La nuova circolare Dap sul 41-bis: cosa cambia quotidianogiuridico.it, 14 ottobre 2017 Con la Circolare n. 3676/612 del 2 ottobre 2017, il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria è intervenuto in materia di organizzazione del circuito detentivo speciale previsto all’art. 41-bis O.P.: un provvedimento complesso, suddiviso in 37 puntuali prescrizioni, per 52 pagine, con la previsione del Modello 72 in allegato, un elenco di generi alimentari, bevande e medicinali concessi al detenuto in tale regime. Una presa di posizione da parte dell’Amministrazione penitenziaria è stata, peraltro, sollecitata di recente sia dalla dottrina e, sul punto, esemplificative sono le conclusioni, in prospettiva di riforma, delineate dal gruppo di esperti del Tavolo 2 - Vita detentiva, responsabilizzazione, circuiti e sicurezza degli Stati generali dell’esecuzione penale, sia dall’Avvocatura italiana e dal Garante nazionale dei diritti delle persone detenute. Ferma, inoltre, la risposta della Magistratura di sorveglianza, che, in evidente contrasto con le circolari ministeriali, ha espresso forti criticità sulla legittimità costituzionale delle prescrizioni trattamentali del 41-bis O.P. (vedi, da ultima, ord. 9 maggio 2017, n. 772, relativamente al divieto di cottura dei cibi). La Magistratura di sorveglianza, tramite il reclamo giurisdizionale di cui all’art. 35-bis O.P., è altresì progressivamente intervenuta sulle maglie applicative della disciplina normativa, erodendo, in sostanza, le limitazioni trattamentali connesse al regime, che ha finito, in sostanza, per perdere l’originaria omogeneità, verso un riadattamento delle singole prescrizioni sul caso concreto, in un’ottica individualizzante e personalizzata. In tale quadro, si colloca, quindi, la circolare Dap in esame, che, ad una prima lettura, non sembra aver recepito le sollecitazioni appena esposte: le pressioni mediatiche, la ferrea posizione del Procuratore nazionale antimafia, le preoccupazione delle vittime della criminalità organizzata di stampo mafioso ed il perdurante processo di disapplicazione della prassi amministrativa da parte della Magistratura di sorveglianza hanno contribuito verosimilmente a determinare l’Amministrazione penitenziaria ad adottare un provvedimento conclusivo di segno contrario. La ratio ispiratrice del documento sembra essere, infatti, l’esigenza di ripristinare l’omogeneità del trattamento e delle singole prescrizioni, secondo una logica fortemente punitiva e degradante per lo stesso detenuto in una prospettiva opposta rispetto agli sforzi profusi da dottrina, giurisprudenza e dallo stesso legislatore, quasi a significare che la disciplina del 41-bis O.P. sia avulsa ed estranea dalle dinamiche garantistiche che l’ordinamento penitenziario sta progressivamente assumendo in questi ultimi anni, dalla sentenza Torreggiani e altri c. Italia della Corte europea dei diritti dell’uomo. Un simile irrigidimento della prassi amministrativa, ingiustificato e sproporzionato, rappresenta purtroppo un passo indietro rispetto all’attuale quadro normativo di tutela dei diritti umani del detenuto: tale prassi, invece, di attutire i contrasti che si verificano in sede giurisdizionale, porterà sicuramente ad accentuare lo stato di conflittualità con la Magistratura di sorveglianza, che si vedrà chiamata a valorizzare, per quanto possibile, i margini di umanità del regime speciale, che, però, saranno connessi pur sempre al solo caso concreto. Ad un’analisi più puntuale, le stesse premesse risultano fortemente contraddittorie: in apertura del documento, infatti, l’Amministrazione penitenziaria esordisce con importanti affermazioni di principio, ribadendo come tali regole debbano rappresentare delle linee guida per la direzione penitenziaria, nei limiti della legge e secondo la potestà rimessa alla singola amministrazione. La loro applicazione, inoltre, deve essere orientata unicamente al fine preventivo e deve essere funzionale ad impedire “la ideazione, pianificazione e commissione di reati da parte dei detenuti e degli internati anche durante il periodo di espiazione della pena e della misura di sicurezza”, la cui corretta attuazione - si afferma - “non può prescindere da una valutazione della funzione alla quale sono legate”. Si dichiara, per di più, che le prescrizioni “non sono volte a punire e non devono determinare un’ulteriore afflizione, aggiuntiva alla pena già comminata”. Date le premesse, che ben si conciliano con la giurisprudenza costituzionale in materia di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti (vedi, sul punto, Corte cost., n. 135/2013), non si comprendono le ragioni della permanenza di numerose prescrizioni palesemente punitive ed afflittive, come in punto di divieto di cottura dei cibi o in fatto di colloqui con i familiari o, ancora, di corrispondenza e della gestione delle più elementari fasi di vita quotidiana. Si coglie, inoltre, un linguaggio degradante, con una visione del detenuto impersonale (come una matricola, vedi art. 22.1, p. 31, o una sorta di “pacco” che viene di volta in volta “trasferito”, “trattenuto”, “controllato” e “sorvegliato”), che non trova alcuna giustificazione sul piano trattamentale: molteplici, inoltre, sono le specificazioni prive di un fondamento giuridico e logico, come, ad es., non si comprende perché l’Amministrazione penitenziaria debba stabilire che il detenuto possa concedersi una sola fotografia l’anno con i propri familiari (art. 13, p. 19), o, ancora, perché sia necessario prevedere che il detenuto possa portare con sé durante i colloqui un solo pacchetto sigillato di fazzoletti (art. 16, p. 23). Oltremodo ingiusta appare la regola per cui il detenuto sia ammesso a trattenere nella propria cella un’unica fotografia o immagine di un familiare e, al di fuori di tale concessione, non sia possibile concedere l’affissione di nessun tipo di immagini, fogli e fotografie (art. 13, p. 19). Allo stesso modo, stride con la ratio di prevenzione e difesa sociale, il divieto di uso del pantaloncino corto, al di fuori della cella, così come l’utilizzo delle ciabatte unicamente per recarsi in doccia (art. 12, p. 19). Assume una portata esclusivamente punitiva la previsione del divieto di usufruire del pentolame, oltre le fasce orarie indicate (dalle 7.00 alle 20.00), così come, rimane una prescrizione con valore simbolico il divieto di ricevere dall’esterno generi alimentari che, secondo l’uso, richiedono cottura e l’impossibilità per lo stesso di disporre di fornelli personali (art. 8, p. 13). Un’unica e laconica disposizione viene, peraltro, dedicata al trattamento (art. 35, p. 39). Positiva, invece, la previsione di un’apposizione sezione riservata alle udienze con gli operatori penitenziari (art. 22, p. 30), ai colloqui con gli educatori ed operatori del trattamento (art. 22.2, p. 31), alle visite del garante (art. 16.6, p. 26) e, di una parte destinata alla regolamentazione dei reclami (art. 29, p. 37), reclami avverso i DM di sottoposizione al regime speciale (art. 29.1, p. 37), “un atto dovuto e un piccolo passo avanti”, secondo una prima lettura elaborata dall’Unione delle camere penali, con il comunicato del 3 ottobre. Permangono, al contrario, forti perplessità in ordine alla disciplina della permanenza all’aria aperta. Dalla circolare, sembrerebbe emergere addirittura un’ulteriore e diversa interpretazione: secondo l’art. 16, si ammettono due ore all’aria aperta, come limite massimo, che, in base all’art. 11 possono svolgersi o all’aria aperta o in attività ricreative/sportive, alludendo ad un’alternatività delle due ipotesi e, non ad un’unica valutazione di due ore di cui una di permanenza all’aria aperta, così come interpretato dalla circolare DAP dd. 4 agosto 2009. Irragionevole sotto il profilo costituzionale risulta anche l’elencazione contenuta nel Modello 72, allegata alla circolare, attesa la sua natura vincolante e tassativa (art. 7, p. 11). L’irragionevolezza del suo contenuto emerge nella sua massima evidenza in relazione all’elenco di riviste ammesse: secondo la tabella, infatti, non è possibile per il detenuto in 41-bis O.P. accedere nemmeno - paradossalmente - a Ristretti Orizzonti, rivista che potrebbe, invece, giovare al detenuto in termini di conoscenza e consapevolezza della propria situazione detentiva, anche in una prospettiva di responsabilizzazione e presa coscienza delle proprie azioni criminose. Da una valutazione complessiva, pertanto, la circolare DAP restituisce agli operatori del settore uno strumento applicativo inflessibile, che non lascia spazi di manovra concreti alle direzioni penitenziarie e rischia di trasformare il 41-bis O.P. in un trattamento sanzionatorio, con un’eccessiva ed ingiusta compromissione dei diritti soggettivi della persona umana, che, in uno Stato di diritto, dovrebbero essere concessi anche al soggetto recluso in regime di 41-bis. Corso di lingua araba per gli agenti penitenziari Adnkronos, 14 ottobre 2017 Rendere più agevole la comunicazione con i detenuti che provengono da paesi arabi attraverso il canale della lingua e avere a disposizione un ulteriore strumento per prevenire fenomeni di radicalizzazione che vedono nelle carceri un ambiente a rischio. Ha questo duplice scopo il progetto del Dap, il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, che ha promosso un corso di formazione specialistica in lingua araba rivolto a dieci unità di Polizia penitenziaria. Conclusa il 6 ottobre, l'iniziativa è la prima di questo genere, ma l'intenzione del capo del Dap, Santi Consolo, è quella di farla diventare stabile e per questo ha invitato il Direttore generale della formazione a rinnovare con continuità periodica l'esperienza formativa avviata. La possibilità di utilizzare l'arabo per salutare o per comunicare determinate disposizioni può essere uno strumento molto importante per entrare in contatto con i detenuti ed evitare forme di isolamento. Parallelamente, specie per le strutture dove la presenza di detenuti di lingua araba è molto elevata, captare il significato delle conversazioni può diventare un mezzo di prevenzione. Nel carcere di Rimini si contano circa 170 detenuti, molti dei quali di provenienza medioorientale. In tutta Italia sono circa 20mila gli stranieri di cui più di 7mila vengono dal Magreb: 3.676 sono marocchini, 2.087 tunisini, 671 egiziani, 451 algerini, 113 libici, 59 iracheni, 11 iraniani, 38 palestinesi. Gli istituti di detenzione sono tra i luoghi più esposti al rischio radicalizzazione: i detenuti monitorati o “attenzionati” sotto questo profilo sono circa 420 e tra questi 45 sono in regime di alta sicurezza per reati di terrorismo, suddivisi tra gli istituti di Benevento, Brindisi, Lecce, Nuoro, Sassari, Tolmezzo, Torino, Roma-Rebibbia e Rossano Calabro. Il corso promosso dal Dap si è avvalso della collaborazione del Centro lingue estere dell'Arma dei Carabinieri ed insegnanti madre lingua. Gli agenti sono stati selezionati tra i candidati in servizio presso alcuni penitenziari rappresentativi per la presenza di detenuti di lingua araba e presso altre articolazioni del Dipartimento, e hanno superato un percorso intensivo della durata di sei mesi, finalizzata proprio a fornire una specifica competenza nel contrasto alla radicalizzazione in carcere. Palombarini: “il Csm intervenga in difesa dell’autonomia dei pm” di Gianni Barbacetto Il Fatto Quotidiano, 14 ottobre 2017 Il “padre” di Magistratura democratica dà la sua versione sul tema gerarchizzazione delle Procure italiane. Il Consiglio superiore della magistratura sta discutendo un testo che potrebbe diventare una circolare per regolare i rapporti tra dirigenti e pm nelle Procure. Una corrente dei magistrati, quella di Autonomia e indipendenza di Piercamillo Davigo, ha lanciato l’allarme “deriva autoritaria”, segnalando che la bozza in discussione alla Settima commissione del Csm potrebbe avere l’esito di una completa gerarchizzazione delle Procure, rafforzando i poteri del procuratore e togliendo ogni autonomia ai suoi sostituti. “È una storia antica quella dell’autonomia del pubblico ministero”, racconta Giovanni Palombarini, che è a sua volta un pezzo di storia della magistratura italiana: tra i fondatori, nel 1964, di Magistratura democratica, ne è stato segretario nazionale tra il 1982 e il 1986 e poi presidente fino al 1990. “Tutto nasce quando, agli inizi degli anni Ottanta, l’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi propone una radicale ristrutturazione della giustizia. Le scelte dell’azione penale - sostiene - le deve fare la politica. Le Procure devono diventare uffici gerarchici, in cui i pm rispondono ai procuratori e questi a un procuratore nazionale, il quale all’inizio dell’anno riceve indicazioni dal Parlamento e alla fine dell’anno al Parlamento deve riferire gli esiti del lavoro compiuto. Io allora ero segretario di Magistratura democratica, che fece un’opposizione durissima a questo disegno”. La riforma non fu mai realizzata. “No, ma quei temi rimasero sul terreno”, continua Palombarini. “Si ripresentarono violentemente nel novembre 1991, quando il Consiglio superiore della magistratura cominciò a discutere in commissione i rapporti tra capi dell’ufficio del pubblico ministero e sostituti, con la prospettiva di riconoscere ai sostituti un’ampia autonomia. Quando la discussione stava per essere portata al plenum del Consiglio, arrivò il diktat di Francesco Cossiga, allora presidente della Repubblica. Due parole: ‘Non consento’. E arrivarono perfino i carabinieri davanti al portone del Csm”. Qualche anno dopo entrò Silvio Berlusconi nel portone di Palazzo Chigi. “E nel 2005 Roberto Castelli, suo ministro della Giustizia, propose una riforma dell’ordinamento giudiziario che prevedeva la separazione delle carriere tra pm e giudici, i concorsi interni per progredire in carriera e molto altro ancora”. Prosegue Palombarini: “La magistratura si oppose nettamente. Quando, l’anno dopo, andò al governo Romano Prodi, il nuovo ministro della Giustizia, Clemente Mastella, mostrò un atteggiamento dialogante e accettò di ridiscutere tutta la riforma con i rappresentanti dell’Associazione nazionale magistrati”. Gli uomini di Magistratura democratica dentro l’Anm erano Nello Rossi, Edmondo Bruti Liberati, Vittorio Borraccetti, Claudio Castelli. “Violenza, noi donne lasciate sole”. Centri antiviolenza contro il governo di Viviana Daloiso Avvenire, 14 ottobre 2017 Sono le donne della violenza. In carne e ossa. Non importa chi la subisce e chi la cura, non importa chi è vittima e chi è esperta. Nel mondo dei centri antiviolenza, riuniti a Rimini per il primo convegno internazionale dedicato al calvario che il genere femminile vive nel nostro tempo, le coordinate tradizionali saltano. C'è la realtà. E la realtà ha ben poco a che vedere con l'allarme degli stupri per le strade o coi dati su denunce e femminicidi. Non servono a nulla, gli strilli dei media e i numeri. La violenza serve affrontarla, serve cambiarla. I centri lo fanno 365 giorni all'anno attraverso accoglienza telefonica, colloqui personali, ospitalità in case rifugio. Sono 160 le strutture presenti in Italia, da Nord a Sud. Sono quasi 7 milioni le donne italiane che hanno subito violenza almeno una volta, nella loro vita. La proporzione è impressionante. Dice di una sfida, e di una fatica: “Quella che facciamo in larga parte senza l'aiuto del governo”. Lella Palladino il 24 settembre scorso è stata nominata presidente dell'associazione nazionale D.i.Re (Donne in rete contro la violenza), una realtà che da sola raccoglie 80 organizzazioni di donne che si occupano del tema, e 16mila richieste d'aiuto all'anno. “Siamo coinvolti nei tavoli istituzionali, siamo stati presenti agli incontri voluti dal Dipartimento Pari Opportunità in vista del nuovo Piano antiviolenza che verrà - denuncia. Ma siamo sistematicamente messi da parte nella fase decisionale. E i fondi, quelli vengono stanziati per un quantitativo di enti e associazioni che decidono di occuparsi di violenza all'ultimo minuto, spesso senza professionalità da spendere e progetti validi”. Il binario istituzionale è morto, insomma. E sembra incredibile a sentire la storia di Lella, che nel 1999 fondava una cooperativa sociale tra Napoli e Caserta con tre case d'accoglienza tra cui una realizzata in un bene confiscato alla mafia nel cuore di Casal di Principe: si chiama “Lorena”, oggi vi sono impiegate 6 donne con un contratto a tempo indeterminato, per un servizio catering che è diventato famoso in tutta Campania. E che si autosostiene. Una nuova vita che restituisce vita a una comunità, a un territorio. Succede in modo diverso in ogni centro, “dove sono le donne ad aiutare le donne, dove la violenza è solo l'inizio - spiega Maria Luisa Bonura, psicologa ed esperta nel sostegno psicosociale alle vittime di violenza domestica, impegnata nel progetto Aurora della Fondazione famiglia materna di Rovereto - e dove sono i percorsi di uscita a dover essere raccontati”. Giovanna che si ricostruisce una vita coi suoi bimbi piccoli, Adele che diventa pasticcera, Laura che ha ricominciato a studiare. E il ristorante “Le Formichine”, nato proprio a Rovereto per permettere alle donne di ricominciare a racimolare dignità. I centri chiedono d'essere riconosciuti, prima di tutto attraverso una mappatura ufficiale che ancora non esiste: “Istat e Cnr sono al lavoro con due ricerche su questo punto, ma per i risultati dovremo aspettare almeno due anni - continua Palladino. Quanto ai requisiti minimi che invece dovrebbero qualificare le strutture, e che dipendono da un'intesa Stato-Regioni, non sono stati modificati. Anche qui siamo fermi”. rimpegno concreto, quello non si ferma. E fa scuola: al lavoro in venti workshop, per la due giorni di Rimini organizzata dal Centro studi Erickson, ci sono decine di operatori, psicologi, assistenti sociali, infermieri, avvocati, agenti delle forze dell'ordine. Ci sono buone pratiche, esperienze in prima persona, racconti, analisi, progetti. Manca solo che questo patrimonio venga valorizzato: “Noi possiamo aspettare, le donne no”. Nuovo codice antimafia. Reati economici e corruzione: stretta sui “colletti bianchi” anticorruzione.eu, 14 ottobre 2017 Inedito il quadro dei detenuti per reati economici e contro la pubblica amministrazione. Con un trend di crescita significativa in entrambe le categorie. Vediamo nel dettaglio. Nel perimetro dei reati economici vengono fatti rientrare il riciclaggio, la manipolazione del mercato e l’abusivo esercizio della professione finanziaria. In due anni (scarsi), dal 2015 al 2017, si è passati da 775 detenuti a 865 con un aumento di 90 unità. In questa categoria i dati del ministero non permettono di distinguere chi è in carcere per effetto di una sentenza diventata definitiva da chi invece è colpito da misura cautelare. Cosa che invece è possibile per quanto riguarda i reati contro la pubblica amministrazione. Anche in questo settore della criminalità, dove il reato principale è ovviamente la corruzione, oggetto di misure di riforma nel corso della legislatura (nel 2015, per esempio, con l’aumento delle sanzioni sia nel minimo, ora sei anni, sia nel massimo, adesso io anni e limiti al patteggiamento, con obblighi di riparazione pecuniaria), l’incremento del numero dei detenuti è netto. Su un arco di tempo più ampio, dal 2010 cioè, il totale dei detenuti è passato da 875 a 1.123; in crescita anche quelli a titolo definitivo da 460 a 475, i detenuti per truffa contro lo Stato e contro l’Unione europea sono invece 138. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, nel suo intervento al convegno ha per altro esortato a diffidare da una dimensione “panpenalistica”, da un affidamento eccessivo nella giustizia penale, quasi che ogni problema, anche di coesione sociale, debba essere risolto dall’autorità giudiziaria, ricordando come “Abbiamo provato ad affrontare in maniera più sistematica anche la giustizia penale inserendo da ultimo la riserva di Codice, misure di depenalizzazione, nuove cause di estinzione del reato, dalla tenuità del fatto alle condotte riparatorie. Eppure siamo stati costantemente criticati, a volte anche in maniera sorprendente da parte della magistratura. Che quando poteva intervenire tempestivamente per evitare di commettere quelli che poi ha giudicato errori non sempre lo ha fatto”. Milano: si sblocca dopo dieci anni il recupero del Beccaria, trasferita metà dei detenuti di Simone Bianchin La Repubblica, 14 ottobre 2017 Per il Beccaria forse è la volta buona. La ristrutturazione che l'istituto di pena minorile attende da dieci anni si è sbloccata. Lo stabile di via Calchi e Taeggi, di proprietà comunale, verrà recuperato con un intervento da quattro milioni di euro a carico dello Stato. I lavori per ristrutturare entrambi i padiglioni del Beccaria erano partiti già nel 2008. Poi ci sono stati vari fallimenti di ditte, ritardi delle aziende che si sono susseguite nel tempo e anche, secondo chi lavora all'interno del Beccaria, “lavori commissionati male, dimenticando delle cose, progettando pareti di cartongesso che i ragazzi avrebbero distrutto in un attimo e che sono state sostituite”. Il padiglione nello stato peggiore, vecchissimo, è già stato ristrutturato, ma per poter cominciare i lavori nell'altro è necessario spostare parte dei ragazzi detenuti. Inoltre è all'orizzonte l'arrivo di nuovi agenti di polizia penitenziaria, quando sarà possibile utilizzare un'ala che adesso non è pronta. Per il momento la situazione al Beccaria è questa: è stato rifatto il padiglione più vecchio, che aveva problemi anche gravi che provocavano disagi; ad esempio, come raccontano dall'interno del carcere, “era tutto fatiscente, è stato abbattuto e ricostruito perché quando i ragazzi detenuti facevano la doccia succedeva che pioveva di sotto, nell'ufficio della polizia penitenziaria. In queste condizioni abbiamo lavorato, perché i lavori nel vecchio padiglione non sono stati fatti per anni proprio in attesa che aprisse il padiglione nuovo. Ora quell'ufficio verrà abbandonato”. La situazione si è sbloccata il 28 settembre scorso, quando tutta la documentazione necessaria è stata finalmente consegnata al ministero e sono state completate le richieste ai tribunali per il nulla osta al trasferimento dei detenuti in altre strutture. Pare che tra Milano e hinterland non ce ne siano, e che una parte dei ragazzi (specialmente i giovani tra i 21 e i 25 anni che si trovano al carcere minorile per espiare pene per reati che hanno commesso quando avevano meno di 18 anni) finiranno temporaneamente in penitenziari del Sud Italia, visto che anche Firenze, che era stata presa in considerazione, si trova con il suo istituto minorile chiuso per ristrutturazione: “Doveva aprire a luglio ma non lo ha ancora fatto, poi si prevedeva per ottobre ma se tutto va bene riaprirà a gennaio”, fa sapere il sindacato Sappe. Dal Beccaria i primi movimenti per lo sfollamento dei giovani partiranno tra l'ultima settimana di ottobre e la prima di novembre: in questo momento il vecchio padiglione può ospitare 50 detenuti e quello nuovo 31. Nel carcere i ragazzi sono 42, di cui 11 giovani adulti. Napoli: i Radicali Italiani a Secondigliano, i numeri dell’ispezione in carcere di Fabrizio Ferrante Ristretti Orizzonti, 14 ottobre 2017 Una delegazione composta da alcuni militanti di Radicali Italiani, guidata dal membro della Direzione nazionale Raffaele Minieri, con in aggiunta il consigliere comunale Luigi Felaco della lista De.Ma. ha effettuato nel pomeriggio di oggi, 13 ottobre, una visita ispettiva nel carcere napoletano di Secondigliano. Domani la delegazione sarà dalle 9:30 in visita presso la casa circondariale di Poggioreale e domenica, sempre dalle 9:30, toccherà al carcere casertano di Santa Maria Capua Vetere. L’ispezione odierna ha visto emergere sì alcune criticità ma anche diversi motivi per ritenere Secondigliano un penitenziario meno malconcio di altri. È pur vero, tuttavia, che in questo carcere esiste una sorta di sovraffollamento istituzionalizzato. Ciò è stato confermato anche da Marco Casale, vice direttore facente funzioni di direttore in attesa della nuova nomina. Anche a Secondigliano, come a Poggioreale, il posto di direttore è infatti vacante e - nonostante rumors contrastanti - non è ancora chiaro quando la carica sarà ricoperta. La speranza, per entrambe le carceri, è che ciò accada entro fine mese ma i tempi potrebbero dilatarsi fino a fine anno, nonostante anche oggi fosse previsto un vertice sul tema nomine. Tornando alle cifre emerse dall’ispezione, salta agli occhi appunto il sovraffollamento come prassi consolidata, alla luce di una capienza di 750/800 detenuti sulla carta, che diventa di 1.300 persone in carne e ossa. Il tutto - precisano gli agenti - nel rispetto delle metrature sancite dalla sentenza Torregiani, con detenuti in alta sicurezza messi in celle a due a due sebbene in origine si trattasse di celle singole. Discorso diverso per gli ergastolani del reparto T1, alloggiati in celle singole e per i detenuti comuni del reparto Mediterraneo. In quello che un tempo era l’Opg soggiornano anche quattro o cinque in una cella ma parliamo di celle comunque più grandi che garantiscono i tre metri calpestabili. Le condizioni di detenzione sono globalmente buone e il rapporto con gli agenti è apparso sereno. Tra i detenuti non si sono registrate particolari rimostranze. Nel dettaglio, Secondigliano ospita circa 1.300 detenuti di cui 150 semi liberi, circa 300 stranieri e una ventina di ergastolani nel reparto T1, tra gli obiettivi della visita ispettiva. Così come il reparto Ionio sia nelle sezioni aperte (seconda e quarta) che in quelle pronte a schiudersi a partire da lunedì (prima, terza e quinta). Un totale di 150 nuovi posti per alleggerire il sovraffollamento cronico di questo o anche di altri istituti. I nuovi reparti presentano docce in cella, materassi ignifughi, asciugacapelli, citofono per le emergenze, tv e arredi nuovi. Al momento infatti i detenuti non dispongono di celle con doccia ma hanno apposito locale in comune, mentre alcuni ristretti hanno lamentato carenza di acqua calda a causa di ripetuti guasti. Notizie incoraggianti anche per quanto concerne la socialità e le attività lavorative o educative nel carcere. Da circa un anno i detenuti vivono all’esterno della cella dalle 8:30 alle 15, poi alle 16 è la volta della socialità fino alle 18. Il tutto senza contare i detenuti semiliberi che hanno la possibilità di uscire al mattino e rientrare in carcere la sera. Venendo ai colloqui, per i detenuti in alta sicurezza ammontano a quattro ore mensili che diventano sei con i cosiddetti premiali, ovvero nei casi di padri di figli piccoli. Non manca una zona verde con tanto di giochi per i bambini ma non è mancata neppure la richiesta di una stanza per l’affettività al fine di consentire rapporti coniugali a chi vive dietro le sbarre. Sul fronte lavorativo e formativo, a Secondigliano sono operativi un Istituto Tecnico Commerciale, un alberghiero e una scuola media. Si svolgono inoltre corsi di fotografia, di pittura, due di informatica tra cui un progetto con Cisco e Vodafone e un corso di teatro. Non mancano una biblioteca, la palestra e diversi campi sportivi. Notizie anche sul versante della salute dietro le sbarre: oltre a un reparto che accoglie i malati psichici (articolazione salute mentale) esiste un’infermeria con 46 posti ma soprattutto il Servizio di Assistenza Integrata (Sai). Questo offre prestazioni mediche come oculistica, odontoiatria, cardiologia, fisioterapia e non solo, in un reparto che conta 104 posti con al momento circa 75 detenuti al suo interno. Per quanto concerne la pianta organica della Polizia Penitenziaria, al momento ci sono 1.200 agenti di cui 400 impegnati nei piantonamenti, riducendo a 800 quelli in servizio nel carcere. Ciò determina che non ci sia mai più di un agente per sezione con picchi di gap nel personale che può portare anche a un agente ogni due sezioni, ovvero uno ogni 100 detenuti contando ogni sezione 50 ristretti. Secondigliano è pur sempre un luogo di pena e ha le sue problematiche come ogni carcere ma la visita odierna ha, nel complesso, portato in dote non poche buone notizie. Velletri (Rm): problematiche del carcere, ieri una delegazione regionale in visita ilcaffe.tv, 14 ottobre 2017 Nella mattinata di ieri una delegazione di istituzioni regionali ha fatto visita al Penitenziario di Velletri. Presenti sul posto la dottoressa Monica Filippetti e del dottor Antonio Mazzarotto dell’area Politiche Sociali e dalla dottoressa Antonella Tarantino dell’ area Salute Risorse Idriche, Difesa del suolo e Rifiuti, insieme alla delegazione della ASL RM6 nelle vesti del direttore generale della ASL RM6 Narciso Mostarda, dal Direttore generale dell’Asl Rm 4 Giuseppe Quintavalle, dal dottor Eduardo Ferri dirigente sanitario UOC del C.S.M. di Pomezia e dal dottor Mario Ronchetti Direttore UOC Formazione, Qualità, Ricerca e Sperimentazione gestionale. A darne notizia son i sindacalisti della Ugl Polizia Penitenziaria Carmine Olanda e Ciro Borrelli che da anni denunciano le condizioni disperate in cui tutti gli operatori del Penitenziario sono costretti a lavorare. “ La delegazione della Regione Lazio e della ASL RM6 - commenta Olanda - hanno fatto visita nel Penitenziario per effettuare un sopralluogo sulle effettive condizioni della gestione e del servizio sanitario nei confronti dei detenuti. Sono anni - continua Borrelli - che denunciamo il mancato servizio sanitario h24 al nuovo Padiglione D dove attualmente sono ristretti una media di 264 detenuti, costretti a fare capo ad una unica infermeria centrale situata nel vecchio padiglione. Abbiamo sempre denunciato la mancata apertura del Repartino Psichiatrico per la gestione dei detenuti che hanno problemi di natura psichiatrica. Apprezziamo molto - conclude Olanda - che finalmente dopo le numerose denunce fatte dal nostro sindacato sulla Sanità ed altro si muove qualche cosa. Speriamo non sia la classica passerella di moda. Il servizio sanitario nel carcere deve funzionare a 360°. I detenuti che hanno problemi di natura psichiatrica devono essere gestiti dal personale sanitario qualificato e nei luoghi adatti. Basta lasciare i detenuti malati Psichiatrici chiusi in cella alla sola gestione della Polizia Penitenziaria. Se la Polizia Penitenziaria deve essere un peso per questo attuale Governo e per il Ministro della Giustizia Andrea Orlando, che la transitassero subito nella Polizia di Stato e non umiliarla cercando di cambiarle il nome con Polizia del Trattamento o altro. Il Sindacato Ugl Polizia Penitenziaria continuerà sempre a vigilare e a denunciare tutto e tutti i soprusi “. Benevento: donna picchiata dalla polizia municipale, la Corte europea condanna l’Italia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 ottobre 2017 L’inchiesta, dopo la denuncia, era finita con un non luogo a procedere ma ci ha pensato la corte europea, stabilendo un risarcimento da 20mila euro. La Corte europea condanna l’Italia per maltrattamenti da parte delle forze dell’ordine. Parliamo della sentenza depositata il 12 ottobre relativa ai maltrattamenti subiti da una donna fermata da agenti di polizia municipale. Per Strasburgo, le autorità nazionali hanno l’obbligo di proteggere le persone che subiscono limitazioni della libertà personale e, nei casi in cui vi siano denunce per maltrattamenti, lo Stato deve assicurare lo svolgimento di indagini adeguate e accurate per verificare i fatti. Così non era stato nel caso che ha portato la donna a Strasburgo. La Corte ha anche chiarito che nei casi in cui viene contestata la violazione dell’articolo 3 e la vittima si trova sotto il controllo di autorità di polizia, spetta allo Stato in causa “fornire una spiegazione soddisfacente e convincente circa le circostanze nelle quali si sono verificate le lesioni” e dimostrare che l’uso della forza è stato limitato a quanto strettamente necessario rispetto alla condotta delle vittime. E questo tenendo conto che le persone che sono in custodia della polizia o che sono semplicemente condotte in una stazione di polizia per un controllo sono in una situazione di particolare vulnerabilità. La vittima si chiama Tiziana Pennino, 43 anni e vive a Benevento. Questi sono i fatti. Nel pomeriggio del 2 aprile 2013 viene fermata in auto da una pattuglia della polizia municipale di Benevento che sospetta la donna guidi in stato di ebbrezza. Pennino, nella denuncia, racconta di essere stata trascinata fuori della sua auto, di essere stata portata alla stazione di polizia comunale dove un ufficiale ha iniziato a redigere un rapporto per guida sotto effetto dell’alcol. Le sarebbe stata negata la possibilità di utilizzare il telefono e quando la donna ha provato a prendere la cornetta un ufficiale presente nella stanza l’avrebbe colpita e le avrebbe torto le braccia dietro la schiena ammanettandola. Alle urla della donna l’ufficiale avrebbe rimosso le manette in modo violento, fratturandole il pollice e causando lesioni ai polsi. L’inchiesta scaturita dalla denuncia della donna è finita con un non luogo a procedere, decisione confermata dal giudice per le indagini preliminari nell’ottobre dello stesso anno. Quindi alla donna è rimasta l’opzione finale: il ricorso alla Corte europea. Strasburgo l’ha accolta, condannando l’Italia a risarcire Tiziana Pennino con 20 mila euro, 12 per danni morali più otto per le spese. Roma: al Binario 95 della Stazione Termini si lotta contro la povertà di Martina Di Pirro Il Manifesto, 14 ottobre 2017 La storia di un centro di accoglienza e di prima assistenza ai senza fissa dimora. Un modello che fa scuola. Da 11 anni produce un giornale di strada: “Shaker”. Domani sarà distribuito alla manifestazione della Rete dei Numeri Pari contro le povertà e le diseguaglianze a piazza San Giovanni Bosco a Roma. Duecento metri quadri per chi è stato messo in ginocchio dalla crisi. “Riprendere il contatto con la vita, lontani dalla logica della mera sopravvivenza”. In via Marsala a Roma, al civico 95, di fronte all’astronave ariosa e distesa della stazione Termini, si trova Binario 95, un centro polivalente di sostegno ai senza tetto e alle persone in difficoltà che ha dato vita a un giornale. Si chiama “Shaker, pensieri senza fissa dimora”. Domani i suoi redattori lo distribuiranno in centinaia di copie in piazza San Giovanni Bosco a Roma, luogo tristemente noto per i funerali di Vittorio Casamonica, dove dalle 13 si terrà la manifestazione “Ad Alta Voce - Contro disuguaglianze e povertà” promossa dalla Rete dei Numeri Pari, un coordinamento di quasi duecento realtà dislocate sul territorio nazionale ed unite per combattere povertà e disuguaglianze. La storia di Shaker è iniziata qui, in via Marsala, dove la cooperativa Europe Consulting Onlus ha ricevuto i locali in comodato d’uso gratuito dal Gruppo Ferrovie dello Stato e oggi collabora con Roma Capitale nella gestione di un dormitorio per senza tetto e per l’accoglienza diurna. “All’inizio abbiamo aperto un help center sul binario 1 della stazione Termini che ascoltava le richieste di persone in difficoltà e cercava di indirizzarle verso servizi attivi sul territorio - afferma Fabrizio Schedid, coordinatore di Binario 95 - ma ci siamo ben presto resi conto che non bastava orientare le persone al fine di trovare loro un alloggio per la notte. Garantivamo la sopravvivenza, certo, ma anziché risolvere la problematica, quasi per paradosso, si aumentava. Le persone si adagiavano in una vita improvvisata, si arrendevano ai bisogni primari. Ma la povertà era soprattutto relazionale, aveva a che fare con la solitudine, con l’incapacità di inserirsi. Serviva un posto di aggregazione in cui riprendere contatto con la vita quotidiana, lontana dalla logica della mera sopravvivenza”. Un progetto pilota nato nel 2002 con i fondi ricevuti da bandi. Oggi fornisce servizi utili per riprendere confidenza con la vita di tutti i giorni. Docce, possibilità di conservare i documenti, spazi comuni condivisi, orientamento al lavoro, uno spazio dove dormire, pasti garantiti purché si rispettino gli orari. I servizi cercano di dare una risposta pratica alla povertà materiale e alla solitudine di chi vive in strada. “Con l’accoglienza diurna - spiega Shedid - possiamo accogliere fino a 28 ospiti, 12 invece per l’accoglienza notturna. Ma la cosa importante è offrire loro dei momenti di confronto che somiglino alla vita che facevano prima, alla vita che non si ricordano più ma di cui è giusto che si riapproprino”. “Gli ospiti non sono solo i senza fissa dimora, ma anche tutte quelle persone che sono state messe in ginocchio dalla crisi. - continua Schedid mostrando i locali interessati, quasi duecento metri quadri con cucina, docce, posti letto e sala comune - Proviamo a stimolarli dandogli un posto dove lavarsi, posare le loro cose, usare internet e, soprattutto, dialogare tra loro e partecipare a laboratori creativi e pratici”. Nel 2005 questa esperienza ha dato vita all’Osservatorio Nazionale sul Disagio e la Solidarietà nelle stazioni. In collaborazione con le Ferrovie dello stato, l’Anci e la cooperativa Sociale Europe Consulting, sono stati messi a disposizione spazi in comodato d’uso gratuito per realizzare iniziative di promozione ed inclusione sociale. Il progetto si è sviluppato nelle stazioni di molte città. “Le stazioni sono da sempre i luoghi della povertà - ragiona Shedid - ma si tratta di una povertà raccontata sotto forma di buste di plastica, di panini schiacciati sul marciapiede, di ubriachi e di clochard. Una povertà che suscita nei passanti un senso di lontananza e nelle istituzioni la preoccupazione del decoro. Noi cerchiamo di ribaltare questa visione, creare strutture compatibili alla vivibilità delle stazioni e, al contempo, a misura di persona, a misura di dignità”. Era il 2006. Dall’idea di lavorare con le persone vulnerabili è nato un nuovo strumento di comunicazione: un giornale di strada scritto e pensato dagli ospiti in collaborazione con gli operatori. Era Shaker. Oggi è un trimestrale cartaceo, distribuito gratuitamente alle organizzazioni che si occupano di sociale nella città di Roma. Lo si può trovare nelle biblioteche comunali, negli uffici delle relazioni pubbliche dei Municipi, nelle edicole e nelle librerie della Stazione Termini. Raccoglie storie di diritti negati o affermati, di riscatto e di tutte le tematiche di ampio respiro, che porta avanti l’idea che la creatività debba essere una delle basi per un percorso di reinserimento sociale. Gli ospiti sono autori degli articoli. Per loro è l’occasione di reinventarsi e uscire dall’isolamento. Centinaia di copie di Shaker saranno domani della Rete dei numeri pari in piazza Don Bosco. Si mangerà in piazza con artisti, cooperative, parrocchie, movimenti per la casa, anti-mafia e contro la violenza sulle donne fino alle 20. La manifestazione si terrà in contemporanea in altre trenta città. La copertina del numero raffigura M., un ex galeotto che è diventato uno dei redattori del giornale: “È un’occasione meravigliosa - racconta M. - per portare le nostre storie e le nostre idee dinanzi alla comunità e smettere di essere invisibili. Esistiamo e abbiamo una dignità”. All’interno è contenuto un approfondimento sul “reddito di inclusione”, la misura varata dal governo Gentiloni contro la “povertà assoluta”, giudicata insufficiente perché rivolta solo a 660 mila famiglie, mentre il numero complessivo delle famiglie in questa condizione è di 1,8 milioni, pari a 4,6 milioni di cittadini. Senza contare i poveri “relativi”: otto milioni 465mila individui, 2 milioni 734mila famiglie che per l’Istat che spendono per consumi cifre pari o inferiori alla media dei consumi pro-capite. Sono le famiglie giovani ad essere colpite di più dalla povertà “relativa”. Dai dati risulta che il membro di riferimento ha meno di 35 anni (il 14,6%). Si dimezza al 7,9% nel caso degli ultra-sessanquattrenni. Per questi : giovani, precari, lavoratori poveri non è prevista alcuna misura di sostegno universalistico. Il “reddito di inclusione” sembra più simile a una “poor law” di fine Ottocento che ad una moderna legge sul reddito minimo, tra l’altro richiesta dall’Europa dal lontano 1992 e previsto dall’articolo 34 della Carta di Nizza. Il reddito “di inclusione” scatterà dal primo gennaio del 2018, e consiste in un assegno mensile da 190 fino a 485 euro per un massimo di 18 mesi. Saranno avvantaggiate le famiglie con almeno un figlio minorenne, quelle con un figlio con disabilità; con una donna in stato di gravidanza; con una persona di 55 anni o più in condizione di disoccupazione. Il sostegno sarà erogato solo se il beneficiario aderirà a un progetto personalizzato di attivazione sociale e lavorativa. Se non lo farà perderà il “Rei”. Firenze: scrittori dietro le sbarre, i corsi per detenuti da novembre a maggio di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 ottobre 2017 Gli scrittori finiranno dietro le sbarre. Grazie al progetto Arci Firenze denominato “Scrittura d’evasione”, giunto al terzo anno consecutivo, anche quest’anno nel carcere di Sollicciano entreranno gli scrittori per stimolare i detenuti alla scrittura creativa. A partire da martedì 28 novembre e fino alla fine di maggio, i martedì pomeriggio le aule della scuola del carcere - anche per questa edizione - si apriranno agli scrittori, tra cui Giulia Caminito, autrice de “La grande A”, Simona Baldanzi, il cui ultimo libro, “Maldifiume”, ha riscosso uno straordinario successo, lo scrittore Alessandro Leogrande, vicedirettore della rivista “Lo Straniero” e la poetessa, performer e saggista Rosaria Lo Russo. Le lezioni di scrittura saranno aperte, oltre che ai detenuti, al pubblico proveniente da fuori del carcere, per un massimo di dodici iscritti (iscrizioni su www.arcifirenze.it). Quest’anno, per la prima volta, il corso si snoderà lungo un tema definito: quello del reportage, del racconto del mondo e delle proprie esperienze attraverso immagini, attraverso ritratti di persone, luoghi ed episodi capaci di tratteggiare una tela più ampia e sfaccettata. Per questo, tra gli autori che parteciperanno ci sarà il giornalista Saverio Tommasi e, in veste di documentarista, anche Lorenzo Hendel, regista televisivo già responsabile editoriale della trasmissione Doc3, lo storico spazio di Rai3 dedicato ai documentari. Tante le iniziative del genere nei diversi istituti penitenziari. Nel carcere si scrive. Si scrive per capirsi di più, per esprimere speranza e per assaporare un senso di libertà che, altrimenti, non è consentito. Si scrive lettere, diari, poesie e canzoni, come non era mai accaduto. La narrazione e la scrittura di sé nei luoghi di detenzione sembra essere una necessità per non permettere al tempo trascorso e rubato in carcere di divenire tempo vuoto, sala di attesa di non si sa cosa e quando. I detenuti - se hanno fortuna - trascorrono il tempo partecipando ad attività e molte volte, nella solitudine della loro cella, scrivono. La scrittura nei luoghi di reclusione è creatività che aiuta a sopravvivere e a ricercarsi uno spazio di libertà. In carcere la scrittura è praticata, in forme diverse, molto più di quanto non si pensi. Non solo come mezzo di comunicazione personale come le lettere, diari o a scopo funzionale, come le cosiddette “domandine”, istanze, relazioni per processi, ma anche nella forma di attività organizzata: sono diffusi i progetti di scrittura in forma di narrazione anche autobiografica, di poesia, di sceneggiatura (pensiamo al film “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani) o per il settore audiovisivo e queste iniziative sono riconosciute e supportate dal ministero della Giustizia. A fianco alla scrittura c’è anche la lettura dei libri. Un modo non per cancellare il passato, ma per dargli voce attraverso la scrittura, anche nella prospettiva di riscrivere il proprio futuro. Nelle nostre carceri si considera la presenza di libri come un punto importante nella strada che i detenuti devono compiere per dare un senso nuovo alle loro vite. Spesso ci sono lezioni tenute da docenti di grande valore. Chi prende parte a questi corsi lo fa nella speranza di poter elaborare meglio le proprie richieste scritte ai direttori o di riuscire a scrivere con più intensità e chiarezza le lettere per i propri cari. Solo poi, di fronte alla forza del pensiero e della libertà delle parole, i libri diventano a tutti gli effetti dei compagni di viaggio per degli uomini che hanno come nemici la noia e l’esclusione. Non a caso la presenza dei libri in carcere è garantito dall’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario. Parma: “Riflessione di rete intorno al carcere”, progettualità attuali e future parmadaily.it, 14 ottobre 2017 Un’occasione di dialogo e confronto per condividere e dibattere le diverse esperienze e prospettive sulle progettualità attive all’interno del carcere: si è svolta ieri, negli spazi delle biblioteche Ilaria Alpi e Ugo Guanda, una tavola rotonda per affrontare questa tematica e porre le basi per programmi futuri. Hanno partecipato esponenti di istituzioni e associazioni che, a vario titolo, operano per umanizzare e migliorare le condizioni di vita delle persone sottoposte a misure limitative della libertà personale, portando i risultati delle loro esperienze e stimolando il dibattito riguardo le prospettive possibili. Laura Rossi, assessora al Welfare del Comune di Parma, è intervenuta parlando di come l’Amministrazione possa essere da stimolo per la rete: “l’incontro di oggi vuole sottolineare quali sono i progetti innovativi in termini di miglioramento della qualità di vita in carcere che, affiancandosi agli strumenti istituzionali del Comune e di Ausl, testimoniano una attenzione di tutta la città nei confronti di questa tematica. Dalla proficua esperienza di Teatro Carcere, passando dal progetto sostenuto dall’assessorato alla Cultura, Leggere in libertà, per arrivare agli appuntamenti di VerdiOff previsti dal Teatro Regio all’interno dell’istituto penitenziario e alle proiezioni di film, grazie alla collaborazione con il cinema Edison. Il tutto supportato da Forum Solidarietà che forma i volontari e dal supporto di altre realtà territoriali come Fondazione Cariparma. Una vera e propria rete diffusa che sta ottenendo ottimi risultati di cui possiamo andare orgogliosi”. Dopo il saluto del Prefetto di Parma Giuseppe Forlani sono seguiti gli interventi di Stefano Andreoli, vice presidente di Fondazione Cariparma, che ha parlato dell’impegno della Fondazione a sostegno delle politiche sociali di miglioramento della vita dei detenuti; Carlo Berdini, Direttore Istituti Penitenziari di Parma, che ha svolto un intervento incentrato su l’apporto della rete territoriale nell’istituzione penitenziaria; per Ausl è intervenuta la dottoressa Inglese, seguita da Roberto Cavalieri, garante dei detenuti, che si è soffermato su come la rete ed il territorio possano tutelare i diritti del detenuto; Roberta Colombini, di Forum Solidarietà, ha parlato del volontariato in carcere e del progetto Volo Diritto; Carlo Ferrari e Franca Tragni, Progetti & Teatro, hanno raccontato le loro esperienze di Teatro Carcere; Valeria Ottolenghi, coordinamento nazionale Teatro in carcere, è intervenuta parlando della situazione nazionale del teatro in carcere e Michele Zanlari, del Cinema Edison, che ha concluso raccontando l’esperienza delle proiezioni cinematografiche in carcere. Roma: teatro in carcere, dall’Università Roma Tre un’iniziativa per le scuole di Lara La Gatta tecnicadellascuola.it, 14 ottobre 2017 Dal 15 al 17 novembre 2017 il teatro Palladium dell’Università degli Studi Roma Tre, ospiterà la quarta edizione della rassegna nazionale di teatro in carcere Destini incrociati e un convegno di studi a cura dell’Università degli Studi Roma Tre, con il patrocinio del Garante regionale dei diritti dei detenuti del Lazio, per tracciare un bilancio sull’attività svolta negli ultimi anni e promuovere nuove prospettive per la Scena penitenziaria italiana. Saranno tre giornate di spettacoli, conferenze, proiezioni video, laboratori, alle quali le scuole potranno partecipare, scrivendo un’email alla responsabile del progetto, prof.ssa Valentina Venturini, docente di storia del teatro presso l’Università degli Studi Roma Tre: valentina.venturini@uniroma3.it. L’intento del progetto è quello di creare, anche a partire dai luoghi fisici in cui si svolgeranno gli eventi (il Teatro Palladium, l’istituto penitenziario di Rebibbia Femminile, il centro culturale Moby Dick, l’Università degli Studi Roma Tre), un ponte tra il carcere e la società esterna. Prima della rassegna, ci sarà un incontro di presentazione il prossimo 16 ottobre alle ore 18 nei locali del Moby Dick - Biblioteca Hub Culturale della Regione Lazio, in Via Edgardo Ferrati 3, 00154 Roma. Per partecipare alla presentazione, è necessario inviare un’email a Ivana Conte (Agita): ivanaconte@libero.it. Taranto: “L’altra città”… nei panni di un detenuto, il carcere come opera d’arte pugliapress.org, 14 ottobre 2017 Sulla scorta del cospicuo numero di visitatori, del grandissimo interesse suscitato sui media nazionali (Rai-Tg1, Rai-Tg3, La Repubblica, La Stampa, L’Osservatore Romano, Il Corriere della Sera, Il Fatto Quotidiano, Sky Arte, ecc.) e sulle riviste di settore (Artribune, Artemagazine, Segno, ecc.), riprenderà a partire dal prossimo 16 ottobre 2017, e sino al 31 dello stesso mese, presso la Casa Circondariale di Taranto, il progetto “L’altra città. Un percorso partecipativo e interattivo nella realtà carceraria italiana”. L’evento è stato curato dal teorico e critico d’arte Achille Bonito Oliva e da Giovanni Lamarca, comandante del reparto di Polizia Penitenziaria della locale casa circondariale, con il contributo di detenuti, personale in servizio e in pensione (Anppe), artisti, esperti e scrittori tra i quali Giulio De Mitri (artista e docente), Roberto Lacarbonara (giornalista e critico), Anna Paola Lacatena (sociologa e scrittrice), Giovanni Guarino (attore e animatore), Salvatore Montesardo (già dirigente scolastico). L’Associazione “Noi e Voi”, operante da anni all’interno della Casa Circondariale di Taranto, ha sostenuto materialmente il progetto, garantendo, peraltro, nel corso delle visite il quotidiano impegno di propri accompagnatori. Si ripropone così una “prima assoluta” nel panorama delle iniziative culturali e formative realizzate all’interno delle carceri italiane. Non è l’arte che entra nei luoghi di detenzione, ma è il carcere stesso che si fa opera d’arte, grazie all’apporto di quanti vivono in prima persona la reclusione, a coloro che vi operano e agli stessi visitatori. Ognuno con la propria esperienza e competenza e tutti con l’intenzione di creare, attraverso l’espressione artistica, un ponte tra vita ristretta e società civile. Come ha spiegato Carmelo Cantone, Provveditore Regionale della Puglia e della Basilicata, nel corso della conferenza stampa di presentazione tenutasi il 6 maggio scorso, in occasione dell’inaugurazione dell’iniziativa all’interno della Casa circondariale di Taranto, “L’altra città” fornisce ai visitatori la possibilità di conoscere “ciò che sono i luoghi della pena oggi in un paese di democrazia occidentale avanzata, con le contraddizioni di questi luoghi che sono le contraddizioni del nostro sistema penitenziario, per come è stato costruito, per le sue potenzialità, per le sue criticità, ma anche per come viene vissuto da chi vive e da chi lavora in carcere”. L’installazione è all’interno della sezione femminile e si snoda attraverso un corridoio che dà accesso a cinque ambienti: dall’ufficio matricola - dove saranno prese le impronte digitali e le foto segnaletiche - alla cella “nuovi giunti”, da quella di detenzione ordinaria alla cella d’isolamento, per giungere alla infine alla cella dei dimittendi. Tutti gli ambienti - trasfigurati attraverso l’intervento artistico di un gruppo di detenute guidate dal noto artista Giulio De Mitri e con la partecipazione di alcuni agenti penitenziari - consentiranno al visitatore di “vivere” la reale esperienza del carcere e, nello stesso tempo, compiere un ideale e personale percorso che dalla percezione del castigo e dell’isolamento può portare al recupero e all’emancipazione. Quanti, a partire dal 16 ottobre 201, volessero fare esperienza de “L’altra città”, compiendo il percorso previsto all’interno della Casa Circondariale di Taranto, possono rivolgersi a Sig.ra Lucia Scialpi, 340.8227225 (dalle 10,00 alle 12,00 e dalle 17,00 alle 20,00), o scrivendo all’indirizzo email: laltracittanoievoi@gmail.com. Palermo: “EnigmA23”, dal Pagliarelli al palco del Teatro Biondo di Stefania Brusca meridionews.it, 14 ottobre 2017 Attori-detenuti si interrogano sulle scelte dell'uomo. La regista racconta un anno di lavoro, con un copione costruito insieme ai detenuti “sull'imprevedibilità della vita”. Nel corso dei mesi alcuni hanno avuto accesso a forme alternative di detenzione e hanno continuato a studiare il copione da casa. Un altro ha scontato la pena e sarà sul palco da uomo libero. Il carcere è un non luogo, un posto in cui la vita è sospesa. In cui il tuo quotidiano non ti appartiene più. È probabile che, in cella, gli interrogativi si accavallino in un groviglio senza fine. Il tempo si dilata in minuti, ore, giorni. Questo racconta chi c'è stato. Un tempo infinito perso in interrogativi, spesso senza risposte. Un punto di domanda dal quale è partito il percorso guidato dalla regista Daniela Mangiacavallo che per un anno, insieme a alcuni operatori dell'associazione Baccanica e in particolare al drammaturgo Rosario Palazzolo, ha guidato la compagnia di attori-detenuti del carcere Pagliarelli, dando vita allo spettacolo EnigmA23. Dopo aver debuttato all'istituto di detenzione il 10 giugno scorso, davanti a un pubblico di 200 persone, adesso per la prima volta i detenuti usciranno per calcare il palco del Teatro Biondo di Palermo il 18 ottobre alle ore 21. Lo spettacolo inizia con un invito a riflettere su quale strano enigma sia l'uomo. Occorre risolvere un rebus, lavorare d'ingegno, scomporre ogni singolo quadretto del rebus per trovarci un senso compiuto, una ragione all'enigma della vita. “Ci siamo molto interrogati sull'uomo, sulle scelte che fa e sull'imprevedibilità della vita. Questi enigmi a volte non si risolvono mai - racconta Daniela Mangiacavallo, dell'associazione Baccanica e regista dello spettacolo -. Ognuno cammina portandoseli dietro”. All'inizio del progetto i partecipanti erano 23, tra i 25 e i 50 anni. “Tutto è partito a settembre dello scorso anno, partendo dall'idea di realizzare un laboratorio teatrale che potesse coinvolgere una ventina di detenuti del carcere Pagliarelli”. Il laboratorio si è svolto all'interno dell'istituto di pena tre volte a settimana. “Con Palazzolo e altri collaboratori di Baccanica abbiamo lavorato alla costruzione di un copione insieme ai detenuti. Un lavoro fisico incentrato sulla struttura del personaggio, sul lavoro attoriale, lavorando con i detenuti come se avessimo di fronte dei veri e propri attori”. A contribuire alla loro formazione anche alcune personalità che operano nel campo artistico. “Abbiamo avuto un incontro con il regista Claudio Collovà - continua Mangiacavallo - con la regista Patrizia D'Antona, con Armando Punzo, regista che fa attività con attori detenuti del carcere di Volterra”. Un anno intenso che alla fine ha dato vita alla compagnia di attori-detenuti. “Abbiamo debuttato con Enigma23 il 10 giugno, all'interno del carcere. Era uno spettacolo aperto al pubblico al quale hanno assistito circa 200 persone. Ha avuto tanto successo che i magistrati presenti ci hanno dato la possibilità di fare questo spettacolo anche all'esterno della casa circondariale”. I detenuti quindi metteranno in scena lo spettacolo per la prima volta fuori dal Pagliarelli. “In realtà non è stato complicato - afferma la regista - abbiamo richiesto tutte le autorizzazioni per ogni persona. La parte più complicata ha riguardato quei detenuti che nel frattempo hanno avuto la possibilità di accedere a forme detentive alternative, è stato difficile poter concordare le prove con chi è rimasto dentro e con chi è ormai fuori. Ma tutti verranno a fare lo spettacolo”. La compagnia è composta da 15 persone tra cui una attrice professionista, Giuditta Jesu e 14 attori detenuti. Nove si trovano al carcere Pagliarelli mente altri sono in affidamento, gestiti dall'Uiepe (Ufficio Interdistrettuale Esecuzione Penale Esterna della Sicilia) e seguiti dagli assistenti. Mangiacavallo spiega come per lei la presenza sulla scena dei detenuti che si trovano fuori dal carcere sia una soddisfazione in più: “Si pensa che un detenuto una volta uscito dal carcere abbia voglia solo di dimenticare quel posto e non voglia più averci a che fare. Invece loro mi hanno cercato e hanno chiesto dell'associazione Baccanica anche se non si trovavano più in carcere e c'è anche chi prenderà parte allo spettacolo da uomo libero”. “Credo che un cambiamento sia avvenuto in tutti loro - sottolinea ancora la regista - Anche chi è in affidamento, persone che hanno un lavoro, ha il pensiero di voler fare lo spettacolo, mantenendo l'idea della compagnia teatrale. Anche se non li ho visti so che loro stanno studiando e sono certa che saranno pronti con il massimo della professionalità grazie al lavoro intenso che abbiamo svolto in un anno”. Ma questa esperienza non si conclude giorno 18. “Al termine dello spettacolo - conclude - inizieremo la nuova stagione e il numero dei detenuti che aderiscono è triplicato. Al secondo anno di formazione parteciperanno gli attori rimasti e i nuovi. In attesa del nuovo spettacolo di giugno”. Chieti: un'esperienza di volontariato nel carcere di Lanciano opusdei.it, 14 ottobre 2017 È possibile separare l’uomo dal male che ha commesso? Ecco la testimonianza di una volontaria della casa circondariale di Lanciano, in provincia di Chieti. Un gruppo di studentesse universitarie e giovani professioniste si è impegnato a visitare regolarmente venti detenuti del carcere di Lanciano: “Un'esperienza di incontro che ci ha sorprese, commosse - racconta Valentina, una delle volontarie - e che ci ha permesso di andare oltre i nostri pregiudizi: spesso questi ragazzi hanno aperto il cuore a noi, perfette sconosciute, piombate lì da un contesto così distante dal loro, raccontandoci i dolori più agghiaccianti della loro vita, parlandoci anche con dolcezza e riconoscenza delle loro famiglie, dei loro figli, delle mogli che ancora li aspettano, anche nei casi in cui la libertà è ancora lontana. Inaspettatamente la nostra attenzione non si è focalizzata sui reati commessi ma sulle scintille di bene e di dolcezza che abbiamo colto negli occhi di queste persone. Guardando Marco, Stefano e Francesco non vedevamo l'assassino, il mafioso o il trafficante di droga. Il nostro interesse era focalizzato sulla persona e non sul reato, la curiosità malevola scemava, sostituita dal desiderio di incontro.” Sotto la guida della direttrice della struttura, la dott.ssa Avantaggiato, le ragazze hanno proposto varie attività ai detenuti: sessioni di storytelling dove a gruppi di quattro i detenuti potevano raccontare la propria esperienza partendo da foto o ritagli di giornale; giochi a squadre per stimolare la capacità di cooperazione e debriefing; letture di racconti, sketch, canzoni o monologhi per stimolare la capacità di ascoltarsi e accogliersi reciprocamente, valorizzando i talenti di tutti. “È stata un’esperienza che abbiamo vissuto insieme, noi, un piccolo gruppo di ragazze, ma che ha prodotto fin da subito un effetto moltiplicatore: tanti tra i nostri amici, colleghi e familiari hanno messo in discussione la propria visione, spesso stereotipata, della realtà carceraria. Si sono infatti concessi di mettere in dubbio il luogo comune che su queste persone non valga la pena investire risorse, energie e tempo. Osservando la dott.ssa Avantaggiato abbiamo toccato concretamente cosa significa santificare il proprio lavoro ogni giorno, guardando alle persone senza fermarsi davanti ai pregiudizi”. Gorizia: iniziativa di Rinnovamento nello Spirito per i detenuti di Eugenio Flamigni La Voce Isontina, 14 ottobre 2017 Papa Francesco ha invitato tutti i cristiani a leggere il Vangelo, a viverlo e a testimoniarlo. È un dovere del cristiano annunciarlo ad ogni uomo di buona volontà. Questo annuncio è stato portato nelle Carceri di Gorizia, perché - e questo è significativo - richiesto dai carcerati. È stato offerto un breve percorso a tappe, orientato al risveglio della fede ricevuta nel Battesimo e all’annuncio della Vita buona proposta nel Vangelo. Ciò ha destato vero interesse, perché ha consentito la partecipazione di un certo numero di ospiti-detenuti (più di una decina); purtroppo questo annuncio è stato permesso solo durante il tempo carcerario riservato delle due ore di aria libera! Nello svolgersi degli incontri, quattro partecipanti sono stati trasferiti in altri luoghi di pena; ma una buona seminagione era iniziata. Il pomeriggio del 3 ottobre è stato un momento speciale perché sei ospiti hanno chiesto di ricevere una Preghiera d’invocazione speciale per una “pentecoste” personale. Erano presenti 12 persone del Rinnovamento Nello Spirito, che hanno animato con preghiera carismatica, canti e intercessioni assieme al sacerdote don Andrea Paddeu di Trieste, che ha condiviso una forte catechesi e invocato una nuova Effusione dello Spirito su ciascuno, benedicendoli personalmente (e a lungo) con il SS.mo Sacramento, prima esposto. È stato vero tempo di grazia e di festa, che ha lasciato un segno profondo nei cuori. Gli ospiti-detenuti infatti hanno voluto testimoniare i loro sentimenti e il loro “grazie”, rispondendo a 3 domande che si sono posti: Cosa ne pensi e come hai vissuto questo corso spirituale? Le risposte sono state varie: “Inizialmente non ho dato alcuna importanza, ma quasi subito ho capito che avrebbe risvegliato e aumentato la mia fede... Ecco: una nuova visione che mi arricchisce; credere in sé stessi, credere in Dio Amore... Questo cammino è stato un segnale, un invito per me, una speranza in questo momento difficile della vita... Il più bel giorno della settimana era il martedì: aspettavo queste volontarie (e volontari - n.d.r.), buone persone che vengono per noi, proprio per noi”. Quali impressioni hai delle testimonianze personali dei volontari? “Non erano testimonianze come tante, ma mi ha colpito il modo di raccontarle, c’era il loro cuore, vedevo le cose con i loro occhi, mostravano un benessere interiore, emotivo, come se Qualcuno fosse accanto loro... Ho visto il loro sincero impegno e crescita interiore... Persone stupende per me; rivedevo mia madre... Testimonianze molto forti, mi hanno emozionato, rifatto vedere aspetti della mia vita personale e familiare... La loro cordialità era una luce nel nostro momento di buio”. Cosa ti porterà questo percorso spirituale? “Una luce, una fede più ampia, grande aiuto nel mio cammino detentivo; e poi, devo ripartire da Lui che segna il mio futuro e quindi da parte mia ci sarà speranza, umiltà e perseveranza nel bene che Lui mi fa vedere e posso compiere... Dio c’è e ci ama tutti e tutti allo stesso modo... Mi porterà più coraggio e amore per tutti e rispetto per il Signore... Questo cammino ha dato risposte a tanti miei “perché?”. Questo cammino spero non si interrompa; l’attesa del martedì è diventata un appuntamento importante, perché mi dà coraggio in tanta sofferenza. Ho trovato un mondo perduto, già dimenticato, come nella mia famiglia in fattoria: rapporti sinceri tra le persone, amicizia, rispetto, cordialità. Grazie, grazie con tanta sincerità”. Migranti. Migliaia in piazza per lo Ius soli. “Chi cresce in Italia è italiano” di Vladimiro Polchi La Repubblica, 14 ottobre 2017 Manifestazioni a Roma, Bologna, Reggio Emilia e Firenze. Nella capitale parlamentari, politici, insegnanti e studenti per ribadire che “chi cresce in Italia è italiano”. Il testo è fermo a Palazzo Madama. Palloncini tricolore, cori, flash mob musicali, laboratori a cielo aperto e senatori con cartelli al collo per dichiarare apertamente il loro voto: piazza Montecitorio diventa “Piazza della Cittadinanza”. Nel pomeriggio a Roma figli e figlie di immigrati, assieme a studenti, insegnanti e genitori chiamano in piazza “i rappresentanti del Senato e del governo per dimostrare senso di responsabilità verso i bambini e le bambine che crescono in questo Paese, votando immediatamente la riforma dello ius soli”. È il “Cittadinanza day”, per sancire il principio che “chi cresce in Italia è italiano”. La manifestazione, indetta dal movimento “Italiani senza cittadinanza” e dalla campagna “L'Italia sono anch'io” (promossa, tra gli altri, da Acli, Arci, Caritas e Cgil), chiede alla politica di “smettere di giocare, per motivi elettorali, con le vite di quasi un milione di italiani non riconosciuti come tali”. La riforma infatti, tra ius soli e ius culturae, avrebbe un bacino di 800mila potenziali beneficiari immediati (il 74% dei minori stranieri in Italia) e 58mila beneficiari ogni anno. Ma il testo, approvato alla Camera il 13 ottobre 2015, da due anni è fermo al Senato dove la maggioranza rischia di non avere i numeri per approvarlo. La riforma è una legge assai modificata rispetto al testo originario e non introduce affatto uno ius soli puro: chi nasce oggi in Italia non diventerebbe automaticamente italiano, tantomeno chi sbarca sulle nostre coste. Nessuna invasione di “nuovi italiani” dunque. La legge infatti pone paletti rigorosi alla concessione della cittadinanza. “Ai senatori che ci raggiungono in piazza - dice Paula Baudet Vivanco del movimento “Italiani senza cittadinanza” - chiederemo di indossare un cartello con su scritto “Io voto la riforma della cittadinanza”, per rendere manifesto il loro impegno. Siamo convinti che la riforma possa ancora farcela, manca poco, molti senatori ci hanno detto che i numeri in Aula ci potrebbero essere. Per questo non ci arrendiamo e scendiamo in piazza, non solo a Roma, ma anche a Firenze, Bologna e Reggio Emilia”. Alla manifestazione aderiscono anche i Radicali italiani. Non è tutto. Crescono le adesioni alla campagna “Non è mai troppo tardi” promossa dal senatore Pd, Luigi Manconi, per l'approvazione dello ius soli (hanno superato quota 1.300) e prosegue il digiuno a staffetta di politici, artisti, intellettuali: ieri hanno partecipato in 167, tra questi Paolo Fresu e 14 europarlamentari. Allo sciopero della fame aderiscono anche Michela Murgia e Oliviero Toscani. Per lo ius soli si muove infine lo sport. Sabato i calciatori dell'Atletico Diritti, squadra composta da migranti, studenti e ragazzi in esecuzione penale, scenderanno in campo per la prima giornata del campionato di terza categoria portando al braccio una fascia gialla per chiedere l'approvazione della legge sulla cittadinanza. Con il nastro giallo l'Atletico Diritti aderisce all'appello lanciato da Gianni Mura, che su Repubblica ha invitato anche la Nazionale italiana a dare un segnale contro il razzismo e a favore dell'integrazione, schierandosi apertamente in favore dello ius soli. Migranti. Rimpatri triplicati e motovedette italiane davanti alla Tunisia di Fabio Tonacci La Repubblica, 14 ottobre 2017 Motovedette della Guardia di Finanza nelle acque davanti alla Tunisia, rimpatri settimanali triplicati e collaborazione ancor più stretta tra i due Paesi. Così il Viminale punta a “prosciugare” la rotta tunisina, che sta preoccupando i nostri apparati di intelligence e che negli ultimi mesi è tornata ad essere assai trafficata. Solcata, nella maggior parte dei casi, da imbarcazioni “fantasma”: piccoli scafi con motori potenti che scaricano migranti sulle spiagge della Sicilia, tra Mazara del Vallo e Agrigento, prima di tornare indietro a tutta velocità. Al ministero dell'Interno si è tenuto ieri pomeriggio un tavolo tecnico tra una delegazione tunisina e le forze italiane di polizia, durante il quale sono state discusse alcune misure per bloccare il flusso. La prima, e più sostanziosa, riguarda il pattugliamento delle acque internazionali davanti a Sfax e Monastir, dove incrociano più di frequente i motoscafi dei trafficanti. L'Italia intende spostare in quel quadrante del Mediterraneo centrale alcune motovedette della Finanza, ed è stato chiesto ai partner tunisini di rafforzare contemporaneamente il dispositivo della loro guardia costiera. Nel caso in cui i finanzieri intercettassero in acque internazionali un'imbarcazione coi migranti avranno due opzioni: segnalarla ai guardiacoste tunisini, oppure scortarla fino a un porto italiano per l'identificazione dei passeggeri. “Non si tratta di respingimenti - spiegano dal Viminale - ma di pattugliamenti a tutela dei confini”. La seconda proposta, che pare abbia avuto l'approvazione di tutti, prevede l'aumento del numero dei rimpatri settimanali. Adesso, in base agli accordi in vigore tra i due Stati, sono ammessi al massimo 30 rimpatri alla settimana dall'Italia: la quota dovrebbe salire ad 80, da effettuare quaranta alla volta con due voli charter. Si sta discutendo di un terzo charter, ma su questo non ci sono conferme ufficiali della disponibilità del governo di Tunisi. Quel che pare assodato, però, è la consapevolezza della pericolosità di tale rotta, per le sue due caratteristiche che ne fanno potenzialmente una via privilegiata per i terroristi: la durata breve (per un viaggio possono bastare 5-6 ore) e la solidità delle barche utilizzate dagli scafisti. La tratta, dunque, è ragionevolmente sicura, soprattutto se confrontata alla rotta libica. La svolta è arrivata dopo una telefonata nei giorni scorsi tra il ministro Marco Minniti e il suo omologo tunisino. I numeri di questa rotta mediterranea, una direttrice “storica” usata per anni dai contrabbandieri di sigarette e dai latitanti, sono ancora relativamente bassi, si parla di circa 2.500 arrivi nel 2017, ma a preoccupare è stata l'improvvisa escalation durante l'estate, coincisa forse non a caso con l'uscita dalle carceri tunisine di 1.600 pregiudicati grazie a due indulti concessi dal loro governo. I tunisini sbarcati - 1.400 solo nel mese di settembre - non hanno diritto all'asilo politico né alla protezione internazionale perché non stanno fuggendo da una guerra e infatti nessuno di loro fa richiesta per rimanere in Italia. Arrivano, scappano a piedi verso la più vicina stazione ferroviaria e cercano di raggiungere il Nord Europa. Quello che ne fa però una questione di sicurezza nazionale è l'oggettivo problema che ha la Tunisia con il radicalismo islamico: è il Paese che ha esportato il maggior numero di foreign fighter in Siria e in Iraq, e nelle statistiche delle espulsioni del Viminale per sospetto jihadismo i tunisini sono, insieme ai marocchini, i più presenti. Migranti. Nessuno tocchi chi compie i “reati di solidarietà” di Gabriella Meroni Vita, 14 ottobre 2017 Nasce un Osservatorio per proteggere e difendere gli autori dei cosiddetti “reati di solidarietà”, azioni di aiuto o di disobbedienza civile compiute a favore di migranti e rifugiati. Affinché nessuna persona sia perseguita per aver portato soccorso altre persone. Si chiama Osservatorio sulla criminalizzazione della società civile e ha un unico obiettivo: proteggere e difendere gli autori dei cosiddetti “reati di solidarietà”, azioni di aiuto o di disobbedienza civile compiute a favore di migranti e rifugiati, considerate atti di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. Come le attività delle ong nel salvataggio in mare finite negli ultimi mesi nel mirino della magistratura e di una campagna mediatica di criminalizzazione. L’Osservatorio, di cui fanno parte Medici senza frontiere, Amnesty International e Arci, è quello di operare come strumento per monitorare e denunciare gli abusi nei confronti delle organizzazioni, degli attivisti e dei cittadini solidali. “Ci proponiamo di dare sostegno legale, individuando pratiche di auto-aiuto, a chi viene colpito da provvedimenti vessatori, infamanti e discriminatori, e di articolare una contro-narrativa mediatica che mostri quanto di straordinario producono le Ong e i cittadini solidali, spesso riparando alle mancanze, quando non agli abusi, delle istituzioni” sottolineano i promotori. L’Osservatorio si compone di due gruppi di lavoro: il primo impegnato sui temi della comunicazione, il secondo nel sostegno e nella difesa degli attivisti incriminati per atti di solidarietà e nella promozione a livello europeo e nazionale di misure legislative e normative. Tra gli impegni principali c’è quello di costituire una rete di attivisti a livello italiano ed europeo in grado di scambiarsi informazioni, darsi mutuo sostegno e far valere la propria voce a livello mediatico, giuridico e istituzionale; individuare e denunciare i tentativi messi in atto per infangare e contrastare le iniziative solidali; connettere i professionisti e gli attivisti impegnati nella comunicazione così da fornire a giornalisti e media un’informazione puntuale che contrasti la criminalizzazione della solidarietà e degli attivisti umanitari; raccogliere un archivio delle buone pratiche in corso e della giurisprudenza sul tema in Italia e in Europa. Inoltre si cercherà di rendere più stretto e operativo il rapporto con le Ong degli altri Paesi europei. Brasile. Caso Battisti, stop all’estradizione fino al parere dell’Alta Corte di Massimiliano Del Barba Corriere della Sera, 14 ottobre 2017 Il giudice Luiz Fux del Supremo Tribunale Federale ha concesso all’ex membro dei Pac una misura cautelare che di fatto ne blocca l’estradizione. Decisione finale il 24 ottobre. Nuovo colpo di scenda nella vicenda dell’ex terrorista dei Pac Cesare Battisti. Luis Fux, membro del Supremo Tribunale Fedeale, gli ha concesso una misura cautelare che blocca di fatto ogni possibilità di estradarlo fino al 24 ottobre, data in cui la Suprema Corte brasiliana si riunirà per decidere sull’habeas corpus richiesto dagli avvocati dell’ex terrorista. La decisione del giudice - La decisione arriva nel giorno in cui il ministro della Giustizia brasiliano, Torquato Jardim, aveva accusato Battisti di aver “rotto il rapporto di fiducia” con il Paese sudamericano, dove l’ex membro dei Pac risiede dal 2010 grazie all’asilo politico concesso dall’ex presidente operaio, Luiz Inacio Lula da Silva. Un decreto, quello firmato da Lula, che venne approvato nel 2011 dalla Tribunale Supremo del quale anche allora faceva parte Lux, che si schierò a favore. La fuga - Battisti, aveva detto Jardim in un’intervista a Bbc Brasil, “ha cercato di uscire dal Brasile senza una ragione precisa, dicendo che stava andando a comprare materiale da pesca. Ma ha rotto il rapporto di fiducia perché ha commesso un illecito e lasciava il Paese con denaro oltre il limite consentito, senza motivo apparente”. Parole che confermerebbero la convinzione del presidente Michel Temer di autorizzare l’estradizione dell’ex terrorista. Tanto che anche il guardasigilli Andrea Orlando aveva espresso “apprezzamento” per le dichiarazioni del suo omologo brasiliano, ritenendolo “un mutamento di prospettiva” reso possibile dalla “riapertura dei canali della cooperazione Italia-Brasile in materia di giustizia”. Il dialogo Italia-Brasile - A supporto del decreto di espulsione di Temer ci sarebbe già anche lo strumento legale adeguato: il trattato bilaterale firmato dal Brasile con l’Italia, che definisce l’estradizione un “atto sovrano”, ha ricordato Jardim, e che, come tale, “si sovrappone” alla norma sulla prescrizione di cinque anni dall’emanazione del decreto Lula nel 2010, citata dalla difesa di Battisti come ostacolo giuridico alla sua estradizione. Per avviare e giustificare concretamente la procedura serviva tuttavia un “fatto nuovo”, ha spiegato il ministro. E l’occasione si è presentata proprio la settimana scorsa, con il presunto tentativo di fuga in Bolivia di Battisti, aggravato dai reati di traffico di valuta e riciclaggio contestatogli dalla polizia. La palla alla Corte - Su raccomandazione dello stesso Jardim, Temer starebbe in ogni caso attendendo la pronuncia della Corte suprema in merito alla richiesta di habeas corpus formulata dai legali dell’ex terrorista prima di firmare l’estradizione. Dunque la decisione di Fux non avrebbe effetti particolari. Dalla sua casa-rifugio di Cananeia intanto, Battisti è tornato a provocare l’Italia (“un Paese arrogante”) e a ostentare sicurezza, come se non temesse l’espulsione. Ma in realtà è ben consapevole di essere nelle mani del capo di Stato brasiliano, a cui infatti si è rivolto chiedendo “un grande atto di giustizia e umanità”. “Vorrei che il presidente Temer prendesse coscienza profonda della situazione - è l’appello dell’ex estremista di sinistra - anche perché ha tutti gli strumenti giuridici e politici per fare un atto di umanità e lasciarmi qui”. La versione di Battisti - Un invito alla clemenza che Battisti tuttavia non riserva anche ai suoi connazionali, rifiutando di inviare un messaggio di solidarietà alle famiglie delle vittime che la giustizia italiana gli imputa: “Tutte le morti sono deplorevoli. Ma non c’è motivo che io chieda scusa per qualcosa che hanno commesso altri”, ha detto. Affermazioni che non stupiscono Alberto Torregiani: “È normale che parli così, lo ha sempre fatto, è coerente. Se avesse un po’ di umiltà e chiedesse perdono, sarebbe sì una svolta”, ha commentato il figlio di Pierluigi, una delle vittime, per il quale finché Battisti non sarà in Italia “non è il caso di gioire”. “Cesare Battisti chiede al Brasile umanità. Umanità per le vittime di questo killer diciamo noi. Ridatecelo, lo aspetta il carcere”, ha twittato il leader del Pd Matteo Renzi. Turchia. Amaro compleanno in carcere per la direttrice di Amnesty International di Riccardo Noury Corriere della Sera, 14 ottobre 2017 Idil Eser, direttrice di Amnesty International Turchia, trascorrerà oggi il suo compleanno nella prigione n. 9 di Silivri, sul lato europeo della provincia di Istanbul, lo stesso luogo dove ha passato gli ultimi 102 giorni in attesa di un processo per ridicole e assurde accuse di terrorismo. Arrestata il 5 luglio mentre prendeva parte a un seminario insieme ad altri sette difensori dei diritti umani e a due formatori, per oltre due mesi non ha potuto ricevere visite né avere accesso alla posta elettronica: Silivri è il più grande complesso penitenziario europeo ed è un carcere di massima sicurezza. Con lei, ed è un caso senza precedenti nella storia di Amnesty International, è in prigione anche il presidente dell’organizzazione, Taner Kiliç. Domenica scorsa, un procuratore si è spinto a chiedere fino a 15 anni di carcere per Idil Eser, Taner Kiliç, gli altri sette difensori dei diritti umani e i due formatori. “Non ho commesso alcun reato se non quello di difendere i diritti umani. La prigione mi sta rendendo ancora più determinata ad agire per i valori in cui credo. Non accetterò alcun compromesso”, ha dichiarato in uno dei rari messaggi che ha potuto inviare fuori dal carcere. Idil Eser sa bene che questi arresti fanno parte di una campagna pianificata dal governo per ridurre al silenzio ogni voce critica. Dal fallito colpo di stato del luglio 2016 con la conseguente introduzione dello stato d’emergenza, sono state avviati procedimenti giudiziari nei confronti di 150.000 persone. Negli ultimi 12 mesi, oltre 180 mezzi d’informazione sono stati chiusi e 2500 tra giornalisti e altri operatori dell’informazione hanno perso il lavoro. Oltre 140 di loro sono sotto processo o in attesa del suo inizio. Nella Turchia di Erdogan il dissenso è diventato un crimine e i difensori dei diritti umani sono sotto tiro. Ma - anche se le mancano i suoi tre gatti (nella foto, “Pamuk”), la musica, i colleghi e l’ufficio di Amnesty International - ciò che oggi, da dietro le sbarre, Idil Eser manda a dire è che non ce la faranno a metterli a tacere. Afghanistan. Liberi dopo cinque anni, il mistero della famiglia ostaggio dei Taliban di Anna Lombardi La Repubblica, 14 ottobre 2017 L'unica cosa che torna, in questa storia, è una donna con tre bambini che dopo cinque, incredibili anni di prigionia tra i Taliban può appunto tornare a casa. Caitlan Coleman, 31 anni, riabbraccerà presto i suoi cari. Ma la vicenda che si è appena conclusa lascia aperti numerosi interrogativi: che legami ci sono fra i taliban e suo marito Josh Boyle, canadese di 34 anni, che prima di incontrare Caitlan era sposato con Zaynab Khadr, sorella di quell'Omar Khadr legato ad Al Qaeda, per 10 anni detenuto a Guantánamo? Cosa ha fatto scattare la liberazione? Com'è stato possibile che abbiano potuto crescere e moltiplicarsi laggiù, in prigionia? E ancora: perché l'uomo ora esita a salire sull'aereo che dovrebbe riportarli a casa? Una storia piena di lacune, quella dei Boyle. Spariti nell'ottobre 2012 nella provincia di Wardak, roccaforte taliban non lontano da Kabul, mentre visitavano zaino in spalla il paese: Caitlan già incinta del primo pargolo. La loro liberazione è frutto di un'operazione condotta dagli americani con l'aiuto del Pakistan: un sostegno riconosciuto da Donald Trump, che ha subito parlato di “momento positivo” nelle relazioni fra i due paesi. “Un anno fa non sarebbe stato possibile”, ha detto The Donald, che in campagna elettorale si era scagliato contro Islamabad accusata di non fare abbastanza contro i terroristi. “Non ci rispettavano: ma i miei generali se ne sono occupati e le cose sono cambiate”. Il riferimento è alle difficoltà incontrate da Barack Obama nei confronti dell'“alleato riluttante”. Già in agosto il presidente aveva parlato contro quello che riteneva status quo: “Il Pakistan tollera la presenza di terroristi”. E pazienza se in passato sempre Trump aveva definito Islamabad “valido alleato”. La musica era cambiata: “Gli Stati Uniti pagano i pachistani miliardi di dollari e quelli ospitano i terroristi che combattiamo”. Non è ancora chiaro se la famiglia sia stata liberata con un'operazione militare o attraverso trattative - diciamo così - diplomatiche. Di sicuro erano ostaggio del braccio più violento dei Taliban: il clan Haqqani. Alcuni membri del gruppo terroristico erano stati recentemente catturati dall'esercito governativo afghano: tanto che secondo la Cnn la liberazione è in realtà uno scambio di prigionieri. Ipotesi d'altronde suggerita dagli stessi Boyle in un angoscioso video arrivato a dicembre per dimostrare, come si fa in questi casi, la prova del loro essere in vita. La coppia si era rivolta all'allora presidente Obama e al neo eletto Trump: “I Taliban vogliono soldi e i loro amici. Ci sono prigionieri che gli stanno a cuore”. Scambio, e perfino la possibilità di un riscatto, sono dunque più di un'ipotesi. Ma al di là del mistero c'è un'altra cosa che sta a cuore alla Casa Bianca. Il segretario alla Difesa James Mattis, nei mesi scorsi aveva chiuso il cordone della borsa, trattenendo milioni di dollari in aiuti militari perché Islamabad, appunto, non “faceva abbastanza contro gli Haqqani”. Joseph Dunford, capo di stato maggiore, era stato ancora più duro, puntando il dito contro l'intelligence dell'alleato, non amico abbastanza: “È chiaro che hanno connessioni con i terroristi”. Il lieto fine di questa lunghissima prigionia è dunque un nuovo inizio per le relazioni tra Islamabad e Washington? E soprattutto: siamo a una svolta nella lotta ai Taliban che 16 anni dopo l'11 settembre continuano a proliferare in quella terra di nessuno tra i mondi di Pakistan e Afghanistan? Gli interrogativi certo non riguardano le famiglie che escono da un incubo. I genitori della coppia hanno già parlato con quei ragazzi scomparsi per quella incredibile avventura zaino in spalla: e hanno scoperto di avere non un nipotino ma addirittura tre, compresa una bambina. Una cosa, bellissima, che torna. Arabia Saudita. Storia di Manal, la donna che andò in carcere per il diritto di guidare Askanews, 14 ottobre 2017 Alla fine di settembre del 2017 le donne saudite hanno finalmente ottenuto il diritto di guidare: per molte di loro è un sogno diventato realtà, ma per Manal al-Sharif è molto di più: è la vittoria nella battaglia di una vita. Manal, che ora vive a Sidney, nel 2011 andò in prigione per nove giorni per aver guidato senza essere accompagnata da un uomo. Ora presenta alla fiera del libro di Francoforte “Daring to Drive” (“Osare guidare”), il libro in cui racconta la sua storia. “Avevo una macchina, ero una madre sola, avevo un bambino. Avevo una patente, ma non potevo guidare la mia macchina, quindi ogni giorno era una lotta per me, senza un uomo nella mia vita. L'unico familiare che avevo era mio fratello, ma era sempre fuori intere settimane per lavoro. Quindi chiedevo a ogni uomo nel mio ufficio, ogni uomo che conoscevo per avere passaggi e lasciare il condominio dove vivevo”. “Un giorno c'è mancato poco che mi rapissero per questo, e quella è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Era battaglia personale, non aveva nulla a che fare con idee rivoluzionarie o la volontà di violare la legge. Era che mi sentivo impotente”. Nel libro Manal ha raccontato la sua vita di discriminazioni come donna saudita, fino all'esperienza del carcere che l'ha spinta a diventare un'attivista per i diritti delle donne del regno ultraconservatore del Golfo. E il giorno in cui potrà finalmente guidare legalmente in Arabia Saudita, cosa proverà? “Sarà la cosa più liberatoria della mia vita, soprattutto per me che sono stata mandata in prigione per aver guidato. Quel giorno sarà il giorno del mio riscatto, sarà per me una festa: quel giorno guiderò con mio figlio”.