvicina Luca De Angelis, detto Tyson, noto spacciatore della zona. Uno tosto, scafato, che cambiava cellulare in continuazione, raccontano gli investigatori. Pochi colpi sul volto e cade a terra. Si scoprirà solo anni dopo che quell’omicidio era nato in un contesto mafioso ben chiaro. Era l’inizio di una lunghissima scia di sangue, con altri agguati, in una escalation che finirà solo molti mesi dopo. Ancora Velletri, 2013. Sempre una moto, sempre un agguato, questa volta contro un giovane commerciante di verdure. Uno dei killer era un romano, Carlo Gentili, catturato questa estate in Kenia dopo una lunga fuga, con sulle spalle una prima condanna della corte di Assise per quell’omicidio. Il mandante era un trafficante albanese, pronto a far uccidere chi poteva contrastare la sua ascesa da pusher di alto livello. Episodi che mostrano come i confini territoriali sono labili, appena linee sulla carta. Se questo è il mondo di sotto, lo strato alto è la vera mafia romana e laziale. Le cosche sono sbarcate con il cemento, seguendo l’espansione edilizia partita negli anni ‘70. Parte della manovalanza era insediata da tempo, arrivata con le migrazioni del dopoguerra, in viaggio verso la capitale, occupando le aree periferiche con baracche di fortuna. A Roma arrivano i boss di peso, da Pippo Calò fino ai capi della ‘ndrina dei Gallace-Novella. Sbarcano a Fondi i Tripodo, figli dal capobastone Mico, uscito perdente dalla prima guerra di mafia a Reggio Calabria. E, negli anni ‘80, i Bardellino aprono la via verso la futura Svizzera dei Casalesi, la zona tra Formia e Gaeta dove anche Cipriano Chianese inizierà ad investire. A Cassino la camorra punta alla creazione di una banca, bloccata dalle indagini della Criminalpol. Nella capitale la banda della Magliana - e soprattutto quella dei Testaccini, guidata da De Pedis - partono all’assalto della diligenza. Sono loro ad inaugurare la lunga stagione delle alleanze tra le famiglie mafiose sbarcate nella capitale con le batterie criminali autoctone. Il vero patto, però, è con il sistema Roma. Commercialisti, circoli esclusivi, logge massoniche molto coperte e difficili da stanare, pezzi importanti delle forze di polizia, funzionari di banche e ministeri. Un melting pot del potere. Una macchina burocratica e amministrativa volutamente lenta, impermeabile, dove tutti conoscono tutti, dove accedi solo se invitato. E poi la politica. Tutta indistintamente. Perché Roma assorbe, ingloba, smussa differenze, stimola le alleanze più improbabili. Cresce quell’area grigia, la borghesia mafiosa che oggi è in grado di muovere centinaia di milioni di euro, pezzi di Pil. Dalla capitale a Fondi, dalle vie di San Basilio ai bar di Anzio e Nettuno. Un’unica “Cosca capitale”. Andrea Mirenda: “ho rifiutato le lottizzazioni, il Csm è nelle mani dei partiti” di Enrico Fierro Il Fatto Quotidiano, 17 ottobre 2017 Parla il giudice che si è “auto-declassato” per protesta contro “il carrierismo che premia i sodali” e le correnti della magistratura. Questa è la storia singolare di una “carriera alla rovescia” e di un magistrato che con dignità ribalta il tavolo delle convenzioni, delle regole non scritte e dell’imperante “tira a campare”. Andrea Mirenda, di professione giudice, al culmine del suo percorso professionale decide che così non va. Il sistema, dice, è “improntato oramai ad un carrierismo sfrenato, arbitrario e lottizzatorio, che premia i sodali, asserve i magistrati alle correnti, umilia la stragrande maggioranza degli esclusi e minaccia l’indipendenza dei magistrati con la lusinga della dirigenza o la mortificazione di una vita da travet”. Quindi il gesto eclatante: la rinuncia alla carriera. Dopo una trentina di anni con la toga sulle spalle, quattro da presidente di una sezione civile, e dall’anno scorso presidente della sezione fallimentare del Tribunale di Verona, la richiesta di “tornare giudice, ultimo tra gli ultimi, al Tribunale di sorveglianza per occuparmi dei problemi dei detenuti”. La convince questa ricostruzione, dottor Mirenda? Non sono d’accordo quando lei giudica eclatante la mia scelta. Il mio è un gesto socratico, un sacrificio che serve a far riflettere l’opinione pubblica. Rinuncio a tutto, alla carriera e agli allori, ma voi parlatene. Un membro del Consiglio superiore, il “laico” Pierantonio Zanettin, ha giudicato la sua polemica “fuori luogo”, bollandola come “venata da populismo giudiziario”. Ho rinunciato alla prospettiva di diventare presidente di un importante Tribunale civile, con un solo obiettivo: indicare all’opinione pubblica un problema che non è quello della distribuzione dei posti in magistratura, ma quello dello stimolo che i magistrati stanno avendo a mettersi in luce per avere degli incarichi direttivi, posponendo gli interessi dei cittadini. Il modello costituzionale vuole un giudice che non abbia né timori, né speranze. Il giudice si deve occupare di fare il suo mestiere. L’autogoverno della magistratura si realizza se c’è rotazione, la ricerca del più bravo fa sì che fin dagli inizi della carriera il magistrato pensi solo a mettersi in mostra. Consigli giudiziari, sindacalismo giudiziario, correnti etc., il giudice farà di tutto tranne quello che è il suo mestiere quotidiano. I cittadini da noi attendono decisioni, non che scriviamo trattati. Noi dobbiamo amministrare la giustizia in un tempo ragionevole, con prudenza e saggezza e dedizione. La scelta del nostro sistema legislativo di estendere il Testo Unico sulla dirigenza anche ai magistrati ci ha messo tutti ai blocchi di partenza, ma per fare altro. Quindi lei rinuncia alla sua carriera e… Il mio gesto è un unicum nella storia della magistratura. La mia è una carriera alla rovescia, perché voglio mettere in luce la dignità profonda del lavorare come semplice giudice, senza questa ansia di prestazione di fare altro e recuperando la massima attenzione alle istanze del cittadino. Questo meccanismo carrieristico creerà un giudice sempre meno disponibile a prestare attenzione alle esigenze della società civile. Lei attacca il Csm e il sistema delle correnti. Il meccanismo carrieristico lascia mani libere al sistema delle correnti che hanno in mano il Consiglio superiore, e lo hanno asservito. Ma queste correnti cosa sono se non le cinghie di trasmissione dei partiti politici? In seno al Csm membri laici e togati realizzano pacchetti di accordi per la distribuzione degli incarichi direttivi, attraverso questo controllo si realizza un etero-governo della magistratura, è questa la partita. Ecco perché dico che la rotazione degli incarichi direttivi garantisce la pari dignità dei giudici. Lei ha posto queste questioni, oltre agli attacchi ricevuti, c’è qualcuno che ha tentato di dissuaderla dal fare una scelta così radicale, o che ha dato risposte alle sue proteste? La sottosezione della Anm di Verona, di cui non faccio parte perché sono uscito da tutti gli organismi nel 2008, all’unanimità ha ritenuto di farsi portatrice del principio della rotazione degli incarichi semi-direttivi, presidenti di sezione, procuratori aggiunti. Così si assicurano autogoverno, pari dignità delle funzioni e soprattutto la creazione di un clima affettuoso alle attività dell’ufficio. Il meccanismo escludente genera disaffezione. Quindi tra poche settimane lei prenderà possesso del suo nuovo ufficio e si occuperà di carceri. Di detenuti, delle loro condizioni e del loro recupero. Ultimo tra gli ultimi, e lo farò con onore ed entusiasmo. La giornata dei precari della giustizia: “fino a 80 processi per 200 euro lordi” di Andrea Giambartolomei Il Fatto Quotidiano, 17 ottobre 2017 L’aula del Palazzo di giustizia sembra una catena di montaggio. Venerdì 6 ottobre sull’elenco appeso fuori dalla porta c’erano cinquanta processi e dentro solo due magistrati onorari, cioè precari. In aula dalle 9 alle 19.10 con solo un’ora di pausa pranzo. ù “È quella prevista dal contratto del cancelliere”, spiega Elisabetta Barone, vice procuratore onorario (Vpo) che ha rappresentato l’accusa in quei 50 casi, mentre a giudicare c’era un’altra toga precaria, Pasqualina Caiazzo, giudice onorario del tribunale (Got). “Questi sono i nostri standard - continua. Mediamente i miei colleghi e io abbiamo dai 35 ai 50 processi al giorno ciascuno”. E non tutti facili. Venerdì 6 sono stati avviati nuovi 18 processi, subito rinviati mentre per tutti gli altri c’erano testimoni da ascoltare, requisitorie e arringhe. Sette sono andati a sentenza, “alcune sono sentenze complesse di cui la collega dovrà scrivere le motivazioni - prosegue Barone. L’attività dei Got richiede più tempo, devono lavorare a casa nel weekend. A Salerno molti di loro scrivono fino a 400 sentenze all’anno”. Quel giorno c’erano falsi, furti, detenzioni d’arma, lesioni e risse, ma capitano anche abusi edilizi commessi sulla Costiera amalfitana con tutta la complessità dei vincoli paesaggistici, truffe alle assicurazioni, ricettazioni di assegni. “Certo, alcuni fascicoli sono snelli - prosegue lei -, però già quando si comincia a trattare una truffa, dove bisogna dimostrare che c’è stato un raggiro, la discussione diventa più complessa”. Come a Salerno succede altrove. Ad esempio martedì scorso al tribunale di Palermo la Vpo Giada Cesare aveva 67 processi in aula: “Ci attestiamo su una media di 40 al giorno ciascuno, ma una collega è arrivata anche a ottanta. A volte si finisce anche in tarda serata”. Di quei 67 casi di martedì “una quindicina erano processi che si aprivano con la decisione del rito, l’ammissione delle prove, la lista dei testimoni. Tutti gli altri sono stati dibattimenti e abbiamo dovuto trattare anche due colpe mediche, una per lesioni colpose e una per omicidio colposo sulla morte di un bambino dopo il parto. Ne ho discussi una decina, che sono andati a sentenza”. Anche qui una catena di montaggio dove la qualità del servizio fornito ai cittadini rischia di venir meno di fronte alla mole di lavoro: “Come posso studiare una sessantina di fascicoli ogni giorno?” si chiede Cesare. La paga dei magistrati onorari (a fine 2016 erano 2.152 i Got e 1.784 i Vpo), è un’indennità di 98 euro lordi al giorno che raddoppia se si va oltre le cinque ore. “Tuttavia - ricorda Paola Bellone, portavoce del Movimento 6 Luglio per la riforma della magistratura onoraria - non comprendono contributi e previdenza, né tengono conto delle ore impiegate dai Vpo per studiare i fascicoli e preparare le udienze o di quelle dei Got per scrivere le motivazioni”. L’anomalia italiana è che Dell’Utri sia in carcere di Piero Sansonetti Il Dubbio, 17 ottobre 2017 L’ipotesi che Marcello Dell’Utri possa candidarsi alle prossime elezioni per il Parlamento, probabilmente, creerà qualche sconcerto nella comunità politica e giornalistica italiana. Perché? Per una ragione evidentissima: perché Marcello Dell’Utri, al momento e da circa tre anni, giace in fondo alla cella di una prigione. Un detenuto candidato al Parlamento è una situazione eccezionale, che assai raramente si verifica nelle grandi democrazie occidentali. In passato è successo solo poche volte: in Italia, con Pietro Valpreda, con Tony Negri e con Enzo Tortora. Due di loro furono eletti, il terzo (anzi il primo) no. I tre erano personaggi diversissimi tra loro e con storie molto molto diverse, però avevano una caratteristica comune: erano detenuti politici. Per motivi svariati. Valpreda, anarchico, fu indicato come autore della strage di piazza Fontana (1969), seguendo una teoria senza riscontri, da alcuni magistrati appoggiati dalla parte più potente della stampa. Poveretto, era assolutamente innocente. Tortora fu arrestato sotto l’accusa infamante di essere un camorrista e uno spacciatore. In quel caso la persecuzione non aveva mandanti politici, ma partiva da un pezzo robusto della magistratura. In particolare della magistratura napoletana. I suoi accusatori, seppure incapaci, fecero poi una gran carriera. Tony Negri, filosofo di prestigio internazionale e fondatore di Potere Operaio, fu accusato (1979) di essere coinvolto nel sequestro Moro e di avere tramato contro lo Stato. Se vogliamo superare i confini dell’Italia, possiamo andare a cercare un altro precedente in Gran Bretagna, dove fu candidato alle elezioni un ragazzo di 27 anni, Bobby Sands, militante dell’Ira in sciopero della fame contro le condizioni carcerarie. Fu eletto, ma Margareth Thacher non permise che fosse liberato, e lui morì al sessantesimo giorno di digiuno. Era il 1981 Cosa c’entra Marcello Dell’Utri con queste persone? Niente, se volete: è un tipo molto molto lontano da Sands, da Valpreda e da Negri, ma anche molto diverso da Enzo Tortora. C’entra con queste persone perché, come loro, è un prigioniero politico. Uso questa formula - prigioniero politico - consapevolmente. Dell’Utri è stato condannato a una lunga pena detentiva sulla base di un reato che probabilmente non esiste e che sicuramente non esisteva al tempo dei fatti per i quali è finito sotto processo. “Concorso esterno in associazione mafiosa”. Dell’Utri è stato condannato in virtù di un teorema. Più o meno questo: Berlusconi ha qualcosa a che fare con la mafia, a occhio e croce, ma siccome non si trova il becco di un riscontro, allora ci accontentiamo di processare e condannare il suo braccio destro, che è siciliano e dunque ha molte più possibilità di essere incastrato. Fine del teorema. Anche Tony Negri fu vittima di un teorema: il cosiddetto teorema Calogero (Pietro Calogero era un magistrato padovano, il quale stabilì che i movimenti e le organizzazioni sociali a sinistra del Pci probabilmente avevano qualcosa a che fare con le Brigate Rosse. E fece arrestare tutto lo stato maggiore dell’ex Potere Operaio). La vicenda di Dell’Utri è molto simile a quella di un altro noto personaggio molto legato alla Sicilia: Bruno Contrada. Il quale è stato un poliziotto e un agente segreto ad altissimo livello per anni e ha combattuto a viso aperto la mafia. Poi è caduto in una congiura, probabilmente originata dai suoi colleghi nel fuoco di una lotta di potere, catturato la notte di Natale e sbattuto in prigione per anni. Poi, un quarto di secolo dopo, la Corte europea gli ha dato ragione, lui è stato riabilitato e qualche giorno fa riammesso in polizia e autorizzato a riscuotere gli stipendi arretrati. Dell’Utri è in una situazione molto simile a quella di Contrada, dal punto divista giudiziario, e presto sarà riabilitato anche lui e potrà tornare, se vuole e se gli elettori lo voteranno, in Parlamento. E allora dov’è lo scandalo? Lo scandalo sta nel fatto che in Italia esistono i prigionieri politici. E gli errori, e talvolta le persecuzioni giudiziarie, non sono rarissimi. E può succedere che sebbene tutti siano perfettamente coscienti del fatto che entro qualche mese Dell’Utri sarà scagionato dalla Corte Europea - la quale ha già emesso una sentenza nella quale esclude che prima del 1992 esistesse il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, mentre i fatti per i quali è stato condannato Dell’Utri sono avvenuti prima del 1990 - nonostante questo, nel frattempo, Dell’Utri aspetta in prigione. E tutte le forze politiche sanno e osservano nel silenzio più assoluto. In Occidente non esistono più da tempo i prigionieri politici. Esistevano tanti anni fa, quando l’Europa ribolliva di lotte e anche di guerriglie: in Irlanda, in Spagna, in Italia. Allora i prigionieri politici erano i leader dei movimenti rivoluzionari. Ora qui da noi le cose sono cambiate. Per fortuna è sempre più raro l’arresto degli esponenti dei movimenti anti- sistema. E invece le manette sono diventate uno degli strumenti ordinari della lotta politica nell’establishment. Sostenute da un parte probabilmente maggioritaria dello stesso parlamento e dei giornali. L’anomalia italiana è questa. Non è l’ipotesi che Dell’Utri torni in parlamento. Bossetti: Dna prova concreta e irripetibile, indizi gravi e concordanti di Paolo Colonnello La Stampa, 17 ottobre 2017 Per l’omicidio di Yara Gambirasio anche i giudici d’appello concordi: merita l’ergastolo. “In caso di specie, quindi, la corrispondenza di un numero elevatissimo di marcatori ausomici e la conseguenza ricorrenza statistica che consente di escludere con matematica sicurezza che esista al mondo un altro individuo, diverso dall’odierno imputato, con lo stesso profilo genetico di Ignoto 1, offre la certezza che a lasciare quella traccia sugli slip e sui leggins (di Yara Gambirasio) sia stato Massimo Bossetti”. E visto che la Suprema Corte di Cassazione ha ribadito il “principio che gli esiti dell’indagine genetica hanno natura di prova e non di mero elemento indiziario”, “sulla loro base può essere affermata la responsabilità penale dell’imputato, senza necessità di ulteriori elementi convergenti”. Così, pag. 291, si esprimono i giudici della Corte d’Assise d’Appello di Brescia nelle motivazioni della sentenza, depositate ieri, con cui nel giugno scorso hanno confermato l’ergastolo per Giuseppe Bossetti, il carpentiere di Mapello accusato dell’omicidio della piccola Yara Gambirasio. Nei confronti di Bossetti dunque, anche giudici e giurati di secondo grado hanno raggiunto il medesimo convincimento dei giudici di primo grado, di quelli dell’udienza preliminare e del riesame e di Cassazione: il carpentiere di Mapello è il vero assassino di Yara e ha meritato l’ergastolo. Non c’è solo il Dna: indizi gravi e concordanti - Per altro, “non solo l’imputato è raggiunto dalla prova genetica diretta (in quanto rappresentativa direttamente del fatto da provare, collocandolo sul luogo del fatto come autore dell’omicidio) ma anche di una serie di elementi indiretti, elementi tutti che, collegati tra loro, in un coacervo organico, univoco e armonioso, consentono così di giungere a una sicura affermazione di responsabilità dell’imputato”. Come dire che, indipendentemente dagli elementi indiziari raccolti nel corso di una complessa indagine condotta dal Ros di Brescia agli ordini del colonnello Michele Lo Russo, la prova genetica del Dna da sola che per ben 71 volte ha dimostrato l’appartenenza di quella traccia biologica a Bossetti, è bastata per una condanna a vita. I giudici di secondo grado spendono infatti decine di pagine per spiegare, per l’ennesima volta, come le analisi sul materiale genetico ritrovate sopra i leggins e sugli slip di Yara abbiano condotto con certezza alla natura del suo assassino prima che si conoscesse il nome di Massimo Bossetti e che quindi sono state condotte nel massimo della trasparenza e senza alcun pregiudizio. Inoltre, spiegano che rifare quegli esami non solo sarebbe un’inutile perdita di tempo, visto che sono stati ripetuti con ben 24 marcatori, ma che ormai sarebbe impossibile visto che tutto il materiale genetico è stato consumato e non certo “per atto colpevole degli inquirenti”, ma per una meticolosa necessità dell’inchiesta di individuare, attraverso il discusso Dna mitocondriale anche l’identità della madre, oltre che quella (certa) del padre di Bossetti. Dunque, scrivono i giudici, “va ribadito che la richiesta perizia genetica sul Dna, attesa la consumazione dei campioni tratti dalla traccia genetica rilasciata, non comporterebbe la possibilità di nuove amplificazioni e tipizzazioni, ma costituirebbe solamente un semplice controllo documentale dell’operato dei Ris, e deve ritenersi assolutamente superflua e non necessaria ai fini della decisione”. I giudici, respingendo i motivi delle difese e giudicando “infondate” le obiezioni dei consulenti legali, scrivono che dall’esame delle perizie risulta per altro “scongiurata l’ipotesi di una contaminazione del Dna da trascinamento”, come invece avevano sostenuto nel dibattimento gli avvocati del carpentiere, ipotizzando che Yara potesse essere stata uccisa in un altro luogo e poi trasportata nel campo di Chignolo d’Isola dove venne ritrovata tre mesi dopo la sua scomparsa. Inchiodato dalle intercettazioni della moglie Marita - Circostanza anche questa considerata priva di qualsiasi fondamento e smentita dalle analisi scientifiche del terreno intorno al cadavere e dei residui di terra trovati sul corpo. Confermata invece la presenza sotto la suola delle scarpe di Yara di microsferette metalliche e materiale da cantiere che si poteva rinvenire soltanto nel cantiere di Mapello al quale stava lavorando Bossetti. Un ulteriore indizio tra i tanti raccolti nell’inchiesta. Come ad esempio, il fatto che Bossetti non era in casa al momento della sparizione di Yara, la sera del 26 novembre 2010, ma “si trovava nelle vicinanze della palestra con il suo furgone Fiat Iveco Daily”. Al solito è un’intercettazione con la moglie Marita Comi che lo inchioda accusandolo di mentire sul ritorno a casa: “È vero che hai raccontato palle allora, come hai raccontato palle adesso”. E ancora: “Ci ho pensato Massi. Eri via quella sera. Non mi ricordo a che ora sei venuto e non mi ricordo neanche cosa hai fatto. Non me l’hai mai detto”. Peraltro, “ritiene la Corte che nessuno degli elementi probatori emersi nella lunga istruttoria dibattimentale di primo grado siano contrastanti o incompatibili con la prova genetica acquisita. Al contrario, gli elementi probatori emersi convergono tutti, pur con diversa forza probatoria, nella direzione che vede Bossetti come autore dell’omicidio di Yara, esercitando, pur non essendo necessario e indispensabile, dato il valore di piena prova della prova genetica, una funzione confermativa del convincimento del giudice” Avvalorando l’ipotesi accusatoria secondo la quale “Massimo Bossetti è l’autore dell’omicidio di Yara Gambirasio”. Rimedi risarcitori 35ter OP: sull’istanza dell’affidato decide il Magistrato di Sorveglianza giurisprudenzapenale.com, 17 ottobre 2017 Sulla competenza a decidere sull’istanza riparatoria di cui all’art. 35-ter O.P. proposta dal detenuto in stato di affidamento in prova al servizio sociale Cassazione Penale, Sez. I, 12 ottobre 2017 (ud. 18 maggio 2017), n. 47052. Presidente Di Tomassi, Relatore Bonito. In merito all’istanza riparatoria prevista e disciplinata dall’art. 35-ter O.P. proposta dal detenuto in stato di affidamento al servizio sociale, la prima sezione della Cassazione si è pronunciata sulla questione se l’istanza debba essere presentata al magistrato di sorveglianza ovvero al tribunale civile, e se, pertanto, sia o meno esclusivamente fruibile, nella fattispecie, il rimedio del risarcimento del danno previsto dal comma 3 della norma. I giudici di legittimità hanno statuito che, in materia di rimedi risarcitori conseguenti alla violazione dell’art. 3 Cedu nei confronti di soggetti detenuti o internati, appartiene al Magistrato di sorveglianza la competenza a provvedere sull’istanza riparatoria di cui all’art. 35-ter ord. pen. proposta dal detenuto in stato di affidamento in prova al servizio sociale. No a sospensione patente per chi ha il “foglio rosa” Il Sole 24 Ore, 17 ottobre 2017 Corte di cassazione - Sentenza 16 ottobre 2017 n. 47589. “Non può essere applicata la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida, per illeciti posti in essere con violazione delle norme sulla circolazione stradale, a chi li abbia commessi conducendo veicoli per la cui guida non sia richiesta alcuna abilitazione o, se richiesta, non sia stata mai conseguita, o a chi li abbia commessi con il foglio rosa”, anche se successivamente la patente è stata conseguita. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza 16 ottobre 2017 n. 47589, affermando un principio di diritto. La Suprema corte ha così accolto il ricorso del guidatore ed ha annullato senza rinvio (limitatamente alla sospensione della patente) la sentenza del Tribunale di Cosenza che invece aveva disposto la stop alla guida per 1 anno e 4 mesi. La sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida, chiarisce oggi il Collegio, “può intervenire solo se il reato è stato commesso da chi era in possesso della patente, al momento della commissione del fatto”. “Il foglio rosa - conclude - non può ritenersi equivalente alla patente”. Il principio di “oltre ogni ragionevole dubbio” non incide sul sindacato di sola legittimità Il Sole 24 Ore, 17 ottobre 2017 Impugnazioni penali - Ricorso per Cassazione - Valutazione degli elementi probatori - Principio dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio” - Legge n. 46/2006. Qualora venga dedotto, mediante ricorso per cassazione, la violazione del principio dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio”, la Suprema Corte è chiamata a prendere atto di quanto già accertato dal giudice di merito e a valutare se lo stesso appaia logicamente motivato nella sentenza impugnata. Infatti, la selezione e la valutazione delle prove spetta in via esclusiva al giudice di merito visto che nessuna risultanza probatoria può avere un significato slegato e o disancorato dal contesto in cui è inserita, potendo solo il predetto giudice apprezzarne la valenza attraverso la valutazione complessiva di tutto il materiale probatorio raccolto. Peraltro, la Corte di legittimità non potrebbe mai esaminare i singoli atti probatori in maniera atomistica, restando pur sempre il giudizio di cassazione un sindacato sulla sola tenuta della motivazione, cui è preclusa la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisone impugnata. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 27 settembre 2017 n. 44440. Sentenza assolutoria di primo grado - Riforma in appello - Diversa valutazione del compendio probatorio - Obbligo di motivazione - Principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio - Violazione - Non sussiste. Non viola il principio dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio” il giudice di appello che riformi totalmente la sentenza assolutoria di primo grado valutando diversamente il medesimo compendio probatorio, purché’ delinei, con adeguata motivazione le linee portanti del proprio alternativo percorso argomentativo, così da mettere in evidenza le ragioni di incompletezza o incoerenza del provvedimento riformato. La sentenza di condanna resa in appello in esito alla assoluzione decisa in primo grado, dunque, non merita censure sul piano della motivazione laddove risulti connotata da uno sviluppo argomentativo che passi da un puntuale e analitico confronto con le ragioni addotte a sostegno del “decisum” impugnato, mettendone in luce carenze o aporie, che ne giustificano l’integrale riforma. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 25 febbraio 2016, n. 7726. Ricorso per cassazione - Riscontri estrinseci - Vizio motivazionale - Controllo di legittimità - Limiti - Illogicità ictu oculi - Non sussiste - Condanna oltre ogni ragionevole dubbio - Nozione. Il principio dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio” è contenuto nell’articolo 533 c.p.p., comma 1, come modificato dalla L. n. 46/2006, articolo 5, che impone al giudice il ricorso ad un metodo dialettico di verifica dell’ipotesi accusatoria secondo il criterio del dubbio, con la conseguenza che il giudicante deve effettuare detta verifica in maniera da scongiurare la sussistenza di dubbi interni (ovvero la auto-contraddittorietà o la sua incapacità esplicativa) o esterni alla stessa (ovvero l’esistenza di una ipotesi alternativa dotata di razionalità e plausibilità pratica). Osserva al riguardo il Collegio che il principio suddetto non ha però innovato la natura del sindacato della Corte di cassazione sulla motivazione della sentenza e non può, quindi, essere utilizzato per valorizzare e rendere decisiva la duplicità di ricostruzioni alternative del medesimo fatto, eventualmente emerse in sede di merito e segnalate dalla difesa, una volta che tale duplicità sia stata oggetto di attenta disamina da parte del giudice dell’appello. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 19 ottobre 2016 n. 44300. Impugnazioni penali - Ricorso per Cassazione - Valutazione degli elementi probatori - Principio dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio” - Legge n. 46/2006. Il principio dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio”, introdotto formalmente dalla Legge n. 46 del 2006, che ha modificato l’articolo 533 c.p.p., costituisce l’espressione di una regola di giudizio cui il giudice del merito è tenuto ad attenersi - in buona parte già desumibile dal disposto dell’articolo 530 c.p.p., commi 2 e 3 - e che impone allo stesso di giungere alla condanna solo se è possibile escludere ipotesi alternative dotate di razionalità e plausibilità. Tale principio non vale ad intaccare l’altro fondamentale cardine in tema di decisione del processo, valido con riferimento al giudizio di legittimità e cioè quello secondo cui, anche dopo la novella normativa dell’articolo 606 c.p.p., comma 1, lett. e) ad opera della Legge n. 46 del 2006, non muta la natura del sindacato della Corte di cassazione, chiamata ad un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva per mezzo di una valutazione necessariamente unitaria e globale dei singoli atti e dei motivi di ricorso su di essi imperniati, non potendo in ogni caso la sua valutazione sconfinare nell’ambito del giudizio di merito. Infatti, il principio dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio” non può certo valere a far sì che sia la Cassazione a valorizzare e rendere decisiva la duplicità di ricostruzioni alternative del medesimo fatto, eventualmente emersa nella sede del merito e segnalata dalla difesa, una volta che tale eventuale duplicità sia stata il frutto di un’attenta e completa disamina da parte del giudice dell’appello, il quale abbia operato una scelta, sorreggendola con una motivazione rispettosa dei canoni della logica e della esaustività. • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 21 dicembre 2015 n. 50068. Puglia: parte da Lecce il progetto che insegna alle detenute a lavorare i tessuti Libero, 17 ottobre 2017 E il papillon realizzato sarà in vendita. Si tratta di donne dal 25 ai 65 anni, figlie, mamme e nonne, sia italiane che straniere. “Da nove anni lavoriamo nelle carceri e abbiamo avuto centinaia di donne - e anche uomini - che hanno collaborato in diversi progetti. Guardi, le dico che l’ottanta per cento di chi in carcere ha un’occupazione, ma lo dicono le statistiche, non è una mia invenzione, quando esce non ha recidive Chi non fa nulla durante la detenzione, non appena esce commette qualche reato e si ritrova di nuovo in carcere. Quest’anno abbiamo avuto molte donazioni di tessuti pregiati dall’associazione dai tessuti e abbiamo pensato di fare i papillon. Zaini Milano ha deciso di supportarci perché per loro il papillon ha un significato particolare. Lo indossava sempre Luigi Zaini, il fondatore, uomo elegantissimo che negli anni 30 portava il papillon al posto della cravatta. E noi nelle carceri di Lecce e Trani ci siamo messi a lavorare”. Papillon e tessuti realizzati dalle detenute e i prodotti Zaini. Il papillon, in vendita fino a Natale nel negozio Zaini Milano in Via de Cristoris 5, Corso Como, è abbinato a due tavolette pregiate di cioccolato e a una lattina come quelle d’un tempo, aggiunte senza costi ulteriori al prezzo del papillon. “Zaini Milano li ha acquistati da noi e così abbiamo pagato il lavoro alle detenute, un gesto importante da parte loro, che da sempre sostengono progetti solidali. Questo papillon è molto particolare, ha due lacci lunghi ed e soprannominato papillon disobbediente perché non si attacca al collo in maniera rigida, ma ha un po’ di flessibilità. Originale e unico nel suo genere”. In effetti non c’è molla che stringe e lo si può indossare con la camicia aperta, sulla maglietta, con un abito scollato. Un prodotto fashion che può far partire una nuova mondo di indossare papillon. La storia di Luciana Delle Donne poi, imprenditrice nel sociale, è interessantissima. “Lavoravo a Milano in banca come top manager, una carriera rampante in un mondo ambizioso”. Donne in cella - In Italia le donne in carcere sono relativamente poche: 2818, il 4% del totale. Sono suddivise in cinque Istituti penali femminili (Trani, Pozzuoli, Roma-Rebibbia, Empoli, Venezia-Giudecca) e in circa 55 sezioni femminili. Rappresentano poco più del 4% della popolazione detenuta. Il carcere con più donne è la Casa circondariale Rebibbia che ne ospita 298 su una capienza regolamentare di 260; in quella di Pozzuoli le donne sono 154 a fronte di una capienza di 105, quindi è l’istituto dove si evidenzia il sovraffollamento più significativo. Bambini reclusi - In alcuni casi, insieme con le donne recluse, vivono in carcere anche i loro figli. Si tratta di bimbi con meno di tre anni che stanno crescendo in prigione. Il loro numero per fortuna è in calo: nel 2008 in Italia i bambini che vivevano negli istituti penitenziari erano 78, nel 2009 sono scesi a 73 e oggi sono una cinquantina. La maggior parte di bimbi in prigione si trova nelle carceri di Rebibbia, uno degli istituti provvisto di una sezione nido, che oggi ospita 14 bambini, la maggior parte (10) stranieri. Seguono le case circondariali di Torino e Milano: alle Vallette stanno crescendo 12 bimbi e 10 a San Vittore. Sardegna: progetto “Liberamente”, per i detenuti la seconda chance è in campagna di Davide Madeddu strisciarossa.it, 17 ottobre 2017 La seconda chance parte dalle campagne. O meglio, l’esperienza di chi sconta una pena pagando il suo debito con la società, lavorando in una colonia penale agricola, raccontata ai giovani, che seguono un corso di formazione, come insegnamento. E anche il lavoro come strumento di riscatto e lasciarsi alle spalle disavventure e problemi. Senza trascurare l’apertura verso i territori come un ponte per un reinserimento una volta saldato il debito con la giustizia. Il tutto cercando di valorizzare il patrimonio paesaggistico e identitario dei territori dove sorgono le colonie penali, unendo risorse ambientali e culturali per promuoverle, in un’ottica di inclusione, “in chiave turistica e imprenditoriale”. Con queste finalità sono stati finanziati i corsi di formazione del progetto “Liberamente”, nell’ambito del programma Green & Blue economy. Un’iniziativa che in Sardegna parte da Isili (la presentazione nei giorni scorsi con il ministro della Giustizia Andrea Orlando e i rappresentanti delle istituzioni regionali). Un’idea (il progetto “Liberamente”, proposto dal raggruppamento temporaneo d’impresa composto da Ifold, Confcooperative, Poliste e Byfarm, è stato finanziato nell’ambito del Fondo sociale europeo, per un importo di 670mila euro) che coniuga il recupero della memoria storica attraverso il racconto dei detenuti “con finalità educative e di promozione dell’inclusione socio-lavorativa, insieme alla valorizzazione di territori di elevato pregio”, nata dalla collaborazione tra la Regione e il Ministero della Giustizia “con la stipula di protocolli d’intesa”. Per l’assessore regionale al Lavoro Virginia Mura si tratta di “un progetto dal forte impatto sociale, che mette al centro le persone, le comunità e contesti territoriali spesso lasciati ai margini, per valorizzarne le potenzialità produttive e promuovere la creazione di iniziative d’impresa, capaci di includere e di dare un’opportunità di lavoro a chi ha espletato una pena, lanciando un messaggio di speranza di cambiamento”. Nel progetto rientrano le azioni svolte in collaborazione con il Centro di Giustizia minorile e l’adozione dei tirocini atipici. Proprio per la valorizzazione dei programmi relativi all’inclusione lavorativa la Regione ha stanziato nell’ultima finanziaria un milione di euro. L’attenzione e il punto di partenza è ora rivolto alle colonie agricole penali definite dal ministro “patrimonio prezioso per l’amministrazione penitenziaria e per i territori in cui insistono”. Ma anche luogo per dare concretezza al lavoro, definito uno dei pilastri dell’esecuzione penale. Dalla campagna per una nuova vita. Trento: le Camere penali “nel carcere di Spini di Gardolo spazi enormi poco sfruttati” Corriere del Trentino, 17 ottobre 2017 L’Osservatorio camere penali a Spini. Agenti: la nota dolente degli organici. Daldoss: “Spazi enormi non sfruttati”. Esclusi episodi di maltrattamento. Ripartire dalla società e dal territorio. È l’obiettivo dell’Osservatorio carcere della camera penale di Trento che sabato ha fatto un sopralluogo all’interno del carcere di Spini di Gardolo. “Ci sono spazi enormi, la struttura ha un enorme potenziale, che non viene sfruttato. Fanno attività solo una 20 detenuti su 300” spiegano gli avvocati Stefano Daldoss e Filippo Fedrizzi. “Abbiamo trovato una situazione migliore rispetto a quella dello scorso anno - spiegano - abbiamo riscontrato una grande disponibilità da parte del direttore e del comandante della polizia penitenziaria e non abbiamo trovato alcuna evidenza di maltrattamenti o presunte violenze. Questo è un dato molto positivo”. La nota dolente resta la carenza, se non quasi assenza, di attività e di un “percorso lavorativo e di recupero”. Il dato critico è la partecipazione dei detenuti. “La struttura e il territorio hanno grandissime potenzialità - chiarisce la camera penale - ma il coinvolgimento dei detenuti è scarso. La struttura è ottima, anche per quanto riguarda il reparto femminile”. Ma non basta. “Ci sono moltissimi spazi non utilizzati, è un dato che deve essere sovvertito nel tempo”. Ora è stato nominato anche il garante dei detenuti, Antonia Menghini, docente di Diritto penale dell’università di Trento. “Ci interfacceremo con lei per realizzare una serie di progetti, serve un interessamento della politica e della società per evitare il rischio dell’oblio. La sensibilità c’è, cercheremo di sensibilizzare la magistratura di sorveglianza e il territorio” spiegano. Il problema degli spazi non utilizzati si innesta con uno ancora, se possibile, più grande: gli organici della polizia penitenziaria sono all’osso. “Hanno turni pesantissimi - spiega Daldoss -spesso di 15 giorni senza interruzioni, sono costretti a un super lavoro e spesso per loro diventa difficile anche solo accompagnare fisicamente un detenuto all’interno di una struttura enorme come quella di Spini per far partecipare i detenuti alle lezioni o alle attività. La politica deve dare un segnale”. Napoli: due direttrici per le carceri di Poggioreale e Secondigliano Corriere del Mezzogiorno, 17 ottobre 2017 Arrivano due donne alla guida delle carceri più importanti e difficili della Campania, ovvero Poggioreale e Secondigliano. Già nelle prossime ore il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, renderà ufficiale il cambio al vertice dei Provveditori. Al posto di Antonio Fullone, a Poggioreale arriverà Maria Luisa Palma, ex direttrice del carcere di Benevento, di origini avellinesi e con un curriculum che l’ha vista sempre ai vertici del Dipartimento di dell’amministrazione penitenziaria in ruoli difficili e di responsabilità. Il suo vice sarà Ciro Proto che ricopriva lo stesso ruolo con Fullone, che invece diventerà il direttore del carcere di Firenze. A Secondigliano Liberato Guerriero, che sarà trasferito invece a Torino, sarà sostituito da Giulia Russo, direttrice nell’ultimo anno del delicato ufficio scorte e traduzioni del Tribunale di Napoli. Entrambe troveranno al loro avvio una situazione di forte criticità dovuta al sovraffollamento: oltre mille i detenuti in più tra Poggioreale e Secondigliano. Ancona: dietro le sbarre, viaggio nel carcere di Montacuto di Stefano Pagliarini anconatoday.it, 17 ottobre 2017 È arrivata la visita ispettiva di una delegazione di Radicali Italiani insieme a 3 consiglieri comunali anconetani. Noi vi raccontiamo il viaggio attraverso uno dei buchi neri della società: il carcere. Alexandre Rossi. “Rispetto all’ultima esperienza dell’aprile 2016, quando la situazione sembrava in ripresa, questa volta a Montacuto ho visto un luogo di sospensione dello stato di diritto, c’è una buona parte di detenuti in attesa di giudizio, una ristrutturazione non fatta ad opera d’arte, non abbiamo potuto interloquire con la direttrice che è assente, tuttavia era presente il direttore pro tempore Maurizio Pennelli che si contraddistingue per umanità e professionalità e che dovrebbe essere da modello. I detenuti denunciano di non vedere mai il magistrato di sorveglianza e quando fanno istanza si vedono rigettare tutto. Il sovraffollamento non si è risolto e ritornerà agli anni bui di 10 anni fa se non si interviene”. Francesco Prosperi (M5S). “Esperienza molto forte. Entrare in una casa circondariale e avere la possibilità di parlare con gli operatori e i detenuti lascia il segno. Come consigliere comunale già dai prossimi giorni penso di informarmi sul protocollo d’intesa del 2014 firmato dal Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria ed il comune per l’utilizzo di detenuti con articolo 21 o con misure alternative per il mantenimento del verde, per le manutenzioni, sistemazione delle panchine e dei siti archeologici. Valutare se questi progetti sono riusciti e se possono essere replicati. Il direttore delle due strutture ha parlato di alcune criticità, vorrei approfondirle”. Federica Fiordelmondo (PD). “Chiunque ricopra un ruolo pubblico deve assolutamente essere consapevole di ogni aspetto della società in cui vive e opera; per questo, è stato molto importante per me fare ingresso a Montacuto. Invito tutti i rappresentanti dei vari livelli istituzionali a fare altrettanto. La detenzione è una realtà in sé stessa “alienante”, ma devo dire che ho trovato i detenuti in condizioni buone. La struttura, anche grazie alla loro collaborazione, è organizzata sufficientemente bene. Certo, potrebbe migliorare: nelle attività rieducative, ad esempio. Ci sarebbe la possibilità, inoltre, di organizzare una piccola palestra, ma purtroppo manca la disponibilità degli attrezzi; spero si possa dare un piccolo contributo al riguardo. Sono rimasta favorevolmente colpita dal fatto che molti detenuti mi hanno espresso soddisfazione per il rapporto con gli agenti della polizia penitenziaria; questi sono, peraltro, sotto organico e hanno ben 2.500 ore di straordinari in arretrato: credo sia necessario provvedere quanto prima anche a tale aspetto”. Michele Fanesi (PD). “Una piacevole sorpresa constatare che la parte strutturale sia in buone condizioni e consenta una permanenza dignitosa ai detenuti. Un altro fattore che mi ha colpito positivamente è anche il buon rapporto tra il personale di polizia penitenziaria, seppur in forte sotto organico, e gli stessi detenuti. Uno sforzo maggiore deve e può essere fatto, anche dalla politica, per avviare e potenziare percorsi di reinserimento nella società”. Roma: quella “colpa del custode” che sa di capro espiatorio di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 ottobre 2017 A dicembre dell’anno scorso erano stati indagati per l’evasione dal carcere di Rebibbia di tre arrestati albanesi del 27 ottobre del 2016, ora la procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio dell’ex direttore del carcere di Rebibbia, Mauro Mariani; di quello che all’epoca era il capo dell’ufficio detenuti del Provveditorato regionale, Claudio Marchiandi; di quello che all’epoca era capo reparto degli agenti di custodia, Massimo Cardilli; e di altri 11 di polizia penitenziaria. Secondo il capo di imputazione formulato dal procuratore aggiunto Michele Prestipino e dal pm Nadia Plastina, i primi tre sono colpevoli di aver commesso il reato definito “colpa del custode”. Si tratta di una inosservanza colposa nelle regole di vigilanza all’interno della casa circondariale. C’è però chi teme che questi rinvii a giudizio possano ripercuotersi sulle varie conquiste acquisite nel tempo per il recupero dei detenuti. Nello specifico c’è il rischio che il rinvio a giudizio chiesto dalla procura di Roma metta in discussione le politiche penitenziarie dirette alla responsabilizzazione e alla risocializzazione delle persone detenute. “Lavoreremo per abrogare reato di colpa del custode”, dichiara il presidente di Antigone Patrizio Gonnella. “Non conosciamo i fatti che hanno riguardato nello specifico l’episodio del carcere romano di Rebibbia - denuncia Gonnella ma temiamo che decisioni di questo genere possano determinare una chiusura all’interno dell’amministrazione, provocando, per paura di ripercussione negative, una riduzione delle attività dirette alla socializzazione dei detenuti”. Continua sempre il presidente di Antigone: “Se in ogni caso di evasione come in ogni caso di suicidio la soluzione è quella del capro espiatorio, non si aiutano quei direttori e quello staff penitenziario che si dimostra più aperto e più disponibile a progetti di reintegrazione sociale”. Una voce critica all’azione giudiziaria della Procura di Roma, proviene anche dall’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini, da ieri nuovamente in sciopero della fame insieme alla presidente del comitato radicale per la giustizia “Pietro Calamandrei” Deborah Cianfanelli per chiedere al ministro della giustizia Orlando di mantenere la promessa riguardante l’approvazione dei decreti attuativi per la riforma dell’ordinamento penitenziario. “Sono convinta che la difesa del dottor Mauro Mariani - spiega Rita Bernardini - non avrà difficoltà a dimostrare la prudenza che, al contrario di quanto sostenuto dalla Procura di Roma, egli ha sempre usato nell’esercitare il difficile compito di dirigere un istituto così complesso come il penitenziario di Rebibbia. ù Lo dico, credo, con cognizione di causa per le tante visite a Rebibbia che personalmente ho effettuato, spesso assieme a Marco Pannella e ad altri dirigenti del Partito Radicale. Posso dirlo liberamente perché al dottor Mariani non ho mai risparmiato critiche (anche aspre) tutte le volte che mi sono trovata di fronte a situazioni che ritenevo violassero i diritti dei reclusi, condizioni che - è bene precisarlo - riguardano tutt’ora la maggior parte degli istituti penitenziari italiani”. Aggiunge sempre l’esponente radicale: “Spesso il dottor Mariani mi ha segnalato le carenze dei sistemi di sicurezza puntualmente da lui (e dal comandante) comunicate al ministero della Giustizia: dalla necessità di rifare le grate esterne al malfunzionamento delle telecamere e dei sistemi anti- scavalcamento, per non parlare delle carenze del personale del corpo degli agenti in evidente sotto- organico anche in considerazione dei tanti distacchi presso altre amministrazioni dello Stato. A livello umano - prosegue Bernardini - dispiace che i direttori (privi di contratto da oltre 20 anni) siano sovente i capri espiatori di condizioni di detenzione fuorilegge sotto fondamentali punti di vista. Prendiamo, per esempio, il sovraffollamento: il direttore non può rifiutarsi di far entrare un detenuto anche quando i posti regolamentari siano esauriti ed è costretto a “prenderli tutti” persino coloro che sono destinati alle Rems e che in carcere non ci dovrebbero proprio stare. Strano che di queste violazioni le procure di tutt’Italia non si occupino esponendo lo Stato italiano a condanne umilianti - come è accaduto con la sentenza Torreggiani del 2013 - da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo”. Ed è proprio la vicenda delle persone che dovrebbero essere ospiti delle Rems che aveva scatenato, recentemente, la polemica riguardante un’altra azione giudiziaria della Procura di Roma. Parliamo del caso di Valerio Guerrieri, il 22enne che si suicidò a Regina Coeli lo scorso febbraio. Lui non doveva essere recluso in un carcere, ma ospite di una Rems. Oppure nell’attesa che si liberasse un posto, doveva essere in stato di libertà. La magistratura aveva aperto un’inchiesta e ha messo sotto indagine due agenti penitenziari, colpevoli, di non averlo controllato. Anche in quel caso, Antigone, aveva espresso delle preoccupazioni: “L’unica cosa che non vorremmo da tutta questa inchiesta - aveva dichiarato Patrizio Gonnella - è che si vada alla ricerca di capri espiatori e che tutto si risolva in una questione di mancata sorveglianza”. La colpa del custode risale al Codice Rocco La colpa del custode corrisponde all’articolo 387 del codice penale risalente al codice Rocco del 1930. “Chiunque, preposto per ragione del suo ufficio alla custodia, anche temporanea, di una persona arrestata o detenuta per un reato (1), ne cagiona, per colpa (2), l’evasione, è punito con la reclusione fino a tre anni o con la multa da cento tre euro a mille trentadue euro. Il colpevole non è punibile se nel termine di tre mesi dall’evasione procura la cattura della persona evasa o la presentazione di lei all’Autorità (3)”. Note (1) Secondo la dottrina maggioritaria rientrano tra i soggetti attivi coloro che rivestono funzioni di direzione degli istituti di custodia e coloro che svolgono funzioni esecutive di controllo all’interno delle stesse strutture, nonché gli agenti ed ufficiali di polizia che hanno in custodia il soggetto dopo l’arresto o il fermo. (2) L’evasione deve quindi essere la conseguenza della violazione colpevole di doveri di custodia, eccetto i casi di errore scusabile del soggetto attivo. (3) L’aver procurato la cattura dell’evaso assume il valore di causa speciale di non punibilità e non di circostanza attenuante, come nel caso di procurata evasione ex art. 386. Roma: quando la giustizia cerca nelle guardie dei capri espiatori di Susanna Marietti Il Fatto Quotidiano, 17 ottobre 2017 La Procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio per l’ex direttore del carcere romano di Rebibbia Nuovo Complesso, per il comandante e per altri soggetti che sarebbero coinvolti nell’evasione di tre detenuti avvenuta un anno fa. Ma in che modo vi sarebbero coinvolti? Sempre la Procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio per i due poliziotti che erano a guardia della sezione del carcere romano di Regina Coeli dove il ventiduenne Valerio Guerrieri si è suicidato lo scorso febbraio. Quale sarebbe la loro colpa? Cominciamo dall’evasione. Non sappiamo cosa la Procura imputi al direttore, ma conosciamo bene quell’istituto. Un istituto che, grazie a una lunga storia di gestioni intelligenti, ha saputo improntare la propria vita interna alla sorveglianza dinamica, alla responsabilizzazione del detenuto, al dinamismo nel campo del lavoro, della formazione, dell’istruzione (non è un caso che tutte e tre le Università romane siano ben radicate dentro Rebibbia). È stato anzi proprio in tempi recenti che questa impostazione sembrava aver fatto passi indietro, cosa che noi non abbiamo mancato di criticare pubblicamente. Ma nessuna critica alla gestione può trasformarsi in un plauso al tentativo di trovare il capro espiatorio per un episodio di evasione. Ripeto: non sappiamo cosa la Procura imputi al direttore, ma il rischio che si voglia trovare un responsabile ad ogni costo mi pare alto. Quale potrebbe infatti essere stata la colpa della direzione del carcere o del vertice della polizia penitenziaria interna? In che modo avrebbero potuto giocare un ruolo nell’evasione dei tre detenuti? Il reato contestato sarebbe quello di colpa del custode. Non ci sarebbe ovviamente dolo nel comportamento ipotizzato dalla Procura. Gli accusati non avrebbero voluto far evadere intenzionalmente i tre uomini. Piuttosto, non li avrebbero - colposamente - custoditi a sufficienza. Ma che segnale si lancia in questo modo al mondo delle carceri italiane? Cosa verrà recepito dall’amministrazione penitenziaria? Che gestire un istituto in maniera attiva, aperta, dinamica è rischioso. Che è ben più sicuro richiudere ogni cella, tornare all’ozio forzato dei detenuti stesi sulle brande per ventidue ore al giorno, cancellare corsi, attività, esperienze lavorative. Si etichetta come pericoloso un modello di vita interno faticosamente conquistato negli ultimi anni e più rispettoso del dettato costituzionale. Chi non fa non falla. Se in un carcere non accade nulla di nulla, non accadrà mai neanche un’evasione. Tuttavia, piuttosto che l’immobilismo totale, credo che si potrebbero prendere precauzioni differenti. Veniamo a Valerio Guerrieri. Cosa si imputa ai due poliziotti accusati? Il ragazzo, secondo le indicazioni date, doveva essere controllato ogni quarto d’ora. La firma degli agenti sul registro, proprio al momento drammatico del suicidio, appare invece dopo ventidue minuti dal controllo precedente. Sarebbero stati questi sette minuti di ritardo nel consueto giro di sezione ad aver causato la morte di Guerrieri. Non è anche questa la ricerca di un capro espiatorio? Sarebbe davvero colpa dei due poveri poliziotti? Io credo che piuttosto bisognerebbe interrogarsi su un sistema incapace di intercettare le disperazioni di un ragazzo con problemi psichiatrici che, secondo la stessa disposizione del magistrato, non avrebbe dovuto trovarsi in carcere bensì in una struttura a vocazione sanitaria. Bisognerebbe interrogarsi sul senso del mandare in galera un ragazzo con un evidente disagio mentale perché risponde male a un agente per strada. Bisognerebbe interrogarsi su quella freddezza nella gestione delle vite umane e su quelle mancanze della giustizia che non è giusto ridurre a sette minuti di ritardo. Una giustizia che tuttavia continua ad aver bisogno di capri espiatori. In queste due storie sembra averli trovati. Benevento: pizzini digitali, ispettori nelle carceri “molti buchi nei controlli all’ingresso” di Fabio Postiglione Corriere del Mezzogiorno, 17 ottobre 2017 Operatori penitenziari “infedeli” chiuderebbero un occhio - e talvolta tutti e due durante i controlli agli ingressi degli istituti di pena. Agenti di polizia, infermieri, educatori, medici, volontari: nessuno escluso. È questo il sospetto su cui fonda l’apertura di una maxi inchiesta del Dap - Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - sulle due carceri della Campania finiti nella bufera e ora sotto indagine: Airola, l’istituto minorile dei selfie e delle dediche dei babyboss su Facebook a mamme, fidanzate a alla “famiglia”, e Fuorni, dove la camorra è diventata “4.0” e riesce a veicolare messaggi all’esterno grazie a pen drive che i familiari riescono a passare sottobanco e che vengono “lette” dai computer in dotazione nella struttura penitenziaria durante i corsi scolastici. Lo ha raccontato sabato il Corriere del Mezzogiorno spiegando il sistema, vecchio e rodato da decenni ma sempre attuale, attraverso cui i parenti dei reclusi fanno entrare all’interno delle carceri sia telefoni cellulari con micro sim quasi del tutto invisibili, che archivi digitali nei quali ci sono file che contengono messaggi cifrati: testi di canzoni, sequenze di numeri, pagine internet in “remoto” alle quali si può accedere senza connessioni internet. E anche se le ispezioni nelle celle si susseguono quasi quotidianamente, le maglie del sistema di sicurezza sono troppo larghe e rendono insicure e poco incisive tutte le misure di prevenzione messe in atto dai due direttori dei penitenziari che se pur con impegno e dedizione non riescono a rendere le strutture inviolabili. Perché? È quello che si chiede il Dap che ha aperto una indagine per cercare di comprendere dove si annidano le falle del sistema-sicurezza e se ci siano responsabilità “interne”, ovvero responsabilità dovute alle “inadempienze” o peggio ancora “all’infedeltà” degli operatori che lavorano all’interno delle due strutture. Gli “investigatori” inviati dal Dipartimento, organismo che gestisce tutta “la vita” e l’organizzazione nelle carceri, studieranno ciò che è stato fatto in questi mesi dal punto di vista delle sicurezza interna e quanto possano incidere i comportamenti degli operatori che dal canto loro sono pronti a dimostrare la propria abnegazione e fedeltà. Ciò che è certo è che c’è un calo d’organico che crea non solo agitazione negli agenti, che più volte hanno fatto sentire la loro voce tramite i sindacati di categoria, ma anche insicurezza. “Il cosiddetto e sbandierato “regime aperto” non può essere attuato senza il personale di polizia penitenziaria, senza strumenti tecnologici adeguati. E il ministro Madia cosa fa? Incredibilmente decide di tagliare 4mila unità sulla pianta organica - accusa Ciro Auricchio, segretario regionale dell’Unione sindacale di polizia penitenziaria - Ostinarsi poi a detenere nei penitenziari per minori anche ragazzi fino a 25 anni vanifica tutte le possibilità di recupero”, ha concluso. Firenze: a Sollicciano laboratorio di fotografia del Liceo Artistico di Porta Romana 055firenze.it, 17 ottobre 2017 Detenuti trasformati in modelli dagli studenti. Un percorso progettuale che vede il suo esordio sette anni fa. In occasione del laboratorio di inclusione, che ha luogo ogni anno, alcune docenti del Liceo Artistico di Porta Romana, in collaborazione con la regista Elisa Taddei e i dirigenti della Casa Circondariale di Sollicciano a Firenze, hanno organizzato un laboratorio di fotografia nel carcere utilizzando le persone detenute come modelli. Le foto dei ritratti scattate in due sessioni saranno selezionate, rielaborate attraverso tecniche manuali o digitali, e una di queste verrà scelta per essere stampata come locandina e manifesto dell’opera teatrale “Misfit. Storia di un incontro”, il 18 novembre prossimo presso il carcere, dove in una mostra saranno presentati tutti i lavori prodotti nelle due sessioni fotografiche. Un gruppo di studenti del corso di fotografia, del perfezionamento post diploma del Liceo Artistico di Porta Romana, hanno fatto il loro ingresso nel carcere e installato un autentico studio fotografico dove i detenuti, modelli improvvisati, si sono messi in posa di fronte alle macchine fotografiche degli studenti. I ritratti fotografici sono degli attori detenuti, che metteranno in scena “Odissea, il viaggio di un uomo”, il prossimo 5 dicembre 2017, un remake dello spettacolo di 7 anni fa. Questo ha dato lo spunto per organizzare una mostra che raccoglierà tutti i lavori fatti nel passato, organizzata da Elisabetta Bronzi che rappresenta il trade union fra la Casa Circondariale di Sollicciano e il Liceo Artistico di Porta Romana. Catanzaro: una squadra di detenuti parteciperà al Torneo Amatori Figc di Giuseppe Foti strettoweb.com, 17 ottobre 2017 Un progetto condiviso dalla Casa Circondariale di Catanzaro e dal Comitato Regionale Calabria darà vita alla prima squadra di detenuti. Una novità assoluta che accompagnerà la Calabria calcistica nella stagione 2017/2018; seppure a livello amatoriale, a partire dalle prossime settimane una squadra di detenuti di ella casa circondariale di Catanzaro parteciperà ad un torneo Figc. Sarà cosi data l’opportunità ad uomini, attraverso lo sport a momenti di aggregazione, libertà e solidarietà. Un progetto condiviso dalla direttrice della Casa Circondariale di Catanzaro, Angela Paravati e dal presidente del Comitato Regionale Calabria, Saverio Mirarchi, formalizzato attraverso la firma di un protocollo d’intesa che prevede la partecipazione di una squadra della Casa Circondariale di Catanzaro che debutterà nel campionato di calcio amatoriale in Calabria, inclusi attività sociali e ricreative. Determinata la direttrice Angela Paravati, promotrice di questa importante iniziativa insieme al Comitato Calabria.: “Sono questi i valori sportivi che i detenuti avranno modo di prova e sono molti gli aspetti positivi di questo progetto: il primo è proprio l’utilità dello sport, fondamentale per persone che sono costrette dalla detenzione ad una vita sedentaria. È importante lo sport, perché ti insegna a stare insieme, a rispettare le regole, quindi a socializzare e soprattutto a controllare la propria personalità, quindi sotto questo punto di vista è anche terapeutico. Essere inseriti in un campionato ufficiale è importante perché viene meno l’isolamento a cui i componenti della squadra sono costretti in carcere”. La formazione affronterà il campionato con la sana competizione necessaria. “Sarà un momento di rivalsa - continua la Direttrice Paravati - per chi sta affrontando un processo di riabilitazione sociale, e sa di aver sbagliato. Ed una competizione sportiva darà certamente la possibilità di far emergere i propri lati positivi”. Bologna: una biblioteca della Dozza parlerà al mondo per un possibile carcere diverso di Luciano Conti bandieragialla.it, 17 ottobre 2017 A fine settembre è stata inaugurata la “Biblioteca Massimo Pavarini” nella Sezione penale della Casa circondariale di Bologna. Un dono che il giurista aveva pianificato prima della sua morte, avvenuta nel 2015, e che ha portato avanti la moglie, Pirchia Schildkraut. La biblioteca è costituita da una raccolta di 2500 volumi, di cui 300 non reperibili in altre biblioteche italiane o europee. Tutto il materiale è visibile nel Sistema bibliotecario dell’università ed è accessibile anche agli esterni del carcere. Ai più, forse, il nome Massimo Pavarini non dirà molto, ma, nel mondo accademico e nella comunità scientifica - culturale, in Italia e all’estero, in modo particolare in America Latina, è molto conosciuto e profondamente stimato. Le sue ricerche si sono concentrate sul tema delle pene, studiato criticamente nelle sue giustificazioni teoriche, nelle pratiche, nella dimensione comparata. Alla cerimonia di inaugurazione, che si è tenuta nella chiesa del carcere, erano presenti diverse autorità tra cui la Claudia Clementi, Direttrice della Casa Circondariale di Bologna; Roberto Pandolfi, Dirigente Generale della Formazione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria; Giorgio Basevi, referente responsabile per l’Università del Polo Universitario; la moglie del professor Pavarini, Pirchia Schildkraut; Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale; Nicoletta Sarti, Presidente della Scuola di Giurisprudenza dell’Università di Bologna; Marcello Marighelli, Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale per la Regione Emilia Romagna; Stefano Anastasio, Presidente dell’Associazione Antigone. E poi, naturalmente, era presente una componente di studenti universitari del carcere. Marcello Marighelli, Stefano Anastasio e Mauro Palma hanno ricordato l’impegno e la visione avanzata di Massimo Pavarini di avvicinare il carcere alla città in modo da promuovere la comunicazione tra questi due mondi. È intervenuto anche un detenuto che, in rappresentanza del Polo Universitario, ha messo in valore le grandi aspettative che i detenuti ripropongono nello studio come occasione di crescita e riscatto. La cerimonia, con relativo taglio del nastro, si è conclusa con la visita degli intervenuti, escluso i detenuti, alla “Biblioteca Massimo Pavarini”. In conclusione, è stata una giornata positiva non solo per il carcere di Bologna e l’Università, ma anche per la società civile nel suo complesso. L’auspicio è che alle dichiarazioni degli intervenuti possano presto seguire fatti concreti, dando così pieno onore alla volontà di Massimo Pavarini. Firenze: un corso di scrittura insieme ai detenuti del carcere di Sollicciano notizieinunclick.it, 17 ottobre 2017 “Scrittura d’evasione” questo il titolo del corso ideato e condotto dalla scrittrice Monica Sarsini che si terrà dal 28 novembre nella scuola della casa di reclusione. A partire da martedì 28 novembre e fino alla fine di maggio, il martedì pomeriggio le aule della scuola del carcere di Sollicciano si apriranno agli esterni per il corso di scrittura dal titolo “Scrittura d’occasione” organizzato da Arci Firenze e condotto dalla scrittrice Monica Sarsini. Il corso che sarà seguito sia dagli esterni che dai detenuti del carcere prevede una parte di lezioni frontali e una parte pratica di laboratorio, parteciperanno anche scrittori, giornalisti e docenti universitari tra cui Giulia Caminito che con il romanzo d’esordio “La grande A” ha conquistato pubblico e critica, o come Simona Baldanzi, il cui ultimo libro “Maldifiume” ha riscosso uno straordinario successo, lo scrittore Alessandro Leogrande, vicedirettore della rivista “Lo Straniero” e la poetessa, performer e saggista Rosaria Lo Russo. Quest’anno per la prima volta il corso verterà sul tema del reportage: il racconto del mondo e delle proprie esperienze attraverso immagini, attraverso ritratti di persone, luoghi ed episodi capaci di tratteggiare una tela più ampia e sfaccettata. Per questo, tra gli autori che parteciperanno ci sarà il giornalista Saverio Tommasi e, in veste di documentarista, anche Lorenzo Hendel, regista televisivo già responsabile editoriale della trasmissione Doc3 - lo storico spazio di Rai3 dedicato ai documentari. Le lezioni saranno nella scuola della sezione maschile della casa circondariale di Sollicciano, ogni martedì, dal 28 novembre fino alla fine di maggio, dalle 16 alle 18, per un totale di circa 20 incontri di cui almeno la metà con un taglio laboratoriale. Come già lo scorso anno si potrà scegliere se frequentare tutto il corso oppure solo una parte, in base ai propri interessi e disponibilità. Come già lo scorso anno poi, il corso, farà uscire la parola scritta dal carcere, attraverso la diffusione dei racconti sull’emittente fiorentina Novaradio di cui Arci Firenze è editore, racconti tra i quali si annoverano già i vincitori di diversi premi nazionali. Per partecipare inviare la scheda di partecipazione (scaricabile sul sito di Arci Firenze), insieme a una copia del documento d’identità all’indirizzo sociale@arcifirenze.it entro il 6 novembre (per i tempi necessari al rilascio dei lasciapassare da parte dell’autorità carceraria). Per chi partecipa a tutti gli incontri le soluzioni sono: € 300, in tre rate da € 100 ciascuna; € 250 in un unico versamento, con uno sconto per chi paga l’intero corso in un’unica soluzione; € 150: importo ridotto per l’intero corso per gli studenti universitari (allegando un documento che attesti lo status di studente universitario regolarmente iscritto). Per partecipare a 7 incontri a scelta: € 100 in un’unica soluzione. Palermo: teatro-carcere, in scena al Biondo lo spettacolo “EnigmA23” di Rosa Guttilla ilsicilia.it, 17 ottobre 2017 Da detenuti a attori sul palcoscenico di un teatro istituzionale. L’emozione del debutto nei nuovi abiti, il sogno e il desiderio di riscatto vanno in scena mercoledì 18 ottobre, alle 21, al Teatro Biondo (sala Grande) di Palermo. Lo spettacolo con la regia di Daniela Mangiacavallo si chiama “EnigmA23” ed è il risultato di un intero anno di formazione teatrale con i detenuti ospiti della Casa Circondariale Pagliarelli di Palermo, portato avanti dall’Associazione Baccanica. Dopo aver debuttato all’istituto di detenzione il 10 giugno scorso adesso, per la prima volta, i detenuti usciranno per calcare il palco di un teatro vero. “EnigmA23” è un lavoro sull’onirico, sul cammino dell’uomo rispetto alle proprie scelte e ai propri sogni e sull’imprevedibilità della vita. La drammaturgia originale è di Rosario Palazzolo e Daniela Mangiacavallo. In scena Paolo Bertolino, Antonio Bobone, Maurizio Brunetti, Nicolò Brunetti, Silvio Di Maria, Antonino Di Rosalia, Fabio Gennaro, Carmelo Giannusa, Rosolino Manca, Dionisio Mineo, Andrea Oliveri, Salvatore Parisi, Niko Passafiume, Paolo Pipitone, Valerio Villari e l’attrice Giuditta Jesu. Nel luogo del sogno tante anime in pena aspettano: confuse vagano senza una meta, cercano di trovare un diverso cammino. Lo spettacolo inizia con un invito a riflettere su quale strano enigma sia l’uomo. Occorre risolvere un rebus, lavorare d’ingegno, scomporre ogni singolo passaggio per trovarci un senso compiuto, una ragione a quell’enigma che si chiama vita. Una metafora, dunque, di quanta libertà possa esserci anche dietro le sbarre, il risultato di un progetto nel quale i detenuti si sono messi in gioco, fino a trasformarsi in una vera compagnia teatrale. “Il progetto Evasioni - spiega la regista Daniela Mangiacavallo - è stato molto intenso ed emozionante. Giorno dopo giorno il nostro tentativo è stato quello di permettere ai ragazzi di poter evadere attraverso il gioco teatrale, di andare oltre se stessi, di superare se stessi. Sfidando le proprie capacità, il proprio “saper fare” e di poter sciogliere quei limiti mentali e sociali che noi stessi, a volte, alziamo come muri. Il teatro in carcere è una possibilità, una grande opportunità per vedere il mondo con altri occhi”. Allo spettacolo seguirà una video installazione fotografica di Francesca Lucisano. Scenografie e costumi di Annamaria Salerno, luci e audio di Vincenzo Cannioto e Werther Bottino. Legality Band Project: “Parliamo di legalità a colpi di rock” di Francesco Maria Gallo* La Repubblica, 17 ottobre 2017 Un progetto per stimolare la crescita e la consapevolezza del valore dei luoghi attraverso la musica, che è un linguaggio comprensibile a tutti, nessuno escluso. Lanciare sassi che fanno male. Che devono fare male, colpire i giovani, scuoterli, far loro rimboccare le maniche. Questa è una delle mission di Legality Band, nata quattro anni fa, grazie alla caparbia passione di sette amici che amano il rock e lo interpretano come mezzo di comunicazione sociale e civile soprattutto verso i giovani. Una band che a colpi di rock (in italiano significa sasso, ndr), gira lo Stivale per promuovere il valore della legalità. Non solo. Legality Band Project, attraverso le sette note, crea rumors per stimolare la crescita e la consapevolezza del valore dei luoghi attraverso la musica, che è un linguaggio comprensibile a tutti, nessuno escluso. Insomma, non solo musica ma molto di più. Legality Band è un progetto volto a stimolare consapevolezza ai giovani del loro presente, perché il futuro si crea nel presente, e a creare aggregazione positiva, sinergie, soprattutto su territori difficili. La nascita della band è legata alla mia esperienza umana e personale, figlio di Pretore calabrese in prima linea contro la criminalità. Il mio destino sarebbe dovuto essere quello di laurearmi in giurisprudenza. I miei genitori, nel lontano 1982, mi spedirono a Bologna per farmi studiare all’università, ma quando vi arrivai mi iscrissi invece a Dams. Mio padre inizialmente non la prese proprio bene, e poi man mano si rese conto che quella scelta mi faceva felice e mi sostenne. Lo fece in una maniera assai singolare: ogni volta che stavo preparando un esame mi chiedeva quali libri studiassi. Si comprava gli stessi libri, e li studiava contemporaneamente a me. In realtà avevo deciso di occuparmi del tema della giustizia e della legalità semplicemente da un altro punto di vista. Il mio Rock Sociale nasce molto prima, nella mia Calabria, con il rock popolare de i Calabrolesi, una band ancora esistente e della quale sono il fondatore. Facevamo concerti nei luoghi fortemente contaminati dalla criminalità, ed eravamo centrati sul discorso antimafia. Io però mi accorgevo che oltre alla musica, importantissima, si doveva fare anche altro. In poche parole, mi sono reso conto che per strappare i giovani dal welfare del criminalità, contro il quale mi schiero a duri colpi di rock, bisognava offrire loro anche opportunità concrete di tipo aggregativo, sociale, culturale. Così nasce Legality Band Project. Infatti la vera novità della band sta in ciò che c’è ma non si vede immediatamente sul palco. Noi andiamo sui territori e oltre a suonare, intessiamo relazioni con gli attori locali sani per stimolarli all’aggregazione sociale, al fare rete soprattutto al sud, in sinergia con le associazioni dei territori che attraversiamo con il nostro rock. Connettiamo accompagnando i giovani in una rete virtuosa per una crescita sostenibile: solitaria e solidale. Una crescita in armonia con i territori che temporaneamente dimorano e che chiedono di essere amati. L’idea è quella di diffondere un modello replicabile di crescita sociale e etica, sotteso da un importante messaggio: l’economia civile ed etica è possibile ed è replicabile su qualsiasi territorio. In Legality Band abbiamo alle spalle esperienze musicali diverse. La scelta di questo eclettismo non è casuale, perché vogliamo mostrare che le diversità riescono ad interagire in maniera armonica generando bellezza. E sempre non a caso la nostra musica è fortemente contaminata: ci deve essere un passaggio di comunicazione tra vari linguaggi per comprendersi meglio. Si passa infatti dal rock al pop, all’etno: contaminazioni che creano un mood travolgente, appassionato, vissuto, incazzato ma anche innamorato. I testi sono molto importanti per il loro contenuto etico e sociale. Alcuni inediti scritti da me, come Ventu, ti frichi i d’iddra, la rielaborazione testuale di Bella Ciao e altri sono testi molto noti come ad esempio “Ci vuole un fiore” (testo scritto da Gianni Rodari) o la famosa canzone per bambini “Il Caffè della Peppina”, soltanto cambiati nell’armonia e nel fraseggio musicale, e trasformati in canzoni di urlo per farsi sentire. Ed è per tutto questo che non potevo mancare al Festival della Crescita, quel Movimento per la Crescita Felice, fortemente voluto da Francesco Morace: “una Comunità, non di sangue e di suolo, ma di speranze e progetti reticolari, che conciliano innovazione, etica e sostenibilità” per far germogliare, aggiungo io, quel seme di una crescita armonica che ogni essere umano porta con se dalla nascita. Ius soli. La cittadinanza nella realtà è già cambiata, ora serve la legge di Livia Turco Il Dubbio, 17 ottobre 2017 C’è un aspetto poco sottolineato nel dibattito sulla legge di riforma della cittadinanza per i minori figli di immigrati. La riforma non solo favorisce l’integrazione dei giovani “italiani di fatto” ma propone una idea di cittadinanza in sintonia col nostro tempo. Perché mitiga l’impianto rigorosamente ed esclusivamente ius sanguinis del nostro ordinamento. La legge 91/ 92che disciplina attualmente la materia della cittadinanza si basa infatti in modo esclusivo sul legame di sangue. Affonda le sue radici nella famiglia. La cittadinanza si acquisisce per discendenza, come eredità, o per matrimonio come una dote. Lo ius sanguinis e lo ius connubii son gli assi portanti della nostra legislazione in vigore. La legge 91/ 92 fu elaborata avendo in mente l’Italia dell’emigrazione, fu concepita come uno strumento, in continuità con la legislazione precedente, per mantenere un legame forte tra il nostro paese ed i nostri cittadini emigrati all’estero, legame che attraversa le generazioni. L’articolo 17 della legge 91 aveva aperto una speciale finestra per consentire di riacquistare la cittadinanza agli stranieri di origine italiana residenti all’estero che l’avevano persa per qualunque motivo. La finestra rimase aperta fino al 1997 e consentì a 164.00 persone di diventare italiane. Recentemente con la legge 124/2006 tale finestra è stata riaperta senza limiti di tempo. Per la prima volta il legislatore ha introdotto i requisiti della conoscenza linguistica e dei persistenti legami culturali con l’Italia ma è sufficiente avere almeno un nonno di nazionalità italiana per diventare italiano. Un antenato basta a diventare cittadino con tutti i diritti collegati a questo status che, anche per quanto riguarda gli italiani che sono all’estero, non sono pochi come il diritto di voto. Come è noto la legge in vigore stabilisce a dieci anni di permanenza legale continuativa nel nostro paese, con determinati requisiti che attestino la piena integrazione, la condizione per gli immigrati di rivolgere domanda di cittadinanza, il più elevato a livello europeo, mentre per i minori, unico paese in Europa, la legge stabilisce che essi possano rivolgere domanda per acquistare la cittadinanza se sono vissuti “ininterrottamente” per 18 anni sul territorio italiano. Dunque un minore che deve rientrare nel suo paese per alcuni anni per ragioni indipendenti dalla sua volontà perde il diritto. Per gli stranieri di origine italiana sono richiesti solo tre anni che diventano due se il soggiorno in Italia è avvenuto prima della maggiore età. L’altra via, che ben si inserisce in questa concezione familista della cittadinanza, è l’acquisizione per matrimonio. Il requisito richiesto sono 6 mesi di convivenza matrimoniale se la coppia risiede in Italia e tre anni se risiede all’estero. Tutti gli altri paesi europei richiedono tempi più lunghi di durata del legame per i coniugi residenti nel paese. Con la legge che consente anche alle donne di trasmettere la cittadinanza italiana (legge 123\1983) è concesso anche agli uomini stranieri di fare domanda di naturalizzazione, iure connubii, in qualità di mariti delle italiane. La prima discussione sulla riforma della legge sulla cittadinanza si svolse in un seminario promosso nel febbraio del 1999 dal ministero della Solidarietà Sociale del Governo Amato. Fu una discussione che coinvolse personalità di culture e appartenenze politiche diverse e che partiva già allora da quello che gli operatori sociali e gli educatori definivano “ il limbo dell’identità” che vivevano i ragazzi figli di immigrati cresciuti ed integrati nel nostro paese. Fu sollecitata anche dalla scelta operata dal Governo e dal Parlamento della Germania che riformavano la loro legge sulla cittadinanza temperando il principio dello ius soli. Ne scaturì una proposta di riforma complessiva della legge 91\92 che non fu portata in Consiglio dei Ministri e fu depositata dalla sottoscritta in Parlamento insieme con Luciano Violante nell’agosto del 2001 e costituisce la prima proposta di riforma della cittadinanza. Legge che non ebbe neanche la dignità di una discussione. Bisogna attendere la legislatura iniziata nel 2008 perché il tema sia posto nell’agenda politica del Parlamento, anche grazie ad una forte mobilitazione sociale, con una discussione molto forte ed aspra che vide il centrodestra sulle barricate per impedirne l’approvazione. Non propongo certamente di mettere in discussione il nostro speciale legame con gli italiani che vivono in tante parti del mondo e che da emigrati hanno contribuito a far crescere il nostro paese. Quello che mi sembra necessario è porre il nostro paese in sintonia con i cambiamenti sociali e culturali che sono intervenuti e dunque mitigare il legame di sangue e familiare quali esclusivi pilastri della cittadinanza con una concezione della medesima che valorizza la permanenza nel territorio della nazione ospitante, la condivisione dei valori e delle regole del nostro paese, il legame di amicizia ed il perseguimento concreto e condiviso del bene comune. La cittadinanza come “amicizia civica e comunità di destini”. In cui conta molto il “per che cosa viviamo insieme” “come realizziamo insieme il bene comune”. È esattamente questo il valore aggiunto che apporta la legge in discussione sulla riforma della cittadinanza quando prevede che i minori nati in famiglie lungo-residenti e integrate, gli adolescenti che abbiano frequentato un ciclo di studi, siano considerati italiani, su richiesta dei genitori e con successiva convalida della scelta al diciottesimo anno da parte del singolo giovane. Anziché accanirsi contro queste norme di buonsenso conviene avere ben presente che lo sforzo grande che deve fare il nostro paese è quello di prevenire il conflitto delle seconde generazioni esploso in altri paesi europei. Come reazione alle condizioni di esclusione in cui sono vissuti nonostante la promessa di uguaglianza che lo Stato e le istituzioni avevano loro fatto. Bisogna, insieme alla legge, fare grandi e mirati interventi nella formazione, per creare opportunità di reale apprendimento della Lingua italiana, della cultura; per consentire e favorire l’accesso a percorsi formativi capaci di inserire nel mercato del lavoro. Ci devono preoccupare gli abbandoni scolastici, la rinuncia a perseguire gli studi da parte di tanti giovani figli di immigrati. Inoltre, bisogna promuovere tra i giovani, nuovi italiani, un adeguato senso civico attraverso la cittadinanza attiva come la partecipazione al servizio civile e ad altre forme di impegno sociale e culturale che veda i giovani e le ragazze, italiani e nuovi italiani, tra loro mescolati. La mescolanza, l’interazione nei gesti della vita quotidiana, la condivisione di obiettivi comuni, il conoscersi e riconoscersi sono le strade che realizzano la convivenza e che garantiscono la sicurezza per tutti/ e. Il papa alla Fao: “un patto mondiale sulle migrazioni per battere la fame” di Luca Kocci Il Manifesto, 17 ottobre 2017 La fame non è una “malattia inguaribile” generata da un destino avverso, ma la conseguenza di “conflitti e cambiamenti climatici”. Papa Francesco, per la Giornata mondiale dell’alimentazione, nell’anniversario della fondazione della Fao (16 ottobre 1945), si reca alla sede romana dell’agenzia Onu per la nutrizione e l’agricoltura, propone la sua analisi (guerre, sfruttamento indiscriminato delle risorse del pianeta e cambiamenti climatici cause della fame e delle migrazioni) e detta la sua ricetta per combattere la malnutrizione: “l’amore che ispira la giustizia” e che dovrebbe essere trasformato in azioni concrete dagli organismi internazionali. Un discorso che mette a fuoco le cause e che poi propone soluzioni tanto condivisibili quanto generiche. Del resto Francesco parla da pontefice e fa appello alle coscienze. L’analisi individua le ragioni della fame e delle migrazioni: i “conflitti e i cambiamenti climatici”. “Come si possono superare i conflitti?”, si chiede papa Francesco. Impegnandosi “per un disarmo graduale e sistematico” e fermando la “funesta piaga del traffico delle armi”: a che serve “denunciare che a causa dei conflitti milioni di persone sono vittime della fame e della malnutrizione, se non ci si adopera efficacemente per la pace e il disarmo?”. “Quanto ai cambiamenti climatici, ne vediamo tutti i giorni le conseguenze”, aggiunge Francesco. L’Accordo di Parigi sul clima affronta il problema, ma “alcuni si stanno allontanando”. Al presidente Usa Trump saranno fischiate le orecchie. “Riemerge la noncuranza verso i delicati equilibri degli ecosistemi, la presunzione di manipolare e controllare le limitate risorse del pianeta, l’avidità di profitto”, prosegue il papa, che auspica “un cambiamento negli stili di vita, nell’uso delle risorse, nei criteri di produzione, fino ai consumi”. “Guerre e cambiamenti climatici determinano la fame, evitiamo dunque di presentarla come una malattia incurabile”. L’invito è a “cambiare rotta”. Non con le ricette maltusiane (“diminuire il numero delle bocche da sfamare” “è una falsa soluzione se si pensa ai modelli di consumo che sprecano tante risorse”), ovviamente irricevibili per la dottrina sociale della Chiesa, ma con un’equa distribuzione delle risorse. Anche se, precisa Francesco, “ridurre è facile, condividere invece impone una conversione, e questo è impegnativo”. Interviene allora il comandamento evangelico dell’amore, “principio di umanità nel linguaggio delle relazioni internazionali”. “La pietà - aggiunge il papa - si ferma agli aiuti di emergenza, mentre l’amore ispira la giustizia”. Declinato concretamente significa contribuire a che “ogni Paese aumenti la produzione e giunga all’autosufficienza alimentare”, “pensare nuovi modelli di sviluppo e di consumo”. Profughi, muri e nazionalismo così è nata l’onda nera dell’Est di Tonia Mastrobuoni La Repubblica, 17 ottobre 2017 Ecco quali sono i movimenti populisti, nazionalisti ed euroscettici che si stanno prendendo i Parlamenti e i governi europei: dall’Austria alla Polonia, dall’Ungheria alla Grecia, fino a Belgio e Danimarca. La destra oltranzista del Fpo e di Heinz-Christian Strache vola alle elezioni austriache, confermando l’avanzata generale in tutto il vecchio Continente dei movimenti populisti, xenofobi ed euroscettici. Al governo o in Parlamento le destre hanno rafforzato le loro posizioni in gran parte dell’Europa. Cechia: A pochi giorni dalle elezioni parlamentari del 20 e 21 ottobre, nulla sembra poter fermare la corsa dell’imprenditore miliardario e proprietario di vari media Andrej Babis, leader del movimento populista Ano 2011 (Alleanza del cittadino scontento). Il movimento anti-establishment, dai toni radicali sui migranti, viene dato in grande vantaggio nei sondaggi, nonostante in passato accuse e sospetti abbiano costretto Babis a dimettersi da ministro delle finanze. Germania: Alternative fuer Deutschland (AfD) è il terzo partito nel Paese, e con oltre il 13% dei voti alle consultazioni di settembre ha fatto il suo ingresso per la prima volta al Bundestag, con 94 deputati su un totale di 630. Nei Land orientali l’AfD si è imposta come secondo partito, diventando il primo in Sassonia con il 27% dei voti. Francia: La leader del Front National Marine Le Pen è arrivata al ballottaggio con Emmanuel Macron alle elezioni di aprile, raccogliendo uno storico 21,53%. Ma Fn si è poi fermato al 13,2% alle legislative di giugno, ottenendo comunque 8 seggi in Parlamento rispetto ai due della passata legislatura. Ungheria: Il partito Jobbik aveva ottenuto oltre il 20% dei consensi alle politiche dell’aprile 2014 e rimane il partito di estrema destra più rappresentato in un parlamento europeo. La formazione, seconda nei sondaggi, punta a diventare il primo partito del Paese alle prossime elezioni nel 2018. Il premier Viktor Orban, premier di destra nazionalista e anti-immigrazione, è a capo di Fidesz, di stampo nazionalista ed euroscettico, che nonostante rientri nella famiglia europea del Ppe ingaggia spesso duri confronti con Bruxelles. Olanda: Alle elezioni del marzo scorso, il Partito per la Libertà (Pvv) di Geert Wilders, anti-Ue e anti immigrati, è arrivato secondo dietro il Vvd del premier Mark Rutte (33 seggi). Ha preso il 13,1% dei consensi, ottenendo 20 seggi, cinque in più rispetto al 2012. Slovacchia: Un elettore su cinque ha votato estrema destra alle politiche di marzo. Il Partito Nazionale Slovacco (Sns) di Marian Kotleba, neonazista, ha ottenuto oltre l’8% ed è nella coalizione di governo con tre ministri. Polonia: Risultato plebiscitario nell’ottobre 2015 per il partito nazionalista e ultraconservatore Giustizia e Libertà (Pis) fondato dai fratelli Kaczynski, al potere con la premier Beata Szydlo, decisamente in rotta di collisione con Bruxelles. Finlandia: Il partito di destra dei Veri Finlandesi è nella coalizione di governo formata dal premier centrista Juha Sipila nel 2015. Timo Soini, il leader del movimento che ha fatto dell’euroscetticismo la sua principale carta elettorale, è ministro degli Esteri e degli Affari europei. Danimarca: Lo xenofobo Partito del Popolo danese (Df) si è confermato seconda forza politica alle elezioni del 2015, col 21,1% dei voti. Il premier Lars Lokke Rasmussen lo ha lasciato fuori dal governo. Grecia: Nel 2015 i neonazisti di Alba Dorata hanno ottenuto oltre il 7% dei voti e rappresentano la terza forza politica. Belgio: Dall’ottobre 2014 sono nella coalizione di governo i nazionalisti fiamminghi dell’N-VA, del sindaco di Anversa Bart DeWever. Ha ottenuto il 33% dei voti e punta all’indipendenza delle Fiandre. Bipartisan il riarmo Usa anti-Russia di Manlio Dinucci Il Manifesto, 17 ottobre 2017 I Democratici, che ogni giorno attaccano il repubblicano Donald Trump per le sue dichiarazioni bellicose, hanno votato al Senato insieme ai Repubblicani per aumentare nel 2018 il budget del Pentagono a 700 miliardi di dollari, 60 miliardi in più di quanto richiesto dallo stesso presidente Trump. Aggiungendo i 186 miliardi annui per i militari a riposo e altre voci, la spesa militare complessiva degli Stati uniti sale a circa 1000 miliardi, ossia a un quarto del bilancio federale. Decisivo il voto all’unanimità del Comitato sui servizi armati, formato da 14 senatori repubblicani e 13 democratici. Il Comitato sottolinea che “gli Stati uniti devono rafforzare la deterrenza all’aggressione russa: la Russia continua ad occupare la Crimea, a destabilizzare l’Ucraina, a minacciare i nostri alleati Nato, a violare il Trattato Inf del 1987 sulle forze nucleari a raggio intermedio, e a sostenere il regime di Assad in Siria”. Accusa inoltre la Russia di condurre “un attacco senza precedenti ai nostri interessi e valori fondamentali”, in particolare attraverso “una campagna diretta a minare la democrazia americana”. Una vera e propria dichiarazione di guerra, con cui lo schieramento bipartisan motiva il potenziamento dell’intera macchina bellica statunitense. Queste alcune delle voci di spesa nell’anno fiscale 2018 (iniziato il 1° ottobre 2017): 10,6 miliardi di dollari per acquistare 94 caccia F-35, 24 in più di quanti richiesti dall’amministrazione Trump; 17 miliardi per lo “scudo anti-missili” e le attività militari spaziali, 1,5 in più della cifra richiesta dall’amministrazione; 25 miliardi per costruire altre 13 navi da guerra, 5 in più di quante richieste dall’amministrazione. Dei 700 miliardi del budget 2018, 640 servono principalmente all’acquisto di nuovi armamenti e al mantenimento del personale militare, le cui paghe vengono aumentate portando il costo annuo a 141 miliardi; 60 miliardi servono alle operazioni belliche in Siria, Iraq, Afghanistan e altrove. Vengono inoltre destinati 1,8 miliardi all’addestramento e l’equipaggiamento di formazioni armate sotto comando Usa in Siria e Iraq, e 4,9 miliardi al “Fondo per le forze di sicurezza afghane”. Alla “Iniziativa di rassicurazione dell’Europa”, lanciata nel 2014 dall’amministrazione Obama dopo “l’aggressione revanscista russa all’Ucraina”, vengono destinati nel 2018 4,6 miliardi: essi servono ad accrescere la presenza di forze corazzate statunitensi e il “preposizionamento strategico” di armamenti Usa in Europa. E inoltre vengono stanziati anche 500 milioni di dollari per fornire “assistenza letale” (ossia armamenti) all’Ucraina. L’aumento del budget del Pentagono traina quelli degli altri membri della Nato sotto comando Usa, compresa l’Italia la cui spesa militare, dagli attuali 70 milioni di euro al giorno, dovrà salire verso i 100. Allo stesso tempo il budget del Pentagono prospetta che cosa si prepara per l’Italia. Tra le voci di spesa minori, ma non per questo meno importanti, vi sono 27 milioni di dollari per la base di Aviano, a riprova che continua il suo potenziamento in vista dell’installazione delle nuove bombe nucleari B61-12, e 65 milioni per il programma di ricerca e sviluppo di “un nuovo missile con base a terra a raggio intermedio per cominciare a ridurre il divario di capacità provocato dalla violazione russa del Trattato Inf”. In altre parole, gli Stati uniti hanno in programma di schierare in Europa missili nucleari analoghi ai Pershing 2 e ai Cruise degli anni Ottanta, questi ultimi installati allora anche in Italia a Comiso. Ce lo annuncia dal Senato degli Stati uniti, con il suo unanime voto bipartisan, il Comitato sui servizi armati. Brasile. Tutte le incognite della Corte suprema sul caso Battisti di Angela Nocioni Il Dubbio, 17 ottobre 2017 Difficile l’estradizione, malgrado le pressioni. Sarà il plenum del Tribunale supremo, non la prima commissione dell’Alta corte a decidere sulle obiezioni della difesa che denuncia l’illegalità dell’estradizione di Cesare Battisti richiesta dal governo italiano. Non cinque giudici, quindi, ma 11. Le pressioni dell’ambasciata italiana sulle istituzioni brasiliane sono andate a buon fine e la decisione sulla sorte dell’ex militante dei Proletari armati per il comunismo condannato in Italia all’ergastolo per quattro omicidi è stata spostata al plenum. Qui la difesa di Battisti ha, si può supporre dalla conoscenza dell’orientamento dei singoli giudici in materia, la strada più accidentata che in commissione, dove si prevedeva una vittoria della difesa. La prima riunione del plenum sul caso, che potrebbe emettere subito una sentenza o aprire invece una lunga discussione, è fissata per il 24 ottobre. Anche se nel plenum la strada per la difesa è tutta in salita, non pare per nulla scontato un parere favorevole alle richieste italiane. Ve- diamo perché. Degli 11 giudici voteranno sul dossier solo 8 perché 3 si dichiarano “impediti”. In Brasile è il singolo giudice dell’Alta corte a decidere se ritenersi impossibilitato a partecipare a un voto. Si dichiarerà tale sicuramente Roberto Barroso, perché è stato in passato difensore di Battisti. Per quanto se ne sa al momento, non parteciperanno neanche i ministri (così si chiamano i giudici del Su- premo, niente a che vedere con la carica di ministro del governo) Tofoli e Celso de Melo. Degli otto rimanenti, la presidente Cármen Lúcia voterà solo in caso di pareggio. Marco Aurélio Mendes de Farias Mello, cugino dell’ex presidente De Mello, è un garantista a tutto tondo. Voterà a favore dell’habeas corpus di Battisti. Ne ha concessi di ben più clamorosi. Nel giugno del 2000 votò a favore della scarcerazione di Salvatore Cacciola, il proprietario del Banco Marka, banca fallita. Cacciola era accusato di esser costato più di un miliardo e mezzo di reais alle casse pubbliche brasiliane. Scappò, venne in Italia, poi se ne andò a Monaco di Baviera e lì fu arrestato e portato in Brasile. Il giorno del suo arresto il giudice Marco Aurélio disse che non si pentiva per niente del voto favorevole alla scarcerazione, che aveva votato bene e che l’avrebbe fatto di nuovo. Votò a favore anche della concessione dell’habeas corpus di Suzane von Richthofen, una ricca ragazza di San Paolo accusata di aver ucciso i genitori. Un caso di cronaca morboso e succulento in cui schierarsi a favore della liberazione dell’accusata fu un gesto molto poco popolare. E, soprattutto, il ministro Marco Aurelio si è schierato in passato in favore di altri tre italiani con un passato di lotta armata alle spalle scappati in Brasile: Lollo, Mancini e Pessina. Il ministro Luis Fux è quello che venerdì sera ha deciso che non poteva essere lui, come giudice monocratico, a dare una risposta definitiva alla vicenda e che fosse il caso di esaminare il dossier in commissione (decisione poi fatta slitare al plenum). Quindi è ipotizzabile che sia perplesso sull’estradibilità, altrimenti si sarebbe già espresso. Probabile un suo sì all’habeas corpus. Anche il ministro Edson Fachin è prevedibile voti a favore. La vera incognita è la ministra Rosa Weber. Viene dal diritto del lavoro. È stata nominata per l’Alta Corte dalla ex presidente Dilma Rousseff. La difesa di Battisti suppone, ma non ne è per nulla certa, di poter contare sul suo parere favorevole. Poi c’è il ministro Alexandre De Moraes, 48 anni, nominato quest’anno per sostituire Teori Zavascki, morto in un incidente aereo il 19 febbraio. È uomo di Michel Temer. Prevedibile un suo voto di respingimento all’habeas corpus. Contrari alla richiesta della difesa dovrebbero essere anche i ministri Gilmar Mendes e Ricardo Lewandowski. Quindi, nonostante il passaggio dalla prima commissione al plenum, la difesa potrebbe vincere per 4 a 3. Il nodo politico della vicenda è che, poiché non è riuscita l’operazione di estradare al volo Battisti caricandolo su un volo della polizia federale brasiliana (che è confermato essere stato pronto al decollo in una pista della sperduta Curumbà in peno Mato grosso già poche ore il provvidenziale fermo dell’italiano vicino al confine con la Bolivia) ora la partita si gioca dentro il Supremo e rientrerà nel complesso conflitto tra giudiziario ed esecutivo che agita le istituzioi brasiliane. I giudici dell’Alta Corte, oltre a motivazioni giuridiche per accogliere le richeiste della difesa, potrebbero avere ragioni proprie per non darla vinta a Temer. Ecco perché l’ambasciata italiana aveva tanta fretta di imbarcare Battisti su quell’aereo subito dopo l’arresto. Malta. Giornalista uccisa: una bomba nell’auto per fermare Daphne di Francesco Battistini Corriere della Sera, 17 ottobre 2017 L’ultimo post: “Corrotti ovunque”. La blogger uccisa da una esplosione mentre era nella sua auto. Aveva denunciato il governo di centrosinistra di corruzione. Il premier Muscat ha annunciato una conferenza stampa. “Se le parole sono perle, il silenzio vale di più”. Una mattina, Daphne Caruana Galizia se l’era trovato scritto sul muro di casa. E s’era spaventata, sapendo che certe parole sono pallottole e certi silenzi eterni. Non s’era abituata alle intimidazioni, per quante ne avesse ricevute: nel 2006, le avevano bruciato l’auto per un articolo sulla corruzione; a febbraio, per una cerimonia di governo, le fecero sapere che la sua presenza non era gradita; quindici giorni fa, esasperata, aveva denunciato minacce di morte. La polizia non l’aveva messa sotto scorta. E ieri pomeriggio Galizia, 53 anni, già cronista di punta del quotidiano d’opposizione Malta Independent, pochi minuti dopo aver aggiornato il suo blog Running Commentary, ha salutato i figli, è uscita dalla casa di Mosta, è salita sulla Peugeot 108 che aveva noleggiato ed è saltata in aria. Un’esplosione azionata da un telecomando, così forte da sbalzare la macchina di qualche metro. E lasciare Galizia carbonizzata, al volante. La cosa più difficile da trovare è il movente. La blogger era seguitissima, 400 mila lettori in un’isola di 420 mila persone, grande come l’Elba. Indicata dalla stampa statunitense fra i 28 personaggi che più scuotono l’Europa, assieme a Erdogan e a Soros, Daphne accusava di traffici illeciti tanto un potente come Konrad Mizzi, ministro dell’Energia di un’isola strategica per gasdotti e rotte petrolifere, quanto il capo dell’opposizione, Adrian Delia, per oscuri affari di droga. Un giorno se la prendeva con la ministra dell’Educazione, un altro con quello della Comunicazione. Linguaggio diretto, nessuno sconto, poca paura delle mafie. Di recente aveva ironizzato anche su una fiction della Rai, “Maltese”, che guarda caso aveva scelto di dare un nome simile a un personaggio costretto ad aggirarsi fra i clan... “La situazione è disperata - aveva appena scritto la giornalista nel suo ultimo post -, ovunque io guardi, vedo solo corruzione”. Dove guardava, ne scovava. E ne scriveva. Pestando i piedi a politici e affaristi, battendo un’isola del tesoro popolata da 70 mila società offshore, dalle sedi dei più grandi gruppi mondiali del gioco d’azzardo, dove vivono boss della ‘ndrangheta ed ex potenti della Libia di Gheddafi, fra tasse vantaggiose, finte residenze, facili riciclaggi, segreti bancari ben custoditi... La corruzione più grossa, Galizia l’aveva denunciata in aprile. Spulciando i Panama Papers dei grandi evasori fiscali di tutto il mondo. E imbattendosi in una piccola banca maltese, la Pilatus, di proprietà dei figli del dittatore dell’Azerbaigian, un Paese che da anni sigla privilegiati accordi energetici e commerciali con Malta. Per la Pilatus Bank, erano passati bonifici milionari a una società di Dubai che risultava intestata a Michelle Muscat, la moglie del premier maltese Joseph, in quel momento presidente di turno Ue. Uno scandalo, questi Malta-files. Tanto evidente da costringere Muscat a dimettersi - caso unico: un capo di governo che deve lasciare mentre guida l’Unione a Bruxelles - per indire nuove elezioni (subito rivinte). “Oggi è un giorno nero per la democrazia”, è ora il commento dell’imbarazzato premier, che aveva appena trascinato la blogger in tribunale per diffamazione: “Tutti sanno quanto Galizia fosse critica verso di me, sia a livello personale che politico. Ma nessuno può giustificare questo atto barbaro. Non avrò pace finché non sarà fatta giustizia”. I Malta-files sono la pista principale, ma non l’unica. Galizia aveva scavato l’isola ovunque, non la amava più tanto: “Passino sul mio corpo - aveva scritto un giorno, non voglio che i miei figli restino incollati a queste rocce”. Iraq. Un anno fa l’inizio della battaglia di Mosul: 800.000 sfollati ancora sotto le tende di Riccardo Noury Corriere della Sera, 17 ottobre 2017 In occasione del primo anniversario dell’inizio dell’offensiva delle forze irachene e della coalizione a guida Usa per strappare la città di Mosul al gruppo armato Stato islamico, Amnesty International ha ricordato che per centinaia di migliaia di abitanti le conseguenze sono state catastrofiche. Intere famiglie sono state sterminate dalle bombe della coalizione cadute incessantemente dal cielo o massacrate dai miliziani dello Stato islamico mentre fuggivano o perché rifiutavano di fare gli scudi umani. Molti corpi, o ciò che ne rimane, delle vittime degli attacchi aerei sono ancora oggi sotto le macerie. Chi è stato abbastanza fortunato da riuscire a scappare vive in condizioni insopportabili in campi improvvisati e con di fronte a sé un futuro incerto. In 800.000 sono ancora sotto le tende, senza accesso adeguato a cure mediche, acqua e cibo. Molti degli sfollati vivono anche nella paura. Le esecuzioni extragiudiziali da parte delle forze filo-governative sono in aumento, insieme a processi frettolosi e irregolari che terminano con esecuzioni e che si basano spesso su ‘confessioni’ estorte con la tortura. Le forze irachene e la coalizione a guida Usa hanno finora evitato di riconoscere che le loro operazioni militari a Mosul hanno comportato gravi perdite di vite umane. Anche per questa mancata assunzione di responsabilità e di provvedimenti adeguati, c’è la certezza che i civili finiti in mezzo in altri conflitti subiranno analoghe catastrofiche conseguenze. Come ad esempio quelli di Raqqa.