Ragazzi che hanno coltivato la passione triste per la droga Il Mattino di Padova, 16 ottobre 2017 Ragazzi che, invece di passioni che ti riempiono la vita, hanno coltivato passioni che la vita te la prosciugano, come quella per la droga: il carcere ne è pieno. I racconti dei due giovani detenuti che riportiamo si assomigliano perché quando la droga irrompe nella vita delle persone, rende il finale della loro storia sempre tragicamente uguale: i primi reati, il carcere, all’inizio una rapida uscita che fa illudere che nel nostro paese le pene siano brevi, poi di nuovo il carcere, la recidiva che rende le pene sempre più pesanti, la difficoltà a uscire da quel tunnel. Pensavo solamente a spacciare, divertirmi e basta Mi chiamo K., ho 23 anni, sono nato a Padova attualmente mi trovo in carcere nella Casa di reclusione della mia città, devo scontare una pena di 2 anni e 11 mesi per reati commessi nel 2015 e nel 2016. Da bambino avevo un sogno: volevo diventare un calciatore, per me il calcio veniva prima di tutto, ho sempre giocato a calcio anche nel periodo in cui ho commesso i miei reati. A scuola invece sono andato fino alla seconda superiore, poi ho smesso anche perché facevo un altro tipo di vita. Non ero uno studente modello, sono stato bocciato in prima media e in seconda superiore. A 14 anni mi sono fumato la mia prima canna, ho iniziato verso i 16 anni a farne uso regolarmente e non solo, anche a spacciare. All’inizio vendevo solamente ai miei compagni di scuola, ma poi ho deciso di allargarmi e spacciare nelle piazze. Un anno dopo ho iniziato ad avere un giro tutto mio e proprio per questo ho deciso di smettere di andare a scuola, pensavo solamente a spacciare, divertirmi e basta. Nello stesso anno ho iniziato a fare uso di cocaina, i miei amici già tiravano, io all’inizio non ne volevo sapere, ma poi come si dice: “Se vai con lo zoppo impari a zoppicare”. Quasi tutti i giorni tiravamo, ho passato molte notti in bianco, eravamo una compagnia violenta, ci piaceva farci vedere ma soprattutto ci piacevano i soldi facili, quella era la nostra passione. Il mio primo arresto fu nel 2013 con altri due della baby gang della Guizza, con le accuse di estorsione, minacce continue, ma il vero motivo era la droga: un debito di marjuana non pagato. Feci sette mesi ai domiciliari, poi, grazie a un lavoro in una cooperativa, durante la detenzione uscivo per lavorare. Una volta fuori ripresi a fare la stessa vita che facevo prima. Nel 2014 sono andato in Slovenia con un amico e abbiamo conosciuto un fornitore che ogni una - due settimane ci portava un carico di marjuana, la cosa durò un paio di mesi perché avevamo la polizia addosso. Proprio quell’anno me n’ero andato via di casa perché i miei si erano separati, mia mamma se n’era andata in Francia con mia sorella e io, mio papà e mio fratello rimanemmo a Padova. Il 13 settembre 2015 mi arrestarono ancora, sempre a causa dei debiti non pagati per la marjuana, per la prima volta vidi il carcere, ma non capii abbastanza quel mondo, anche perché dopo quattro mesi circa uscii ai domiciliari a Pordenone da mia zia. A Pordenone in quel periodo qualcosa veramente era cambiato anche grazie all’amore, l’amore quello vero, ma appena misi di nuovo piede a Padova tutto tornò come prima, di nuovo la cocaina, lo spaccio e la vecchia compagnia. Nell’estate fui lasciato dalla ragazza di Pordenone e a settembre mi arrestarono di nuovo per spaccio. Anche stavolta non avevo capito com’era davvero il carcere, perché dopo 1 mese e 23 giorni ero uscito di nuovo e avevo ripreso a fare la stessa vita. Passavo le giornate a spacciare, fumare, tirare la cocaina fino al gennaio 2017, quando mi consegnai, sapendo che mi cercavano perché mi era arrivata la condanna definitiva. Ho cominciato a capire davvero com’è il carcere quando dal circondariale mi trasferirono al penale, dove ci sono persone con condanne più lunghe. Tante volte guardo gli occhi di alcuni detenuti e dai loro occhi capisco il dolore che stanno provando. C’è chi non sa più cosa troverà oltre queste mura, c’è gente che non ricorda nemmeno il rumore di una macchina. Io a volte mi sono sentito fortunato, perché ho una condanna piccola a differenza di altri, perché sono giovane e tanti di loro vorrebbero essere al mio posto, e perché ora ho visto la vera realtà del carcere. Mi piacerebbe avere l’occasione di confrontarmi con gli studenti, raccontargli la mia storia, quello che ho imparato e soprattutto capito e fargli capire quanto è importante la libertà, e quanto sia facile scivolare in comportamenti che poi ti fanno ritrovare rinchiuso in una cella. K. L. Poi un giorno la cocaina ha preso il sopravvento su di me La mia storia è legata all’abuso di stupefacenti, che mi ha portato per ben cinque volte in carcere. Ma diciamo che è stata pure, in qualche modo, una mia scelta di vita, anche se un po’ condizionata, nel senso che in quegli anni nei quali ero immerso nei guai, ero troppo giovane e ad un tratto mi sono trovato, ormai 18enne, davanti a un bivio dove da una parte c’era la strada buona e dall’altra quella cattiva, e io ho scelto la cattiva. Io nasco in una famiglia modesta e umile della provincia di Lecce, e qui non posso non parlare del degrado che c’è un po’ in tutto il Sud e che sicuramente ha influenzato le mie scelte e limitato le mie possibilità, ma ciò non sta affatto a giustificarmi. Avevo 7/8 anni quando cominciai a fare piccoli furti, entravo nei supermarket e appena la cassiera era distratta mi infilavo in tasca pacchi di caramelle. A quell’età non capivo, ero un ragazzo timido e introverso, ma anche tanto sveglio e malato nel cervello, che alzava il tiro anno dopo anno passando dalle caramelle ai furti nelle auto. Poi cominciai a puntare proprio ai soldi, cosa che la mia famiglia non poteva darmi perché non ne aveva, andavo a derubare i supermarket nell’orario della pausa pranzo e mi portavo via l’incasso, o comunque derubavo ogni tipo di negozio che avesse un fondo cassa, ciò mi permetteva di andarmene in sala giochi e pagare per me e per i miei amici che, come me, erano sprovvisti di tutto. Crescendo non mi bastava più giocare ai videogame, i soldi che mi giravano in tasca erano tanti per la mia età e da lì nacque la mia prima dipendenza: il gioco d’azzardo, i video poker. Avevo 12 anni e arrivavo a spendere sulle macchinette cifre spaventose ogni giorno. Ad un certo punto nelle sale giochi ci andavo per scassinare le macchinette e portare via i soldi, non mi serviva più giocare, avevo cominciato con la cocaina, l’inizio della mia distruzione. La mia prima pena la scontai, a 15 anni, per un furto in un appartamento. La seconda, a 16 anni, per un furto d’auto. In carcere, si sa, ci stanno i delinquenti ed ogni carcerazione per me è equivalsa paradossalmente ad un anno di scuola criminale. Tant’è che la terza carcerazione era relativa ad una piccola rapina in un negozio d’abbigliamento dopo l’ennesima evasione da una comunità. Ora cerco di spiegare quali sono stati i vari passaggi del mio approccio alla droga. Non so se anche oggi sia così ma qualche anno fa si diceva che la prima volta è sempre gratis, te la offrono. Ebbene sì, a me è successo proprio così, sia col primo spinello, sia con la prima sniffata di cocaina. In una villa comunale del mio paese vedevo spesso dei ragazzi più grandi di me fumare l’erba e un giorno passando da lì uno di loro mi diede in mano una canna e disse “fatti due tirate”, e io le feci. Per la cocaina, invece, ero fuori da una sala giochi che frequentavo assiduamente, quando arrivò in macchina uno che conoscevo, più grande di me anche lui, (io frequentavo spesso ragazzi più grandi di me) e scendendo dalla macchina chiamò 3/4 persone, compreso me, e vuotò sul cruscotto una bustina di cocaina, stese le righe, tirammo e via… da quell’episodio passò un po’di tempo e poi la cocaina ha preso il sopravvento su di me. Le sigarette le fumavo già a 11 anni, le prime bevute di birra e i primi spinelli a 12 anni, prima di entrare a scuola fumavo due spinelli uno dietro l’altro con un mio amico, gli unici di tutta la scuola a farsi le canne alle medie eravamo noi. E questo ci faceva sentire grandi, importanti, addirittura una volta entrai in classe sotto l’effetto di una pastiglia di amfetamina e mi resi conto che quella sostanza mi portava in uno stato di disinibizione, mi faceva parlare di più con gli altri, cosa che solitamente non facevo. Ero in piena crisi adolescenziale, cominciavo a prendere consapevolezza del mio corpo, del mio carattere, dei miei difetti, ero riservato e timido, ad esempio il fatto che avevo problemi ai denti e i miei genitori non potevano permettersi di pagare un dentista mi faceva stare di un male cane, stavo male quando si era in gruppo e l’unico a non dire una parola ero io, mi sentivo inadeguato, avevo dei complessi di inferiorità, quindi, per sentirmi all’altezza degli altri, andavo continuamente a rubare, perché una certa categoria di persone addirittura mi lodava e questo mi faceva sentire importante. Da lì cominciai a frequentare sempre persone più grandi di me, che facevano uso di sostanze, eroina e marijuana in particolare, ma non disdegnavano la coca. Queste mie frequentazioni con persone dai 20 anni in su, cominciate quando io avevo soli 13 anni, sono state l’inizio della mia distruzione con la droga. Andrea I “colletti bianchi” impuniti e la Commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche di Ferruccio de Bortoli Corriere Economia, 16 ottobre 2017 I colletti bianchi non pagano mai? O, se accade, poco e tardi? Questi e altri interrogativi sono destinati a tornare di stretta attualità nel momento in cui la commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche, presieduta da Pier Ferdinando Casini, comincerà il suo incerto cammino. Ma è poi vero che i reati finanziari o contro la pubblica amministrazione, rispetto all’esperienza di altri Paesi, sono meno perseguiti e raramente puniti? Le sanzioni per la corruzione sono state inasprite nel 2015 (massimo dieci anni) con limiti al patteggiamento. L’impianto normativo è cambiato sul falso in bilancio dopo anni di visione quantomeno lasca se non giustificativa. Con il contestato nuovo codice antimafia il sequestro preventivo si estende, fra polemiche e dubbi di legittimità, agli indiziati anche di associazione a delinquere finalizzata a reati contro la pubblica amministrazione. La legge fallimentare, appena approvata definitivamente dal Senato, frutto dei lavori della commissione Rordorf, completa un quadro legislativo in forte, anche se non coerente, evoluzione. In particolare, estende l’obbligo di nomina dell’organo di controllo o del revisore nelle società a responsabilità limitata. Certo, se si alza lo sguardo a quello che succede altrove, la nostra stretta sui colletti bianchi impallidisce. Arsenale inefficiente? Bernard Ebbers, chief executive officer di Worldcom, ha subito la condanna a 25 anni di prigione per quella che è stata definita, nel 2002, come la più grande frode nella storia degli Stati Uniti. Jeffrey Skilling, ceo del gigante energetico texano Enron, costretto alla bancarotta nel 2001, si è preso la bellezza di 24 anni e 4 mesi. In processi durati poche settimane, non lunghi anni. Come da noi, per esempio, con il crac Parmalat. Non sempre l’erba del vicino è però così verde e ben curata. In un articolo apparso sul New York Magazine, si notava come soltanto un manager del Credit Suisse, Kareem Serageldin, fosse stato condannato per la vicenda dei subprime, da cui partì la grande crisi finanziaria del 2008. E non possiamo dire che la giustizia inglese sia stata particolarmente inflessibile e occhiuta nello scandalo relativo alla manipolazione del tasso Libor (London inter bank offered rate) che ha visto finora poche condanne. Le più pesanti sono andate a Tom Hayes, ex trader di Ubs e Citibank e Jay Merchant, manager di Barclays, rispettivamente a 11 e 6 anni e mezzo di carcere. I vertici degli istituti erano ignari? Si potrebbe poi parlare a lungo anche della vicenda Volkswagen. L’arsenale degli strumenti penali a disposizione della giustizia italiana, per combattere la corruzione e i reati finanziari, è tutt’altro che sguarnito. Un volume di fuoco, almeno sulla carta, enorme. “Sì, ma spesso inefficiente, contraddittorio - spiega Alberto Alessandri, ordinario di diritto penale alla Bocconi - e con risultati controproducenti. Sono troppi i procedimenti penali che iniziano e poi non si sa come vanno a finire. Il caso Mastella, che all’epoca nel 2008 fece cadere il governo Prodi, si è risolto dopo quasi dieci anni con una piena assoluzione. Si dovrebbe riflettere di più su questo e altri episodi, come ad esempio la lunga detenzione cautelare di Silvio Scaglia, ex ad di Fastweb, poi totalmente scagionato. Non è raro che le misure di prevenzione vengano applicate nel processo al di fuori di ogni garanzia. Con effetti devastanti. La verità, se volete paradossale, è che noi sappiamo assai poco del fenomeno della corruzione, ci manca una reale base empirica. Per gli abusi di mercato, la sanzione arriva a dodici anni con pene pecuniarie elevate, ma modesti risultati in termine di repressione e prevenzione. Le bancarotte di maggiori dimensioni sono spesso sottratte, per ragioni politiche o sociali, ai rigori della legge. I grandi imprenditori con forti debiti verso le banche sono trattati con guanti di velluto, i piccoli e i medi subiscono condanne assai più pesanti”. Facce feroci - “Uno dei temi di fondo - aggiunge Filippo Sgubbi, ordinario di diritto penale a Bologna e docente alla Luiss - è la coesistenza di un doppio binario fra il penale e altre misure. Si attende in proposito una sentenza della Corte di giustizia europea che dovrà chiarire se l’irrogazione della pena sia compatibile, per lo stesso fatto, con una sanzione di tipo amministrativo. Va compiuta, a mio avviso, anche una riflessione sui sequestri cautelari, per non parlare del carcere preventivo. Può accadere che un singolo cittadino venga a sapere di essere oggetto di un sequestro per equivalente dal blocco della sua carta di credito. Non è accettabile in uno stato di diritto. La riforma Orlando ha rivisto i tempi di prescrizione. Se il processo dura vent’anni però, i sequestri rischiano di essere non solo qualche volta ingiusti ma anche socialmente dannosi”. Sia nell’analisi di Alessandri sia in quella di Sgubbi c’è un monito a non pensare che la lotta alla corruzione e alla criminalità finanziaria possa essere fatta solo sul versante penale. Insomma, che basti minacciare di più. Qualche volta la faccia feroce del codice penale non fa alcuna paura. “Se non vi è una più convinta moralità pubblica - dice Alessandri - un maggior senso di responsabilità della classe dirigente, accrescere le sanzioni non serve. I codici etici sono stati un fallimento. Sull’etica degli affari tante parole, in realtà ci si preoccupa dopo, non prima”. Il costo della violazione delle norme, in termini di perdita di reputazione, è in Italia pressoché inesistente. La tendenza a giustificare chi infrange regole di convivenza, non solo leggi scritte, è discretamente diffusa. L’invocazione dello stato di necessità frequente. Furbi e corrotti non sono espulsi dalla business community(e sarebbe questa la vera pena accessoria) come avviene in altri sistemi. Perché la relazione amicale fa premio sulla bontà della cittadinanza. “Ti giudico io, non il magistrato”. Le corporazioni, non raramente, scambiano la difesa a tutti i costi degli iscritti come un’espressione irrinunciabile della loro autonomia. Novità in banca - E i panni non si lavano nemmeno in casa. Un esempio, che riguarda il sistema bancario, è relativo ai requisiti di professionalità e onorabilità degli amministratori, previsti dalla direttiva europea Crd IV, e recepiti con decreto legislativo 72 del 12 maggio del 2015. Finalmente, nei prossimi giorni, dovrebbe essere varato un decreto del ministero dell’Economia in attuazione dell’articolo 26 del Testo unico bancario (Tub). Per far parte degli organi societari di un istituto di credito saranno necessarie professionalità, competenza e correttezza. La novità è che anche le sanzioni delle autorità indipendenti, oltre ovviamente alle sentenze passate in giudicato, costituiranno un ostacolo all’assegnazione degli incarichi. L’esistenza di “relazioni d’affari” tra soggetti e istituti di credito dovrebbe evitare per il futuro i numerosi casi di debitori diventati amministratori, di grandi affidati in conflitto d’interessi. Ci sarebbe anche un limite al cumulo degli incarichi-che già esiste per le società quotate - oltre all’obbligo per l’intero consiglio d’amministrazione di esaminare i requisiti dei candidati e motivare le scelte. Regole di buon senso, si potrebbe commentare. Eppure introdotte a fatica, su spinta europea, su pressione della Banca d’Italia e della Consob, fra un certo fastidio degli addetti ai lavori e una generale resistenza al limite del sospetto. Il riflesso di una classe dirigente preoccupata più dall’eccesso di obblighi burocratici per il rispetto delle regole che dalla tendenza ad evaderle. Il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone ha scritto la prefazione al libro di Andrea Franzoso “Il Disobbediente” (Paper First), storia dell’ex dipendente delle Ferrovie Nord che denunciò spese e sprechi dei vertici. Ha ricordato che l’Anac è destinataria, per la legge Madia del 2014, delle segnalazioni che riguardano la Pubblica amministrazione e ha chiesto una legge che tuteli chi denuncia. La proposta è attualmente in discussione al Senato. Cantone ritiene che vada corretta e rafforzata. La normativa sui cosiddetti whistle blowers, letteralmente fischiatori, fatica ad essere approvata. A molti non piace e non ne fanno mistero. E, se si tentasse di tradurre il termine inglese, molti opterebbero per delatori. Per i “colletti bianchi” qualche condanna in più, ma non perdono la faccia di Luigi Ferrarella Corriere Economia, 16 ottobre 2017 Il 28% di detenuti in più per reati di pubblica amministrazione, il 10% in più di carcerati per reati economici: boom! Chi ama sopravvalutare suggestivi paragoni statistici tra i galeotti inamidati nostrani e quelli reclusi invece nelle non patrie galere, nelle ultime stagioni dovrebbe quasi stappare champagne. A prendere come riferimento i dati ministeriali (che pur faticano a distinguere tra condanne definitive e custodia cautelare), gli 875 censiti nel 2010 per corruzione, concussione e altri reati contro la pubblica amministrazione sono saliti a 1.123 (più 138 per truffa allo Stato), mentre i 775 dietro le sbarre due anni fa per esercizio abusivo di professioni finanziarie, aggiotaggio, insider e riciclaggio sono oggi diventati 865. Ma forse non è davvero così importante. E non solo perché le percentuali sono ancora da prefisso telefonico rispetto ad altri tipi di reati. E neanche solo perché per tutti, e dunque anche per i colletti bianchi, l’ordinamento tende a privilegiare l’esecuzione esterna (non in penitenziari ma in affidamento ai servizi sociali) delle pene fino a 4 anni, come pochi giorni fa nel caso della condanna definitiva del banchiere Cesare Geronzi per il crac Cirio. Ma soprattutto perché del rarefarsi di colletti bianchi in carcere ci si può meravigliare solo fingendo di scordare la cornice sociale di questa risicata contabilità penale: cornice scolpita dal tendenziale fastidio manifestato da imprese e professionisti - anima della medesima società civile che a parole invoca che chi sbaglia paghi - quando l’azione giudiziaria interviene nelle proprie vicinanze personali o patrimoniali. Una contestazione di abuso d’ufficio fa ormai sbuffare poco più di una multa sul parabrezza; un’ipotesi di falso viene immancabilmente liquidata come incomprensione giudiziaria di una procedura border-line ma velocizzata a fin di bene; sequestri e confische sono denunciati dalle associazioni imprenditoriali come espropriazioni, anziché considerati come misure che indirettamente ripristinano la concorrenza stravolta e quindi tutelano le imprese oneste spinte ai margini del mercato da quelle “dopate” dall’illegalità. Nei convegni ci si indigna per la corruzione pubblica, in compenso dentro le aziende dilaga silenziosa quella privata, all’insegna di un “si fa ma non si dice” che solo raramente affiora dietro inspiegabili remissioni di querela: come quella che una grande banca internazionale ha di recente rimesso in Appello nei confronti del proprio ex amministratore, determinandone il proscioglimento pur dopo che il Tribunale lo aveva condannato a quasi 3 anni per averle fatto perdere 16 milioni di fidi concessi a un imprenditore che non ne aveva i requisiti, ma che al banchiere aveva allungato una mazzetta. E sarebbe ben bizzarro che le celle traboccassero di condannati per evasione fiscale se, a fronte di un tax-gap stimato in 111 miliardi di euro, l’attuale definizione agevolata delle controversie tributarie è la terza di analoghe misure nel 2002 e 2011, aggiungendosi negli anni alle varie versioni degli scudi fiscali, ai condoni parziali e tombali, alla rottamazione delle cartelle, a due edizioni della voluntary disclosure; e se gli stessi magistrati che ora ne se ne dolgono sono stati fra i fautori dei decreti fiscali che (spazzando decine di migliaia di fascicoli dagli armadi giudiziari) hanno pattuito di considerare reato le dichiarazioni infedeli solo se l’imposta evasa è superiore a 150.000 euro, o l’omesso versamento Iva solo se il debito è superiore a 250.000. Una volta tanto, per dirla con l’arguzia del professor Giovanni Maria Flick, in questo panorama il penalista dovrebbe quasi “essere lieto di scoprire di non avere un complesso di inferiorità, ma di essere realmente inferiore: perché è giusto che il suo posto (la repressione a colpi di reati) sia nell’ultima fila e non nella prima” (la prevenzione a colpi di reputazione). Processi ancora cartacei per il nuovo giudice onorario di tribunale di Marzia Paolucci Italia Oggi, 16 ottobre 2017 La riforma della magistratura onoraria passata con decreto legislativo n. 116 il 13 luglio scorso, potrebbe fare un buco nell’acqua se per il 2021, anno della sua decorrenza, non avverrà l’informatizzazione della categoria che ad oggi ancora non c’è. A rilanciare l’allarme già portato all’attenzione pubblica a maggio scorso dall’Organismo congressuale forense, il Centro studi processo telematico e l’Aiga - l’Associazione italiana giovani avvocati, torna oggi Valentina Carollo, avvocato e presidente del Centro studi Processo telematico: “Sarebbe un pasticcio se tra quattro anni con l’ampliamento delle competenze per materia e per valore previste dal testo di riforma, la magistratura onoraria si ritrovasse ancora all’anno zero dell’informatizzazione”. E se anche la Dgsia (Direzione generale per i sistemi informativi automatizzati) del Ministero ha annunciato la partenza di una gara ad hoc sul pct per la categoria, i dubbi restano: “Basteranno quattro anni a garantire il pct ai giudici di pace visto che nel civile ce ne sono voluti circa 13, dalla partenza del 2001?”, chiede provocatoriamente l’avvocato Carollo a capo da quattro anni dell’associazione no-profit che contribuisce gratuitamente all’attività di divulgazione e consulenza sul pt ad avvocati, magistrati e tecnici in cerca di chiarimenti. “Dal canto nostro”, prosegue, “con l’Organismo congressuale forense e l’Aiga avevamo chiesto di subordinare l’ampliamento delle competenze alla completa realizzazione degli uffici del gdp e all’effettiva attivazione della sua completa funzionalità. Ma non abbiamo ricevuto mai alcuna risposta”. Nel testo approvato a luglio c’è l’unificazione della magistratura giudicante onoraria e il conseguente superamento della distinzione tra giudici di pace e Got - Giudici onorari di tribunale in nome della nuova fi gura di “giudice onorario di pace” - il tirocinio di sei mesi nel tribunale dove ha sede l’ufficio del gdp per i giudici onorari di pace e per i vice procuratori onorari, nella procura della Repubblica presso cui è istituito l’ufficio di collaborazione del procuratore della Repubblica, l’aumento delle competenze per valore e per materia a fronte di un dimezzamento del loro impiego ridotto a due giorni a settimana e un impiego a termine fissato in non più di due quadrienni. In particolare, l’aumento delle competenze per valore, prevede l’innalzamento del limite di 5mila a 30mila euro per le cause aventi oggetto beni mobili e per il condominiale mentre per quelle di risarcimento danni il limite di 20 mila si innalza a 50 mila. Amplissima la competenza per materia che va dalle liti condominiali alle cause su occupazione, servitù prediali, riordino di proprietà rurali, usucapione di immobili, accessione e superficie. Completa il quadro un’indennità annuale lorda in misura fissa, pari ad euro 16.140,00, comprensiva degli oneri previdenziali ed assistenziali. Per loro la riforma non è che l’ “affossamento della magistratura”, com’è definita nel comunicato del 15 settembre scorso che con l’ultimo sciopero dal 2 al 6 ottobre scorso, è intenzionata a proseguire i suoi scioperi a singhiozzo arrivati a circa nove dall’aprile di quest’anno. Contrari a quella che definiscono la “precarizzazione delle professioni”, si scagliano contro le istituzioni dopo aver visto “respinta la proposta della categoria, compatibile con i vincoli costituzionali individuati dal Consiglio di stato, di applicare a tempo pieno i magistrati onorari e di pace alle rispettive funzioni con il riconoscimento di un trattamento economico e previdenziale adeguato”. Assistenza legale gratuita: per gli avvocati la priorità ora sono i migranti di Roberto Miliacca Italia Oggi, 16 ottobre 2017 Cresce l’attività di assistenza legale gratuita da parte degli studi, specie per i rifugiati. La cultura del pro bono inizia a farsi strada anche in Italia. Certo, a farsene paladini restano principalmente gli studi di matrice anglosassone che operano nel Belpaese, per i quali l’assistenza legale gratuita fa parte integrante del modo di “fare l’avvocato”. In Italia, invece, anche per l’esistenza di una normativa specifica in materia di gratuito patrocinio, l’avvocatura ha più difficoltà ad avvicinarsi alla materia. O, almeno, lo era fi no a qualche tempo fa, prima che nascessero i primi network tra studi che hanno iniziato a promuovere e diffondere la cultura del pro bono anche in Italia. Questa settimana, su Affari Legali, abbiamo sentito alcuni dei maggiori studi legali che si adoperano sul fronte del pro bono, offrendo consulenza legale e rappresentanza in giudizio, gratuitamente e su base volontaria, a favore di organizzazioni non profit oppure persone fi siche che hanno difficoltà ad ottenere assistenza legale. Di recente, uno dei fronti che sta vedendo maggiormente impegnati gli avvocati, oltre a quelli della violenza sulle donne o alla promozione di politiche di non discriminazione sui posti di lavoro, è quello dei migranti, tema sul quale diversi studi legali stanno prestando assistenza, sia per gli aspetti relativi alle pratiche relative all’ottenimento del diritto di soggiorno, ma anche per la nascita di nuove start up imprenditoriali. Lo studio Dla Piper, per esempio, si sta occupando della costituzione di cooperative sociali per l’inserimento di ragazzi provenienti da paesi in pieno conflitto. Impegni non di facciata per aiutare chi ha realmente bisogno. Svolgere ore di attività di assistenza legale a titolo gratuito a favore di chi ne ha bisogno. Quella che chiamiamo attività “pro bono” (dal latino “pro bono pubblico”, attività resa per il bene pubblico), negli Stati Uniti è sentita quasi come un obbligo deontologico da parte di tutti gli avvocati (c’è un dibattito sempre acceso sul tema). In Italia no. A parte il gratuito patrocinio a tutela dei meno abbienti, non c’è alcun obbligo, né formale né morale, per gli studi legali o per i singoli professionisti a svolgere azioni o in generale servizi legali “socialmente utili”. Eppure qualcosa sta cambiando. A partire dagli studi (non solo di respiro internazionale) che, a prescindere dagli obblighi, vedono nelle attività pro bono un impegno civile per fronteggiare emergenze, come quella dei migranti o della violenza sulle donne. E che, per assicurare continuità e sistematicità a tali attività, si sono dotati di risorse dedicate nel loro organico o prevedono un monte ore minino anche cospicuo. Tra il 2000 e il 2016, gli avvocati dello studio Latham & Watkins, a livello globale, hanno dedicato ai servizi legali pro bono 3 milioni di ore. “Per quanto riguarda gli uffici italiani”, precisa l’avvocato Gabriele Pavanello, associate di Latham & Watkins, “abbiamo gestito diversi e numerosi gli incarichi sin dal 2008 (anno di stabilimento della practice italiana dello Studio) ad oggi, tanto in ambito stragiudiziale quanto in ambito giudiziale”. Come viene fornito il servizio legale? “Esiste un processo centralizzato a livello globale”, spiega Pavanello, “di approvazione della richiesta di assistenza formulata da un potenziale cliente pro bono, preliminarmente valutata dal rappresentante locale del Pro Bono Committee, che, se la ritiene rispondente ai requisiti richiesti dalle policies interne, predispone un breve memorandum esplicativo dell’incarico e del potenziale cliente e lo trasmette al Pro Bono Committee per l’approvazione finale. Al rappresentante locale del Pro Bono Committee è assegnato tra l’altro il compito di organizzare il team di lavoro su ciascuna nuova pratica pro bono”. Tra le attività dello studio c’è anche la sensibilizzazione di tutti gli avvocati a partecipare ad attività pro bono. “Un impegno considerato fondamentale per ciascun professionista tanto che, per policy interna, esiste un numero minimo di ore (pari a 20 ore l’anno) che ciascuno di noi deve dedicare a tale attività”. In questa logica non esistono team di lavoro predefiniti, ma vengono formati a seconda delle specificità dell’assistenza richiesta o del cliente. “Il nostro impegno”, conclude Pavanello, “dà allo studio la possibilità di contribuire attivamente alla vita della comunità civile, mettendo la nostra professionalità al servizio di quello che riteniamo un obiettivo fondamentale: garantire ad ogni cittadino un pieno accesso alla giustizia a prescindere dai propri mezzi e dalle circostanze in cui si trovi”. L’attenzione al sociale è parte integrante dei valori e delle policy anche di Hogan Lovells. La chiamano Citizenship, che per loro significa supporto alla comunità locale, rispetto delle diversità, attenzione alla difesa dell’ambiente, fund-raising, infine assistenza legale gratuita (Pro Bono). “Per diffondere questa cultura”, spiega Francesca Rolla, socia a capo del dipartimento di contenzioso, responsabile delle attività di Citizenship per l’Italia, “lo studio incoraggia professionisti e dipendenti di tutti gli uffici nel mondo a dedicare almeno 25 ore del proprio tempo lavorativo ad attività di Citizenship, con una particolare enfasi all’assistenza pro bono”. Lo studio ha nominato a livello internazionale una pro bono advisor (Maria Hidalgo) che vi si dedica in via esclusiva. Analogo intento è perseguito attraverso il progetto Hogan Lovells BaSE (Business and Social Enterprise - un programma di formazione internazionale dedicato ai praticanti e ai giovani avvocati di tutti gli uffici) cui partecipano regolarmente giovani professionisti dello studio italiano. Un esempio recente è l’assistenza pro bono ad Anna Cabianca per la fondazione della sede italiana dell’associazione Anna Bella (già attiva in Spagna) che si occupa di programmi per il sostegno e reinserimento delle donne vittime di violenze. In Italia, lo studio assiste anche altre associazioni non profit (tra cui Ring14, Caf Onlus, Ashoka, Peter Pan Onlus, L’Abilità Associazione Onlus) in materia societaria, fiscale e commerciale, fornendo assistenza legale per la costituzione dell’associazione, per l’ottenimento dello status di Onlus, e nella negoziazione di contratti con terzi, in relazione alla registrazione e alla tutela dei marchi e agli aspetti di privacy di assistiti e associati. Dla Piper conta attualmente 70 professionisti (sui 200 che operano in Italia tra le due sedi di Roma e Milano) impegnati su servizi legali pro bono in modo continuativo. Dal 2014 si è voluta dare una svolta su tale ambito. “Abbiamo una risorsa dedicata”, spiega Alberto Angeloni, partner dello studio e coordinatore delle attività pro bono, “all’interno dello studio. I professionisti scelgono liberamente di aderire o meno ai servizi pro bono, ma ad oggi almeno 1/3 degli avvocati gestisce pratiche sistematicamente, in prima persona o partecipando a team”. Monte ore prodotto tra 2016 e 2017: 2.500 ore di assistenza a titolo gratuito su tutti i settori, con una particolare attenzione all’assistenza dei rifugiati. “Abbiamo una partnership con l’Unicef e una con l’Unhcr in particolare con il Consiglio italiano dei rifugiati”, aggiunge la criminologa Claudia Barbarano impegnata full time sulle attività pro bono, “per un progetto per l’implementazione dei diritti dei rifugiati che garantisce l’assistenza legale qualificata in materia ad esempio di diritto di soggiorno, ma anche di supporto alle start up”. Un progetto chiave non tanto rivolto alla creazione di imprenditoria o micro imprenditoria, quanto di cooperative sociali per l’inserimento di ragazzi provenienti da paesi in pieno conflitto. “Aiutiamo quei ragazzi che arrivano in Italia con una loro idea, a realizzarla. Ogni anno”, prosegue Barbarano, “cerchiamo di focalizzarci su una particolare emergenza”. In cantiere c’è un corso di formazione legale volto all’enpowerment e all’inclusione finanziaria per le donne vittime di violenza domestica e di tratta. Tematica sulla quale lo studio è molto sensibile, vista l’ampia presenza di donne. Ai due filoni, ovvero rifugiati e donne vittime di violenza, per il futuro lo studio Dla Piper guarda all’assistenza legale a favore di persone con disabilità. “L’assistenza legale è svolta in maniera primaria”, conclude Angeloni, “attraverso le organizzazioni e associazioni (Telefono Azzurro è una di queste), e solo in l’assistenza diretta a privati o cooperative, perché riteniamo che l’aiuto istituzionalizzato possa garantire il migliore e più corretto raggiungimento del target”. L’impegno nel pro bono come libera scelta di ciascun professionista, è nella policy dello studio Cleary Gottlieb che si impegna a far sì che i suoi professionisti possano, anche per il pro bono, avvalersi dei medesimi strumenti di knowledge management, di organizzazione del lavoro e delle risorse utilizzati per tutti i propri clienti. Cleary Gottlieb ha gestito, su scala mondiale, ben 560 mandati pro bono nel corso del 2016. “In Italia”, racconta Danilo Santoboni, associate di Cleary Gottlieb, “le attività dello Studio sono a sostegno della promozione dell’integrazione sociale: a favore della Comunità di San Patrignano o di Special Olympics Italia, l’associazione sportiva organizzatrice di eventi sportivi in favore di persone con disabilità intellettiva e pluri handicap. A queste si aggiunge il coinvolgimento dello Studio nelle iniziative a sostegno dell’istruzione e dello scambio culturale (Commissione Fulbright Italia Usa, Zegna Founder Scholarship Program, Fondazione E4Impact in partenariato con l’Università Cattolica di Milano) e l’assistenza ad associazioni che promuovono la cultura e il patrimonio storico del nostro paese, come il Fai e la Fondazione Biennale di Venezia. Assistenza legale gratuita: il network Pro Bono Italia di Roberto Miliacca Italia Oggi, 16 ottobre 2017 La sinergia tra gli studi legali è ancora più calzante nella neonata associazione denominata Pro Bono Italia, che riunisce associazioni di avvocati, studi legali ed associazioni forensi. Quattordici i membri attualmente, a cui si aggiungerà un quindicesimo, DlaPiper. L’obiettivo è culturale, spiega il presidente Giovanni Carotenuto, titolare dell’omonimo studio legale. “Promuovere e diffondere la cultura del Pro Bono anche nel nostro paese, attraverso un’opera di sensibilizzazione a tutti i livelli su temi che richiedono il nostro impegno verso la società civile. Tramite eventi, iniziative di tipo culturale, analisi, ma anche progetti transnazionali”. Un tema per tutti, quello dei migranti nei suoi aspetti economici, giuridici, sociali e politici che non è un fenomeno (o un problema) solo italiano ma va letto e affrontato, anche in termini di consulenza stragiudiziale pro bono, a livello europeo e globale. Pro Bono Italia è un’associazione senza scopo di lucro. “Da statuto”, aggiunge Carotenuto, “non agiamo in prima persona, ma svolgiamo attività di coordinamento dei nostri associati e simpatizzanti”. Una costola dell’Italian Pro Bono Roundtable la si potrebbe definire. L’associazione infatti vede tra i fondatori Asla, Albé e Associati, Ashurst, Carotenuto Studio Legale, Casella e Associati, l’avv. De Agostino, De Berti Jacchia Franchini Forlani, Dentons, Hogan Lovells, l’avv. Ingrasci, Legance, Macchi di Cellere Gangemi, Quintavalle & Riva e White & Case. Molti dei quali hanno attivamente partecipato, e continuano a sostenere, l’Italian Pro Bono Roundtable, la rete di studi legali, avvocati e associazioni non profit promossa da PILnet (The Global Network for Public Interest Law) e attiva fin dall’aprile 2014. “Le attività di consulenza legale e rappresentanza in giudizio, gratuitamente e su base volontaria, a favore di organizzazioni non profit che perseguano fini di utilità sociale e persone fisiche che hanno difficoltà ad ottenere assistenza legale ed accedere alla giustizia”, prosegue l’avvocato Carotenuto, “saranno svolte tramite gli associati e nel rispetto delle norme sul gratuito patrocinio”. Il modello adottato per la promozione e l’organizzazione è il dialogo fra gli avvocati, le associazioni no-profit, le clearinghouse (Cild e CSVnet) e le legal clinic operanti su tutto il territorio nazionale ed all’estero che, nella mailing list, superano i 300 soggetti. Nel 60% sono avvocati, studi legali (da quelli globali a quelli di medie e piccole dimensioni, comunque a vocazione internazionale), mentre il 40% è composto da Ong, legal clinics, clearing houses. Le attività formative e iniziative comuni saranno su temi di carattere giuridico, economico, sociale e culturale, finalizzate alla diffusione del Pro Bono in Italia. Inoltre, ci sarà il confronto (già avviato) con i consigli forensi locali, nazionali ed internazionali e le istituzioni competenti, per favorire l’approvazione di leggi, regolamenti, codici e norme deontologiche per lo sviluppo del Pro Bono”. Alla prima riunione dell’associazione lo scorso 20 settembre hanno partecipato anche due rappresentanti dell’Ordine degli avvocati di Milano (Silvia Belloni, delegata del presidente Danovi e Carmelo Ferraro) a dimostrazione di una sensibilità crescente verso il tema del pro bono. Sempre a Milano si svolgerà anche lo European Probon Master Class il 15 novembre come momento di formazione per avvocati, Ong e clearing house. “L’associazione non rappresenta un cambiamento di prospettiva”, precisa il vicepresidente Stefano Macchi di Cellere, responsabile dell’ufficio di Londra di Macchi di Cellere Gangemi, “ma sottolinea l’interesse e l’impegno di affrontare la tematica del pro bono in maniera organizzata e coordinata, senza sostituire la Roundtable internazionale di PilNet. Promuovere sì il tema ma farlo tramite un soggetto giuridicamente identificato che possa interloquire autorevolmente con i singoli Consigli dell’Ordine, il Consiglio nazionale forense e con le istituzioni in generale”. Giustizia è fatta, ridata la divisa a Bruno Contrada di Gian Marco Chiocci Il Tempo, 16 ottobre 2017 Il capo della Polizia Gabrielli ha firmato il reintegro. Dopo 25 anni di fango arriva il lieto fine. Grazie a Franco Gabrielli, capo della polizia. Grazie perché in un Paese di pavidi, quaquaraquà e codardi in carriera, ha dimostrato di avere due cose così: dopo aver contribuito a far rientrare nel giro alcuni poliziotti linciati ingiustamente per il G8 di Genova, ieri ha restituito l’onore e la divisa al collega Bruno Contrada, ingiustamente processato (e condannato) per un reato inesistente che non andava nemmeno perseguito. All’ottantaseienne ex sbirro arrestato la notte di Natale del 1992 grazie alle sole parole - senza riscontri - dei mafiosi pentiti viene dunque annullata la “destituzione”. Come meschinamente già commentano i nostalgici del professionismo antimafia, non si tratta di un “atto dovuto” a seguito della sentenza della Cassazione che ha revocato la condanna a 10 anni dopo il ceffone ricevuto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Il reintegro in polizia non tutti l’avrebbero concesso così. E comunque, parlano i fatti. E un fatto è il risarcimento all’uomo che ha sofferto, e continua a soffrire (di poco tempo fa l’incredibile perquisizione a casa senza mandato) per un accanimento senza eguali. A Contrada vanno i nostri auguri, che sa essere sinceri perché siamo stati gli unici - nel panorama editoriale - ad averlo difeso sin dal primo giorno. Idem ai poliziotti che attraverso Il Tempo avevano chiesto al loro Capo di metter fine a questo scempio. E poi permetteteci di ringraziare un uomo che a molti di voi dirà poco o niente: si chiama Ignazio D’Antone, era vicequestore a Palermo, ed è persona per bene. Per il solo fatto di esser stato il braccio destro di Contrada ha trascorso 8 anni in cella. L’uniforme ridata a Contrada è fatta su misura anche per lui. Sinistri, non compie reato chi si ferma e poi riparte di Stefano Manzelli Italia Oggi, 16 ottobre 2017 Cassazione, sez. IV pen., Sentenza n. 44616/2017. Non risponde del reato di fuga dal sinistro l’automobilista che dopo aver tamponato un veicolo si ferma a discutere con l’altro conducente. In particolare se non risultano feriti e la polizia stradale appositamente contattata non è in grado di intervenire. Lo dice la Cassazione, sez. IV pen. con sentenza n. 44616/2017. Un conducente frettoloso ha tamponato e si è arrestato qualche decina di metri dopo, fermandosi a parlare con l’altro autista. Dopo aver verificato la mancanza di feriti e aver contattato telefonicamente la Stradale il trasgressore ripartiva senza fornire generalità al soggetto tamponato. Contro la conseguente condanna per fuga dal sinistro ha proposto ricorso in Cassazione. Non è penalmente rilevante la condotta dell’autista che si è fermato dopo l’urto per verificare l’accaduto. L’art. 189 Cds sanziona infatti solo con misure amministrative il conducente che riparte dopo il sinistro senza agevolare lo scambio dei dati, in assenza di feriti. Omessi versamenti previdenziali: è reato se l’importo supera 10mila euro annui di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 16 ottobre 2017 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 28 agosto 2017 n. 39464. Il datore di lavoro che non versa i contributi previdenziali al dipendente commette reato solo se l’importo supera i 10mila euro nel corso dell’anno. Lo ha ricordato la Cassazione con la sentenza n. 39464 del 28 agosto scorso. L’omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali - Con l’articolo 3, comma 6, del Dlgs 15 gennaio 2016 n. 8, il legislatore, stabilendo che l’omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali di cui all’ articolo 2, comma 1-bis, del Dl 12 settembre 1983 n. 463, convertito dalla legge 11 novembre 1983 n. 638, integra reato ove l’importo sia superiore a quello di 10.000 euro annui, ha configurato tale superamento, strettamente collegato al periodo temporale dell’anno, quale vero e proprio elemento caratterizzante il disvalore di offensività penale, che viene a segnare, tra l’altro, il momento consumativo del reato. Conseguentemente, l’illecito penale deve ritenersi perfezionato nel momento e nel mese in cui l’importo non versato, calcolato a decorrere dalla mensilità di gennaio dell’anno considerato, superi l’importo di 10.000 euro. Dunque, le ulteriori successive omissioni, che seguano nei mesi successivi dello stesso anno, non danno luogo, in caso di secondo superamento della soglia, a un ulteriore reato, ma contribuiscono ad accentuare la lesione inferta al bene giuridico per effetto del già verificatosi superamento dell’importo di legge (nella specie, la Corte, accogliendo il ricorso del procuratore generale, ha annullato la decisione del giudice che aveva assolto l’imputato dal reato contestatogli sulla base dell’erroneo assunto che dovesse considerarsi depenalizzato il reato per il solo fatto che le omissioni mensili fossero sotto soglia pur quando nell’arco dell’anno questa fosse stata superata). Il momento consumativo del reato - La Cassazione si riallaccia alla precedente decisione della sezione III, 11 maggio 2016, Lanzoni, laddove la Corte si è soffermata diffusamente sulla fattispecie di cui all’articolo 2, comma 1-bis, del Dl 12 settembre 1983 n. 463, convertito dalla legge 11 novembre 1983 n. 638, che punisce l’omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali operate dal datore di lavoro sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti, a seguito dell’intervento di “depenalizzazione” introdotto con il Dlgs 15 gennaio 2016 n. 8, che, come è noto, ha limitato la rilevanza penale all’omissione il cui importo sia superiore a quello di 10.000 euro annui. La Corte, in particolare, ha sviluppato importanti considerazioni sul momento consumativo del reato. In proposito, il giudice di legittimità ha affermato che il legislatore, con l’intervento di parziale depenalizzazione (per gli importi non superiori a 10.000 euro annui) non si è limitato semplicemente a introdurre un limite di “non punibilità” delle condotte “sotto soglia”, lasciando inalterato, per il resto, l’assetto della precedente fattispecie (che tale limite non prevedeva), ma ha configurato tale superamento, strettamente collegato al periodo temporale dell’anno, quale vero e proprio elemento caratterizzante il disvalore di offensività penale, che appunto viene a segnare anche il momento consumativo del reato. In altri termini, hanno osservato i giudici di legittimità, l’illecito penale deve ritenersi perfezionato nel momento e nel mese in cui l’importo non versato, calcolato a decorrere dalla mensilità di gennaio dell’anno considerato, superi l’importo di 10.000 euro. In questa ottica, le eventuali, ulteriori omissioni che seguano nei mesi successivi dello stesso anno, sino al mese finale di dicembre, non danno luogo a un ulteriore reato. Tali omissioni, infatti, contribuiscono ad accentuare la lesione inferta al bene giuridico per effetto del già verificatosi superamento dell’importo di legge, sicché, da un lato, non si atteggiano come un post factum penalmente irrilevante, e, dall’altro, approfondendo appunto il disvalore già emerso, integrano il fenomeno della cosiddetta “progressione criminosa”, nel cui ambito, una volta superato il limite di legge, le ulteriori omissioni, nel corso del medesimo anno, si atteggiano a momenti esecutivi di un reato unitario “a consumazione prolungata”, la cui definitiva cessazione viene a coincidere con la scadenza prevista dalla legge per il versamento dell’ultima mensilità, ovvero con il termine del 16 gennaio del mese di gennaio dell’anno successivo. La struttura del nuovo reato - In definitiva, conclude la Cassazione, rispetto alla precedente figura di reato, il momento consumativo è diverso: mentre nel precedente assetto normativo il reato si consumava in corrispondenza di ogni omesso versamento mensile, nell’attuale sistema la consumazione appare coincidere, secondo una triplice diversa alternativa, o con il superamento, a partire dal mese di gennaio, dell’importo di euro 10.000 ove allo stesso non faccia più seguito alcuna ulteriore omissione, o con le ulteriori omissioni successive sempre riferite al medesimo anno, ovvero, definitivamente e comunque, laddove anche il versamento di dicembre sia omesso, con la data del 16 gennaio dell’anno successivo. La Corte, nella sentenza Lanzoni, in parte motiva, ha anche ulteriormente soggiunto che la struttura del nuovo reato impone di tenere conto, al fine dell’individuazione o meno del superamento del limite di legge di 10.000 euro, di tutte le omissioni verificatesi nel medesimo anno e, dunque, anche di quelle eventualmente estinte per prescrizione: ciò perché la mera declaratoria di prescrizione del reato per ragioni connesse al decorso del tempo non può significare elisione della materiale sussistenza del fatto di omesso versamento. Revisione auto, reato di falso per la contraffazione del tagliando di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 16 ottobre 2017 Tribunale di Ivrea - Sezione 1 - Sentenza 27 giugno 2017 n. 576. Scatta il reato di falsità materiale in certificato amministrativo commesso da privato per chi falsifica il tagliando della revisione apponendo il bollino alla carta di circolazione. Lo ha stabilito Tribunale di Ivrea, sentenza del 27 giugno 2017 n. 576, chiarendo che per la rilevanza penale della condotta la falsificazione deve essere idonea a trarre in inganno gli organi accertatori e dunque non “grossolana”. Il giudice ha però assolto gli imputati perché non vi era la prova certa che fossero stati loro a commettere il reato. Nel corso di un pattugliamento in autostrada, gli agenti avevano fermato l’autovettura di proprietà di uno dei due imputati e condotta dall’altro, che sostanzialmente l’aveva in uso, perché dal computer di bordo della volante la macchina non risultava revisionata. Circostanza poi conferma dal successivo controllo con la Motorizzazione. Tuttavia, sul libretto di circolazione figurava il tagliando che attestava la regolare revisione del veicolo solo pochi mesi prima. Ad una analisi più accurata, prosegue la sentenza, “il tagliando appariva “strano” in quanto le diciture non erano perfettamente allineate”. I sospetti sono poi stati confermati anche dal soggetto indicato come revisore che ha dichiarato di non aver mai controllato il veicolo. Il Tribunale ha così ritenuto accertata la “materiale falsificazione del tagliando di revisione e la conseguente integrazione del delitto di cui agli artt. 477 e 482 c.p.”. Sul punto, ricorda la decisione, la Suprema Corte ha affermato che “integra il delitto di falsità materiale in certificato amministrativo commesso da privato, la condotta costituita dalla formazione di una falsa attestazione dell’avvenuta revisione di un autoveicolo con esito positivo, anche quando la mendace indicazione è apposta sulla carta di circolazione” (n. 46499/2014). “Risulta difatti evidente - prosegue la sentenza - come la falsificazione del tagliando di revisione sia certamente in grado ex ante di trarre in inganno soggetti terzi in quanto: il medesimo è stato realizzato a colori con tonalità cromatiche simili ai tagliandi originali; è stato incollato alla carta di circolazione in modo similare alle precedenti revisioni e nel relativo spazio presente sulla carta medesima; i dati riportati sulla certificazione sono similari a quelli contenuti nei tagliandi originali; gli stessi operanti di P.G., in concreto, non si sono immediatamente accorti del falso - seppure fossero soggetti qualificati - ma hanno dovuto effettuare delle ulteriori verifiche presso la motorizzazione e presso il soggetto indicato come revisore per accertare quanto prima unicamente supposto”. Ne consegue che “in alcun modo la condotta di falsificazione può essere sussunta nella c.d. categoria del falso grossolano giacché l’idoneità ingannatoria è da ritenersi sussistente”. È invece contraddittoria la prova che il fatto sia stato commesso - o vi abbiano anche solo concorso - gli imputati. Infatti, entrambi si sono mostrati molto sorpresi ed il guidatore ha subito chiamato un conoscente (fornendone anche il nominativo), che però non ha risposto, a cui aveva dato 100 euro per portare l’auto a fare la revisione, con la volontà di chiedere spiegazioni sull’accaduto. Del resto, prosegue il giudice, “non si spiega per quale ragione, a fronte di un risparmio di spesa minimale, gli imputati avrebbero dovuto falsificare il tagliando, con rischi sanzionatori elevati, anche alla luce del fatto che l’imputato stava per intraprendere un viaggio all’estero con l’attraversamento dunque di plurime dogane”. Anche considerato che avevano sostenuto le spese necessarie per assicurare l’auto, “notoriamente più elevate rispetto a quelle per la revisione”. Infine, a loro favore depone l’incensuratezza, elemento che li rende “estranei e in alcun modo avvezzi alla violazione della normativa penale”. Il Tribunale ha però disposto la trasmissione di copia del fascicolo al pubblico ministero di Ivrea per valutare l’eventuale responsabilità penale del terzo citato. Aosta: i Radicali “nel carcere senza direttore il reinserimento è un’utopia” di Alessandro Mano La Stampa, 16 ottobre 2017 Una situazione difficile, ma “di certo non tra le più problematiche tra le carceri che finora abbiamo visitato”. Il merito? “Del personale: le guardie carcerarie e gli educatori sono costantemente sotto organico, ma riescono a fare un lavoro eccezionale, a mantenere una situazione sin troppo tranquilla visto il loro numero ridotto”. A dirlo sono Daniele Viotti, europarlamentare del Pd, Silvja Manzi e Igor Boni, componenti della direzione nazionale dei Radicali Italiani. Ieri hanno visitato il carcere di Brissogne per la settimana di mobilitazione sulla giustizia e sulle carceri promossa dai Radicali. La particolarità del carcere di Brissogne è l’assenza ormai da mesi sia di un direttore, sia di un comandante della polizia penitenziaria: lavorano in Valle a turno, da Verbania o Cuneo. Alla loro assenza, si aggiunge “una rotazione altissima di detenuti, che restano in Valle d’Aosta per brevissimi periodi. Questo impedisce un percorso di reinserimento, sia con gli agenti carcerari, sia con i volontari, sia con le cooperative che offrono lavoro ai detenuti”. A dirlo è Viotti, che espone i numeri: nell’ultimo anno, i detenuti transitati da Brissogne sono stati oltre 600 nei 181 posti. Oggi sono 195, in leggero sovrannumero. Centoventi di loro sono stranieri, anche per il fatto che non avendo una dimora non possono richiedere i domiciliari: sono per la maggior parte cittadini marocchini, rumeni, albanesi e algerini, ma esprimono 20 nazionalità diverse. Ci sono 30 collaboratori di giustizia, in una sezione separata. Gli agenti sono 120 su 178 previsti in organico. “Per questo lo standard è di fare turni superiori alle 6 ore, anche di 8 ore - spiega Manzi - con carichi di lavoro non sostenibili”. Tra i 195 detenuti appena 5 lavorano a tempo determinato per una delle coop coinvolte all’interno del carcere: 3 sono panettieri, 2 lavorano in lavanderia. Napoli: carcere di Poggioreale, cronache di una mattinata di ordinaria barbarie di Mario Sica liberopensiero.eu, 16 ottobre 2017 È martedì mattina quando ricevo il mio “battesimo” del carcere, una tappa obbligatoria per chi intraprende la pratica forense in ambito penale. In realtà, nei mesi scorsi, ero già stato al carcere militare di Santa Maria Capua Vetere, ma credo sia offensivo per l’intelligenza del lettore dilungarmi sui motivi per i quali tale realtà non possa essere in alcun modo paragonata a qualsivoglia carcere per civili, men che meno a Poggioreale. Il cielo è terso, il sole tiepido e un venticello fresco rende la temperatura gradevole. “Avvocato, quanto tempo ci vorrà per poter entrare a colloquio con il detenuto?”, chiedo quasi sottovoce al mio dominus. “Almeno un’oretta, non abbiamo prenotato”, mi risponde lapidario. Man mano che mi avvicino alle alte mura di cinta del carcere di Poggioreale il fiato si fa più corto, come se d’improvviso fossi assalito da un attacco di claustrofobia. Sono a pochi passi dalla piccolissima porta d’entrata del carcere e, prima di lasciarmi alle spalle il caos della strada, respiro a pieni polmoni e mi catapulto nell’apnea di procedure e formalità che precedono un qualsiasi colloquio a Poggioreale. Non so di preciso cosa attendermi, ma sono pronto al peggio. Una volta passato il primo controllo con nastro e metal detector, si varca una enorme porta d’acciaio con vetri blindati e si arriva al secondo controllo, dove vengono ritirati i tesserini dell’ordine e vengono rilasciati dei pass. È lì che al malessere per quegli spazi tetri e sigillati, in cui l’ambiente esterno non lo riesci neanche a percepire, si aggiunge il nervosismo causato dall’incontro con l’idiozia della burocrazia. Sono lì col mio dominus, regolarmente nominato dal nostro assistito, ma non posso entrare perché non ho un foglio rilasciato dal consiglio dell’ordine che attesti che quello è davvero l’avvocato presso cui svolgo la pratica. Quando obietto di poter far autocertificare questo dato dal dominus presente in carne e ossa, il agente mi squadra da capo a piedi come fossi un marziano, prima di lasciarmi salire nella segreteria detenuti a firmare un po’ di scartoffie. Uno a zero per il buonsenso, riesco a passare. Il tempo nel carcere di Poggioreale si è fermato, a voler essere generosi, al secondo dopoguerra. La lista dei praticanti ammessi ad entrare a colloquio è rappresentato da un polveroso librone scritto a mano dai agenti di guardia, per cui consegno l’autocertificazione con tutti i dati che vengono trascritti su questo registro. Quando finalmente arriviamo nella sala d’attesa degli avvocati, mi rendo conto che qualsiasi manifestazione di umanità si è fermata alle soglie del muro di cinta, senza mai varcarlo. Ciò che c’è fuori da lì, una volta dentro, non è minimamente percepibile. Il senso di smarrimento è totale, non si capisce dove si trovino i padiglioni ma, come alle porte dell’inferno dantesco, si avvertono solo grida feroci che si levano, di tanto in tanto, da qualche punto non ben definito del carcere. Non si riesce a capire nemmeno cosa urlino quelle voci. Potrebbero essere tanto detenuti quanto agenti. Giro lo sguardo e passo in rassegna i volti di tutti gli altri avvocati in attesa ma, a quanto pare, sono l’unico ad avvertire con disagio quelle urla. L’abbrutimento sembra essere la regola a Poggioreale e neanche i legali ne sono immuni, anzi. Molti appaiono a loro agio nel riferirsi ai detenuti con termini più consoni ad indicare bestie anziché uomini. “Agente, questo qua me lo porti alle 11:00”; “Questo me lo prepari tra mezz’ora, poi me ne scappo ché non tengo tempo da perdere”; “Se passo tra un’ora me lo sali sopra?”. Sono solo alcune delle frasi ascoltate in un’ora di attesa in carcere, a dimostrazione che la degradazione da persone a cose dei detenuti di Poggioreale è lampante sin dalla dialettica. Solo qualche giorno prima c’era stato l’ennesimo suicidio in cella. Il legislatore, impegnato a prendere decisioni sull’onda emotiva del momento, ha concepito un sistema carcerario che, oltre a tenere pochissimo in considerazione la funzione rieducativa del carcere, risulta essere incoerente e umorale. Adesso si parla di affettività garantita ai detenuti, ma le maglie del sistema sono pronte a restringersi non appena qualche altro caso di cronaca giudiziaria farà dimenticare la condizione pietosa delle carceri italiane. Finalmente ci apprestiamo a fare il colloquio, il agente ci autorizza a farci firmare una nomina. Trascorriamo con G.S. appena una decina di minuti e poi lo salutiamo, sperando di essere forieri di buone notizie al prossimo incontro. Mi lascio il carcere di Poggioreale alle spalle, ma la sensazione di malessere che quel posto ti scaraventa addosso me la trascino dietro per l’intera giornata. Niente a Poggioreale sembra poter minimamente essere accostato al concetto di umanità. Chi sconta una pena in quella Casa Circondariale, in molti casi, subisce la punizione ulteriore della condanna a vita alla marginalità. Nessuno, senza il tentativo di inclusione sociale, può uscire migliorato da quel contesto tetro, disumano e brutale. Ne sono uscito peggiorato persino io, dopo appena novanta minuti trascorsi ben lontano da celle e padiglioni. La normalizzazione della barbarie è la risposta vendicativa dello Stato nei confronti di chi delinque, salvo scontrarsi con un tasso di recidiva molto più alto rispetto agli altri paesi europei. Eppure, in tempi di populismo anche in ambito penale, questa sembra essere l’unica risposta che siamo in grado di dare, con buona pace del principio di umanità della pena, morto e sepolto in qualche angolo dimenticato di Poggioreale, nel silenzio complice di molti avvocati. Alba (Cn): la riapertura della Casa di reclusione? Nel 2019… forse di Manuela Anfosso targatocn.it, 16 ottobre 2017 Ma sicuramente non il 2018: parola al garante Alessandro Prandi. A preoccupare Prandi sono le dichiarazioni del sottosegretario Federica Chiavaroli e la divulgazione del cronoprogramma dei lavori in seguito all’interrogazione parlamentare presentata da Mariano Rabino. “Quello che preoccupa per la riapertura dell’istituto Montalto è il mutare sistematico delle previsioni nel giro di pochi mesi quasi a sottendere la mancanza di una reale capacità o volontà di programmazione. Al di là della conferma della disponibilità delle risorse finanziarie necessarie, pari a 2milioni di euro, per eseguire i lavori di ristrutturazione dell’impianto, previste nell’assegnazione dei fondi per l’edilizia penitenziaria e confermate dalla Sottosegretario, non mi pare che le notizie delle ultime settimane siano particolarmente confortanti”, ha dichiarato Prandi. Ma facciamo un passo indietro. Nel luglio 2016 sempre il Sottosegretario Chiavaroli, riferendosi ai lavori previsti per il carcere albese, ebbe da dichiarare in Parlamento: “Secondo le previsioni formulate dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, l’intero procedimento potrebbe vedere la conclusione con il completo recupero dell’istituto per la fine del 2017”. Dopo poco più di dodici mesi le previsioni formulate dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria si sono allungate di almeno un anno. Dal testo del cronoprogramma si apprende poi che le attività della gara di appalto, che dovrebbe avvenire 60 giorni dopo fine della fase di progettazione (che parrebbe doversi concludere a fine del corrente mese di ottobre) dureranno indicativamente 6 mesi oppure 2 se il progetto fosse considerato riservato: si sta tra marzo e giugno 2018. A luglio 2016 - sempre secondo quanto affermò la Sottosegretario Chiavaroli - in seguito alla redazione degli atti preliminari sarebbe seguita “la scelta del contraente e l’inizio dei lavori”. Prosegue amareggiato Prandi: “Analizzando attentamente la scansione dei tempi previsti dal cronoprogramma e mettendo in fila le date, ci vuole poco a rendersi conto che se per i lavori si prevedono 365 giorni naturali e consecutivi, la fine dei lavori è prevedibile per gli ultimi mesi del 2019, senza considerare interruzioni dovute ad esempio alle feste comandate, a cui seguiranno, entro i sei mesi successivi, il collaudo e la riconsegna. Viene citata l’eventualità di consegne frazionate che comunque comporterebbero un allungamento dei tempi complessivi. Francamente riesce difficile individuare la fine del 2018 come riapertura anche solo parziale degli attuali padiglioni fuori servizio”. Insindacabile resta l’interesse e l’impegno che, sia l’Amministrazione comunale, sia i rappresentanti albesi in parlamento, ha dimostrato sulla tematica dell’avanzamento dei lavori per la riapertura della casa di reclusione. Ma purtroppo non sono loro l’ago della bilancia. L’amministrazione della Giustizia e l’Esecuzione penale sono di completa competenza dello Stato con cui gli enti locali possono interloquire ma nei fatti non hanno possibilità di incidere nelle scelte. Trento: carcere e giustizia, binomio finito. “Coinvolgere la comunità” di Caterina De Benedictis Corriere del Trentino, 16 ottobre 2017 Il convegno di Apas e Cnca. Laganà: “Le misure alternative riducono la recidiva”. Defacci: costruire risposte. Nel pieno della settimana dell’accoglienza a Trento per riflettere sui temi della libertà, della giustizia e della sicurezza si è tenuto un incontro - “Accogliere è sicuro? Analisi e proposte per una giustizia di comunità” - proposto dall’associazione Apas, dal Coordinamento nazionale comunità di accoglienza del Trentino Alto Adige e dall’Università di Trento. Durante l’incontro i riflettori sono stati puntati sull’attuale condizione del carcere con un focus sul problema della sicurezza e sulle nuove linee di indirizzo per una giustizia sempre più integrata nella comunità. “Il binomio carcere-giustizia è stato ormai smontato da tempo - commenta Elisabetta Laganà, ex garante dei detenuti del Comune di Bologna - Numerosi dati statistici mostrano infatti come il ricorso alle misure di comunità sia decisamente più sicuro della mera detenzione, in quanto riduce sensibilmente il tasso di recidiva”. In tal senso, dunque, tutti gli enti istituzionali e, più in generale la comunità nel suo complesso, sono chiamati a un lavoro sul campo al fine di comprendere cosa è possibile e opportuno realizzare. “Dove c’è la presenza formata di una comunità esterna si producono realtà solide ed avanzate che possono offrire strade nuove per una maggiore sicurezza intesa in termini anche di giustizia”, continua Laganà. “Protagoniste di tale dibattito non possono essere solo le associazioni e le organizzazioni di volontariato - spiega Aaron Giazzon, operatore dell’Apas - È necessario coinvolgere l’intera comunità a livello sia privato che culturale”. Da diversi anni, infatti, le realtà che gravitano intorno al mondo della detenzione si interrogano sulle nuove opportunità che nascono dalla sfida del carcere. Per Riccardo Defacci, vicepresidente nazionale del Cnca “l’intenzione consiste nell’iniziare a scrivere un percorso di confronto con le diverse realtà presenti sul territorio. Non possiamo più ostinarci a trovare le risposte esclusivamente nell’istituzione carceraria. Dobbiamo puntare alla costruzione di un panel di possibili risposte in termini di prevenzione e di misure alternative da scontare sul territorio”. L’incontro ha visto, inoltre, la partecipazione di Antonia Menghini, professoressa di diritto penitenziario all’università di Trento e neo garante dei detenuti della Provincia. Cosenza: “Carta dei figli di genitori detenuti”, gli impegni della Camera Penale cosenzachannel.it, 16 ottobre 2017 L’Osservatorio Carcere della Camera Penale di Cosenza “Avvocato Fausto Gullo” ha preso parte al “I Workshop nazionale Protocollo - Carta dei figli di genitori detenuti. Dalla teoria alla pratica dei diritti” organizzato dall’Associazione “Bambinisenzasbarre Onlus” tenutosi presso il PRAP Lombardia a Milano, con la partecipazione dell’avvocato Chiara Penna e l’avvocato Maria Gabriella Cavallo per delega della Responsabile e del Coordinatore dell’Osservatorio Carcere con gli avvocati Valentina Spizzirri e Giovanni Cadavero. Il protocollo di intesa firmato a Roma il 6 settembre 2016 (già firmato il 21 marzo 2014 e rinnovato nel 2016) tra il Ministro della Giustizia Andrea Orlando, l’Associazione Bambinisenzasbarre Onlus - nella persona di Lia Sacerdote - e l’Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza - nella persona di Filomena Albano - ha lo scopo di individuare le linee guida utili a favorire il mantenimento dei rapporti tra i genitori detenuti e i loro figli, salvaguardando sempre l’interesse superiore dei minorenni. Il Protocollo prevede una serie di disposizioni volte a incentivare la creazione di “spazi bambini” all’interno dei luoghi di detenzione dove i minorenni possano sentirsi accolti e riconosciuti, focalizzando l’attenzione anche sulla necessità di tener conto del luogo di detenzione per garantire un assiduo contatto diretto tra genitori e figli. Lo scopo del protocollo è altresì quello di introdurre la cultura della formazione specializzata nel personale dell’Amministrazione penitenziaria, per far sì che gli addetti siano in grado di veicolare l’impatto certamente negativo che l’ambiente carcerario determina sui bambini. L’incontro tenutosi a Milano aveva, dunque, lo scopo di condividere prospettive di lavoro e promuovere la carta dei figli di genitori detenuti a livello nazionale, attraverso il coinvolgimento degli enti territoriali ed il monitoraggio della sua applicazione. Sul tema sono intervenuti l’Autorità Garante nazionale dell’infanzia, l’Autorità Garante Nazionale dei detenuti, l’Autorità Garante Detenuti Regioni Puglia, Lazio, Comuni di Firenze e Milano e l’Osservatorio Carcere della Camera Penale “Fausto Gullo” di Cosenza. In particolare, da parte di quest’ultimo è stato sottolineato l’interesse da sempre manifestato a tali problematiche nonché le finalità del progetto denominato “Arcobaleno” che l’Osservatorio carcere, con avallo del Direttivo della Camera penale “Fausto Gullo” di Cosenza, ha intenzione di realizzare, già da tempo, nel carcere cittadino in linea con le finalità del Protocollo. Venezia: studio della Bibbia in carcere, uno spazio di libertà di Francesca Catalano Gente Veneta, 16 ottobre 2017 Insegnare la “scrutatio” ai detenuti, questo è il desiderio di Alvise Graziani, animatore da circa tre anni del gruppo di ascolto presente nel carcere maschile di Santa Maria Maggiore a Venezia. “All’interno del carcere, nonostante l’ostilità dell’ambiente, abbiamo creato una piccola comunità cristiana” dice Alvise, raccontando le dinamiche che si sono create all’interno della casa circondariale. Un’esperienza, quella dei gruppi di ascolto, che continua fin dal 1999 e che oggi è resa ancor più ricca da due gda, quello tenuto da Alvise, appunto, e quello tenuto dall’animatore Marco Foffano. Fondamentale è anche la catechesi tenuta da don Antonio Biancotto, cappellano del carcere, improntata sulla parte morale, volta a portare ad una revisione della vita e ad indirizzare sulle scelte future. E adesso, per i detenuti è arrivato il momento di poter approfondire la loro fede anche da soli per far propri gli insegnamenti di Dio. Per fare questo però servono le Bibbie di Gerusalemme di nuova traduzione con le note: chiunque ne disponga e volesse donarle ai detenuti è quindi invitato a portarle presso la Casa Caburlotto in fondamenta Rizzi, vicino le carceri. Importante è che la copertina delle Bibbie sia flessibile in quanto quelle rigide non sono ammesse all’interno del carcere per motivi di sicurezza. “Nessuno è pronto”. “Questa esperienza non l’ho cercata, è successa” racconta l’animatore, spiegando che dopo alcuni anni di volontariato don Antonio gli chiese di portare avanti l’esperienza dei gruppi di ascolto. “Io gli dissi subito che non pensavo di esserne in grado ma lui mi rispose: “ma chi è pronto?”“ spiega Alvise, raccontando che ciò che lo ha spinto ad accettare è l’esperienza di misericordia. Il gruppo di ascolto si incontra ogni giovedì per circa due ore e una decina sono i carcerati che vi partecipano. La prima parte dell’incontro inizia lasciando spazio al dialogo per dare l’opportunità ai presenti di condividere le proprie novità e quanto è accaduto loro durante la settimana. Più tardi si prosegue con una preghiera e poi vengono lette le due letture e il Vangelo della domenica successiva, così che le persone possano arrivare preparate alla messa che in carcere è spesso distratta. “Cerchiamo di “spezzare” la Parola focalizzandoci poi sul dialogo, dove vengono esposti dubbi e perplessità. Il Vangelo, infatti, è massima guida anche se a volte può sembrare scomodo” dice Alvise, spiegando che nel gruppo cerca di portare sempre la sua piccola esperienza di fede. I detenuti si interrogano. A volte capita che i reclusi inizialmente prendano parte al gruppo per motivi lontani dalla fede ma poi Dio li lascia sbalorditi: “All’interno del carcere capisci che non è compito tuo giudicare, ci sono storie molto pesanti, croci grosse. Il carcere è un ambiente duro e il gruppo di ascolto è una bella boccata d’ossigeno. Lì riusciamo a valorizzare il pensiero, le persone ritornano volentieri e cominciano ad interrogarsi sulla fede”. Negli incontri Alvise spiega le basi del catechismo come i dieci comandamenti, ma vengono affrontati anche temi quali l’idolatria, la Trinità, la giustizia e la verità. Quando il Vangelo parla di ultimi, molti di loro si sentono partecipi e si identificano. “I detenuti sono concentrati sulle loro condanne ma il cristianesimo insegna il perdono. Dio è misericordioso e tutti siamo in qualche modo peccatori” continua Alvise, spiegando che il gruppo di ascolto aiuta i reclusi a perdonarsi e a perdonare il prossimo. Piccoli miracoli dietro le sbarre. La Parola inoltre ha la forza di entrare nel cuore delle persone senza lasciarle indifferenti: “C’è un passaggio di Dio reale, percepibile. Sono stato testimone di reclusi che si sono commossi ed hanno pianto” dice l’animatore, spiegando che all’interno del carcere ha visto sciogliere molti nodi che le persone avevano nel cuore. Per di più ha potuto assistere a piccoli miracoli: “Ci sono stati miracoli spirituali ma anche a livello pragmatico, molti sono coloro a cui si è addolcito il cuore. Nella vita di alcuni carcerati sono giunte belle notizie, come chi si è riappacificato o riavvicinato in famiglia. Altri invece hanno iniziato a riconsiderare vecchi rancori” racconta Alvise. Poi spiega che il cristiano all’interno del carcere è come un virus benefico: “I detenuti iniziano a pregare e fare gesti d’amore - continua, affermando infine che nei reclusi è percepibile anche una trasformazione nel volto. Chi inizialmente arriva depresso e in ansia poi comincia a sperare e si sente accolto. All’interno del carcere ci vogliamo tutti bene e ogni giovedì ci aspettiamo. Ogni incontro inoltre termina con il segno della pace per sottolineare la fratellanza reciproca. Questa esperienza mi fa crescere nella fede” conclude Alvise, sperando che l’esercizio della scrutatio porti i carcerati a maturare la loro fede. Infine invita tutti a pregare per i detenuti, soprattutto per quelli che non conoscono Dio. Anziani tutelati contro giovani precari: il lavoro è lo stesso, ma la paga è dimezzata di Vittorio Malagutti e Gloria Riva L’Espresso, 16 ottobre 2017 Nelle aziende c’è un muro invalicabile che separa i garantiti dai nuovi arrivati privi di tutele e con bassi salari. Spesso svolgono lo stessa identica mansione, ma sono assunti da cooperative esterne. Ecco le loro storie. Mattia, 25 anni, lavora alla Citterio salumi e non era neppure nato quando Lanfranco, 54 anni, mise piede per la prima volta nel reparto macellazione del gruppo Cremonini. Adesso tutti e due, Mattia e Lanfranco, si guadagnano da vivere nel distretto della carne di Modena. Entrambi indossano cuffietta e grembiule bianco e svolgono all’incirca le stesse mansioni. A dividerli c’è però un muro che appare altissimo, insuperabile. Il muro che separa i garantiti da tutti gli altri, quelli che hanno conquistato un posto di lavoro sacrificando tutele, protezioni e una buona fetta di busta paga. Lanfranco ha un contratto a tempo indeterminato e ogni 28 del mese riceve un salario con tanto di benefit e ferie. Mattia invece è stato assunto dalla Dictum, la società che ha vinto l’appalto per il disosso del prosciutto per conto del gruppo Citterio. Il suo posto di lavoro è legato a quell’appalto: il primo è salvo fintanto che l’altro non si esaurisce. Nel frattempo, Mattia guadagna circa 1.200 euro al mese, più o meno la metà di quanto riceve Lanfranco, il suo collega più anziano. Non ci sono benefit e il salario viene accreditato in banca solo il 15 o il 20 del mese successivo. Vite parallele, a volte addirittura fianco a fianco nelle stesse aziende, ma mondi diversi. Succede quasi ovunque, ormai, ma soprattutto nelle vecchie fabbriche, quelle sopravvissute alla globalizzazione, a Internet e ai robot. Le storie di Lanfranco e Mattia, così come le altre raccolte in questa inchiesta, raccontano dei diritti persi per strada, e forse per sempre, da milioni di lavoratori. Tutto è cambiato nell’arco di una ventina d’anni, meno di una generazione. Le aziende si sono trasformate. Sono diventate più flessibili, più leggere. I salari hanno perso terreno, spesso sacrificati al totem della competizione globale tra grandi gruppi. La creazione di valore per gli azionisti, spesso in un ottica di breve termine scandita dall’andamento delle quotazioni di Borsa, è diventata una priorità assoluta per i capi-azienda. Tutto il resto viene dopo. E così, una ristrutturazione dopo l’altra, sono stati tagliati i dipendenti che pesavano di più sul conto economico. Gli anziani se ne sono andati in pensione, sostituiti da giovani precari, oppure dai robot. E quelli che resistono, i sopravvissuti alle ondate successive di prepensionamenti e mobilità, diventano i monumenti viventi di un mondo che non c’è più. Lanfranco, all’età di Mattia, era già stato assunto a tempo indeterminato e prendeva un salario intero, che all’epoca si aggirava intorno a due milioni delle vecchie lire. A quell’epoca, i dipendenti appena entrati in azienda trascorrevano lunghe ore con i più anziani, nelle salette scuola, per imparare il mestiere. Adesso invece i turni di lavoro sono organizzati in modo che i giovani non incrocino mai i lavoratori più esperti. “La ditta non assume più nessuno e il mio lavoro è stato affidato a un’azienda esterna”, spiega Lanfranco. Nell’arco di vent’anni anche le aspirazioni individuali e i percorsi di carriera dei singoli lavoratori sono cambiati. Il mercato al ribasso dei diritti ha ridimensionato, insieme ai salari, anche gli obiettivi di crescita individuale. Lanfranco ricorda che già un paio di anni dopo l’assunzione riuscì a passare a una mansione di maggiore responsabilità. Adesso invece sogni e speranze viaggiano al minimo. Mattia si dice soddisfatto perché è stato finalmente assunto da una società che applica il contratto degli alimentaristi. Prima invece era alle dipendenze di una cooperativa, con poche garanzie e molte incertezze. “Non mi lamento delle condizioni di lavoro”, dice Mattia, “ma continuo a sperare di essere assunto direttamente dall’azienda. Perché noi non siamo come gli altri, come i dipendenti diretti della Citterio. Su di noi non c’è alcun progetto e nessuno ha interesse a farci crescere”. E poi c’è sempre il terrore che la ditta perda l’appalto e salti il lavoro. Se sei interno, invece, “nessuno ti tocca più”. “La macelleria è un lavoro pesante, ma un tempo garantiva salari alti e condizioni contrattuali ottimali”, spiega Marco Bottura, segretario della Flai Cgil, il sindacato degli alimentaristi, di Modena. Negli ultimi anni però, continua Bottura, “si è diffuso sempre di più un sistema di appalti con aziende esterne che entrano nello stabilimento per svolgere funzioni strettamente legate al ciclo produttivo”. Risultato: salari più bassi per tutti. Anche perché molti nuovi posti sono andati a immigrati che accettano paghe nettamente inferiori a quelle dei colleghi italiani. Inoltre, come ha rilevato più di un’indagine della Guardia di Finanza, gli appalti esterni corrono sul filo dell’illegalità. E così, cooperative che nascono e muoiono a volte nell’arco di pochi mesi riescono ad aggirare anche quel minimo di regole a tutela dei lavoratori. C’è di peggio, segnala Bottura: “il sistema degli appalti si sta radicalizzando ed estendendo anche ad altri settori”. È il caso dell’edilizia, ma anche nell’industria metalmeccanica una quota sempre maggiore di lavorazioni viene oggi affidata a ditte esterne. Nunzio Molaro oggi è capo prodotto di bordo alla Fincantieri. Ne ha fatta di strada in questi vent’anni: è partito come operaio, addetto alla costruzione dei tubi per le navi, con una paga da mille euro al mese, più premi, tredicesima, ferie, tfr e tante garanzie, fra cui l’indennità di disoccupazione: “Nel 2009 mi hanno messo in cassa integrazione per un anno e mezzo. Poi l’azienda mi ha offerto un corso di formazione di tre mesi per diventare impiegato. Ho accettato ed eccomi qui, passato dall’officina all’ufficio”. Nunzio è uno degli ultimi fortunati, perché nel frattempo l’azienda ha deciso di affidare il suo reparto a un’azienda esterna. Chi ha preso il suo posto guadagna 12 euro l’ora anziché 25 e non ha alcuna opportunità di crescita interna. Anzi, quando le forze verranno meno, sarà semplicemente sostituito da una persona più giovane. E, in caso di crisi, per lui non ci saranno ammortizzatori sociali. La Fincantieri di oggi, quella che dopo una travagliata trattativa sta per unirsi con i cantieri francesi Saint Nazaire, è molto diversa dall’azienda in cui Nunzio ha iniziato a lavorare. Una ventina di anni fa il gruppo a controllo pubblico, all’epoca in forte perdita, contava su oltre 11 mila dipendenti. Adesso invece il personale delle sedi italiane non supera quota ottomila, mentre altri 11 mila lavoratori sono in forze alle altre società affiliate sparse per il mondo. Stefano Boschini è il sindacalista della Fim Cisl che si occupa di Fincantieri a Porto Marghera, dove ci sono 3.300 operai di ditte esterne e solo 1.020 dipendenti diretti, per lo più impiegati. “L’azienda”, spiega Boschini, “punta a riqualificare i propri operai, trasformandoli in colletti bianchi e lasciando l’attività strettamente produttiva a ditte in appalto”. Il trasferimento a mansioni impiegatizie è un effetto collaterale della legge Fornero che, allungando la permanenza in fabbrica dei dipendenti, ha creato parecchi problemi di ricollocamento di chi fa i conti con gli acciacchi fisici dell’età e con le prescrizioni mediche che interdicono il lavoro manuale più pesante. Ma c’è anche un’altra ragione, sostiene Nunzio. Con gli appalti esterni, Fincantieri si alleggerisce del costo e della responsabilità della sicurezza, delle assicurazioni, delle attrezzature. Nei cantieri, i lavoratori terzisti sono per lo più stranieri, non sindacalizzati e svolgono mansioni meno qualificate. E questo finisce per alzare ancora di più il muro che separa i dipendenti di Fincantieri da quelli delle ditte esterne. Un muro molto simile a quello che troviamo in Piaggio, lo storico marchio delle due ruote con base a Pontedera, in Toscana. Simone ha 47 anni ed è stato assunto nel 1994, prima con un contratto a termine per un milione e 400 mila lire per sei mesi, poi a tempo indeterminato. Oggi fa il supervisore e assiste con un certo imbarazzo a quanto accade alle nuove leve, ai giovani assunti con part time verticali, che durano sei o sette mesi e non si trasformano mai in qualcosa di più sostanzioso. Proprio questa, in breve, è la storia di Francesco, arrivato in Piaggio ormai 11 anni fa, quando ne aveva solo 23. All’epoca il suo contratto era a termine, durava da marzo a metà estate e veniva rinnovato ogni 12 mesi. Nel 2012 Francesco ha finalmente conquistato un posto a tempo indeterminato. C’è poco da festeggiare, però, perché il nuovo contratto è in realtà un part time verticale che gli permette di lavorare non più di sette mesi all’anno e non gli dà diritto a nessuna indennità per i mesi di stop. Prima invece, quando l’impiego era a tempo determinato, Francesco riceveva il sussidio di disoccupazione nei periodi di inattività. Per quelli come lui, dipendenti part time, le probabilità di entrare in azienda in pianta stabile, magari prendendo il posto di un collega che va in pensione, sono molto scarse. La via d’accesso si è fatta ancora più stretta per effetto di un cocktail micidiale. Alla legge Fornero si è aggiunta un’ automazione industriale sempre più spinta: otto operai di linea vengono sostituiti da quattro persone e due robot. A Pontedera i dipendenti Piaggio sono circa 2.600, quattro volte meno rispetto a trent’anni fa e nel frattempo il gruppo presieduto da Roberto Colaninno è cresciuto in Estremo Oriente, con nuovi impianti in India, Vietnam e Cina. In tempi di industria 4.0, però, anche in Piaggio servirebbe personale più qualificato, in grado di programmare una macchina, competente di informatica. Queste esigenze, come spiega Marco Comparini, sindacalista della Fiom Cgil di Pontedera, “devono fare i conti con la Legge Fornero, che impone al personale più anziano di restare in servizio. E queste persone, per motivi d’età, difficilmente saranno in grado di seguire lunghi percorsi di formazione e arrivare a radicali conversioni professionali”. Far carriera in azienda, migliorare la propria posizione, acquisire nuove competenze un tempo era molto più facile. Lo dimostrano, tra le tante, le storie parallele di Stefano e Manuel. Entrambi sono addetti alla manutenzione dei forni alla Dalmine, la storica azienda siderurgica del gruppo Tenaris. Il cinquantenne Stefano, diploma di licenza media, è stato assunto nel Duemila e da allora ha quasi raddoppiato il proprio stipendio, passato da 1.400 a 2.500 euro al mese. Manuel, invece, di vent’anni più giovane, entrato in fabbrica nel 2012 forte di un diploma di scuola superiore, guadagna 1.600 euro al mese per un lavoro molto faticoso, che si svolge su turni e in condizioni difficili. Questione di soldi in busta paga, ma non solo. Manuel ha appena comprato casa, ma ha dovuto chiedere ai suoi genitori di fargli da garanti perché il suo contratto non è stato considerato una garanzia sufficiente per aprire il mutuo con la banca. Stefano invece, grazie al suo stipendio, è riuscito a comprarsi un’abitazione, pagandola ovviamente a rate, e ha mantenuto per vent’anni figli e moglie. Morale della storia: ci sono lavoratori di serie A, di serie B e anche di serie C. Gente che lavora fianco a fianco, nella stessa azienda, con le stesse mansioni. “La differenza fra l’uno e l’altro è come quella fra paradiso, purgatorio e inferno”, sintetizza Laura, nome di fantasia, necessario per garantirle il suo posto da commessa nel purgatorio di Zara, la grande catena di abbigliamento low cost. Laura ha 32 anni e un’idea piuttosto chiara di quanto i diritti dei lavoratori siano diventati flessibili, declinabili. “Si timbra insieme, ma il tuo collega non è come te, non fa parte della tua stessa squadra. Può essere in serie A, e allora ha diritto a un giorno di riposo ogni tre, mentre tu devi lavorare sei giorni su sette. Oppure sta nella C e, nonostante lavori qui da quasi tre anni, a causa dei rinnovi a singhiozzo, non riesce a maturare il diritto alla tessera sconti per i dipendenti, al buono di Natale, alla percentuale sulle vendite che porta il salario da 950 a 1.200 euro al mese”. Laura è inquadrata come commessa, ma ormai si occupa solo di svuotare il camerino dove i clienti provano i vestiti. “Non conosco più i prodotti, non so come consigliare i clienti”, racconta, perché la gestione del magazzino, così come molte altre mansioni, è stata appaltata a ditte esterne. Benvenuti nel nuovo mercato del lavoro, un mercato diviso per caste, dove ognuno difende i diritti legati a età e anzianità aziendale. E gli ultimi arrivati, i più giovani, soffrono per i bassi salari e non vedono un futuro. Che è ancora peggio. Stalking, radiografia di una piaga sociale che colpisce tre milioni di donne di Luigi Gaetani L’Espresso, 16 ottobre 2017 Dal 2009 una legge punisce chi mette in atto comportamenti persecutori nei confronti di una persona. Un provvedimento che, secondo i dati dell’Istat, ha aiutato moltissime donne. Ma con la riforma Orlando sarà possibile estinguere il reato con un semplice risarcimento in denaro, anche senza il consenso della vittima. Appena 1.500 euro per essere assolti dall’accusa di stalking. Dal tribunale di Torino arriva uno dei primi esempi di applicazione del nuovo istituto sulla giustizia riparativa, introdotto dalla riforma Orlando, che permette di essere prosciolti da un’imputazione per “atti persecutori” pagando una semplice multa, anche senza il consenso della vittima. Il reato di stalking è stato introdotto in Italia con una legge del 2009 e consiste nel molestare ripetutamente una persona, provocando nella vittima un continuo stato di ansia o di paura, costringendola a cambiare le proprie abitudini di vita. Un incubo nel quale, almeno una volta nella vita, sono entrate più tre milioni di donne italiane. Una minaccia che può arrivare dal proprio ex partner, ma spesso anche da conoscenti occasionali o da perfetti sconosciuti. Secondo uno studio dell’Istat, pubblicato nel 2016, il 21,5 percento delle donne fra i 16 e i 70 anni, pari a 2 milioni e 151 mila, avrebbe subito comportamenti persecutori da parte di un ex partner nell’arco della propria vita. Quasi il 10 percento quelle che sono state vittima di stalking “grave”, mentre sarebbero circa 2 milioni e 300mila le donne che nell’arco della propria vita hanno subito comportamenti persecutori da persone diverse dagli ex partner. I dati del ministero dell’Interno confermano che dall’entrata in vigore della nuova norma nel 2009, le denunce sono aumentate anno dopo anno, fino a stabilizzarsi a partire dal 2014. Francesca Garisto, avvocata penalista e vicepresidente della Casa delle donne maltrattate, spiega: “Con la legge del 2009 abbiamo raggiunto un obiettivo cruciale, perché è nata una figura di reato specifica, il cosiddetto stalking appunto. Fino all’entrata in vigore della norma gli atti persecutori erano considerati ognuno come una singola e autonoma azione, spesso nemmeno punibile come reato minore. Atti che invece, se inseriti in un contesto globale, hanno rilevanza penale”. Esempio tipico è l’ingiuria, un reato che di per sé è stato depenalizzato, ma che invece è uno dei comportamenti classici che configurano lo stalking. Secondo l’avvocata, pur esistendo una quantità di casi “sommersi” che non vengono denunciati, la legge ha contribuito moltissimo alla sensibilizzazione sul tema e ha rappresentato un concreto aiuto per le donne, anche grazie al meccanismo dell’ammonimento: “A volte lo sconsiglio - spiega Garisto - perché lo ritengo inadatto alla situazione. Spesso però lascio che sia la donna a decidere. Penso che l’ammonimento sia un buono strumento quando dall’altra parte c’è una persona che in qualche modo possa recepirlo. Può essere un buon deterrente e soprattutto è rapido: il questore, una volta compreso che le evidenze ci sono, in 15 giorni convoca il presunto stalker nella stazione di polizia di zona - e se il soggetto non si presenta la Polizia lo va a cercare - e gli notifica un atto in cui lo diffida dal mantenere la propria condotta nei confronti della parte lesa. Di solito vengono anche date indicazioni di non avvicinarsi ai luoghi frequentati dalla vittima o alla sua abitazione. E se poi le indicazioni del questore non vengono rispettate, si procede d’ufficio”. I dati dell’Istat parlano chiaro: il 66% delle donne afferma che già con l’ammonimento, quindi senza aprire un procedimento penale, i comportamenti persecutori cessano. Ma i frutti della norma del 2009 rischiano di essere vanificati. Con la legge di riforma del sistema penale, la cosiddetta riforma Orlando, approvata in via definitiva il 14 giugno e in vigore dal 3 agosto, nel codice penale è stato introdotto il nuovo articolo 162ter, che prevede la possibilità dell’estinzione di alcuni reati a seguito di “condotte riparatorie”, cioè del pagamento di un risarcimento in denaro. Interessati dal provvedimento sono i reati a querela remissibile, tra cui anche le forme di stalking “non gravi”. Oggi, quindi, una volta presentata un’offerta di risarcimento da parte del presunto molestatore, sarà il giudice a valutare se la somma è congrua e potrà quindi decidere di estinguere il reato, anche senza il consenso della vittima. Loredana Taddei - responsabile delle politiche di genere della Cgil nazionale, commenta: “Cgil, Cisl e Uil sono stati i primi a denunciare questa anomalia, cioè che nel pacchetto intercettazioni votato alla Camera sarebbe rientrato anche il reato di stalking. All’inizio c’è stata una reazione scomposta e direi anche superficiale di alcuni esponenti del Governo che ci hanno addirittura accusati di diffondere fake news. Però quando sono scesi in campo magistrati come Eugenio Albamonte o avvocati come Giulia Bongiorno, sono dovuti correre ai ripari”. A luglio il guardasigilli ha assicurato un intervento tempestivo, indicando anche quale sarebbe stata la strada da perseguire per porre rimedio alla “svista”. “Per evitare qualunque possibilità di equivoco interpretativo - ha detto il ministro della Giustizia Orlando - si deve agire riconsiderando la punibilità a querela prevista nella legge del 2009”. Eliminare del tutto, dunque, la possibilità per le vittime di stalking di ritirare la querela. Niente più distinzioni tra gradi di reato, non ci sarà più la libertà da parte di chi denuncia di tirarsi indietro. Ma proprio qui sta il punto, come spiega l’avvocata Garisto: “Su quella questione c’è stato un grande dibattito nel 2009. Anche i movimenti delle donne si sono spaccati. C’era chi riteneva che andasse lasciata sempre alle donne la possibilità di decidere in autonomia e quindi anche di scegliere di ritirare una querela. E chi invece, poiché lo stalking è in realtà una piaga sociale che non investe solo la singola vittima, avrebbe preferito l’irrevocabilità”. Alla fine ha prevalso la linea della possibilità di revoca. Ma nella legge è stata successivamente inserita una modifica, con la cosiddetta legge sul femminicidio del 2013, che stabilisce che la querela non può essere ritirata se le minacce sono di tipo “grave”, cioè commesse per esempio con le armi o da una persona irriconoscibile. Proprio il rischio di riaprire il dibattito di otto anni fa sarebbe il motivo che ha spinto, per ora, il ministro della Giustizia a non prendere provvedimenti. “Tra le femministe - spiega Taddei - l’irrevocabilità è sempre stato un motivo di scontro e secondo me quando ci si è resi conto che si rischiava di risollevare un polverone si è scelto di soprassedere. È quello il nodo vero. Però nel frattempo sono passati tre mesi e non si è ancora fatto nulla per correggere l’errore”. “Non penso che ci sia stata una volontà precisa di sminuire la legge sullo stalking - dice l’avvocata Garisto - credo davvero che si sia trattato di una svista e forse questo è un fatto ancora più grave. Vuol dire che non c’è ancora consapevolezza della gravità del fenomeno e nemmeno di cosa voglia dire per una persona affrontarlo. Le donne non denunciano certo perché vogliono soldi, denunciano perché cercano protezione dalle istituzioni”. Sempre secondo il report dell’Istat, nonostante la vastità del fenomeno, al 2014 ben il 78 percento delle vittime non si era rivolta ad alcuna istituzione e non aveva cercato aiuto, mentre solo il 15 percento si era rivolta alle forze dell’ordine. C’è da temere che i numeri peggiorino nei prossimi mesi: da settembre i tribunali lavorano di nuovo a pieno regime e molte donne rischiano di vedere i propri persecutori cavarsela pagando una semplice multa, tra l’altro quasi certamente di piccola entità. “Non abbiamo ancora esperienza per fare ipotesi - chiarisce Garisco - ma di sicuro il giudice valuterà la situazione economica delle parti per decidere. Se proprio devo fare un pronostico, temo che in media un risarcimento non supererà i 1000 euro”. Migranti. I 500mila “invisibili” che vivono in Italia di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 16 ottobre 2017 Nelle periferie tra immigrati irregolari (anche in venti nella stessa casa) e boss di borgata. I primi dati della commissione d’inchiesta: solo a Roma 99 palazzi abusivi in mano al racket. I fantasmi d’Italia sono tra noi: tanti da riempire una metropoli. Nei caruggi alcuni genovesi hanno trovato modo di farci i soldi. “Subaffittano a un prestanome, e quello stipa anche venti immigrati ad appartamento, 300 euro a posto letto... a conti fatti, seimila euro al mese per una stamberga: esentasse”, dice Stefano Garassino, assessore alla Sicurezza, che due calcoli se li è fatti pure lui. Sottraendo gli iscritti all’anagrafe dalle stime dell’Amiu, la municipalizzata che a Genova raccoglie i rifiuti, ha scoperto come tra i vicoli che si dipanano da Sottoripa ci siano almeno cinque o seimila persone in più. “Invisibili”. La commissione d’indagine - Il conto di Garassino ha dato la stura ai calcoli su scala nazionale della Commissione parlamentare che da un anno indaga sulle periferie e ha visitato nove città metropolitane. Alla vigilia della relazione finale, attesa per dicembre, il presidente, Andrea Causin, sostiene che sia “prudente” stimare “fra i 400 mila e i 600 mila immigrati irregolari”, invisibili appunto, nascosti nelle pieghe dei devastati suburbi italiani (40 mila nella sola Roma, 15 mila in tutto a Genova): “Attivi inevitabilmente nell’economia illecita”. Causin si prepara ad acquisire agli atti della Commissione l’ultimo rapporto della Fondazione Ismu (che il 1° dicembre 2016 parlava già di 435 mila immigrati “non in possesso di un valido titolo di soggiorno”) e i rapporti annuali della Caritas. “Quello è un altro punto di osservazione privilegiato, buono per capire: le mense”, sostiene Roberto Morassut, vice di Causin. La concordanza tra il presidente (forzista) e il numero due (democratico) rafforza un’analisi che, inevitabilmente, avrà una ricaduta politica, perché attiene al divario tra numeri dichiarati e reali e, infine, alla nostra percezione del problema. Il muro della vergogna - Naturalmente le periferie di questa Italia sfilacciata (“non più un luogo solo fisico della città ma posti dove le marginalità confluiscono”, scriverà in sostanza la Commissione pensando a quei centri urbani che, come Genova, Napoli o Bologna, pure contengono ghetti d’abbandono) raccontano anche storie di chi fa di tutto per rendersi ben visibile, proprio per dominare sugli invisibili. A Tor Bella Monaca, trincea romana, il casermone R9 è segnato da un gigantesco murale. L’hanno dipinto i soldati del clan Cordaro che domina quel pezzo di borgata, in onore del loro boss ammazzato in un regolamento di conti: “Serafino sei il nostro angelo”, si legge, sopra il viso barbuto del padrino che molti ragazzi, da allora, si fanno tatuare in segno d’appartenenza. “Il murale è lì dal 2013”, ha detto alla Commissione il procuratore antimafia Michele Prestipino, tirando le orecchie a sindaci presenti e passati, “e l’immobile è comunale. Sono cambiate tre amministrazioni, è cambiato il presidente del VI Municipio, ma nessuno si è sentito in dovere di rimuoverlo. Il fatto che il murale sia ancora lì, dentro la capitale d’Italia, rappresenta per questo gruppo motivo di grandissimo prestigio criminale”. Incubatori d’odio - L’aneddoto del murale dice molto su periferie dove la coesione sociale sta svanendo in fretta. Da San Basilio al Trullo, da Tiburtino III a Tor Sapienza, ogni strada è un confine tra ultimi e penultimi. E Roma, con il falansterio fallito di Corviale, pare davvero capitale di un’Italia sbagliata. “C’è un nesso tra degrado e scelte”, dice Causin: “Penso all’architettura che ha creato lo Zen di Palermo, le Dighe di Genova, agglomerati che mettono insieme povertà, disagio, disoccupazione, mancanza di servizi”. Era l’utopia degli anni Settanta, è diventato l’incubo del Duemila. “A Genova interi quartieri sono sottratti all’uso pubblico da bande”, dice Morassut, che trasferisce il tema delle periferie nella più vasta “questione urbana italiana”. Il degrado - È nel degrado della “città pubblica” che crescono gang come quella del palazzo R9 di Roma. Nelle città metropolitane dove pesano sottocapitalizzazione e distrazione dei fondi derivati dagli onori d’urbanizzazione: “Da dieci anni si usano per pagare gli stipendi dei comunali, gli interventi ordinari sono crollati verticalmente”. Gabriele Buia, presidente dei costruttori edili, ha detto ai commissari che questa “distorsione” ha impedito la “rigenerazione delle periferie”. Che, cresciute troppo in fretta fino a quarant’anni fa, dimenticate altrettanto in fretta, adesso presentano il conto. La battaglia delle case - Marco Minniti porta alla Commissione i primi dati sulla sicurezza urbana: 700 ordini di allontanamento e 80 Daspo al 12 settembre, soprattutto tra Napoli e Palermo. “Non possiamo stabilire però politiche uguali per tutta Italia”, spiega il ministro, serve il rapporto coi sindaci, la risposta va commisurata alla domanda, diversa per ogni città. Ancora una volta è Roma il ventre molle e la casa è terra di scontro. Se in tutt’Italia le case popolari occupate sono 49 mila, è nelle case della Capitale che infuria la battaglia tra gli ultimi, con i suoi 99 palazzi in mano agli abusivi: con un racket ammantato di ideologia antagonista come la banda di “Pinona” Vitale, con alloggi “espropriati” dai clan di Ostia ai legittimi proprietari, come racconta il pm Prestipino. Gli “invisibili” stranieri? Talvolta “massa di manovra” (visibile) nelle manifestazioni di piazza per il diritto alla casa”, spiega il procuratore Giuseppe Pignatone. Talvolta, specie se assegnatari legittimi, cacciati dal racket con l’aiuto di gruppi neofascisti. Il parroco di San Basilio l’ha detto chiaro ai commissari: “Quello che non si perdona non è la pelle nera, sono le carte in regola”. I padrini delle case popolari non possono permettersi di perdere la faccia. Migranti. I baby profughi cercano casa di laura anello La Stampa, 16 ottobre 2017 Solo a Palermo sono più di 600 i giovani ospitati in comunità che sperano di essere dati in affido. Palermo è la provincia che ha accolto il maggior numero di minori non accompagnati sbarcati dalle navi di soccorso che li hanno recuperati nel Mediterraneo. Solo nel 2016 sono stati quasi 2100. “Quando l’ho visto, ho capito che non avrei più potuto vivere senza di lui”. Sonia Lo Cascio, 52 anni, sorride mostrando la fotografia di Amarà, 15 anni, il ragazzo che ha preso in affido nel 2014 dopo averlo incontrato nella comunità di accoglienza dove lavorava come assistente sociale. Lui, orfano di padre e di madre, era partito da solo dal Mali, aveva attraversato il deserto e dalla Libia aveva preso un barcone. Un “minore non accompagnato”, come i centoventi che sono arrivati l’altro ieri a Palermo sulla nave dei bambini. Bambini che sul momento colpiscono al cuore, inteneriscono, commuovono. Ma che poi restano per anni nelle comunità di accoglienza, nell’attesa di compiere diciotto anni, sostenuti dal Comune con una spesa di 35 euro al giorno. Il sentimento immediato difficilmente si traduce in una presa in carico, tenuto conto che in maggioranza sono ragazzoni tra sedici e diciassette anni, per il novanta per cento maschi, con esperienze alle spalle difficili da raccontare. Così pochi, pochissimi sono disponibili a prenderli in affido o anche soltanto a fare da “famiglie di appoggio” - opzione meno impegnativa - portandoli allo stadio o a mangiare una pizza. A Palermo, la provincia con il maggior numero di ragazzi stranieri arrivati da soli (nel 2016 sono stati 2066) in questo momento ci sono 600 ospiti nelle comunità a fronte di cinque affidi giunti in porto e due in corso. Ma cinquanta tra famiglie e single si sono candidati negli ultimi mesi e stanno per iniziare il corso di formazione. Per tutti c’è un supporto di 258 euro al mese da parte del Comune. Chi ha fatto questa scelta emana gioia pura. Sonia Lo Cascio, per esempio, con il suo compagno Giorgio Barone, di mestiere farmacista. Una famiglia unica in Italia. Perché dopo avere accolto Amarà - ora al secondo anno del liceo linguistico e promessa della squadra di calcio della Fincantieri - sta facendo ogni sforzo per fare arrivare a casa anche i suoi tre fratelli rimasti in Africa, un ragazzino di 14 anni e due bambine di 11 e di 6. “Amarà è arrivato qui da capofamiglia - racconta Sonia - con la precisa determinazione di lavorare e di mandare i soldi ai suoi fratelli. Ricongiungersi a loro è il suo progetto di vita”. Così la famiglia già allargata (Amarà si è aggiunto a un figlio di Giorgio, e a due figli di Luisa) si prepara ad allargarsi ancora. “È la prima volta che un ricongiungimento familiare viene richiesto da italiani - dice la “mamma” - e quindi non ci sono precedenti. Attraverso il servizio sociale internazionale è stata fatta una visita ai fratellini in Africa, noi abbiamo mandato una relazione in cui presentiamo la nostra vita. Adesso aspettiamo”. Così, forte di questi straordinari testimonial, il servizio Affidi del Comune cerca altre famiglie disponibili ad accogliere i ragazzi. “Lavoriamo in stretto rapporto con l’Unità organizzativa del Comune che si occupa di interventi sugli immigrati - dice la responsabile del Servizio, Laura Purpura -. Sono loro a tenere i contatti con i responsabili delle comunità per minori e a segnalarci i casi più urgenti, in questo momento una decina. La legge stabilisce il termine di due anni per l’affido, ma nel caso dei minori stranieri non accompagnati non è previsto un rientro in famiglia. Così di fatto la presa in carico è fino ai 18 anni, o meglio fino al raggiungimento dell’autonomia”. L’assessore alla Cittadinanza solidale del Comune di Palermo, Giuseppe Mattina, sta per lanciare un progetto che si chiama “banca dell’opportunità”: “Dalla palestra alle gite ai doposcuola ai campi di calcetto, ciascuno offra qualcosa - dice - perché l’accoglienza deve essere di tutta la comunità, non solo delle istituzioni”. Ius soli. Gentiloni: “impegno per approvarlo in questa legislatura” La Repubblica, 16 ottobre 2017 Il premier al decennale del Partito democratico ha parlato anche di immigrazione, manovra finanziaria e del futuro del centrosinistra. “Speriamo di essere orgogliosi, è questo l’impegno del governo e mio personale, di poter dire di aver aggiunto il diritto alla cittadinanza per quei bambini che frequentano la nostra scuola, che vivono i nostri quartieri e che giocano nelle nostre squadre di calcio, ma che sono nati da genitori stranieri. Stiamo lavorando per approvare la legge entro questa legislatura”. Parole chiare quelle del presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, intervenuto al teatro Eliseo in occasione del decennale del Partito Democratico, e che riaprono la partita sull’approvazione dello ius soli. Difendendo il lavoro del governo sull’arrivo dei migranti sulle coste italiane il premier ha sottolineato come “anche nelle condizioni più impervie, è possibile governare tenendo fermi i nostri principi e i nostri valori. La sinistra di governo non spaccia paure o illusioni sul tema dei grandi flussi migratori. S’impegna a non subirli, a cercare di governarli, a gestirli se possibile. E ridurre del 30 per cento il numero degli arrivi, ridurre il numero dei morti nel Mediterraneo, è una straordinaria politica di sinistra di governo, caro Marco”, ha detto rivolgendosi al ministro dell’Interno Minniti, presente in sala. Il Parlamento si appresta a discutere la manovra finanziaria e Gentiloni fissa quelli che ne saranno i cardini: “La sfida del lavoro sarà centrale nella legge di bilancio che approveremo lunedì, in modo particolare verso i giovani”. “Dobbiamo essere grati ai segretari che si sono succediti nel Pd in questi anni: da Veltroni a Franceschini, da Epifani e Bersani a Matteo. E dobbiamo essere grati a Romano Prodi e a chi, con lui, ha immaginato l’Ulivo. A tratti - ha spiegato il premier - altri hanno pensato che la casa sia stata occupata da un manipoli di estranei. Ma questa per me è davvero acqua passato e queste sono discussioni del passato che è ora di lasciarci alle spalle. Il Pd è il Pd, la tradizione democratica raccolta nell’Ulivo di Prodi ha dato vita a un partito. Il progetto - ha concluso - è vivo e lotta insieme a noi”. Migranti. Letta: “nessuno si autoassolva, la strage dei bambini è una macchia per l’Italia” di Anais Ginori La Repubblica, 16 ottobre 2017 Era il premier quando ci fu il naufragio dell’11 ottobre 2013: “Verità e giustizia per le vittime, fate vedere l’inchiesta di Gatti nelle scuole”. Dopo l’orrore trovai il consenso per l’operazione Mare Nostrum che ha salvato 100mila vite: perché abbiamo fatto marcia indietro?”. “L’Italia non può autoassolversi solo perché si tratta di migranti. Dobbiamo garantire verità e giustizia”. Enrico Letta era capo del governo quanto ci fu la strage del’11 ottobre 2013 al centro dell’inchiesta e del documentario di Fabrizio Gatti. “Un lavoro giornalistico di denuncia - commenta - che dovrebbe essere presentato in tutte le scuole. I ragazzi devono capire di cosa stiamo parlando quando si discute di migranti”. L’ex premier, oggi direttore della scuola per gli affari internazionali di Sciences Po, ricorda la notte di quattro anni fa in cui morirono 268 persone tra Italia e Malta, pochi giorni dopo un altro naufragio avvenuto nel mare di Lampedusa con 368 vittime. “La concatenazione di due tragedie in così poco tempo - racconta - mi permise di trovare il consenso politico per lanciare Mare Nostrum”. Decise sull’onda emotiva, senza esitazioni? “Fu subito chiaro che non si trattava di singoli episodi ma di un fenomeno epocale, destinato a durare. Qualche mese prima c’era stato anche il profetico viaggio del Papa a Lampedusa, illuminante per me”. Il governo italiano però rimase da solo ad affrontare l’emergenza. “Chiesi la convocazione di un Consiglio europeo. Dissi ai colleghi degli altri governi: l’Italia non può sopportare che il mare nostrum diventi un mare mortum. Domandai un contributo per la missione di salvataggio che stavamo lanciando. Mi rispose un solo paese, la Slovenia, mandando una nave. Andai avanti lo stesso. Si trattava di difendere il nostro onore”. L’Europa ha preferito voltarsi dall’altra parte? “Da europeista, spiace dirlo: è così. La consapevolezza nelle altre capitali c’è stata solo due anni dopo, quando i rifugiati hanno spalancato la rotta balcanica, arrivando in Germania”. La missione Mare Nostrum viene accusata di aver aumentato i flussi di migranti verso l’Italia. Cosa risponde? “È una falsità. Chi ha accusato le nostre navi di fare da ‘taxi’ per i migranti dovrebbe guardare questo documentario. E quando la missione è stata interrotta i flussi non sono diminuiti, anzi. Qualcuno mi deve ancora spiegare perché l’Italia ha poi deciso di abbandonare l’operazione”. Il governo di Matteo Renzi fermò Mare Nostrum, sostituita dall’operazione Triton che doveva garantire una maggiore cooperazione europea. “Non voglio fare polemica. Rivendico però con orgoglio la mia scelta da capo di governo. In poco più di un anno Mare Nostrum ha salvato almeno 100mila vite umane. I nostri militari hanno fatto un lavoro straordinario rispetto all’egoismo di altri Paesi”. “Gli ufficiali italiani ci hanno lasciato morire”, dice uno dei superstiti della strage dell’11 ottobre 2013 intervistato nel documentario. “Dall’inchiesta giornalistica emergono responsabilità evidenti. Uno Stato non può archiviare una tragedia del genere senza garantire piena giustizia. Nel filmato appaiono altre due verità”. Ovvero? “I migranti hanno aspettato ore in mezzo al mare. Sono morti per il rimpallo di competenze tra Italia e Malta. Serve quindi una catena di comando chiara a livello europeo. L’altra cosa evidente è l’insufficienza di Frontex, un’agenzia nata con altre finalità che, non a caso, ha sede a Varsavia”. Oggi la polemica si è spostata sul ruolo dell Ong, accusate di fare da ‘taxi’ per i migranti. “Sono accuse rivoltanti. Può darsi che ci siano carenze o zone d’ombra da parte di alcune Ong. Il nodo fondamentale, però, è un altro. Una fenomeno epocale e di lungo termine come quello dei flussi migratori deve impegnare direttamente gli Stati. Le operazioni di ‘safe and rescuè devono essere prese in carico dai governi. Era il senso della missione di Mare Nostrum. Aggiungo che la presenza della nostra Marina ha permesso non solo il salvataggio di tante persone ma anche di raccogliere prove per fermare i trafficanti”. Sull’immigrazione una parte della sinistra utilizza ormai argomenti un tempo monopolizzati dalla destra? “Per esperienza so che su questi temi non c’è più distinzione tra sinistra e destra. Esiste una forma di cinismo collettivo. Si continua a fare campagna elettorale sulla pelle dei disperati”. Nessun politico italiano avrebbe il coraggio di riproporre un’operazione come Mare Nostrum? “In Italia tutto viene messo in unico calderone, non si fa più distinzione tra rifugiati e migranti economici, creando un fenomeno di rigetto”. C’è addirittura chi parla di “invasione”. “Parliamo di cifre importanti ma gestibili. L’invasione è quella che abbiamo visto in Germania, dove sono arrivate un milione di persone in pochi giorni”. Esiste comunque una pressione migratoria forte, che preoccupa tanti cittadini. “Infatti sono convinto che debba essere la questione numero uno della politica. Conta più dello spread e del futuro dell’eurozona. Il Brexit è figlio delle immagini di sbarchi a Lampedusa e delle bidonville di Calais. I populismi si nutrono di queste paure”. Un altro superstite della strage dice: “L’Italia deve dimostrare di averci trattato come esseri umani”. “Siamo nel mezzo di un processo di deumanizzazione. La nostra civiltà si è smarrita. Tra un secolo i biologi marini che esamineranno i fondali del Mediterraneo si troveranno davanti a un cimitero di guerra. Dovranno tentare di spiegare come siano potute morire così tante persone senza che ci fosse un vero conflitto”. Il “nuovo” terrorismo sulla rotta tunisina e i rischi per l’Italia di Gianandrea Gaiani Il Mattino, 16 ottobre 2017 Il comando delle Forze Democratiche Siriane, le milizie curdo-arabe sostenute dagli Stati Uniti, valuta che la caduta di Raqqa, la “capitale” del Califfato, potrebbe essere questione di pochi giorni. Alcune centinaia di combattenti dell’Isis combattono con tenacia nel 20% dell’area urbana che ancora controllano e che viene martellata dai jet della Coalizione. Venerdì oltre un centinaio di miliziani si è arreso, segnale che qualcuno interpreta come possibile indizio di un più ampio sintomo di cedimento ma per l’Italia e l’Europa il tracollo militare dello Stato Islamico non costituisce necessariamente una bella notizia. L’Isis tende infatti a sottrarre alle battaglie in cui la sconfitta è certa buona parte dei suoi combattenti stranieri, “foreign fighters” definiti semplicemente “mercenari” dalle truppe irachene, siriane e curde che li combattono. Diversi servizi di sicurezza hanno rivelato che in molti casi l’Isis cerca di sottrarre i suoi combattenti stranieri alla cattura lasciando a difesa dei centri urbani come Mosul, Hawjia e Raqqa i miliziani autoctoni, siriani e iracheni che hanno aderito al Califfato. I “mercenari” jihadisti raramente vengono fatti prigionieri e dopo interrogatori non certo morbidi hanno subito in molti casi esecuzioni sommarie, inoltre i combattenti stranieri possono rientrare nei Paesi d’origine e dare vita a nuove jihad o effettuare azioni terroristiche. Un rientro facilitato nel caso dell’Europa (da dove sono partiti in oltre 5mila per aderire al jihad di Abu Bakr al-Baghdadi) dalla scarsa repressone del fenomeno. Si stima che oltre 1.500 foreign fighters siano già rientrati ma quelli incarcerati sono pochissimi e la stessa Ue, come ha dichiarato il coordinatore antiterrorismo Gilles de Kerchoeve, prevede di reintegrarli nella società. Un approccio morbido che potrebbe attirare in Europa anche foreign fighters extracomunitari, provenienti soprattutto dai paesi del Maghreb che hanno offerto circa 10 mila combattenti all’Isis (dei quali ben 6mila tunisini) e che rappresentano l’area in cui il Califfato sconfitto in Medio Oriente cerca di riorganizzarsi. Specie in Libia dove il capo dello Stato Islamico già designato come erede di al-Baghdadi (che non è certo sia sopravvissuto ai raid russi su Raqqa di fine maggio) è proprio un foreign fighter tunisino con passaporto francese, Mohamed Ben Salem Al-Ayouni, nome di battaglia Jalaluddin al-Tunisi. Per questo desta preoccupazioni in Italia il fenomeno degli “sbarchi fantasma” con piccole barche da pesca che sfuggono ai controlli e sbarcano sulle coste siciliane tunisini determinati a far perdere le proprie tracce. La rotta tunisina e quella parallela che dall’Algeria conduce direttamente in Sardegna sono perfettamente idonee a trasportare in sicurezza criminali e terroristi. Un binomio che non dovrebbe sorprendere dopo i tanti casi di terroristi divenuti tali dopo trascorsi nella criminalità comune e perché i servizi di sicurezza europei attivi nel Sahel hanno sempre evidenziato come i traffici illeciti siano gestiti dalle stesse organizzazioni criminali e al tempo stesso jihadiste: sigle legate ad al-Qaeda nel Maghreb islamico e più recentemente allo Stato Islamico. Da più parti si evidenzia il rischio che tra i 1400 tunisini sbarcati in Italia solo in settembre vi siano molti dei criminali liberati dai recenti indulti e del resto Tunisi ha sempre affrontato il sovraffollamento delle carceri con provvedimenti simili cui hanno fatto seguito esodi versi l’Italia, dove “ospitiamo” in galera oltre il 67% dei criminali tunisini incarcerati in patria e all’estero. Tra i 24 mila tunisini sbarcati in Italia nel 2011 quasi la metà erano galeotti fuggiti di prigione in seguito alla “rivolta dei gelsomini” ma anche sul fronte della lotta al terrorismo Tunisi appare reticente e poco disposta a controllare i suoi foreign fighters. Un anno or sono il governo nordafricano stimava ne fossero rientrati 800 valutando impossibile incarcerarli tutti. Turchia. Kadri Gürsel, editorialista di “Cumhuriyet”, ha trascorso 330 giorni in carcere di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 16 ottobre 2017 Ora la sua foto diventa simbolo di libertà. Un bacio appassionato alla moglie dopo 330 giorni passati nella prigione di Silivri a Istanbul. La guardia che distoglie lo sguardo divertita. La foto, scattata dal fotoreporter Yasin Akgul per l’Afp, è diventata in un attimo il simbolo della Turchia di oggi. L’ex detenuto è Kadri Gürsel, 56 anni, editorialista di spicco del quotidiano di opposizione Cumhuriyet e membro dell’Istituto Internazionale della stampa, finito in prigione, insieme ad altri 17 dipendenti del giornale, con l’accusa di sostenere senza esserne membro il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk), il Partito di Liberazione Popolare Rivoluzionario (Dhkp-c) e la presunta rete terroristica Feto, guidata dall’imam in esilio negli Stati Uniti Fethullah Gülen e considerata responsabile del golpe fallito del 15 luglio 2016. Il giornalista, che in passato ha lavorato per l’Afp e per il quotidiano Milliyet, respinge con sdegno ogni addebito ma rischia fino a 15 anni di carcere. Quel bacio diventa così una dimostrazione non voluta di libertà: “Non era un gesto politico - ha spiegato Gürsel - ma è stato interpretato come un atto di disobbedienza alla cultura politica, all’invasione della sfera pubblica nel privato e all’avanzare del conservatorismo religioso”. La moglie Nazire ha battezzato la foto: “Un bacio alla vita”. Quando l’editorialista è stato scarcerato, il 26 settembre, una piccola folla lo aspettava fuori dal tribunale mostrando cartelli a favore della libertà di stampa. Lui ora è libero ma altri sono ancora in prigione. Tra questi l’amministratore delegato di Cumhuriyet Akin Atalay, il direttore Murat Sabuncu e il giornalista Kemal Aydogdu oltre ai reporter investigativi Emre Iper e Ahmet Sik, quest’ultimo paradossalmente nel 2011 aveva scritto un libro critico su Gülen dal titolo “L’esercito dell’Imam” e per questo aveva anche subito un processo. “Le accuse contro di noi non hanno alcun fondamento - ha detto Gürsel - io tengo la mia rabbia sotto controllo perché non voglio diventarne prigioniero. Ma una persona che è stata 11 mesi in prigione dovrebbe essere arrabbiata. E io sono molto arrabbiato”. In prigione c’è anche lo scrittore e giornalista Ahmet siano state sottoposte le persone imprigionate a partire dal 15 luglio”. E ancora: “L’imputazione di golpismo nei nostri riguardi si basa sulla seguente asserzione: si ritiene che noi conoscessimo gli uomini accusati di conoscere gli uomini accusati di essere a capo del colpo di Stato. Come può il fatto di “conoscere” qualcuno essere accettato come prova di un crimine?”, è una delle domande che pone Ahmet. Secondo il sito per il giornalismo indipendente P24 ci sono 171 giornalisti nelle carceri turche, più che in qualsiasi altro Paese al mondo. Dal fallito colpo di Stato del 15 luglio 2016 più di 50 mila persone sono state arrestate con l’accusa di far parte di Feto e 150 mila hanno perso il posto di lavoro. Gülen ha sempre negato ogni addebito ma Ankara reclama a gran voce la sua estradizione. Burkina Faso. 30 anni fa moriva Sankara “il Che africano” di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 16 ottobre 2017 A 30 anni dalla sua morte il nome di Thomas Sankara è più vivo che mai in Africa e nella diaspora. È diventato un simbolo di rivoluzione e di impegno panafricanista. Il “Che Guevara africano” che guidò e ribattezzò il Paese (“la terra degli uomini integri”) dall’83 all’87. Il carismatico, controverso Sankara, l’anti-imperialista autoritario che andava in giro in bici e organizzava giornate di pulizia collettiva (da qui la scopa come simbolo) fu ucciso il 15 ottobre 1987 in un golpe organizzato dal suo vice Blaise Compaoré, quel “Biagio il bello” che poi ha governato il Paese fino al 2014 vincendo (e truccando) elezioni dopo elezioni. Per milioni di giovani del suo Paese e dell’Africa intera e per tutti quelli immigrati ai quattro angoli del pianeta che erano ragazzi in quei anni o non erano nemmeno nati, la figura di Sankara è considerata un modello assoluto di leader rivoluzionario, vicino al suo popolo, difensore dei diritti del “Terzo mondo” e femminista. Personaggio iconico, Thomas Noel Isidore Sankara nasce il 21 dicembre 1949 nell’allora Alto Volta, colonia francese dell’Africa occidentale, in una famiglia numerosa. In soli quattro anni di presidenza è riuscito a lasciare il segno. Più che un militare, alla guida del paese ha dimostrato di essere un ideologo politico preparato, convincente, integro e fiero. Anti-imperialista e non allineato, Sankara è stato molto vicino a tutti quei leader in rotta con l’Occidente e tendenzialmente legati al blocco sovietico in un contesto di Guerra fredda. Passati alla storia i suoi discorsi all’Organizzazione dell’Unione africana (Oua, oggi Unione Africana), all’Onu e il suo braccio di ferro politico con la potenza coloniale francese, in particolare con l’allora presidente François Mitterrand. Tra le sue azioni più forti la lotta ai “funzionari marci e corrotti”, il rifiuto di rimborsare i debiti del Burkina Faso ai Paesi occidentali e il tentativo di rinegoziare accordi di cooperazione con Parigi, considerati iniqui, per ottenere maggiore autonomia diplomatica e commerciale. Nella lotta di Sankara alle ingiustizie sociali, il giovane presidente aveva particolarmente a cuore la promozione e l’emancipazione delle donne, in una società africana tradizionale retta da un sistema patriarcale. Sud Sudan. Il lungo e sofferto cammino verso pace, giustizia e dignità di David Lifodi peacelink.it, 16 ottobre 2017 Sette anni di permanenza in Sud Sudan per aiutare il popolo di questo paese, così giovane, ma martoriato, ad intraprendere il cammino verso la pace, la dignità e la giustizia. Padre Daniele Moschetti, missionario comboniano, già successore di Alex Zanotelli nella baraccopoli kenyota di Korogocho, è stato in Sud Sudan dal 2009 al 2016, vivendo e condividendo le sofferenze dei suoi abitanti e ricavandone un libro che alterna racconti sulla vita sociale e politica a profonde riflessioni su cosa significa essere portatori di fede e speranza in un paese dove imperversa la guerra civile. Il futuro del Sud Sudan, per il momento, non ha preso la direzione auspicata da Padre Daniele e da tutti coloro che intravedevano un’occasione di rilancio nel referendum del 2011, che sancirà la separazione dal nord del paese, né la riconciliazione per la quale tanto si è speso lo stesso missionario sembra essere vicina, eppure il comboniano, vivendo a fianco di emarginati ed oppressi, ha la forza di scrivere con rinnovato ottimismo le sue lettere pastorali, trovando sempre dei lati positivi. In una delle sue prime missive da Mapuordit, la località dove Padre Daniele trascorrerà sette anni, confida al lettore: “Cercherò di farti entrare in punta di piedi dentro la realtà in cui vivo e cercherò di condividere la mia con il dovuto rispetto per una cultura e un popolo che comincio a conoscere passo dopo passo, così che ti possa sentire coinvolto in questa missione”. In effetti, scorrendo le pagine del libro, la capacità di coinvolgimento di padre Daniele è fortissima, forse perché, come ha scritto Papa Francesco nella prefazione, Moschetti “offre un ampio resoconto del generoso e appassionato impegno di tanti missionari e missionarie al fianco dei bisognosi e, soprattutto, di chi soffre a causa di perduranti conflitti, che causano morte e distruzione”. La capacità di Padre Daniele è quella di farci calare nel cuore della missione: in poco tempo capisce, e fa capre al lettore, quali sono le necessità, le difficoltà, ma anche le aspirazioni e gli aspetti culturali che caratterizzano il popolo sud sudanese. Del resto, i comboniani sono dei missionari assai “movimentisti”, legati ad una realtà non solo internazionale, ma, sotto molteplici aspetti, internazionalista. È così, ad esempio, che Padre Daniele parla con entusiasmo della comunità comboniana che lo accompagnerà durante la sua esperienza in Sud Sudan: ci sono un togolese, un sudanese, un messicano e due italiani. Il loro impegno non è soltanto quello di fare apostolato missionario, ma di condividere la loro vita con tutto il popolo del Sud Sudan, con i ciechi, con i lebbrosi che vivono ai margini del villaggio di Mapuordit e con tutti coloro che affrontano con difficoltà la vita di ogni giorni indipendentemente dal credo religioso. La volontà di Padre Daniele di operare nella missione è tale che, sorretto certamente dalla fede religiosa, accetta di vivere in un paese le cui fondamenta sono tutte da costruire, non a caso è lui stesso ad evidenziare che in Sud Sudan “il popolo è stato espropriato di tutto: dalle risorse petrolifere e minerarie a quelle umane, religiose e di dignità”. Monsignor Giorgio Biguzzi, vescovo emerito della diocesi di Makeni, in Sierra Leone, nota: “Padre Daniele ha vissuto il passaggio dall’euforia originale al martirio di questo popolo sofferente. Descrive questo esodo con stile diretto, incarnato nei volti della gente, intriso di forte realismo e di profonda spiritualità”. È proprio questa sua spiritualità così forte che gli permette di identificarsi nella frase che dice il Signore: “Non temere”! Per metterla in pratica, in un paese come il Sud Sudan, occorre avere una buona dose di speranza e fiducia, quella che Padre Daniele riesce a non perdere mai di vista in uno scenario caratterizzato da un conflitto civile interminabile, dove la questione umanitaria, i milioni di rifugiati, la costante penuria di prodotti alimentari ed un senso di insicurezza diffusa potrebbero mettere in discussione la fede e l’anelito verso un cammino comune di pace, giustizia e dignità. Dallo scorso mese di luglio Padre Daniele non si trova più in Sud Sudan, ma, come dice Alex Zanotelli, “nel cuore della Bestia”, negli Stati uniti, dove insieme ad altri missionari di altre congregazioni religiose porterà avanti un ministero di giustizia e riconciliazione presso le Nazioni unite e il Parlamento americano. Tuttavia, Padre Daniele non si è dimenticato del popolo del Sud Sudan e del cammino che ha percorso per sette anni a fianco di questo popolo. Per questo motivo Moschetti ha scelto di scrivere Sud Sudan. Il lungo e sofferto cammino verso pace, giustizia e dignità: le offerte provenienti dalla vendita del libro saranno devolute a progetti sostenuti dai comboniani o da altri organismi presenti in Sud Sudan come “segno di solidarietà vera e fraterna alla gente di questo popolo crocifisso, uno dei tanti nella storia di questa umanità”.