Sei anni per scrivere la sentenza. Il Csm: “Niente di male” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 15 ottobre 2017 Un magistrato (si chiama Giuseppe Neri) impiega oltre 2mila giorni per scrivere una sentenza. Si apre un’inchiesta interna che termina nel nulla. Lo sdegno del presidente della Cassazione Giovanni Canzio: “Non merita la toga”. “Ma di cosa stiamo parlando? Il giudice Neri fa il presidente di sezione? Ma se non ha neppure le qualità per fare il magistrato. Questo è un caso clamoroso!”. Non ha usato mezzi termini il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio per stigmatizzare la decisione di questa settimana del Consiglio superiore della magistratura di riesaminare la valutazione di professionalità del dott. Giuseppe Neri. Il magistrato, giunto all’apice della sua carriera, doveva essere valutato per conseguire la settima ed ultima valutazione di professionalità. A causa dei suoi clamorosi ritardi nel deposito delle sentenze, con punte di oltre cinque anni, la sezione disciplinare del Csm lo aveva sanzionato con la censura. Sanzione che se da un lato gli aveva impedito il raggiungimento dell’agognata settima valutazione di professionalità, non gli aveva però precluso la prestigiosa nomina di presidente di sezione penale del Tribunale di Catanzaro. Nominato nel 2007, Neri era stato poi confermato nell’incarico semi-direttivo anche per il quadriennio successivo. Dal 2015 è diventato magistrato di sorveglianza, sempre al Tribunale di Catanzaro. “Siamo di fronte a un deficit di diligenza così clamoroso da rasentare il dubbio che non vi sia anche il deficit di altri elementi presupposti per rivestire la qualità di magistrato!”, ha dichiarato Canzio, sorpreso dalla volontà del Csm di rivalutare Neri nonostante avesse collezionato ritardi a quattro cifre. “Si sta discutendo - ha proseguito Canzio - di un magistrato che si presenta con oltre cinque o sei anni di ritardo in decine e decine di sentenze, con picchi di ritardo che rasentano i duemila quattrocento giorni per numerose sentenze: la media dei tempi con cui deposita è di milletrecento giorni!”. Il presidente della Corte di Cassazione ha anche invitato tutto il Plenum ad una riflessione: “Proviamo ad uscire da questa sala e mettiamoci nei panni della comunità, delle parti, dei difensori, di coloro che attendono la sentenza. Mi ha colpito il fatto che una di queste sentenze riguardava un’opposizione all’esecuzione che durava da cinquantuno anni e Neri è stato capace di depositarla dopo 2435 giorni!” “Di fronte a questo quadro, è uno scandalo che sia diventato presidente di sezione!”, ha aggiunto Canzio secondo cui non è chiaro cosa debba accertare ancora il Csm. “È inutile un ritorno in Commissione - ha poi concluso il suo accorato intervento - che servirebbe solo per evidenziare che questi ritardi sono scandalosi”. Nonostante le dure parole del primo presidente della Corte di Cassazione, da sempre molto critico nei confronti dei magistrati che depositano le sentenze con ritardi da record, e nonostante il comportamento di Neri “abbia esposto lo Stato italiano alla possibilità di essere censurato dalla Corte dei diritti dell’uomo per la violazione della ragionevole durata del processo”, come evidenziato nella motivazione della sanzione disciplinare della censura a suo carico, il Plenum del Csm ha deciso diversamente. Neri avrà la possibilità di essere nuovamente valutato con buone possibilità, quindi, di conseguire la settima ed ultima valutazione di professionalità. A favore di Neri, tredici voti: un asse trasversale fra le correnti della magistratura che parte dal consigliere Massimo Forciniti di Unicost a Lucio Aschettino di Magistratura democratica. Contro la possibilità di una seconda chance a Neri, 11 voti. Compreso anche quello del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini. A parte i ritardi “scandalosi” di Neri, alcuni consiglieri contrari alla seconda chance riflettevano - a microfoni spenti - su un aspetto rimasto nell’ombra: ma dove erano in questi anni i vertici degli uffici calabresi quando Neri inanellava ritardi da brivido? Cinque anni di galera con l’accusa di essere mafiosi, ora li hanno assolti di Simona Musco Il Dubbio, 15 ottobre 2017 L’odissea di sindaco e assessori di un paese calabrese. L’indagine di Gratteri è naufragata ma gli anni in cella rimangono. Per la gran parte dei giornali d’Italia erano “uomini della ‘ndrangheta di Marina di Gioiosa e malacarne” che avevano infettato l’amministrazione comunale del paesino calabrese lasciando una porta aperta a boss e gregari del clan locale dei Mazzaferro. Ma sei anni dopo, gran parte dei quali passati in carcere, il blitz “Circolo Formato”, che ha spazzato via la giunta della “città del sorriso”, il teorema della Dda è crollato in Cassazione. È una bocciatura la sentenza pronunciata ieri notte, dopo 10 ore di camera di consiglio, dai giudici della Suprema Corte, che hanno annullato con rinvio la condanna a 10 anni dell’ex sindaco Rocco Femia, rimasto in carcere per cinque anni con l’accusa di essere uomo del clan, e assolto per non aver commesso il fatto, gli ex assessori Rocco Agostino e Vincenzo Ieraci, anche loro ritenuti dall’accusa parte dell’organico della cosca del piccolo comune calabrese. Per tutti i giornali d’Italia erano “uomini della ‘ndrangheta di Marina di Gioiosa, malacarne” che avevano infettato l’amministrazione comunale del paesino calabrese lasciando una porta aperta a boss e gregari del clan Mazzaferro. Ma sei anni dopo, gran parte dei quali passati in carcere, il blitz “Circolo Formato”, che ha spazzato via la giunta della “città del sorriso”, il teorema della Dda è crollato in Cassazione. È una bocciatura la sentenza pronunciata ieri notte, dopo 10 ore di camera di consiglio, dai giudici della Suprema Corte, che hanno annullato con rinvio la condanna a 10 anni dell’ex sindaco Rocco Femia, rimasto in carcere per cinque anni con l’accusa di essere uomo del clan, e assolto per non aver commesso il fatto gli ex assessori Rocco Agostino ( che era stato condannato a 7 anni) e Vincenzo Ieraci ( 9 anni e 4 mesi), anche loro ritenuti dall’accusa parte dell’organico della cosca. Prima di loro, in abbreviato, la Cassazione aveva assolto l’altro ex assessore coinvolto, Francesco Mazzaferro. Toccherà ora ad una nuova sezione della Corte d’appello di Reggio Calabria valutare le condotte dell’ex sindaco e stabilire se avesse o meno fatto patti con la ‘ ndrangheta. “Una battaglia legale certamente non ancora terminata per lui - ha commentato Marco Tullio Martino, legale, assieme ai colleghi Eugenio Minniti e Franco Coppi, di Femia - ma che sta, con questo annullamento, rendendo giustizia ad un sindaco ingiustamente travolto da accuse che non gli appartenevano”. I legali hanno evidenziato che era l’intera comunità ad essere interessata alle elezioni del 2008, “con contatti ed intercettazioni dunque anche con soggetti eventualmente facenti parte di contesti malavitosi”, ma che nonostante questo l’accusa “non aveva mai saputo dimostrare l’elargizione di un solo appalto, di una concessione o di un solo finanziamento, diretto o anche solo indiretto, a qualsivoglia consorteria di riferimento”. Gli avvocati hanno spulciato tutti gli atti di tre anni di amministrazione, le singole assegnazioni, dirette solo nei casi di lavori da pochi centinaia di euro, e sempre affidati alla stazione unica appaltante provinciale anche quando sotto soglia, “proprio per fugare ogni dubbio di interferenze”. Un imponente accesso agli atti teso a dimostrare che la giunta non aveva mai aiutato il clan a recuperare terreno sul clan rivale, economicamente e militarmente più forte dei Mazzaferro. Anzi, sostiene Martino, l’amministrazione aveva contrastato la cosca a suon di atti. “Dalla documentazione prodotta erano emerse demolizioni, sequestri e provvedimenti mirati, che avevano colpito proprio i beni immobili del sodalizio mafioso che si voleva considerare in realtà vicino alla giunta”, ha evidenziato. Le sentenze di primo grado e d’appello avevano definito le elezioni del 2008 “una competizione elettorale tra ‘ndrine”, un conflitto silente, “camuffato da una competizione elettorale, di contrapposizione mafiosa tra i Mazzaferro e gli Aquino, che misurano così la loro forza su quel territorio”. La vittoria finale, secondo le accuse della Dda di Reggio Calabria, avrebbe comportato il governo del paese ed il conseguente arricchimento di una ‘ ndrina a scapito dell’altra, grazie al controllo degli appalti, dell’economia, insomma: del denaro pubblico. Secondo la Dda, Femia era uno dei politici in grado di inserire il clan nei gangli dell’economia di Marina di Gioiosa. Anzi, il numero uno tra i soggetti prescelti. “Il mondo mi è crollato addosso. Non mi sarei mai aspettato di finire in carcere con questa pesante accusa”, aveva raccontato al Dubbio, poco dopo la scarcerazione, Femia. “Ho sofferto tantissimo. Insegno educazione fisica da 30 anni, ai miei ragazzi ho sempre parlato del rispetto delle regole - ha spiegato -. Vedere che tutto questo sarebbe andato perduto mi ha distrutto”. Da quel giorno sono passati cinque anni prima di poter passare un’altra notte a casa con la propria famiglia. Cinque anni durante i quali non ha fatto altro che ripetere la sua versione dei fatti. “Ribadisco quello che ho sempre detto sin dal mio primo giorno: non ho niente a che fare con la ‘ndrangheta, non ne ho adesso e non ne avrò nel futuro. Questa parola non è mai entrata in casa mia”, sottolineava, difendendo a spada tratta anche la sua amministrazione, fatta “di uomini liberi”, di gente che “ha sempre agito nella massima legalità, trasparenza e democrazia. Tutto questo lo affermano i fatti, le prove, ma purtroppo, non so perché, c’è stato un accanimento violento nei nostri confronti. Su di noi non c’è niente”. La sentenza d’appello, depositata qualche giorno dopo la scarcerazione, aveva però abbracciato la tesi della Dda, con un pesante giudizio sull’ex sindaco. Per i giudici che aveva confermato i 10 anni di carcere, il politico era al soldo della cosca Mazzaferro. Di più: di quella cosca lui avrebbe fatto parte, rendendosi strumento del tentativo del clan di risalire la china. Un teorema che ora andrà dimostrato nuovamente in appello, mentre la città, lentamente, si risveglia da un torpore durato 6 anni. “Dove sono le telecamere adesso?”, si chiedono i parenti degli ex amministratori ora scagionati. Che ringraziano: “è la fine di un incubo che mai avrei pensato di vivere - ha commentato Rocco Agostino. Credo comunque nella giustizia e nell’operato della magistratura e delle forze dell’ordine. Ora mi godo la mia famiglia, poi in futuro chissà”. Ne bis in idem con il nodo della connessione di Giuseppe Melis Il Sole 24 Ore, 15 ottobre 2017 La pronunzia della Grande chambre della Corte Edu nel caso “A e B c. Norvegia” (15 novembre 2016, ric. 24130/2011) è stata bersaglio di ripetute critiche, che hanno rilevato l’arretramento di tutela dinanzi alla violazione del ne bis in idem di cui all’articolo 4, del Protocollo 7 alla Cedu. I giudici di Strasburgo hanno infatti ritenuto che nulla vieti, in linea di principio, la previsione di un sistema sanzionatorio articolato in diverse fasi o procedure, anche dinanzi ad autorità diverse, che prevedano la punibilità con differenti misure afflittive di un unico illecito, purché sussista tra i diversi procedimenti una “connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta”, da verificare sulla base dei seguenti “fattori materiali”: la diversa finalità perseguita dalla sanzione amministrativa e penale; la prevedibilità di un procedimento cumulativo a fronte della medesima condotta; lo svolgimento coordinato dei procedimenti, tale da evitare quanto più possibile la duplicazione dell’attività istruttoria di raccolta e valutazione delle prove; l’applicazione delle sanzioni in modo che, nella determinazione di quella successiva, si tenga conto dell’entità di quella irrogata per prima, sì da garantire una proporzionalità complessiva della pena. Questi fattori non sembrano trovare piena corrispondenza nell’ordinamento sanzionatorio tributario italiano. Per quanto riguarda le finalità perseguite dalle sanzioni, da un lato quelle amministrative hanno chiara funzione punitiva e non già, come nel caso norvegese, funzione compensativa dei costi dell’attività di accertamento, che, diversamente dall’attività di riscossione, finanziata con l’aggio, è pacificamente a carico della fiscalità generale; dall’altro, sussiste ormai una sostanziale identità tra i beni giuridici tutelati dalle sanzioni tributarie amministrative e penali, entrambe sono ispirate al principio di offensività e le sanzioni penali non necessariamente sono riservate a comportamenti caratterizzati da condotte fraudolente. Quanto al rapporto tra rispettivi procedimenti e processi, emergono invece indicazioni contrastanti. In una direzione vanno i reciproci condizionamenti nella fase di raccolta e circolazione del materiale probatorio, nonché quelle elaborazioni giurisprudenziali che mitigano il cosiddetto “doppio binario” valorizzando gli esiti del procedimento amministrativo; nella direzione opposta, vanno il principio secondo cui la prova penale deve pur sempre formarsi in sede dibattimentale e la reciproca autonomia tra i rispettivi procedimenti e processi. Poiché la valutazione della Corte Edu avviene in concreto, la possibilità che un coordinamento dei processi venga esclusa appare pertanto tutt’altro che implausibile. Infine, quanto al coordinamento nell’applicazione delle sanzioni, va preso atto come esso sia ampiamente considerato nel nostro ordinamento, vuoi mediante la previsione del cosiddetto doppio binario alternativo (articolo 19, Dlgs 74/2000), che si traduce nell’esecuzione della sanzione amministrativa all’esito negativo del procedimento penale (articolo 21, Dlgs 74/2000), vuoi prevedendo la non punibilità o una circostanza attenuante ad effetto speciale nel caso di estinzione del debito tributario e delle relative sanzioni. In questo contesto - che rende paradossalmente imprevedibile la stessa applicazione del divieto di ne bis in idem nonostante la Corte valorizzi la prevedibilità in sede di valutazione della connessione - un’importante chiave di lettura proviene dalla successiva sentenza Johannesson (18 maggio 2017, ric. 22007/11), in cui la Corte sottolinea, in senso ostativo all’eccezione della connessione, la tendenziale indipendenza nella raccolta e valutazione delle prove nei due procedimenti e la circostanza che la condanna penale fosse intervenuta ben cinque anni dopo la conclusione del processo amministrativo, e ciononostante la rinvenuta sussistenza degli elementi materiali delle finalità complementari delle sanzioni applicate e della prevedibilità del doppio procedimento. Così stando le cose, sembra che l’applicazione del criterio temporale alla concreta realtà dei processi penali italiani - in uno con l’implicito riconoscimento che la Corte fa in ordine alla necessaria compresenza di tutti i fattori materiali da essa individuati - confermi la difficile applicabilità dell’eccezione della stretta connessione nell’ordinamento sanzionatorio tributario italiano. Passò col rosso a un incrocio e uccise un automobilista: il pm chiede 10 anni di prigione di Emanuela Messina La Stampa, 15 ottobre 2017 Si è schiantato contro l’auto di un 57enne dopo essere passato con il rosso - scattato da nove secondi - a una velocità superiore ai 115 chilometri orari. E dopo l’incidente ha lasciato l’uomo agonizzante, senza chiamare i soccorsi, che non sono riusciti a salvarlo. Ha chiesto dieci anni di carcere il pm Francesco Cajani per Franko Della Torre, che lo scorso 30 aprile ha travolto e ucciso con il suo suv l’auto di Livio Chiericati, che stava andando a lavoro. Una pena adeguata, secondo il pm, “alla violenza omicida che deve essere fermata, all’egoismo che scappa e condanna a morte certa chiunque di noi, a caso”. Il 33enne, che ha precedenti penali per reati contro il patrimonio, dopo l’incidente è tornato in macchina per prendere il cellulare e poi è scappato. Una volta arrivato in ospedale per farsi curare le lievi ferite, è stato arrestato dalla polizia locale. A incastrarlo le scioccanti immagini riprese delle telecamere dell’incrocio, che hanno mostrato la sua folle corsa di domenica mattina in pieno centro cittadino. Una perizia cinematica ha accertato che la macchina di Della Torre (che ha frenato vedendo l’auto di Chiericati) poco prima viaggiava a una velocità di 130-150 km/h. “Questo episodio - ha scritto Cajani in una memoria - sembra dire che non possiamo confidare nella coscienza di un omicida, che aggredisce i nostri luoghi di vita abituale e poi fugge via”. Nella memoria il pm ha anche voluto sottolineare che “i cittadini sono intervenuti subito ad aiutare”, così come i medici, la Polizia locale, i volontari delle ambulanze e i vigili del fuoco. Ossia tutta quella società che “si indigna” per la “prepotenza dei violenti e non trascende: esprime il bisogno di giustizia rivolgendosi al Tribunale”. Assolto cieco che guidava motocicletta: “non è un falso invalido, ma un incosciente” La Stampa, 15 ottobre 2017 Lo avevano preso per un truffatore perché dichiarava di essere cieco ma era stato sorpreso più volte in sella ad una moto e intento a fare volantinaggio nelle strade di Bari vecchia. Per questo la Guardia di finanza gli aveva anche sequestrato i 225mila euro corrispondenti a 23 anni (dal 1990 al 2013) di pensione di invalidità civile e indennità di accompagnamento. Lui, in realtà, è davvero un “cieco assoluto” seppure un incosciente, un “irresponsabile”, come lo ha definito il suo difensore, l’avvocato Antonio Falagario. Dopo quattro anni di processo, il Tribunale di Bari ha quindi assolto il 59enne barese Francesco Caringella “perché il fatto non sussiste”. Nelle motivazioni della sentenza di assoluzione, con la quale è stata disposta anche la revoca del sequestro, il giudice monocratico Marco Guida ha rilevato che l’uomo “compie in autonomia azioni di vita quotidiana a suo rischio e pericolo ma, soprattutto, ponendo a rischio l’incolumità degli altri”, ma non per questo ha commesso una truffa perché è stata “confermata la sussistenza della patologia” e quindi quelle indennità gli erano dovute. Le indagini della Guardia di Finanza di Bari, avviate nel 2012 dopo una segnalazione dell’Inps e coordinate dal pm Federico Perrone Capano, avevano accertato - tramite appostamenti e pedinamenti - che Caringella usciva da solo, distribuiva volantini per viaggi a Lourdes, ma soprattutto andava in moto. Nel corso del processo, anche sulla base di consulenze mediche, la difesa dell’imputato ha poi dimostrato che il 59enne è davvero un “cieco assoluto”, affetto da retinite pigmentosa degenerativa, che gli consente di percepire soltanto luci e ombre, e ha rilevato che l’aver svolto da solo attività quotidiane come guidare una moto, è sicuramente da “irresponsabile, ma niente di più”. Gli stessi medici chiamati a testimoniare hanno spiegato che “i poteri di adattamento delle persone invalide sono eccezionali”. Guidare una moto per Caringella, che ha un residuo visivo accertato inferiore al 3 per cento, era quindi “possibile - hanno fatto mettere a verbale i medici - però è un rischio sia per se stesso che per le altre persone, “elevato, molto elevato”. “È vero che vede le luci e le ombre, quindi sa riconoscere se sta passando una macchina o sta passando un qualcosa, però non sa riconoscere chi è. Andare sul motore - concludevano i medici - è molto pericoloso”. Questo fa di Francesco Caringella un irresponsabile, ma non un truffatore. Napoli: ispezione dei Radicali a Poggioreale, i numeri e il racconto di un’emergenza di Fabrizio Ferrante internapoli.it, 15 ottobre 2017 Si è svolta ieri mattina la seconda delle tre visite che Radicali Italiani ha organizzato nelle carceri campane. Dopo la tappa di ieri a Secondigliano oggi, 14 ottobre, l’ispezione ha avuto luogo a Poggioreale. Domani riflettori accesi su Santa Maria Capua Vetere. Presenti una delegazione radicale con in testa il membro di direzione nazionale di Radicali Italiani, Raffaele Minieri, con in più Pietro Ioia per gli ex detenuti, Antonello Sannino di Arcigay Napoli e la scrittrice “pastafariana” Emanuela Marmo. La visita si è aperta con la notizia della nomina in pectore - avvenuta ieri - dei nuovi direttori di Poggioreale e Secondigliano. Maria Luisa Palma - già direttrice a Benevento - per Poggioreale e Giulia Rossi nominata a Secondigliano. In entrambi i casi si tratta di nomine ufficiose che attendono ratifica prima e insediamento poi, per tempi al momento impronosticabili. Intanto anche grazie alla collaborazione del facente funzioni di direttore, dottor Ciro Proto, ecco i principali numeri emersi dall’ispezione: a Poggioreale sono presenti 2210 detenuti, con un aumento rispetto all’ultima visita effettuata dai Radicali il 21 agosto scorso, quando i ristretti erano 2123. La capienza regolamentare è di 1637 persone. Questo incremento è stato giustificato con la ripresa delle udienze e il trasferimento a Poggioreale di chi deve sostenerle. Gli stranieri sono circa 200, il 10% della popolazione detenuta in questo carcere. Anche a Poggioreale, come a Secondigliano, sono in arrivo posti in più con l’apertura di 70 posti nel padiglione Genova, terminato ma che attende l’ultimo collaudo previsto per domani. La pianta organica degli agenti vede un gap: a fronte di 860 richiesti, ne sono operativi circa 750 con i disagi conseguenti su vita e turni della Polizia Penitenziaria. Per quanto concerne i colloqui, i detenuti si avvalgono di quattro ore mensili (un’ora a settimana) più due ore extra di quelli che un tempo si definivano “premiali”, per un totale di sei incontri al mese da un’ora ciascuno. Allestita un’area verde e presto sarà approntata una ludoteca per i bimbi in visita ai padri detenuti. In carcere lavorano al momento 346 detenuti per le mansioni quotidiane ma sono attive alcune attività sia formative che educative: quasi tutti i padiglioni consentono la frequenza e il conseguimento della scuola dell’obbligo ma sono in programma 825 ore equivalenti ai primi due anni di scuola superiore e una classe di terza e quarta in sinergia con l’istituto tecnico Enrico Fermi. Sono inoltre organizzati corsi di italiano per i detenuti stranieri. Con riferimento alla formazione lavorativa, grazie al progetto Garanzia Giovani (18-29 anni) stanno per partire corsi regionali (validi dunque all’esterno) di massaggiatore estetico e acconciatore ma per ora potranno accedervi solo 30 detenuti, 15 a corso. Previsti, per il prossimo anno, anche corsi di inglese e di informatica. Sono inoltre presenti nella struttura 16 educatori, ovvero uno ogni 150 detenuti, un dato migliorabile. Poggioreale dispone inoltre di una biblioteca centrale e di altre nei vari padiglioni, con tantissimi libri frutto di donazioni. I ristretti trascorrono otto ore al giorno all’esterno delle celle, con l’eccezione del Padiglione Napoli dove le ore sono ancora quattro, benché presto anche lì sarà esteso tale beneficio. Don Franco Esposito, Cappellano del carcere, ha spiegato che la stragrande maggioranza dei ristretti è cattolica ma non manca l’apertura verso l’Islam e altre fedi. Il tutto in assenza di luoghi di culto alternativi alla chiesa. Oltre a cattolici e musulmani sono presenti evangelici, buddisti, testimoni di Geova e valdesi. Questi ultimi hanno fornito gli attrezzi per allestire le palestre per i detenuti. Anche a Poggioreale, come a Secondigliano, si verifica il cosiddetto “sopravvitto”, ovvero prezzi più alti per i detenuti quando acquistano in carcere prodotti reperibili anche fuori ma a costi ridotti. Per quanto riguarda i suicidi, sono due i detenuti che si sono tolti la vita quest’anno nel carcere di Poggioreale, l’ultimo poche settimane fa nel padiglione Salerno. Un detenuto, inoltre, è morto la notte scorsa all’ospedale Monaldi, dove era ricoverato da cinque giorni. La visita ha toccato i seguenti padiglioni: Avellino destro, Salerno destro, Salerno sinistro, Milano primo piano, Livorno e Napoli. Senz’altro più confortevole il padiglione Livorno, dove sono emerse poche criticità nonostante questo padiglione ospitasse il detenuto morto stanotte e un altro che si è tolto la vita a gennaio. Situazione tutto sommato accettabile anche nell’Avellino destro dove si trovano in isolamento 20 detenuti, sia per motivi trattamentali che disciplinari. Problema riscontrato in alcuni padiglioni, quello della assenza delle docce in cella: queste sono presenti nel Firenze, nell’Avellino sinistro, nel Napoli, nel Roma e in parte del Milano. Eppure nonostante il disagio di docce in comune, la situazione dei padiglioni Avellino Destro e Livorno è incomparabile con la disperazione che accompagna i detenuti negli altri bracci visitati. Padiglioni come il Milano, il Napoli e il Salerno destro (un po’ meglio a sinistra, dove ci sono gli omosessuali) scontano non solo la fatiscenza di un edificio ottocentesto ma su chi vive al loro interno pesano condizioni igieniche oltre ogni immaginazione: muffe, infiltrazioni, pareti scrostate, servizi igienici con scarichi malfunzionanti, acqua calda solo per fare la doccia e stoviglie poste a pochi centimetri dalla zona bagno. Detenuti fino a sei o talvolta a nove in una piccola cella con letti a castello anche a tre piani, con fortissimi dubbi circa il rispetto della sentenza Torregiani. Problemi anche nelle sale doccia dove ci si imbatte in mancanza d’acqua calda e solo due docce funzionanti per un braccio intero, come nel padiglione Milano. O come nel Salerno dove i ristretti lamentano mancanza di carta igienica da tre mesi. Non mancano detenuti ammalati che aspettano chi da tre mesi, chi da più di un anno, un ricovero o un intervento. Tutto invano. Una situazione decisamente diversa rispetto a quella trovata ieri a Secondigliano, una visita ispettiva in cui si è palesata agli occhi della delegazione tutta la inadeguatezza della struttura, vecchia e cadente, di Poggioreale. Eppure, secondo quanto osservato da un agente, ci sono 15 milioni di euro già stanziati per l’edilizia carceraria e le ristrutturazioni, rimasti fin qui bloccati dal Provveditorato delle opere pubbliche. Se anche solo uno di quei milioni fosse finito a ristrutturare Poggioreale, oggi anche grazie agli sforzi di chi dirige il carcere, ci si troverebbe a descrivere una situazione ben diversa. Bari: l’On. Distaso “il carcere ha 100 anni e presenta grandi criticità” Giornale di Puglia, 15 ottobre 2017 Ieri mattina il deputato di Direzione Italia, Antonio Distaso, ha insieme a una delegazione di Radicali visitato la Casa penitenziaria del capoluogo. Ecco la sua dichiarazione all’uscita: “Questa mattina durante la visita nel carcere di Bari, insieme a una delegazione dei Radicali, un detenuto, padre di un bambino di un anno e mezzo, mi ha chiesto un luogo adatto e consono per incontrare suo figlio in carcere. Ma posti del genere ce ne sono davvero pochi. Anzi per nulla. Perché l’edificio che ospita la struttura è del 1920, all’epoca era in periferia e oggi è nel cuore di uno dei quartieri più popolosi della città”. “Un carcere - ha aggiunto Distaso - che sta per compiere 100 anni ha in sé tutte le carenze urbanistiche che presentano edifici del secolo scorso, figuriamoci di un penitenziario che dovrebbe garantire spazi di socialità e convivenza a favore dei detenuti, ma anche misure di sicurezza per gli addetti ai lavori. Certo la direzione sta facendo sforzi notevoli, anche dal punto di vista dei confort delle celle dotandole di docce in modo che i detenuti non debbano farla in spazi comuni. Grandi sforzi vengono compiuti anche dal personale medico della struttura talmente competente che a Bari arrivano detenuti ammalati da altre strutture”. “Ai problemi logistici si aggiungono quelli sociali, inerenti al reinserimento di una struttura dove nonostante la divisione in settori è poi davvero difficile rieducare a una vita “nuova” senza un’interazione con l’esterno che coinvolga anche altre istituzioni, tenuto conto che molto spesso si parla di detenuti extracomunitari che una volta rilasciati finiscono per strada con il rischio di essere nuovamente inghiottiti dalla malavita”, ha concluso Distaso. Caserta: Santa Maria Capua Vetere e Carinola, cambi al vertice delle carceri di Biagio Salvati Il Mattino, 15 ottobre 2017 Potrebbe essere ancora una donna, la terza in ordine di tempo, a dirigere il carcere di Santa Maria Capua Vetere, il terzo penitenziario in Campania per numero di reclusi guidato attualmente da Carlotta Giaquinto che in questi anni di dirigenza ha dato una svolta sotto il profilo delle tante attività messe in campo, tra cui l’incremento delle relazioni tra carcere e comunità esterna. La nuova direttrice dovrebbe Elisabetta Palmieri, attualmente alla guida della casa di reclusione di Aversa, istituto che è stato sede dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario prima dell’avvento delle Rems. Un avvicendamento che fa parte di una più ampia rotazione degli incarichi superiori a livello nazionale affidati ad una speciale commissione che ha concluso i lavori proprio ieri. In provincia di Caserta, la rotazione riguarderebbe anche il carcere di Carinola, diretto attualmente da Carmen Campi. In arrivo Carlo Brunetti, vice direttive del penitenziario di Secondigliano. Le nomine dovrebbero essere ufficializzate la prossima settimana. Ma i diretti interessati affermano di non saperne ancora nulla. La casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere ospita quasi stabilmente oltre novecento detenuti (417 nel reparto cosiddetto di Alta Sicurezza), tra cui 77 donne e ha un grado di sovraffollamento di un terzo, quasi perenne, che fa il paio con il sottodimensionamento dei 400 agenti penitenziari (potenziati di recente di alcune decine di unità). La struttura ospita anche una sezione riservata ai sex offenders (detenuti resisi autori di violenze sessuali) e anche una riservata a detenuti con problemi psichici. Nel carcere sammaritano, che ha tutti i requisiti per diventare di prima fascia e quindi ottenere più uomini rispetto ai 400 attuali, a fronte di una popolazione carceraria di circa mille unità, vige ancora la regola dei reparti chiusi (quelli aperti consentirebbero un minore impegno del personale) a causa dell’elevato numero di reclusi molti dei quali detenuti in regime di cosiddetta “Alta sicurezza” in quanto ritenuti pericolosi. Numerose iniziative sono state avviate con l’apporto della comunità esterna: dal frutteto didattico in convenzione con il Crea al corso di street art; dal laboratorio di scrittura creativa ai laboratori di cucito e ricamo; dal corso di ballo alla creazione di bigiotteria fino al laboratorio di cucina, orientamento al lavoro e la mediazione culturale con il Cidis Onlus. La casa di reclusione “Novelli” di Carinola, nata il 5 marzo 1982 inizialmente come colonia agricola e diventata verso la fine degli anni 80? carcere di massima sicurezza rimanendo tale fino a giugno 2013 quando è stato riconfigurato come Istituto a custodia attenuata, attualmente è diretta dalla Campi. Anche in questo istituto, la direzione ha profuso particolare impegno per iniziative di valore sociale come l’iniziativa che ha coinvolto una decina di detenuti impegnati in lavori di pubblica utilità nella Reggia di Caserta. Sassari: la morte in carcere di Marco Erittu, per il perito non fu un suicidio di Nadia Cossu La Nuova Sardegna, 15 ottobre 2017 Il medico legale Lafisca (incaricato dalla corte) ha escluso che il detenuto si sia strangolato con la striscia di coperta. Di nuovo c’è che in un punto della striscia di coperta che sarebbe stata utilizzata per simulare il suicidio di Marco Erittu c’era il Dna di quest’ultimo. “Un risultato quasi del tutto ininfluente - scrive il perito - Dimostra infatti esclusivamente che la striscia ha toccato un punto del corpo di Erittu sul quale vi era materiale ematico”. Non dimostrerebbe, in sostanza, che il detenuto si è suicidato strangolandosi con la striscia di coperta perché in quel caso “il materiale ematico sarebbe stato di maggiore quantità”. La perizia. È durata diverse ore la discussione della perizia del medico legale Sergio Lafisca incaricato dalla corte d’assise d’appello di Sassari di accertare le cause della morte di Marco Erittu, il detenuto trovato senza vita nella sua cella di San Sebastiano il 18 novembre del 2008. Una perizia che avrebbe dovuto chiarire se Erittu si sia suicidato o se invece sia stato ucciso. E permettere di conseguenza ai giudici di stabilire se i tre imputati di omicidio, assolti in primo grado per non aver commesso il fatto, siano colpevoli o innocenti. Non fu un suicidio. Lafisca nella sua relazione ha concluso che la causa della morte “è stata inequivocabilmente un’asfissia meccanica violenta avvenuta mediante un’azione costrittiva del collo”. Fa un lungo elenco di ipotesi per arrivare poi a concludere che “sono tutte incompatibili con una meccanica suicidaria con la striscia di coperta o con mezzi diversi dalla coperta stessa che non siano stati, per motivi a me ignoti, rinvenuti nella cella”. Si intuisce quindi che il medico legale opta più per l’omicidio considerato che non sono stati trovati nella cella “strumenti in grado di spiegare il suicidio”. A febbraio il colpo di scena. Lo scorso febbraio la corte d’assise d’appello era uscita dalla camera di consiglio non con una sentenza - come tutti si aspettavano - ma con un’ordinanza che disponeva la rinnovazione parziale dell’istruttoria dibattimentale. L’obiettivo della corte presieduta da Plinia Azzena era quello di chiarire attraverso la perizia come fosse morto Marco Erittu. Un caso che inizialmente era stato archiviato come suicidio, fino alle dichiarazioni del pentito Giuseppe Bigella che, autoaccusandosi del delitto, aveva chiamato in correità tre persone, finite poi a processo con l’accusa di omicidio in concorso. Altre due erano invece imputate di favoreggiamento. In primo grado, il 23 giugno del 2014, erano stati tutti assolti. Gli imputati. Giuseppe Vandi, Nicolino Pinna (entrambi ex detenuti) e Mario Sanna (agente di polizia penitenziaria) assolti dall’accusa di omicidio volontario in concorso e (sempre in relazione all’omicidio Erittu) gli altri due imputati Giuseppe Sotgiu e Gianfranco Faedda (in servizio come agenti a San Sebastiano) dall’accusa di favoreggiamento. Il pm Giovanni Porcheddu aveva chiesto l’ergastolo per i primi tre e una condanna a quattro anni per gli altri. Nelle motivazioni, i giudici della corte d’assise avevano spiegato che l’istruttoria dibattimentale non aveva “consentito di acquisire, oltre alle dichiarazioni auto ed etero accusatorie di Bigella, elementi idonei dotati di un minimo di certezza tali da far ragionevolmente ritenere che la morte di Erittu sia da ricondurre a un omicidio piuttosto che a un suicidio, così come concluso nelle prime indagini del 2007”. L’appello. Di parere diverso i sostituti pg Sergio De Nicola e Gian Carlo Moi che due anni fa avevano presentato appello contro quella sentenza: 244 pagine al termine delle quali chiedevano alla corte d’assise d’appello di “disporre la parziale rinnovazione del dibattimento con l’espletamento di un’altra perizia medico legale sulla causa della morte e un accertamento tecnico sulla striscia di coperta in sequestro per la ricerca di tracce biologiche e l’estrazione del Dna per l’attribuzione alla vittima”. Il processo è stato aggiornato all’11 dicembre. Massa Carrara: le tute da lavoro fatte dai detenuti Il Tirreno, 15 ottobre 2017 Una tuta per operai, comoda, in cotone, resistente e adatta al tipo di lavoro da svolgere è stata realizzata dai detenuti della casa di reclusione di Massa. Attività dunque di produzione febbrile nella casa circondariale. Il primo prototipo, uscito fresco fresco dal laboratorio tessile interno all’istituto, è stato presentato dalla direttrice Maria Martone e dal dottor Marco Maranghi, consulente tessile esterno del carcere. L’idea è nata per riutilizzare il quantitativo di produzione di cotone e per esigenze personali: ne saranno, infatti, dotati tutti i lavoratori della casa di reclusione, oltre un centinaio su un totale di duecento, ma non sono escluse commesse esterne. “Siamo disponibili a fabbricarne molte per la vendita ad aziende” ha affermato la direttrice Martone. Tra i primi committenti potrebbero rientrare le aziende Supermatic e Nulise con cui l’istituto ha avviato un’attività imprenditoriale per la revisione e recupero di macchine da caffè. La tuta da lavoro non ha particolari caratteristiche: viene prodotta in tessuto cento per cento cotone e, data la sua pesantezza, può essere utilizzata in qualunque stagione. Questa è solo una delle molteplici attività lavorative che si svolgono all’interno del carcere di Massa. Oltre al laboratorio tessile e alla recente officina di macchinari da caffè, sono sempre presenti l’azienda agricola che produce alimenti utilizzati alla mensa interna, la lavanderia, il Cup Asl per prenotare le visite sanitarie, le attività di gestione della biblioteca e degli archivi e molto altro. Milano: i cavalli nella Casa di reclusione di Bollate e uno studio sull’empatia di Paola D’Amico Corriere della Sera, 15 ottobre 2017 Nel carcere, che da dieci anni ospita cavalli sequestrati, abbandonati, maltrattati, ma anche più semplicemente ex campioni ed esemplari affidati dai proprietari alle cure del centro, gli animali vivono liberi, riproducendo le dinamiche del branco. Claudio Villa che ha promosso il progetto prepara i detenuti con corsi di mascalcia. Ed essi si prendono così cura dei cavalli. Un luogo perfetto per gli specialisti dell’Università Statale che hanno deciso di studiare l’interazione dei detenuti con gli animali prima del corso e alla fine. Per capire se la relazione con i cavalli ha un effetto, e dunque quale, sull’empatia e sul controllo degli impulsi e la regolazione delle emozioni. Emanuela Prato Previde, professore di psicologia alla Statale, spiega ai microfoni di Radio 27, il progetto: “Stiamo cercando di dare una veste scientifica a qualcosa che già avviene e per la prima volta di quantificare gli effetti della relazione uomo-cavallo. Ci sono osservazioni su come si comportano i detenuti con i cavalli, ma anche sulla reazione degli equidi, attraverso test validati scientificamente”. L’empatia è un costrutto complesso, è la capacità di rispondere a livello affettivo allo stato dell’altro, “di entrare in risonanza - aggiunge Prato Previde -. Per esempio, mi accorgo che stai bene e mi sento bene, mi accorgo che stai male e sento un disagio”. La risonanza passa anche attraverso il contatto, la fisicità. “È noto che tra le cause a monte di un comportamento criminale, di un atto violento, c’è una carenza di empatia e a controllare gli impulsi, a regolare le emozioni”. Lo studio pilota, al quale collabora anche il Sert della casa di reclusione milanese, prende in esame 12 soggetti. Ma registra anche le reazioni dei cavalli. “I cambiamenti ci sono a livello individuale e di gruppo. Già vediamo che il contatto con il cavallo nel tempo cambia, non fai le cose perché devi farla. Cambia il modo di avvicinarlo, toccarlo, parlargli, e il cavallo che di solito ha risposte di fuga non le ha più”. Un secondo test misura la capacità dei detenuti “di mettersi nei panni dell’altro, di capire di cosa il cavallo ha bisogno, di interpretare il suo comportamento correttamente”. Se prima si lavorava sulle emozioni, questo aspetto è legato al pensiero. “I cavalli sono molto sensibili e ciascuno ha una sua personalità. Se l’approccio del detenuto è troppo impositivo, hanno risposte di non cooperazione”. Il prossimo 25 ottobre il carcere di Bollate ospita un convegno dove si illustreranno i dati preliminari dello studio. Per iscriversi: emanuela.pratoprevide@unimi.it Bologna: “Cinevasioni”, i detenuti premiano il film “La ragazza del mondo” Redattore Sociale, 15 ottobre 2017 La giuria formata dai detenuti della Dozza ha assegnato la Farfalla di ferro come miglior film alla pellicola di Marco Danieli. In cantiere l’apertura di una nuova sala per una programmazione regolare al carcere bolognese durante tutto l’anno. “La ragazza del mondo” di Marco Danieli vince la seconda edizione di Cinevasioni. Oggi presso la sala cinema della Casa Circondariale della Dozza di Bologna, si è conclusa la seconda edizione del festival del cinema in carcere. Un successo di pubblico e soprattutto una grande soddisfazione ed emozione per lo staff del festival e per il corpo di polizia penitenziaria della Dozza, che insieme hanno organizzato sei giorni di proiezioni, portando la cultura del cinema all’interno della realtà del carcere e aprendo il carcere a registi, attori e critica. La giuria della seconda edizione di Cinevasioni, formata dai detenuti che hanno partecipato al corso laboratorio CiakinCarcere e presieduta dal regista teatrale e drammaturgo Paolo Billi, ha assegnato la Farfalla di ferro come miglior film alla pellicola di Marco Danieli, con la seguente motivazione: “Un esordio nel lungometraggio interpretato in maniera straordinaria dai due protagonisti, che spicca per la figura di Libero, personaggio con un passato problematico che ‘liberà Giulia dal suo mondo chiuso e le trasmette il coraggio di andare verso una nuova vita; e per il finale aperto, che lascia intravedere un futuro diverso per entrambi”. Il premio è stato ritirato dal regista Marco Danieli e dallo sceneggiatore Antonio Manca, che visibilmente commossi hanno ringraziato tutta la giuria e l’organizzazione del festival. La premiazione è stata preceduta dalla proiezione del film fuori concorso Gatta Cenerentola, animata versione noir e favola moderna creata dai registi Alessandro Rak, Ivan Cappiello, Marino Guarnieri, Dario Sansone, presentato con successo all’ultima Mostra del Cinema di Venezia. Una prima visione, ancora nella normale programmazione delle sale “fuori”. E questo vuole anche creare Cinevasioni: l’apertura di una nuova sala a Bologna. Insieme alla Direzione del Carcere e a sostenitori privati, la Direzione del festival sta infatti progettando una programmazione regolare al carcere della Dozza durante tutto l’anno. Organizzato dall’Associazione Documentaristi Emilia - Romagna (D.E-R) in collaborazione con la Direzione della Casa Circondariale Dozza di Bologna e con il Ministero della Giustizia - Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, il festival è realizzato grazie al sostegno di Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, Gruppo Hera, Coop Alleanza 3.0 e Legacoop Bologna e con il supporto di Rai Cinema. Tutti i filmati e le interviste della giornata realizzati dagli studenti del corso di Laurea Magistrale in Cinema, Televisione e Produzione Multimediale (Citem) dell’Università di Bologna, coordinati dal giornalista Rai Franz Giordano, saranno disponibili sulla pagina Facebook del festival. Parma: pianeta carcere, un convegno ha raccontato cosa si fa dietro i muri parmaquotidiano.info, 15 ottobre 2017 Un’occasione di dialogo e confronto per condividere e dibattere le diverse esperienze e prospettive sulle progettualità attive all’interno del carcere: si è svolta, negli spazi delle biblioteche Ilaria Alpi e Ugo Guanda, una tavola rotonda per affrontare questa tematica e porre le basi per programmi futuri. Hanno partecipato esponenti di istituzioni e associazioni che, a vario titolo, operano per umanizzare e migliorare le condizioni di vita delle persone sottoposte a misure limitative della libertà personale, portando i risultati delle loro esperienze e stimolando il dibattito riguardo le prospettive possibili. Laura Rossi, assessore al Welfare del Comune di Parma, è intervenuta parlando di come l’amministrazione comunale possa essere da stimolo per la rete: “L’incontro di oggi vuole sottolineare quali sono i progetti innovativi in termini di miglioramento della qualità di vita in carcere che, affiancandosi agli strumenti istituzionali del Comune e di Ausl, testimoniano una attenzione di tutta la città nei confronti di questa tematica. Dalla proficua esperienza di Teatro Carcere, passando dal progetto sostenuto dall’assessorato alla Cultura, Leggere in libertà, per arrivare agli appuntamenti di VerdiOff previsti dal Teatro Regio all’interno dell’istituto penitenziario e alle proiezioni di film, grazie alla collaborazione con il cinema Edison. Il tutto supportato da Forum Solidarietà che forma i volontari e dal supporto di altre realtà territoriali come Fondazione Cariparma. Una vera e propria rete diffusa che sta ottenendo ottimi risultati di cui possiamo andare orgogliosi”. Dopo il saluto del prefetto di Parma Giuseppe Forlani, sono seguiti gli interventi di Stefano Andreoli, vice presidente di Fondazione Cariparma, che ha parlato dell’impegno della Fondazione a sostegno delle politiche sociali di miglioramento della vita dei detenuti; Carlo Berdini, direttore Istituti Penitenziari di Parma, che ha svolto un intervento incentrato su l’apporto della rete territoriale nell’istituzione penitenziaria; per Ausl è intervenuta la dottoressa Inglese, seguita da Roberto Cavalieri, garante dei detenuti, che si è soffermato su come la rete ed il territorio possano tutelare i diritti del detenuto; Roberta Colombini, di Forum Solidarietà, ha parlato del volontariato in carcere e del progetto Volo Diritto; Carlo Ferrari e Franca Tragni, Progetti & Teatro, hanno raccontato le loro esperienze di Teatro Carcere; Valeria Ottolenghi, coordinamento nazionale Teatro in carcere, è intervenuta parlando della situazione nazionale del teatro in carcere e Michele Zanlari, del Cinema Edison, che ha concluso raccontando l’esperienza delle proiezioni cinematografiche in carcere. Cosenza: i racconti dei detenuti nel libro “Controluce” quicosenza.it, 15 ottobre 2017 Sarà presentato giovedì prossimo nella casa circondariale di Cosenza, alle 10.30, il libro realizzato con la collaborazione dei detenuti. L’Istituto penitenziario Sergio Cosmai di Cosenza, in occasione della conclusione del progetto “Liberi di Leggere”, ospiterà il prossimo 19 ottobre, la presentazione del libro “Controluce”; volume curato da Rosalba Baldino che racchiude i racconti dei 40 detenuti delle case circondariali di Paola e Cosenza che hanno partecipato al laboratorio di scrittura creativa realizzato nell’ambito dello stesso progetto, finanziato dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali con il bando Direttiva 266/91. Il progetto, promosso dall’associazione di volontariato LiberaMente in collaborazione con la casa circondariale, MorEqual, la libreria Ubik di Cosenza, il Centro socio culturale Pier Giorgio Frassati di Paola e la Parrocchia Santa Maria Madre della Chiesa Onlus, ha visto l’implementazione della biblioteca del carcere di Cosenza con arredi e libri, la realizzazione di reading e incontri con gli autori ed il coinvolgimento della cittadinanza tramite la possibilità di lasciare un “libro sospeso” per i detenuti. Interverranno il direttore della casa circondariale Filiberto Benevento, il magistrato di sorveglianza Paola Lucente, il prefetto di Cosenza Gianfranco Tomao, il presidente della Provincia di Cosenza Franco Iacucci, il consigliere regionale Giuseppe Aieta, il sindaco di Cosenza Mario Occhiuto, il presidente di LiberaMente Francesco Cosentini e Rosalba Baldino. Brescia: se l’omelia diventa teatro, prospettive dal carcere Corriere della Sera, 15 ottobre 2017 Si chiude oggi, alle 10, nel carcere di Verziano, il progetto “Nostro Fratello Giuda”, promosso dal gruppo di volontariato Assistenza familiare e dalla fondazione Don Primo Mazzolari. Iniziato con un laboratorio dedicato ai detenuti sul tema della misericordia, il progetto si è articolato in incontri culturali e in uno spettacolo, andato in scena in prima assoluta a Collebeato e replicato oggi tra le mura del carcere. Ispirato da una celebre omelia di don Primo Mazzolari, è l’occasione per riflettere sul tema della colpa e del perdono, argomento che per i detenuti assume particolare significato, reclamando la necessità della misericordia come presupposto di una rinnovata vita comune. La drammaturgia è di Maria Filippini, con la regia di Giuseppe Pasotti. Attori, oltre allo stesso Pasotti, Mario Bresciani e Maddalena Ettori, con le coreografie e il corpo di ballo di Morris JC e la partecipazione del gruppo Forza e Costanza, i costumi di Okoro Godday, la scenografia di Mario Bresciani e Giorgio Peli, effetti audio e video a cura di Emanuele Bresciani e Sara Corti ed effetti speciali di Daniele Mino. “Specchi dell’assenza”. Le mie prigioni da siriano dissidente di Annarita Briganti La Repubblica, 15 ottobre 2017 Una vita in carcere, poi raccontata nelle sue raccolte poetiche, che stanno uscendo anche in Italia. Dal 1978 al 2000 Faraj Bayrakdar, poeta siriano dissidente, classe 1951, ha subito numerose detenzioni, durante le quali l’hanno torturato, gli hanno tolto radio, carta e penna e le visite dei familiari. Eppure, le sue opere sono state scritte allora, imparandole a memoria, affidandole alla memoria degli altri detenuti. Mercoledì Bayrakdar, in esilio in Svezia, sarà a Milano per presentare in anteprima “Specchi dell’assenza” (Interlinea), con la traduzione e la curatela di Elena Chiti, traduttrice anche del volume precedente, Il luogo stretto (nottetempo). Il poeta è ospite d’onore del Festival internazionale di poesia civile, che giovedì a Vercelli gli conferirà un Premio alla carriera. Qual è la situazione attuale in Siria? “La Siria è l’unico Paese in cui troviamo forze militari americane e russe, ma anche iraniane e turche e perfino di Hezbollah, per non parlare delle milizie di afghani, iracheni, ceceni. È in corso una guerra mondiale in miniatura, eppure, gran parte dei media continua a chiamarla guerra civile. Il regime di Assad non ha alcun potere decisionale e lo stesso vale per l’opposizione. Gli altri Paesi hanno i loro interessi a non far finire il conflitto: per non minacciare la sicurezza d’Israele, per sperimentare nuovi armamenti, per trarne vantaggi materiali”. Quali sono i temi principali di questa nuova raccolta? “Per i siriani, negli ultimi cinquant’anni, “assenza” significa “carcere”. Nella mia famiglia eravamo tre fratelli in prigione nello stesso momento. Questo prima che arrestassero un quarto fratello, dopo la rivoluzione del 2011. Se le veniva chiesto di noi, mia madre rispondeva: “Sono assenti”, e l’interlocutore capiva. Specchi dell’assenza è un libro sulla prigione, su tiranni, rivoluzione e libertà”. Conosce Adonis, il più famoso poeta siriano in esilio? “È intellettuale quanto basta per fare l’incantatore, non per svolgere il ruolo d’“intellettuale organico” secondo la definizione di Gramsci. Amo le sue considerazioni saggistiche, ma ci sono sospetti che le abbia prese da libri europei. La sua poesia non mi piace. Le sue posizioni politiche, nei confronti degli Assad e delle manifestazioni in atto contro il loro regime, sono state ambigue”. Cosa significa essere un poeta dissidente? “Camminare con la bara dietro, ma io sono tra i fortunati che non sono stati uccisi. Si sono “accontentati” di mettermi in carcere per tre volte. I traumi psicologici non passeranno mai. Parlo svedese in modo limitato. Io e mia moglie non lasciamo mai la nostra cucina di Stoccolma, dove seguiamo in tempo reale la situazione siriana, ma andarmene è stata la scelta più saggia della mia esistenza”. Quali sono i suoi versi preferiti di “Specchi dell’assenza”? “Quelli che i manifestanti siriani contro il regime di Bashar Assad hanno trascritto su un cartello: “Un uccello / basta / perché non cada / il cielo”. Queste parole m’infondevano ottimismo e a quanto pare anche loro hanno avuto la stessa sensazione”. Cos’è per lei la felicità? È felice ora? “Non ci penso più. Penso a essere soddisfatto di me stesso, se possibile, e ad aiutare gli altri. Fare felici le persone di buon cuore mi rende felice. Per fortuna, vivendo in Svezia, riesco spesso a realizzare questo mio desiderio, in un modo o nell’altro”. Voti, favori o denaro? Il 7,9% delle famiglie “vittima” di corruzione di Giulia Merlo Il Dubbio, 15 ottobre 2017 Secondo l’Istat, oltre 1 milione e 700mila italiani ha ricevuto offerte in denaro in cambio del proprio voto. Ti serve un posto di lavoro o devi ottenere la pensione di invalidità? La strada privilegiata passa per pagamenti sottobanco, regali o favori. In una parola, corruzione. Vuoi essere eletto al comune? Oltre 1 milione e 700mila italiani ha ricevuto offerte in denaro in cambio del proprio voto. L’Istat calcola che il 7,9% delle famiglie italiane, nel corso della vita, è stato coinvolto in modo diretto in eventi corruttivi. Piccola o grande, ma pur sempre corruzione, che raggiunge il suo picco nel Lazio, con il 17,9% delle famiglie e il minimo nella Provincia di Trento, con il 2%. Ma dove si consuma il fenomeno? In primis, nel mondo del lavoro. IL 3,2% delle famiglie, infatti, entra in contatto con la corruzione nel settore lavorativo, in particolare al momento della ricerca di lavoro. A seguire, il 2,7% delle famiglie che hanno fatto richiesta di benefici assistenziali (come i sussidi, gli alloggi popolari, le pensioni di invalidità) hanno ricevuto richieste di denaro o di scambi di favori. Lo stesso vale per il 2,4% delle famiglie che hanno avuto bisogno di visite mediche specialistiche o accertamenti diagnostici. La stima più bassa di corruzione riguarda le cosiddette public utilities: sono soltanto lo 0,5% le famiglie che al momento di richiedere allacci, volture o riparazioni per energia elettrica, gas, acqua o telefono hanno avuto richieste di pagamenti in qualsiasi forma per ottenere o velocizzare i servizi richiesti. Quanto alle modalità di richiesta di queste indebite prestazioni, la più gettonata è la richiesta esplicita e plateale, sintomo forse più preoccupante di una presunzione diffusa di impunità. Nel 32,2% dei casi, infatti, le famiglie hanno ricevuto una richiesta chiara da parte dell’interessato. Le allusioni, invece, sono state il mezzo per avvicinare il 32,2%. La contropartita più frequente, invece, è la vecchia ma sempreverde mazzetta: la richiesta è in denaro nel 60,3% dei casi; seguono il commercio di favori, nomine, trattamenti privilegiati (16,1%), i regali (9,2%) e, in misura minore, altri favori (7,6%) o una prestazione sessuale (4,6%). Corrotti e soddisfatti: tra le famiglie che hanno acconsentito a pagare, infatti, l’85,2% ha ritenuto che la corruzione sia stata utile per ottenere quanto desiderato. Ad oltre 1 milione 700mila italiani (il 3,7% della popolazione fra i 18 e gli 80 anni) sono stati offerti denaro, favori o regali per averne il voto alle elezioni amministrative, politiche o europee. Il voto di scambio è più frequente in caso di elezioni amministrative e raggiunge i picchi più alti al sud e nelle isole, dove ne ha avuto qualche esperienza, rispettivamente, il 6,7% e l’8,4% della popolazione. Tutte le regioni del sud - fatta eccezione per il Molise - presentano tassi sensibilmente più elevati rispetto alla media italiana, con il massimo del 9,7% in Basilicata. Al centro il tasso è del 3,1%, a nord-est dell’1,5%, a nord-ovest dell’1,3%. In cambio del voto sono stati offerti o promessi soprattutto favori o trattamenti privilegiati (34,7% dei casi), nomine o posti di lavoro (32,8%) o addirittura denaro (20,6%). Nessuno. O quasi, solo il 2,2% delle famiglie che hanno ricevuto richieste corruttive lo denuncia all’autorità. Perché? Per il 39,4%, non si denuncia perché lo si considera assolutamente inutile. Il 14% lo considera la pratica consuetudinaria per raggiungere un obiettivo, mentre il 12,5% sostiene di non sapere chi denunciare. Più della metà degli intervistati, poi ammettono che lo rifarebbero: pur di ottenere un servizio, il 51,4% delle famiglie ricorrerebbe di nuovo all’uso del denaro, dei favori o dei regali. Don Luigi Ciotti: “Il 60% dei poveri in Italia è escluso dal reddito di inclusione” di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 15 ottobre 2017 Il fondatore di Libera: “Stanco di sentir parlare di sofferenze bancarie. E le sofferenze umane?”. “Riconosco che con il reddito d’inclusione approvato dal governo Gentiloni si è fatto qualcosa ma il 60% dei poveri è tagliato fuori. Mi piacerebbe che si trovassero i soldi subito per le sofferenze umane, sono stanco di sentir parlare di sofferenze bancarie. Che cosa dobbiamo aspettare? Le nuove elezioni politiche? La povertà è un reato, un crimine di civiltà”. Lo ha detto Don Luigi Ciotti intervenendo all’iniziativa “Ad Alta Voce” tappa romana in piazza San Giovanni Bosco, a Cinecittà, della carovana contro le diseguaglianze e per il reddito di dignità promossa dalla Rete dei Numeri Pari in trenta città. “Sono il segno - ha detto il fondatore di Libera - che se una resistenza c’è già stata in Italia, ma oggi ci vuole una nuova resistenza, per seminare il positivo. È il noi che vince. Il cambiamento ha bisogno del contributo di ciascuno di noi”. L’intervento è stato fatto in chiusura dell’incontro organizzato nel cuore del Tuscolano, in piazza Giulio Agricola, davanti alla gigantesca basilica di San Giovanni Bosco, la stessa che è stata ingiustamente resa nota nel 2015 dai funerali di Vittorio Casamonica, già considerato uno dei “Re di Roma”, accusato di usura, racket e traffico di stupefacenti. La stessa chiesa fu negata nel 2006 per i funerali di Piergiorgio Welby, militante del Partito Radicale, deceduto dopo l’intervento del personale medico che decise di rispondere alla sua volontà di terminare la sua agonia. La “Rete dei numeri pari” ha voluto organizzare l’incontro per dimostrare l’esistenza di una società diversa. “Da qui vogliamo dire che esiste un’altra Italia - ha detto Giuseppe De Marzo (Rete Numeri Pari) che pensa che la solidarietà sia un elemento distintivo della democrazia e provano a evidenziarlo costruendo percorsi di mutualismo in tutto il paese”. In piazza si è tenuto un pranzo sociale, mentre il giornale di strada “Shaker, pensieri senza fissa dimora” - prodotto dal centro di accoglienza e di prima assistenza ai senza fissa dimora “Binario 95” alla stazione Termini - è stato distribuito dai suoi redattori. Dal palco della manifestazione è stata declinata un’agenda politica basata sul diritto alla casa, su quello allo studio, sui diritti delle donne e la dignità delle persone. A questi temi Don Ciotti ha aggiunto due nodi importanti: lo “Ius soli” e la legge elettorale. “Lo Ius Soli - ha detto - è una legge giusta, mi fa piacere l’impegno del presidente del Consiglio ad approvarlo in questa legislatura”. E sulla legge elettorale: “È terribile, è la democrazia che viene calpestata”. “L’inclusione sociale sta alla base della democrazia - ha aggiunto Don Ciotti - Alzate la voce quando gli altri scelgono un comodo silenzio. Se molti diritti sono stati calpestati è anche colpa nostra che non li abbiamo difesi abbastanza”. “La speranza si costruisce partendo dai poveri ha aggiunto - Da lì si deve partire - ha aggiunto - ad alta voce, per restituire l’economia alla vita, perché se così non è, non sappiamo che cosa farcene di questa economia”. Brasile. Caso Battisti, una parte della Corte Suprema è a suo favore di Sara Menafra e Alfredo Spalla Il Messaggero, 15 ottobre 2017 Il caso Cesare Battisti si ferma in attesa della decisione del Tribunale superiore federale, prevista per il 24 ottobre. Ma al di là delle sempre più frequenti dichiarazioni di politici brasiliani favorevoli all’estradizione dell’ex terrorista dei Pac, l’esito di quella decisione è tutt’altro che scontata. Anzi. Se si analizza la composizione della Prima sezione del tribunale federale (Tsf) chiamata a valutare l’habeas corpus nei confronti di Battisti, si scopre abbastanza facilmente che, sulla carta, lo scrittore ha la maggioranza dei magistrati dalla propria parte. E la stessa valutazione potrebbe valere per il Tribunale federale nel suo complesso, che in casi particolarmente difficili, viene coinvolto nelle decisioni: la maggior parte dei giudici è stato nominato da Lula o da Dilma Rousseff ed è possibile che non voglia disconoscere quanto fatto dal carismatico leader che ha governato il Brasile per otto anni. La prima commissione, ovvero Primeira Turma, è presieduta da Roberto Barroso, l’ex avvocato di Battisti (che ha già dichiarato che si asterrà dal votare nel merito). Gli altri quattro commissari al momento sono divisi a metà: l’unico “uomo di Temer” nella commissione è Alexandre De Moraes, ex Ministro della Giustizia ed ex segretario della sicurezza pubblica dello Stato di San Paolo. È subentrato a Teori Zavascki, il giudice che indagava sull’operazione Lava-Jato morto in un incidente aereo. De Moraes è il più giovane, ma dovrebbe esprimersi contro l’habeas corpus e quindi in favore dell’estradizione. Luiz Fux, il relatore del caso e colui che ieri ha confermato che Battisti non sarà estradato fino alla decisione, è noto per la sua stravaganza. Nel 2011, fu nominato da Dilma Rousseff e nell’ambiente è conosciuto come il giudice più sensibile al tema dei diritti umani. Marco Aurelio, invece, era già presente al precedente voto su Battisti e si espresse contro una sua possibile estradizione. In una recente intervista, ha inoltre sollevato dubbi sulla costituzionalità della revisione del decreto di Lula. Rosa Weber, anche lei nominata nel 2011 dal governo di sinistra di Dilma Rousseff, è nota per essere colei che tira le fila nelle decisioni importanti. Salì alla ribalta per un’intercettazione in cui Lula la invocava come una donna dal carattere forte in grado di aiutarlo. Lei poi lo smentì con una decisione non favorevole all’ex Presidente. Anche i numeri sono ostili all’Italia: quattro su cinque membri della Primeira Turma sono stati nominati dal Pt, partito di Lula e Rousseff, sette su undici nell’intera corte federale (Stf). Se la commissione chiedesse, come fa in alcuni casi, il loro voto, questi potrebbero essere influenzati dal rapporto di fiducia con l’ex governo, anche se molto nella loro decisione dipenderà dall’interpretazione costituzionale di ciascuno. Intanto, ieri, il sindaco di San Paolo, Joao Doria, in visita a Venezia ha detto di essere favorevole all’estradizione: “Cesare Battisti è un criminale, con una condanna qui, in Italia. Deve essere estradato”. Argentina. Santiago Maldonado, l’ultimo desaparecido di Filippo Femia La Stampa, 15 ottobre 2017 . “Fatto sparire con i metodi della dittatura”. La vicenda di Santiago Maldonado rischia di avere contraccolpi politici: il 22 ottobre si vota per rinnovare Camera e Senato. “Donde está Santiago Maldonado?”. Da oltre due mesi in Argentina risuona la stessa domanda. Giornali, tv, social: il suo volto, occhi profondi, barba e capelli lunghi, è ovunque. Santiago è un tatuatore di 28 anni della provincia di Buenos Aires scomparso il primo agosto. Stava partecipando a una protesta in Patagonia, in difesa degli indigeni Mapuche, repressa dalla gendarmeria. Da allora non si hanno più sue notizie. Chi era con lui assicura di averlo visto, ferito, caricato su una camionetta. Il governo ha smentito: gli agenti non c’entrano. Ma Sergio, il 44enne fratello di Santiago, non ha dubbi: “Se lo sono portati via i gendarmi”. E accusa il presidente Macri di aver minimizzato la misteriosa sparizione: “In 72 giorni non ci ha mai contattati. In altre occasioni, come dopo la strage di Las Vegas, si è affrettato a esprimere la sua solidarietà”. Al telefono la sua voce si incrina quando gli si chiede cosa gli manca di Santiago: “Il suo sorriso”, singhiozza. A volte usa l’imperfetto, “mio fratello era…”, poi si corregge, vergognandosi del lapsus. Santiago è diventato l’ultimo desaparecido argentino. “Ma il governo si ostina a non riconoscere la sua sparizione forzata”, accusa Sergio. Le indagini procedono a rilento tra difficoltà e contraddizioni. In uno dei 70 telefoni sequestrati ai gendarmi è stato trovato un audio in cui si dice che Santiago è nel retro di una camionetta. In altri si parla di un corpo nel fiume e della necessità di nascondere i veicoli usati dalla Gendarmeria. Le prove del Dna, però, non hanno chiarito nulla. Anche droni e unità cinofile si sono rivelati inutili. La vicenda ha rievocato i fantasmi della dittatura che insanguinò l’Argentina tra il 1976 e l’82. Anni in cui le Falcon nere dei servizi segreti inghiottivano gli oppositori, i giovani militanti di sinistra erano gettati nell’oceano dai “voli della morte” o torturati nei centri di detenzione clandestini. “La cosa più spaventosa è che siamo nel 2017 e alcuni metodi sono rimasti uguali”, accusa Sergio, che punta il dito contro il governo. “All’inizio hanno negato la sparizione di Santiago, accusando la mia famiglia di inventare menzogne. Poi hanno tirato fuori ipotesi assurde: Santiago nascosto tra i Mapuche o fuggito in un altro Paese. E questo fa tornare alla mente brutti ricordi”. I brutti ricordi sono le frasi che la giunta militare usava per coprire le sparizioni forzate: “Quali desaparecidos? Le persone che cercate sono scappate in Europa”, dicevano ai familiari degli scomparsi. “Ma non è l’unica analogia con il presente - continua Sergio - La gendarmeria ha fatto irruzione in una scuola per intimidire gli studenti durante un dibattito su Santiago. La polizia entra nelle villas (le favelas argentine, ndr) sparando. Questo governo ha fatto enormi passi indietro sul tema dei diritti umani”. Il caso Santiago Maldonado è diventato un dossier scottante per il governo Macri, che ora teme contraccolpi politici. Il 22 ottobre ci sono le elezioni di medio termine per rinnovare il Congresso. L’ex presidenta Cristina Kirchner, in corsa per un seggio al senato, ha cavalcato la vicenda puntando il dito contro la Casa Rosada. Bono, a Buenos Aires per la tournee degli U2, ha scritto una lettera alla famiglia Maldonado: “Non arrendetevi mai”. “Continueremo a lottare per la verità. Poi arriverà anche la giustizia”, ha risposto Sergio. Intanto, 72 giorni dopo, l’Argentina continua a chiedersi: “Donde está Santiago?”. Stati Uniti. Libero dopo 23 anni di carcere: era stato condannato per sbaglio Reuters, 15 ottobre 2017 Lamonte McIntyre, 41enne, ha passato più di metà della sua vita dietro le sbarre ma era innocente. “È bello il mondo fuori dal carcere”. Sono state queste le prime parole da uomo libero pronunciate da Lamonte McIntyre, 41enne originario del Kansas, condannato erroneamente per duplice omicidio nel 1994. Ha passato 23 anni, più di metà della sua vita, dietro le sbarre e non ha mai smesso di proclamarsi innocente. “Non ci sono mai state le prove effettive che legassero il mio assistito a quegli omicidi”, ha dichiarato il legale dell’uomo. “È stato arrestato dopo soli 20 minuti di interrogatorio: siamo di fronte ad un’ingiustizia bella e buona”. “L’inchiesta è stata fatta in modo affrettato a superficiale”, ha dichiarato un rappresentate del progetto Midwest Innocence, organizzazione che ha collaborato alla liberazione dell’uomo. Sua madre, Rose McIntyre, che era presente anche durante l’arresto avvenuto 23 anni fa, ha ringraziato, con le lacrime agli occhi, “tutti quelli che non hanno mai rinunciato a proclamare l’innocenza di Lamonte”. “Quando ho appreso che sarebbe stato liberato stavo per stramazzare al suolo dalla felicità”, ha concluso la donna, “ora voglio solo che si goda la luce del sole”.