Al via il Piano per la prevenzione dei suicidi negli istituti penali minorili Il Sole 24 Ore, 13 ottobre 2017 Arriva in conferenza Stato-Regioni il “Piano nazionale per la prevenzione del rischio autolesivo e suicidario nel servizi residenziali minorili del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità”. Un documento che affronta e gestisce “l’impatto psicologico dell’arresto e della carcerazione, la paura dell’abbandono e della riprovazione da parte dei familiari e del contesto di appartenenza, lo stress quotidiano della vita ristretta”. Tutti elementi che inducono i minori, nel traghettamento dalla fase di dipendenza infantile a quella autonoma degli adulti, a una particolare fragilità. Per questo il Piano “accentua l’esigenza, fin dall’ingresso nel minore nel circuito penale, di un supporto multidisciplinare e inter-istituzionale al fine di mettere in atto comportamenti autolesivi o chiaramente auto-soppressivi”. Per dare sistemicità agli interventi di sostegno il piano prevede tre livelli organizzativi: centrale con un tavolo di consultazione che fornisce e aggiorna gli indirizzi generali; regionale costituito dall’Osservatorio permanente sulla sanità penitenziaria che predispone i modelli operativi; locale costituito dalle Direzioni degli istituti penitenziari minorili, dei centri di prima accoglienza e delle comunità pubbliche dell’amministrazione della giustizia, nonché dalle direzioni delle Asl cui spetta monitorare e implementare il “Piano locale di prevenzione”. 41bis, i pericoli di una riforma fatta da chi ignora la mafia di Nando Dalla Chiesa Il Fatto Quotidiano, 13 ottobre 2017 Ho stima e considerazione del ministro Orlando, con il quale ho anche collaborato sulle mafie al Nord. Ma la libertà di giudizio è irrinunciabile. Specie nei tornanti in cui il vento è a sfavore. La vicenda della “riforma” del 41-bis è una di queste. Alla mafia il carcere non è mai piaciuto, se non come residenza temporanea in cui accumulare potere e prestigio; luogo da cui dare ordini di morte, per brindare poi al loro successo. Figurarsi se poteva piacerle il carcere speciale. E infatti per 25 anni non ha fatto altro che lavorare ai fianchi questa “eresia”. Basta ricordare le centinaia di 41-bis revocati dal ministro della Giustizia Giovanni Conso nel 1993. E poi l’abolizione delle carceri speciali di Pianosa e dell’Asinara con il governo dell’Ulivo. Di cui i mafiosi detenuti in regime di isolamento furono informati prima ancora del parlamento. E poi le minacce ai parlamentari-avvocati inadempienti verso Cosa Nostra. Finché nei primi anni duemila Ilda Boccassini notò che di fatto il 41-bis non esisteva più, tanto era stato annacquato. Sapemmo più di recente che nell’ora d’aria i capimafia al 41-bis riuscivano addirittura a tenere veri e propri summit: boss di camorra, ‘ndrangheta e Cosa nostra a consesso, a discutere di strategie di affari e di organizzazione. Ricordo bene quando la Camera approvò la legge. Ricordo il mini- stro della Giustizia Claudio Martelli entrare in aula ancora terreo per le stragi delle settimane precedenti. E alcuni parlamentari spendere come certa l’opposizione di Magistratura democratica. Vinse la rivolta morale di chi pensava che se qualcosa si doveva a Paolo Borsellino, il minimo era votare la legge che lui aveva voluto. Non per suo tic personale, ma perché, diversamente da tanti giuristi che ne discettano, lui conosceva bene la mafia, e il suo rapporto con il carcere. I boss non dovevano più comandare, non dovevano più essere in condizione di comunicare con l’esterno. Fu un trauma, che per altro produsse una eccezionale fioritura di collaboratori di giustizia. Uomini d’onore ma non partigiani. Ebbene, il destino sa apparecchiare i suoi scherzi. Così proprio nel venticinquesimo anniversario della morte di Falcone e Borsellino, quella legge viene irrisa, smontata. Senza particolari sensi di colpa. È la commemorazione senza memoria. Solo che gli eroi dell’antimafia non sono morti per ricevere medaglie e commemorazioni; sono morti per cambiare questo paese. Che invece li commemora e poi torna indietro, come un pendolo implacabile. Obbedendo alle celebri convergenze di interessi, le stesse teorizzate nel maxi-processo istruito dai due giudici. Interessi nobili e ignobili, ignoranze e consapevolezze, suggeritori sopraffini e assassini impazienti; tutti all’opera mentre per mesi si giura che non si sta toccando niente. Ha ben ragione Luigi Manconi, che (illudendosi) rivendica a sé questo risultato, a ricordare che il 41bis non prevede un di più di afflizione ma un di più (il massimo, vorrei dire) di sorveglianza. Un carcere non duro, ma speciale. Non afflittivo gratuitamente, ma capace di evitare i collegamenti con l’esterno. Sicché non ha senso limitare i giornali. Ma ha molto senso non concedere, come si era incredibilmente arrivati a ipotizzare, i collegamenti Skype. E avrebbe, ha molto senso, non concedere liberi contatti con folle di personaggi di nomina politica. O i contatti fisici tra i detenuti e i loro familiari. La proposta di abolire i vetri divisori, almeno con coniuge e figli, era già stata avanzata durante la legislatura 2001-2006. E mi aveva persuaso, per puro istinto umanitario. Giuseppe Ayala, che era con me in commissione Giustizia, ci mise un minuto a gelarmi. E i mafiosi che danno ordini di morte non solo alla moglie ma anche al figlio bambino, sussurrandogli in un orecchio il messaggio che lo zio decodificherà al volo? Ci pensi? Combattere la mafia senza conoscere la mafia, appunto. Nella richiesta di custodia cautelare nei confronti di Giusy Vitale (era il 1998) la Procura di Palermo rimarcò come il fratello Vito Vitale, profittando della possibilità concessagli di abbracciare i figli minori in carcere, “non ha esitato a sfruttarla a fondo, passando, oralmente, al figlio poco più che decenne, messaggi di fondamentale importanza per l’associazione mafiosa”. Strategie, estorsioni, soldi. Basta rileggersi quell’atto per capire che Borsellino non aveva i tic. E che se non siamo un Paese di Pulcinella la circolare della “riforma” dovrebbe essere ritirata con pudore. Chi può intervenire intervenga. E magari commissioni un bel monitoraggio sulle incredibili perizie mediche e psichiatriche che tengono lontano dal carcere decine di boss mafiosi. Un bel bagno di realtà, occorrerebbe. Tipo quello che è toccato fare alle vittime e a chi se le è piante. Mentre i boss brindavano in carcere a champagne. Dal 41bis alla “Cella 0”, i limiti del carcere sono i limiti dello Stato di Bruna Di Dio liberopensiero.eu, 13 ottobre 2017 La genesi del carcere duro non è certo un mistero, soprattutto per chi ha seguito e si è trovato a vivere la stagione degli attentati mafiosi del 1992, affondando le proprie radici in una legge del 1977 che regolava e prevedeva un regime di carcerazione istituito a causa degli anni di fuoco targati col nome terrorismo. Qualche giorno fa, abbiamo affrontato il tema delle condizioni delle carceri, attraversando i grovigli, le contraddizioni e ciò che di positivo possono offrire tali istituti. Oggi il nostro nuovo percorso ha come epicentro sempre il carcere, ma si dirama verso una detenzione più dura il cui contesto storico ha condizionato non poco la scelta di tale provvedimento. Il carcere duro - il 41 bis - nasce da una modifica della legge n. 354 del 26 luglio 1975 presente nel quadro normativo dell’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà. La stessa venne modificata e sostituita con la legge Gozzini, il cui nome deriva dal suo promotore Mario Gozzi, il 10 ottobre 1986. La norma introdusse il 41 bis, che non si limitò a regolare soltanto situazioni di rivolta interna o il sistema carcerario italiano, nello specifico, vi erano materie che regolavano la detenzione sotto molti aspetti, come: la libertà anticipata; detenzione domiciliare; permessi premio; affidamento al servizio sociale; estinzione della pena dell’ergastolo e tanto altro. Successivamente agli avvenimenti sanguinari di stampo mafioso del 1992, Giovanni Falcone ebbe l’idea di estendere il 41 bis anche ai mafiosi. Tuttavia, lo stesso provvedimento non ebbe successo se non a seguito della Strage di Capaci del 23 maggio del 1992, dove persero la vita il giudice Falcone, la moglie e la sua scorta - e solo allora fu introdotto il provvedimento con decreto legge denominato Decreto antimafia Martelli - Scotti, convertito in legge il 7 agosto del 1992. La legge ebbe diverse proroghe fino al 31 dicembre del 2002 e con successive modifiche nello stesso anno in materia di Trattamento penitenziario, mentre nel 2009 vi furono modifiche correlate alle Disposizioni in materia di sicurezza pubblica. Il 41 bis nasce da una profonda esigenza: l’obiettivo non è semplicemente regolare la vita di un detenuto qualsiasi, ma evitare che anche dall’interno del carcere vi possa essere ancora potere ed un ruolo gerarchico del detenuto, nonostante la distanza e la stessa detenzione. I boss, spesso, cercano di mandare messaggi agli stessi affiliati, provano a detenere il potere gerarchico dando disposizioni anche attraverso i minimi rapporti che hanno con la propria famiglia. Non è un caso che qualche giorno fa è stata fatta girare una circolare firmata da Roberto Piscitello a capo della Direzione Generale dei Detenuti, da Santi Consolo direttore del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e condiviso con Franco Roberti, Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, disciplinando così in particolare i rapporti tra il detenuto e i familiari, nella fattispecie con i minori. Il decalogo dell’organizzazione del circuito detentivo speciale comprende davvero un po’ di tutto, ecco alcuni punti interessanti dell’articolo 6 riguardanti la consegna e possesso in camera di oggetti e generi: “Saranno altresì consegnate con le stesse modalità di cui sopra: forbicina (con punte rotonde), taglia unghie (senza limetta), pinzetta (in plastica), rasoio in plastica e rasoio personale autoalimentato. Non sono consentiti generi di toeletta in confezione spray e sono ammessi prodotti contenuti esclusivamente in recipienti di plastica”. Leggendo la circolare, si evidenzia quasi in maniera paranoica ma legittima come la vita del detenuto sia controllata e gestita 24h su 24h nei minimi particolari; dagli oggetti alle passeggiate, alla lettura, fino a giungere al divieto di incontrare specifici detenuti affinché non vi sia alcuno scambio di informazioni. Il carcere duro, tuttavia, non è solo sinonimo di 41 bis ma anche di condizioni inumane e precarie dei luoghi di detenzione. Basti pensare alla famosa - e purtroppo reale - cella 0 di Poggioreale e, chissà, in quante possibili celle simili sono sperperate violenze e vere e proprie torture sui detenuti, nel silenzio e nell’indifferenza di tutti: tranne delle mura che non possono raccontare storie che per davvero esistono, hanno nomi e cognomi, identità, accolgono urla, rabbia, pianti e sangue vivo, mentre il dolore pulsa e brucia sulle ferite di un passato scelto per sbaglio delle volte. Nei luoghi di detenzione c’è sempre una cella 0, c’è sempre quell’aria viziata e qualcuno che ti giudica prima del terzo grado togliendoti la vita a forza di botte: le storie da raccontare sono tante, basti ricordare Stefano Cucchi, Simone La Penna, Marcello Lonzi, Manuel Eliantonio e ancora tanti esseri umani che stavano pagando con la detenzione i propri errori. Eppure, qualcuno ha deciso per loro che non bastava, che l’unica legge per punire chi sbaglia fosse la violenza, i cui errori possono essere scontati, certo, con la morte programmata da un Dio imperfetto chiamato uomo. Una società malata ha sì bisogno di luoghi di detenzione, ma una società che tutela i diritti e i doveri di ogni singolo cittadino, che si prende cura delle fasce deboli e che tende a distribuire la ricchezza in maniera non eguale, ma equa, non sarebbe sicuramente una società violenta, la cui necessità è internare i “malati”, prodotto della società che genera il virus ma non gli anticorpi; si preoccupa di costruire luoghi di detenzione ma non di distribuire il lavoro. Insomma, la contraddizione è all’apice e non alla base, provare a ghettizzare l’effetto e a non estirpare la causa, purtroppo, non porterà esiti positivi, ma solo la costruzione e la trasformazione di democrazie in pseudo democrazie. Arresti domiciliari, evasione per chi anticipa di un’ora la visita al Sert di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 13 ottobre 2017 Tribunale di Ivrea - Sezione 2 - Sentenza del 20 giugno 2017 n. 560. Otto mesi di reclusione per chi, posto agli arresti domiciliari, esce con un’ora di anticipo rispetto all’orario prefissato dal giudice per recarsi al Sert. Il Tribunale di Ivrea, sentenza n. 560 del 20 giugno 2017, ha così riconosciuto colpevole di evasione un uomo imputato per traffico di stupefacenti. L’uomo dopo la convalida dell’arresto era stato sottoposto alla misura cautelare della custodia in carcere. A seguito di riesame, il Tribunale della Libertà di Torino aveva poi sostituito la misura con gli arresti domiciliari. Successivamente, su istanza della difesa, il Tribunale aveva mutato il luogo di esecuzione indicandolo presso l’abitazione dei genitori. Contestualmente il prevenuto veniva autorizzato ad uscire il martedì dalle 11.00 alle 12.00 per recarsi al Sert di zona, “più il periodo di spostamento da casa al luogo dei colloqui”, distante poche centinaia di metri. All’esito di un controllo presso l’abitazione alle ore 9.55, i Carabinieri “non rinvenivano l’imputato e su indicazione della madre si dirigevano presso la vicina sede del Ser.T dove a dire della medesima si era recato per i prescritti colloqui settimanali”. Arrivati presso la struttura, constatavano che l’imputato non si era ancora presentato e lo vedevano sopraggiungere soltanto alle 10.13. A quel punto egli giustificava la sua presenza lì - in largo anticipo - con la necessità di percorrere il tratto di strada a piedi. Per il Tribunale dunque emerge chiaramente che l’imputato “si allontanava volontariamente dal luogo di esecuzione della misura cautelare in atto in una fascia oraria inconciliabile con quella prefissata dall’autorità giudiziaria, essendo stato sorpreso fuori dalla propria abitazione più di un’ora prima dell’orario previsto per l’uscita (le 11.00)”. Considerato che il tempo di percorrenza dal luogo di detenzione alla struttura medica, prosegue la decisione, risulta essere di 700/800 metri, “verosimilmente percorribile in 10/12 minuti a piedi, il comportamento tenuto dall’imputato integra - al di là di ogni ragionevole dubbio - il delitto di evasione di cui all’art. 385 c. 3 c.p.”. Sul punto, ricorda il Tribunale, la Suprema Corte ha chiarito che “configura il delitto di evasione (...) l’allontanamento della persona sottoposta alla misura degli arresti domiciliari dal luogo di detenzione in un orario che si ponga in termini di inconciliabilità con la fascia oraria prefissata dall’autorità giudiziaria nel provvedimento cautelare” (Cass. n. 3744/2013, relativa ad un rientro con oltre 30minuti di ritardo). Mentre non appare applicabile l’ipotesi invocata dalla difesa in quanto “non integra la circostanza attenuante, il solo fatto che la persona evasa dalla detenzione domiciliare rientri spontaneamente nel luogo di esecuzione della misura da cui si è arbitrariamente allontanata, essendo indispensabile che la stessa si presenti presso un istituto carcerario o si consegni ad un’autorità che abbia l’obbligo di tradurla in carcere” (n. 25602/2008). E ancora: “in tema di evasione, la circostanza attenuante della costituzione in carcere prima della condanna non trova applicazione in ogni caso di evasione temporanea e quindi non può essere riconosciuta in favore del soggetto che si sia allontanato, per breve tempo, dall’abitazione di restrizione domiciliare per farvi subito dopo rientro”. In questo secondo caso la Cassazione ha chiarito che la circostanza attenuante “implica che l’evaso si adoperi prima della condanna, spontaneamente ed efficacemente, per elidere le conseguenze dannose dell’evasione, consistenti nel dispendio di tempo e di energie per le ricerche e la sua cattura, costituendosi in carcere o consegnandosi ad un’autorità che abbia l’obbligo di tradurlo in carcere” (n. 32383/2008). Infine, riguardo il trattamento sanzionatorio, il Tribunale, concesse le circostanze attenuanti generiche e ritenuta la recidiva equivalente, ha ritenuto adeguata e congrua la pena di mesi 8 di reclusione, disponendo dunque la riduzione di un terzo della pena base per il rito abbreviato. Maltrattamenti dai vigili urbani, Italia condannata di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 13 ottobre 2017 Corte europea per i diritti dell’uomo, sentenza 12 ottobre 2017 sul ricorso n. 21759/15. I maltrattamenti subiti da una donna fermata da agenti di polizia municipale sono costati all’Italia una nuova condanna per violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che vieta trattamenti inumani e degradanti. Con la sentenza depositata ieri (ricorso n. 21759/15), la Corte di Strasburgo ha anche accertato che l’Italia non ha assicurato indagini adeguate per far luce sulla vicenda. Non solo. L’Italia dovrà versare alla ricorrente, vittima della violazione della Convenzione, 12mila euro per i danni non patrimoniali e 8mila per le spese sostenute. Questi i fatti. Una donna era stata fermata perché sospettata di guida in stato di ebbrezza. Condotta nella stazione della Polizia municipale, secondo la sua ricostruzione, aveva subito maltrattamenti che le avevano procurato una frattura al pollice e altre contusioni. La donna, che non aveva potuto utilizzare il telefono, aveva sporto denuncia, ma il giudice per le indagini preliminari aveva chiuso il procedimento con non luogo a procedere. Così, la donna ha deciso di rivolgersi alla Corte europea che le ha dato ragione. Per Strasburgo, le autorità nazionali hanno l’obbligo di proteggere le persone che subiscono limitazioni della libertà personale e, nei casi in cui vi siano denunce per maltrattamenti, lo Stato deve assicurare lo svolgimento di indagini adeguate e accurate per verificare i fatti. Così non era stato nel caso che ha portato la donna a Strasburgo. La Corte ha anche chiarito che nei casi in cui viene contestata la violazione dell’articolo 3 e la vittima si trova sotto il controllo di autorità di polizia, spetta allo Stato in causa “fornire una spiegazione soddisfacente e convincente circa le circostanze nelle quali si sono verificate le lesioni” e dimostrare che l’uso della forza è stato limitato a quanto strettamente necessario rispetto alla condotta delle vittime. E questo tenendo conto che le persone che sono in custodia della polizia o che sono semplicemente condotte in una stazione di polizia per un controllo sono in una situazione di particolare vulnerabilità. Questo vuol dire - osserva la Corte - che gli Stati hanno un obbligo positivo e devono garantire che il proprio personale agisca in modo professionale. Nel caso in esame, secondo Strasburgo, il Governo non ha dimostrato la necessità dell’uso della forza, trincerandosi unicamente dietro lo stato di agitazione della donna. Sono poi mancate indagini complete, richieste in tutti i casi in cui è in gioco una violazione dell’articolo 3 e, d’altra parte, lo stesso Governo in causa, per i fatti avvenuti all’interno della stazione di polizia, ha solo mostrato un rapporto degli stessi agenti della polizia municipale. Un ulteriore tassello, poi, che getta ombre sulla completezza delle indagini è la circostanza - sottolineata dalla Corte - che la richiesta di archiviazione del procuratore aveva una motivazione molto succinta e scritta in modo standardizzato. Stesse critiche per la decisione del giudice che non ha motivato il no alla richiesta della vittima circa lo svolgimento di indagini supplementari. Di qui la conclusione che l’Italia ha violato l’articolo 3 sia per gli aspetti sostanziali sia per quelli procedurali. Misure cautelari: avviso di revoca alla vittima solo se “a rischio” di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 13 ottobre 2017 Corte di cassazione - Sezione II - Sentenza 12 ottobre 2017 n. 46996. L’avviso alla persona offesa della revoca o della sostituzione della misura cautelare è d’obbligo, in caso di reati con violenza sulla persona, solo quando la vittima è un soggetto “vulnerabile” a causa del sesso della razza o della relazione stretta con l’imputato. Il giudice, prima di applicare la tutela rafforzata per la parte offesa come previsto dall’articolo 299-bis del Codice di procedura penale, deve valutare se esiste un pregresso rapporto tra vittima o aggressore o se ci sono concrete possibilità di ritorsione, tali da giustificare la compressione dei diritti processuali dell’indagato sottoposto alla limitazione della libertà personale. La Corte di cassazione (sentenza 46996) circoscrive l’applicabilità della norma che impone di comunicare immediatamente alla persona offesa, al difensore o ai servizi sociali la revoca o la sostituzione di misure cautelari. La Corte accoglie il ricorso di un indagato per rapina, nei confronti del quale era stata ripristinata la custodia in carcere perché alle persone offese (i legali rappresentanti della banca) non era stata notificata l’istanza di revoca. La Corte annulla con rinvio l’ordinanza impugnata e fornisce ai giudici dei criteri per l’applicazione dell’articolo 299-bis a partire dalla sua ratio e dalle norme sovranazionali sulle quali è basata una tutela, nata per contrastare la violenza di genere. La posizione rafforzata delle vittime nei procedimenti penali - sia in termini di informazione sia rispetto alla possibilità di depositare memorie - è imposta dalla direttiva 2012/29/Ue (recepita con il Dlgs 12/2015). Per i giudici è chiara la necessità di assicurare maggiore “protezione” alle vittime, minorenni, disabili, donne e, in generale, alle persone vittime di violenze reiterate a causa di relazioni strette. Tra i soggetti a rischio elevato di danno anche le vittime di reati subìti in Stati membri di cui non sono cittadini o in cui non risiedono. Il carattere che “unifica la figura e la considerazione di tali vittime è costituito dal fatto - si legge nella sentenza - che queste risultano esposte a un concreto pericolo di vittimizzazione secondaria e ripetuta, di intimidazione e di ritorsioni”. Sono questi i caratteri da valutare per applicare una norma che condiziona la procedibilità dell’istanza di libertà e quindi di fatto, il diritto di difesa dell’imputato. Interesse che non può essere sospeso senza un’adeguata giustificazione e che va contemperato con il diritto all’incolumità della persona offesa. A queste considerazioni i giudici ne aggiungono una di ordine concreto: prima di ripristinare la misura il giudice deve valutare anche se l’omesso avviso è incolpevole perché la persona offesa non ha nominato un difensore o non è identificabile dagli atti del procedimento Intercettazioni, messaggi Blackberry senza rogatoria di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 13 ottobre 2017 Corte di cassazione - Sentenza 12 ottobre 2017 n. 46968. “L’acquisizione della messaggistica, scambiata mediante sistema protetto Blackberry - traffico telematico cd. “pin to pin” -, non necessita di rogatoria internazionale qualora le comunicazioni siano avvenute in Italia, a nulla rilevando che per decriptare i dati identificativi associati ai codici pin sia necessario ricorrere alla collaborazione del produttore del sistema operativo avente sede all’estero”. Con questa motivazione la Corte di cassazione, sentenza 12 ottobre 2017 n. 46968, ha rigettato il ricorso contro il provvedimento del Tribunale del riesame di Reggio Calabria che aveva confermato la custodia cautelare in carcere per un uomo indagato per partecipazione ad una associazione finalizzata al traffico internazionale di cocaina tra l’Italia, il Costa Rica, la Colombia ed il Nicaragua, oltre al concorso nell’acquisto e nel trasporto di centinaia di kg di polvere bianca. Il ricorrente afferma che il servizio di messaggistica è interamente gestito dalla società Blackberry in Canada e che la società R.I.M. operante in Italia si sarebbe limitata a ricevere dall’autorità la richiesta di dati, ad inoltrarla in Canada, ed a ricevere la risposta, consistente in una copia del file messa poi a disposizione della Procura, senza però la prescritta rogatoria. Per la Suprema corte, da una parte, si deve considerare che le attività investigative “sono riconducibili a mere operazioni tecniche che non comportano alterazioni contenutistiche dei dati forniti”, dall’altra che “chi comunica si trova in Italia, come risulta dal posizionamento dell’apparecchio adoperato”. Per cui si è trattato di una “collaborazione di tipo tecnico della società R.I.M., operante in Italia, quale emanazione della società-madre Blackberry”. Più in generale la Cassazione (n. 16670/2016), in tema di intercettazioni telefoniche, ha chiarito che: “l’acquisizione della messaggistica, scambiata mediante sistema Blackberry, non necessita di rogatoria internazionale quando le comunicazioni sono avvenute in Italia, a nulla rilevando che per “decriptare” i dati identificativi associati ai codici PIN sia necessario ricorrere alla collaborazione del produttore del sistema operativo avente sede all’estero”. Mentre, riguardo a supposte conversazioni effettuate all’estero, l’imputato non ha indicato né che rilevanza avessero ai fini delle contestazioni, né per quali di esse sarebbe stato necessario chiedere la rogatoria. Infine, aggiunge la sentenza, i dati telematici delle captazioni “sono stati trasmessi in originale dalla società con sede in Italia sul server degli uffici della Procura”, così rispettando anche la condizione necessaria per l’utilizzabilità delle intercettazioni, “ossia che l’attività di registrazione - consistente, sulla base delle tecnologie attualmente in uso, nella immissione dei dati captati in una memoria informatica centralizzata - avvenga nei locali della Procura della Repubblica mediante l’utilizzo di impianti ivi esistenti”. Non può dunque essere accolta la censura incentrata sull’asserzione che le intercettazioni sarebbero state eseguite da soggetti diversi da quelli autorizzati per legge. Sequestro dell’appartamento affittato a chi sfrutta la prostituzione di Paolo Accoti Il Sole 24 Ore, 13 ottobre 2017 Corte di cassazione, Terza sezione penale, sentenza 46397/2017. Sequestrato l’appartamento in condominio affittato per lo sfruttamento della prostituzione. Appare conforme alla legge e, in particolare, all’art. 321 Cpp, il sequestro dell’immobile in condominio, al cui interno i conduttori in affitto sono dediti esercitare il favoreggiamento e lo sfruttamento della prostituzione. Scopo del sequestro è impedire che l’immobile sia ulteriormente suscettibile di un impiego criminoso, a nulla rilevando che la proprietà del bene sia formalmente in capo a soggetto non indagato, specie quando le concrete circostanze di fatto fanno configurare in capo all’asserito proprietario una proprietà solo formale dell’immobile. Tanto ha stabilito la Corte di Cassazione nella sentenza n. 46397, pubblicata in data 9 ottobre 2017. La vicenda - Il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Siracusa rigettava la richiesta di convalida del sequestro d’urgenza, disposto dal Pubblico ministero, in riferimento ad un immobile nella disponibilità degli indagati per i reati di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione. Sull’appello proposto dal Pubblico ministero, il Tribunale del riesame di Siracusa, in accoglimento dello stesso, convalidava l’anzidetto sequestro preventivo. Con successiva ordinanza il G.I.P. disponeva il dissequestro del bene che, nuovamente impugnata, veniva annullata dal medesimo Tribunale del riesame. Pertanto, il proprietario dell’appartamento proponeva ricorso per cassazione eccependo la violazione e falsa applicazione di legge, anche in ordine alla insussistenza del fumus commissi delicti e del periculum in mora, nonché in virtù della circostanza per cui il ricorrente, effettivo proprietario dell’immobile sequestrato, fosse estraneo alla vicenda processuale, non avendo neppure assunto la veste di indagato nel procedimento che aveva portato al sequestro del suo immobile. La Corte di cassazione - Nel merito della censura la Corte di Cassazione osserva come “l’appartenenza del bene al terzo estraneo al reato non è di per sé elemento ostativo alla legittimità del sequestro preventivo ai sensi dell’art. 321, comma 1, cod. proc. pen. (Sez. U, n. 25933 del 29/05/2008, dep. 26/06/2008), fermo restando che tale situazione comporta un dovere specifico di motivazione sul requisito del periculum in mora in termini di probabilità del collegamento di tali beni con le attività delittuose dell’indagato, sulla base di elementi che appaiano indicativi della loro effettiva disponibilità da parte dell’indagato (di recente, in questi termini, Sez. 2, n. 47007 del 12/10/2016, dep. 9/11/2016)”. Ciò posto, rileva la Suprema Corte, che il Tribunale del riesame ha motivato il sequestro dell’immobile con la necessità di impedire ulteriori impieghi criminosi dell’appartamento, anche in ordine agli elementi indiziari raccolti (“la suddivisione in due unità abitative dell’appartamento da parte di (conduttore), al quale, secondo un condomino, (proprietario) aveva venduto l’immobile circa dieci anni prima, e il rinvenimento, nella spazzatura del medesimo, di custodie di profilattici; la disponibilità delle chiavi in capo allo stesso, il quale pagava anche le spese condominiali; la presenza in pianta stabile di tre transessuali e il viavai di persone estranee al condominio nell’appartamento”). Conclude la Corte di Cassazione specificando che, per quanto concerne l’aspetto relativo alla proprietà dell’immobile in capo a terzi, i Giudici del riesame hanno posto in luce le concrete circostanze di fatto che, a loro giudizio, imponevano di configurare in capo all’asserito proprietario una proprietà solo formale del bene, atteso che la disponibilità dello stesso era del conduttore il quale, peraltro, aveva stipulato con il proprietario un contratto preliminare di vendita, così trasferendogli la detenzione qualificata dell’appartamento poi sequestrato. Tutte circostanze, a ben vedere, concretamente motivate e, comunque, insuscettibili di riesame da parte del Giudice di legittimità. Il ricorso, pertanto, è stato dichiarato inammissibile e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali. Puglia: il Consigliere regionale Franzoso (Fi) “sanità penitenziaria inadeguata” consiglio.puglia.it, 13 ottobre 2017 “Servono più posti letto per detenuti psichiatrici nelle Rems”. Sovraffollamento, carenza di personale sanitario e di sicurezza. Assenza di addetti specializzati al trattamento dei detenuti tossicodipendenti e con patologie psichiatriche. In sostanza uno standard di sanità penitenziaria insufficiente e, soprattutto, inadeguata alle specificità di una grossa fetta della popolazione penitenziaria. Sono, in estrema sintesi, alcune delle principali criticità rilevate, stamattina nel carcere di Taranto, durante il sopralluogo di Francesca Franzoso, consigliere regionale di Forza Italia e di una delegazione del partito dei Radicali. Ad accompagnare nell’ispezione direttrice e vicedirettrice, comandante e responsabile sanitario dell’istituto. “Dei 568 ospiti della struttura - dichiara Franzoso - ben 234 sono soggetti tossicodipendenti. Di questi 106 sottoposti a trattamento metadonico in assenza di personale specializzato dedicato. Le politiche sanitarie di intervento per il trattamento delle tossicodipendenze sono a dir poco insufficienti, servirebbe un presidio Sert disponibile ventiquattro ore”. Ma non basta. Tra le emergenze rilevate durante la visita ispettiva c’è anche quella, grave, dell’inadeguatezza terapeutica per i detenuti a carattere psichiatrico. “I numerosi ospiti con patologie psichiatriche - prosegue il consigliere regionale - dovrebbero essere trasferiti in apposite strutture, in residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza sanitarie, le Rems, dopo la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. Ma ad oggi, in Puglia, esistono appena due centri - quelle di Spinazzola e di Carovigno - con posti assolutamente insufficienti rispetto alla portata dell’attuale popolazione carceraria. Un problema, questo, che grava sul numero, già scarso, degli agenti di polizia penitenziaria”. Nessun riscontro ha avuto, inoltre, la presenza del garante regionale dei detenuti- appena riconfermato nel suo ruolo dall’attuale amministrazione regionale - che in cinque anni ha visitato la struttura appena quattro volte. Alla luce dei fatti Franzoso ha deciso di presentare all’assessore alla Sanità una interrogazione, per conoscere quali siano le intenzione del governo regionale in merito alla mancanza di posti nelle Rems pugliesi, che sta determinando forti disagi nelle carceri. “La Regione - conclude Franzoso - deve garantire anche ai detenuti psichiatrici il diritto ad una assistenza sanitaria dignitosa. Ringrazio Annarita Di Giorgio, dei Radicali, per aver promosso l’iniziativa e per aver contribuito ad accendere, ancora una volta, i riflettori sulla casa circondariale di Taranto”. Busto Arsizio: carcere sovraffollato, torna l’ombra della “sentenza Torreggiani” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 ottobre 2017 Su una capienza regolamentare di 238 posti disponibili, ci sono 425 presenze nell’istituto. Proprio per l’eccessivo numero di detenuti ospitati nel carcere lombardo (450) nel 2013 la Corte europea dei diritti dell’uomo condannò l’Italia. Siamo oramai alla terza branda nel carcere di Busto Arsizio, provincia di Varese. Se il sistema penitenziario è alle prese del sovraffollamento, il carcere bustese ne è la dimostrazione. A fronte di una capienza regolamentare di 238 posti disponibili, ci sono 425 presenze attuali. Ciò significa che attualmente sono reclusi il doppio dei detenuti, quindi ben oltre il limite di tollerabilità. Tutto ciò rende impossibile il recupero della persona e va ad influire sull’equilibrio della vita detentiva, e infatti si sono verificati dei problemi. L’ultimo episodio è successo il 4 ottobre scorso e lo hanno denunciato i due sindacalisti Antonio Costanzo della Cgil e Antonio Gioia della Cisl: “All’interno dell’istituto bustese - spiegano i sindacalisti - si è verificata l’ennesima aggressione nei confronti di quattro agenti da parte di un detenuto che si trovava nel reparto osservazione per scontare una sanzione disciplinare inflittagli proprio a causa dei suoi comportamenti violenti. L’uomo - continuano - dopo essersi procurato lesioni da taglio ha brutalmente aggredito nei locali dell’infermeria il vice comandante di reparto colpendolo con una testata, e successivamente gli agenti presenti nelle adiacenze, intervenuti per sedare l’aggressore. Trasportati in ospedale gli agenti hanno riportato lesioni da contatto, poi suturate, frattura ad una mano e contusioni multiple”. Il carcere di Busto Arsizio è conosciuto proprio per quello che costò all’Italia una condanna europea, la cosiddetta “sentenza Torreggiani”, per il sovraffollamento delle celle. Quando l’Italia subì la condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo, a Busto Arsizio, vi erano circa 450 detenuti. Quasi come il numero attuale, nonostante che l’anno scorso era stata aperta una nuova area con nuove celle per 72 posti. A dimostrazione che il sovraffollamento non lo si risolve aprendo nuove celle o nuove carceri, ma attraverso al ricorso come extrema ratio della carcerazione stessa. Il carcere bustese oltre al sovraffollamento, presenta il problema dell’organico penitenziario sottodimensionato. Non solo gli agenti, ma mancano anche altre importanti figure come quello dell’educatore professionale: c’è n’è solo uno in servizio, rispetto ai sei previsti. L’altro carcere. Il laboratorio di cioccolato e il teatro Il carcere di Busto Arsizio non è solo sovraffollamento. Non mancano, infatti, le attività teatrali promosse dal Consiglio regionale lombardo, in collaborazione con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Il 5 ottobre scorso è stato messo in scena sul palco del Pirellone di Milano, lo spettacolo, “Una sera fuori di galera”, liberamente tratto da La Giara e La Patente di Pirandello, che ha avuto come protagonisti proprio i detenuti del carcere lombardo. A Busto Arsizio oltre al corso di teatro. c’è anche un giornalino e non mancano i luoghi di aggregazione come il campo sportivo, due palestre, otto aule, due biblioteche, un locale di culto, cinque laboratori, due mense detenuti, corsi e attività scolastiche con più di centocinquanta iscritti, e infine duecento detenuti impegnati in attività non lavorative, tra cui la catechesi. Per finire, fiore all’occhiello, è il laboratorio di cioccolato. Si chiama “Dolci Libertà” ed è nato nel 2010, grazie alla collaborazione tra i soci privati fondatori del Progetto e l’Amministrazione penitenziaria. Un’area di circa 1200 mq era stata ristrutturata e trasformata in pochi mesi in un grande laboratorio di cioccolateria e pasticceria. Grazie agli investimenti sostenuti e all’esperienza maturata, il laboratorio “Dolci Libertà” è in grado di produrre a proprio marchio e per conto terzi una vasta gamma di prodotti rispettando i più alti standard produttivi e di confezionamento. “Dolci Libertà” ha ottenuto la certificazione ministeriale per le produzioni senza glutine e la certificazione per produzioni biologiche. Parliamo di prodotti creati dai detenuti che hanno ottenuto riconoscimenti nazionali e internazionali. Diverse sono le attività trattamentali all’interno del carcere, ma rischiano di vanificarsi se il sovraffollamento persiste. Varese: protesta dei detenuti dei Miogni, chiasso con colpi di pentole nella nottata di Simona Carnaghi La Provincia di Varese, 13 ottobre 2017 Nella tarda serata di mercoledì hanno preso il via le agitazioni per le condizioni di scarsa igiene. Via Felicita Morandi l’altro ieri sera è stata ancora una volta svegliata dalla rumorosa protesta inscenata dai detenuti nel carcere dei Miogni di Varese. Che è il solo modo che hanno per farsi letteralmente sentire dalla città esterna, hanno iniziato poco prima delle 23 a battere con pentole e oggetti metallici contro le sbarre delle celle. Tutti insieme, provocando lo stesso effetto di cento batterie che suonano all’unisono. E riuscendo a fare uscire dalla mura della casa circondariale la loro protesta. I detenuti, da giorni ormai, lamentano condizioni igienico sanitarie per così dire non ottimali all’interno dei Miogni. Un carcere vecchio, obsoleto, costruito in una zona non proprio ottimale e con problemi strutturali più e più volte segnalate alle competenti autorità. Il direttore Gianfranco Mongelli, un mese fa circa, in occasione della celebrazione della festa della polizia penitenziaria aveva riassunto la situazione aprendo il suo intervento: “una festa intima. Perché dire che i finanziamenti sono scarsi sarebbe errato. I finanziamenti mancano proprio del tutto”. Come dire: soldi qui non ne vengono investiti perché i fondi scarseggiano ovunque. Le condizioni della struttura sono assolutamente evidenti. E nel corso degli anni sono state più volte sottolineate. Lo scorso maggio i detenuti avevano protestato perché un guasto all’impianto televisivo aveva impedito la visione dell’incontro di Champions Juventus-Monaco. In molti avevano sorriso ma in realtà quella era stata soltanto l’ultima di una lunga serie di carenze. In occasione della visita pastorale ai detenuti, erano apparse evidenti situazioni di degrado quali il non funzionamento di parte dell’impianto di illuminazione interno al carcere. Oppure l’inagibilità della cappella interna alla struttura danneggiata da pesanti infiltrazioni. Tanto che i detenuti, di ogni religione, avevano lavorato nell’occasione per rendere lo spazio dove è stata celebrata la messa il più accogliente possibile in vista del Natale. Da oltre 15 anni si parla di una soluzione per i Miogni. Superato il problema del sovraffollamento (presente sino a qualche anno fa) restano le pesanti carenze strutturali. A turno dal carcere sono passati politici locali, regionali, nazionali, ministri e sottosegretari. S’era parlato di realizzare una struttura ex novo esterna al centro cittadino (davanti ai Miogni ci sono scuole e abitazioni). Un progetto che avrebbe portato a Varese un carcere nuovo di zecca, moderno e adeguato. Una seconda opzione era stata quella di mettere mano alla struttura esistente in modo efficace “inglobando” nell’area carceraria anche la palazzina che attualmente ospita la sede della polizia locale che sarebbe stata trasferita altrove. Un progetto ancora più imponente, dunque. Una sfida: rendere il carcere moderno e sicuro, senza spostarlo in periferia ma facendo restare la casa circondariale parte integrante del tessuto urbano. Un messaggio che era piaciuto a molti: la finalità della pena è rieducativa. Sbagliato isolare i detenuti, giusto che il carcere resti in città. Di fatto la situazione è rimasta immutata. E i fondi per intervenire sono rimasti nel limbo (qui chiaramente il livello è ministeriale non locale). In queste condizioni il “padellare” dei detenuti si farà sentire ancora molto a lungo. Rovigo: l’Ospedale avrà un reparto per le degenze dei detenuti Rovigo Oggi, 13 ottobre 2017 I detenuti del carcere di Rovigo trattati sotto il profilo della salute come tutti gli altri pazienti che si recano all’ospedale di Rovigo: per loro è stata infatti realizzata, nella maggiore sicurezza, un’area degenza con tre posti letto e relativi servizi. Prossimamente nella nuova struttura carceraria verrà anche fatta una sala di riabilitazione, la prima in tutto il Triveneto. Un’area destinata alla degenza in regime penitenziario. È ciò che è stato destinato all’ospedale Santa Maria della Misericordia dell’ospedale di Rovigo cha da oggi si compone di due stanze per tre posti letto e relativi servizi accessori per i pazienti in stato di detenzione carceraria. La divisione è stata realizzata presso il vecchio Pronto soccorso, posto in adiacenza all’area ambulatoriale della Uoc cardiologia, all’estremo est del primo piano del corpo M. All’inaugurazione erano presenti i vertici dell’Ulss 5 Polesana, il direttore generale Antonio Compostella ed il direttore sanitario Edgardo Contato oltre a Paolo Malato, direttore del carcere di Rovigo, ed Enrico Sbriglia capo del Provveditorato regionale per il Triveneto, ossia l’ufficio periferico del ministero della Giustizia, dipendente dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Il progetto di messa in ristrutturazione è stato finanziato dalla Regione Veneto ed è costato complessivamente 158mila euro. Come ha spiegato Compostella l’area è di 113mq prevede aree accessorie, suddivise in un filtro di sicurezza accesso, due stanze di degenza con servizi igienici adeguati per utenti diversamente abili, un locale a disposizione per gli agenti di polizia penitenziaria con annesso wc, corridoio di collegamento, zona filtro di sicurezza antincendio. Sono state sostituite tutte le finiture interne e tutta l’impiantistica è stata ricostruita ed adeguata alla vigenti normative. La zona è resa sicurissima da un dedicato sistema di chiusure e risulta facilmente raggiungibile dall’esterno attraverso la pensilina già in uso presso l’ex pronto soccorso, o attraverso il piano terra con il duplice percorso verticale. “È raro trovare chi si occupi del diritto della salute del detenuto” ha affermato Sbriglia che ha spiegato come questo porterà ad un risparmio sul piano economico poiché “una cura veloce del detenuto garantisce anche maggiore tutela a tutta la comunità. Questo si aggiunge all’altro futuro servizio che verrà effettuato in carcere, ossia quello della prima sala di riabilitazione in tutto il Triveneto del detenuto dove è in fase di ultimazione il progetto”. Taranto: i Radicali “sovraffollato e con poco personale”, ecco le emergenze del carcere laringhiera.net, 13 ottobre 2017 Sovraffollamento, carenza di personale, elevata presenza di detenuti con problemi di tossicodipendenza. Sono questi alcuni dei problemi di cui soffre il carcere di Taranto, emersi durante la visita effettuata dal consigliere regionale di Taranto Francesca Franzoso (Forza Italia) e da Annarita Digiorgio dei Radicali Italiani. “Ad oggi - scrive l’esponente radicale - sono 568 i detenuti presenti a fronte di una capienza regolamentare di 306. Sono diminuiti quelli in custodia cautelare pari a 156 anche se sono quelli in maggiore difficoltà poiché in attesa di sentenza non possono accedere alle attività trattamentali. 114 detenuti definitivi sono Lavoranti alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria che compie un notevole sforzo in tal senso. Scarsa, infatti, è la presenza di attività private che assumono detenuti usufruendo della legge Smuraglia. Numerose le attività scolastiche e ricreative organizzate dalla direzione, manca però uno spazio per le attività sportive. In tal senso non condividiamo la scelta di costruire il nuovo padiglione che amplierà l’istituto di altri duecento posti, proprio sul suolo del campo da calcio, unico spazio sportivo presente”. Il carcere è oggetto di numerosi interventi di ristrutturazione: sale colloqui, padiglioni a sorveglianza dinamica. “E questo - sottolinea Digiorgio - grazie all’attenzione della direzione. Certo, la struttura paga il prezzo di carenze strutturali come l’assenza delle docce in cella e la presenza di bagni non separati dalla cucina”. L’esponente dei radicali sottolinea che “tutti i detenuti con cui abbiamo parlato si sono complimentati per come vengono trattati dal personale penitenziario, il quale compie egregiamente il suo lavoro al massimo degli sforzi e soprattutto in grave carenza di organico”. Sono 60 gli agenti di polizia penitenziaria in meno rispetto alla pianta organica prevista ai quali si aggiunge la carenza del 50% di educatori e psicologi. “Questa carenza di personale - prosegue Digiorgio - aggiunta al sovraffollamento dei detenuti non permette alla direzione di effettuare numerose attività rieducative. Manca anche, nonostante più volte chiesto dalla direzione, la figura del mediatore interculturale indispensabile per integrare gli extracomunitari presenti”. Il personale sanitario ha lamentato la difficoltà di gestire i detenuti ad evidenzia psichiatrica. “La stessa cosa - continua - vale per i tossicodipendenti, in altissimo numero: 234. Anche in questo caso la mancanza di comunità terapeutiche e Sert regionali cui affidarli li costringe al carcere”. Cuneo: “carcere di Alba tutto riaperto nel 2018? impossibile, i lavori dureranno di più” di Cristina Borgogno La Stampa, 13 ottobre 2017 Le perplessità del garante dei detenuti sul cronoprogramma del ministero. “Al di là della conferma dei 2 milioni di euro per i lavori di ristrutturazione previsti nei fondi per l’edilizia penitenziaria e confermati, le ultime notizie non sembrano così confortanti. A preoccupare non sono tanto i tempi più o meno lunghi, ma il mutare sistematico delle previsioni in pochi mesi, quasi a sottendere la mancanza di una reale capacità o volontà di programmazione”. All’indomani della pubblicazione del cronoprogramma per la riapertura totale del carcere di Alba - chiuso a gennaio 2016 dopo tre casi di legionella, il garante comunale dei detenuti, Alessandro Prandi, commenta il documento facendo un po’ di cronistoria e mettendo in fila le nuove date. Con il risultato che, al momento, dopo varie promesse non mantenute, i conti non tornano. “Ma le garanzie ci sono” - “Nonostante l’interessamento costante dell’amministrazione comunale e dei rappresentanti albesi in Parlamento sulla vicenda che è di completa competenza dello Stato - spiega Prandi -, le dichiarazioni del sottosegretario Federica Chiavaroli e il cronoprogramma giunto dopo l’interrogazione del deputato Mariano Rabino sono sconcertanti. A luglio 2016, Chiavaroli dichiarò in Parlamento che “il completo recupero sarebbe stato fatto per fine 2017”. A parte i ritardi, ora apprendiamo che le fasi di appalto dureranno 6 mesi, 2 se il progetto fosse considerato riservato: si sta tra marzo e giugno 2018 e, se per i lavori occorrono “365 giorni naturali e consecutivi”: la fine è quindi prevedibile per gli ultimi mesi del 2019, senza considerare interruzioni, collaudo e riconsegna. Anche con eventuali consegne frazionate, pare difficile individuare la fine del 2018 come riapertura anche solo parziale degli attuali padiglioni fuori servizio”. “Carta canta” - “Ho notato le stesse incongruenze - conferma il presidente di Scelta Civica, Rabino. Ma si tratta di un documento ufficiale, ottenuto dopo aver tallonato il ministro. Come si dice “carta canta”. Sottoporrò un nuovo question-time per chiedere come si intendano far rispettare i tempi”. Anche per il sindaco Maurizio Marello, ricevuto pochi giorni fa a Roma dalla sottosegretario Chiavaroli, “il cronoprogramma è positivo e detta tempi massimi. Prandi fa bene a tenere alta l’attenzione, ma oggi le garanzie ci sono. Il documento conferma la volontà di riaprire e l’infondatezza di indiscrezioni trapelate in questi mesi. Ricordo che l’europarlamentare Alberto Cirio parlò di un centro di accoglienza: spiace che personaggi importanti creino panico in modo infondato solo per qualche voto”. Dal carcere alla politica, la replica di Cirio: “Dopo un anno di silenzio, il primo sopralluogo è stato fatto il giorno dopo la mia provocazione: sono sempre più convinto che se non l’avessi fatta il carcere sarebbe ancora chiuso. E credo che la stessa forza dovremmo usarla anche per rivendicare le altre esigenze della nostra città”. Sondrio: stanza della familiarità, padri e figli insieme anche dietro le sbarre di Susanna Zambon Il Giorno, 13 ottobre 2017 È stata annunciata durante la “Cena del solstizio d’estate”, e ora la “Stanza della familiarità” è realtà nel carcere di Sondrio. Una stanza dedicata a quei brevi momenti di intimità padre e figlio, all’interno della struttura di via Caimi, un progetto che la direttrice Stefania Mussio già a giugno aveva voluto presentare nel corso di una serata promossa per raccogliere fondi da destinare ai lavori. La “stanza della familiarità”, dove i detenuti potranno dar vita ai colloqui con i loro familiari e “ricevere” in un ambiente più idoneo e accogliente i loro bambini, è stata inaugurata ufficialmente martedì dalla direttrice dell’Istituto penitenziario, che ha spiegato da cosa è nata questa idea a cui tiene in modo particolare. “Se chiedi a qualunque detenuto cosa gli manchi di più in carcere, quasi tutti, rispondono la famiglia - ha affermato Mussio. Una risposta, quella data da 8 detenuti su 10, che fa ben capire come costruire spazi di relazione significhi costruire spazi di vita”. “È fondamentale un luogo accogliente e rassicurante che favorisca dialogo e relazioni - ha spiegato Loretta Cerruti, volontaria alla casa circondariale del capoluogo nell’ambito dei colloqui d’ascolto con i detenuti - L’incontro è con i familiari, ma anche con sé stessi: la stanza deve essere un luogo dove le parole non siano muro, ma finestre spalancate sull’esterno”. La realizzazione è stata possibile grazie al contributo di persone e imprenditori del capoluogo, e a ricordarlo e renderlo indelebile c’è la targa scoperta martedì, che recita: “Alla solidarietà e alla generosità dei cittadini sondriesi”, riportando i nomi dell’architetto Carlo Mazza che ha curato il progetto, il geometra Fabrizio Ruttico che ha operato per conto dell’Impresa Rigamonti, Davide Martocchi dell’omonima azienda di serramenti, Marco De Buglio della Cover System per i pavimenti, Elena Rigamonti di Illumina, Angelo Passoni di Arte & Forme, la Camera Penale di Sondrio, il Lions sempre del capoluogo e Gionni Gritti dell’omonima impresa, fino alla signora Aldina che ha preparato la tenda per la finestra. I lavori per la nuova stanza famigliarità sono stati realizzati, invece, da quattro detenuti sotto la guida dell’assistente capo Paolo Manfredi. Sondrio: inaugurata la stanza della famigliarità, “un luogo per il dialogo e le relazioni” di Giuseppe Maiorana La Provincia di Sondrio, 13 ottobre 2017 Cerimonia di apertura della nuova struttura all’interno della casa circondariale. La direttrice: “Quando chiedi ai detenuti cosa manca loro di più, otto su dieci dicono la famiglia”. “Quando chiedi ai detenuti cosa manca loro di più quando sono in carcere, otto su dieci ti rispondono la famiglia: basterebbe questo per rendersi conto di come costruire spazi di relazione significhi costruire spazi di vita”. Con queste parole la direttrice della casa circondariale di Sondrio Stefania Mussio ha sintetizzato l’importanza di aver realizzato all’interno della struttura sondriese una nuova stanza famigliarità, dove i detenuti potranno dar vita ai colloqui con i loro familiari e “ricevere” in un ambiente più idoneo e accogliente i loro bambini. Superare le discriminazioni “In una risoluzione del Parlamento Europeo di pochi giorni fa - ha sottolineato la docente dell’Università Bicocca di Milano Silvia Buzzelli, invitata all’inaugurazione - si afferma la necessità di superare le discriminazioni che potrebbero subire i figli dei detenuti: la società dovrebbe essere equa e inclusiva, ed è fondamentale salvaguardare il rapporto genitoriale dotando le carceri di spazi idonei ai minori. Si tratta di interventi di buon senso e il senso buono dell’inaugurazione di questa struttura è mettere in pratica queste parole”. La nuova stanza famigliarità della casa circondariale è stata realizzata grazie al contributo di persone e imprenditori del capoluogo e non è un caso che la targa al suo ingresso faccia riferimento proprio “alla solidarietà e alla generosità dei cittadini sondriesi”, riportando i nomi dell’architetto Carlo Mazza che ha curato il progetto, il geometra Fabrizio Ruttico che ha operato per conto dell’Impresa Rigamonti, Davide Martocchi dell’omonima azienda di serramenti, Marco De Buglio della Cover System per i pavimenti, Elena Rigamonti di Illumina, Angelo Passoni di Arte & Forme, la Camera Penale di Sondrio, il Lions Club sempre del capoluogo e Gionni Gritti dell’omonima impresa, fino alla signora Aldina che ha preparato la tenda per la finestra. I lavori per la nuova stanza famigliarità sono stati realizzati, invece, da quattro detenuti sotto la guida dell’assistente capo Paolo Manfredi. Progetti da raccontare L’inaugurazione è stata preceduta da un momento di incontro nella palestra della casa circondariale, durante il quale oltre a Silvia Buzzelli sono intervenute anche Paola Lassandro, attiva da 25 anni nell’ambito della cooperazione sociale e Loretta Cerruti, volontaria alla casa circondariale del capoluogo nell’ambito dei colloqui d’ascolto con i detenuti. Lassandro ha raccontato il suo impegno in una serie di progetti e iniziative nelle carceri di Torino e Asti, volti a creare ambienti e condizioni più sereni e adeguati per l’incontro dei detenuti con i loro familiari. Dal canto suo, invece, Loretta Cerruti è scesa nei dettagli della sua attività nella casa circondariale di Sondrio, che ha preso il via a gennaio di quest’anno: “È fondamentale - ha concluso la Cerruti - un luogo accogliente e rassicurante che favorisca dialogo e relazioni. L’incontro è con i familiari, ma anche con sé stessi: la stanza deve essere un luogo dove le parole non siano muro, ma finestre spalancate sull’esterno”. Massa Marittima (Gr): dal carcere al giardino di Norma, saranno i detenuti a curarlo ilgiunco.net, 13 ottobre 2017 “La certezza di stare dove bisogna essere è un modo di dare significato alla vita”: con queste parole riprese da un articolo di giornale pubblicato nei giorni scorsi, l’assessore alle Politiche sociali Tiziana Goffo ha concluso l’incontro con alcuni ospiti della casa circondariale di Massa Marittima, che hanno aderito al progetto di volontariato per la cura e manutenzione del giardino dedicato a Norma Parenti. Si tratta di un percorso basato sulla firma di una convenzione tra l’istituto penitenziario, la cooperativa sociale Il Nodo e l’amministrazione Comunale, che negli ultimi anni ha visto la realizzazione di percorsi volti all’inclusione sociale e lavorativa dei soggetti in esecuzione di pena. Questa mattina tre dei dodici detenuti che hanno aderito al progetto hanno partecipato al primo incontro dimostrativo nello spazio pubblico che ospita l’opera di via Maremma, “Sol omnibus lucet”: ad accoglierli sul posto, insieme al direttore della casa cx Carlo Mazzerbo e all’educatrice Marilena Rinaldi, c’erano l’artista realizzatrice dell’opera Maria Dompè, l’assessore Goffo, l’architetto del Comune Sabrina Martinozzi e l’archeologo Alessandro Fichera, che per conto dell’Università di Siena realizzò prima della creazione del giardino, gli scavi sulle abitazioni duecentesche che furono scoperte a poche decine di centimetri di profondità dalla superficie. Presente anche l’insegnante Alfredo Laudati dell’Istituto Comprensivo Breschi, a raccontare il significato di quest’opera per i giovani studenti, che un anno fa lasciarono i loro desideri racchiusi in un “pozzo” al centro dell’area e che oggi ancora lo vivono e studiano. È stata la stessa artista a mostrare agli ospiti della casa circondariale disponibili per i lavori di manutenzione, tutte le cure specifiche necessarie al giardino per continuare a cambiare colori e odori in ogni stagione: dalla pulizia degli irrigatori alla potatura delle rose selvatiche, fino alla concimazione dei giacinti blu, tutto per continuare a tenere in vita un luogo divenuto pieno di bellezza, paesaggio e storia per i turisti che lo visitano e piacevole da frequentare liberamente per i massetani. “La bellezza e la cura - ha detto l’architetto del Comune Sabrina Martinozzi - portano altra bellezza e cura. È per questo che con le economie dei finanziamenti destinati alla valorizzazione delle mura civiche - spiega - decidemmo di recuperare questo luogo che era degradato e abbandonato e permettere alla comunità di riappropriarsene. La partecipazione di tutta la città lo ha reso così piacevole e fruibile come è oggi”. La mattinata si è conclusa con una visita all’interno della casa circondariale, a cui tutti gli ospiti interessati hanno partecipato, facendo domande sul giardino. Pesaro: volontariato e formazione in carcere, l’impegno di Bracciaperte Onlus di Monica Cerioni pesaronotizie.com, 13 ottobre 2017 Oltre ai corsi di formazione professionalizzanti per detenuti e detenute negli istituti penitenziari di Pesaro e Ancona, l’associazione è ora presente anche nel carcere di Fossombrone, sezione alta sicurezza, con un corso per tecnico elettrodomestici. Con il nuovo a.s. riprenderà anche il progetto dell’associazione nelle scuole per sensibilizzare e informare sui temi della legalità, l’istituzione carceraria, problematiche e percorsi di volontariato nelle carceri Continua a spron battuto, allargando il suo raggio d’azione, l’impegno solidale dell’associazione di volontariato pesarese Bracciaperte all’interno delle carceri marchigiane. Da inizio anno infatti, la Onlus, guidata dal giovane e instancabile presidente Mario Di Palma, ha realizzato un corso di formazione per tecnico elettrodomestici nel carcere di Ancona - Barcaglione, che ha coinvolto 30 detenuti, e un corso per segretaria in centri di assistenza tecnica, con 10 detenute nella sezione femminile del carcere di Villa Fastiggi - Pesaro. Un nuovo corso per riparatore di elettrodomestici, cui partecipano 14 detenuti, è stato avviato a settembre nella casa circondariale di Ancona - Montacuto, e per la prima volta l’associazione sta svolgendo un corso analogo anche nel carcere di Fossombrone, sezione alta sicurezza, coinvolgendo 10 detenuti. Domani inoltre (venerdì 13 ottobre) i volontari della Onlus saranno nel carcere di Villa Fastiggi per la consegna degli attestati alle detenute che hanno partecipato al corso per segretaria, per l’avvio, anche qui, di un corso per tecnico elettrodomestici, e per relazionare sulle attività e i progetti svolti all’interno del carcere, alla presenza della direzione carceraria e di esponenti dell’Ats n. 1 (Ambito Territoriale Sociale). Oltre alle attività promosse dietro le sbarre, l’associazione Bracciaperte ha cominciato dallo scorso anno scolastico e proseguirà anche quest’anno, un progetto di promozione del volontariato, fatto di incontri nelle scuole secondarie del territorio, con l’obiettivo di sensibilizzare, informare e far riflettere i giovani in particolare sui temi della legalità, l’istituzione carceraria e le sue finalità, le problematiche della vita in carcere e i percorsi di volontariato con i detenuti. La mission dell’associazione Bracciaperte Onlus è migliorare la qualità di vita all’interno delle carceri attraverso corsi formativi professionalizzanti e donazioni di attrezzature e materiali (vestiario, libri, altri materiali di necessità), utili sia alla vita detentiva che all’organizzazione di laboratori didattici e corsi per apprendere lavori artigianali. Sassari: memoria del carcere, Orlando sostiene il progetto-Asinara La Nuova Sardegna, 13 ottobre 2017 I contenuti dell’Osservatorio della memoria carceraria dell’Asinara e i risultati del recupero e della digitalizzazione dei vecchi archivi del carcere - resi pubblici con il coinvolgimento di una ventina di detenuti in articolo 21 - avranno una continuità di ricerca attraverso l’attivazione di un protocollo d’intesa da stipulare con l’amministrazione penitenziaria regionale. Lo ha garantito il ministro della Giustizia Andrea Orlando, presente nei giorni scorsi a Isili per seguire la presentazione del progetto “Liberamente” che vede il Parco nazionale dell’Asinara partner e protagonista attivo. “Il ministro Orlando si è impegnato a dare continuità alla collaborazione con l’Asinara - dice il vicepresidente dell’Ente Parco, Antonio Diana - e sarà così possibile proseguire il lavoro di digitalizzazione dei vecchi archivi e impiegare altri detenuti, in articolo 21, come guide dell’Osservatorio della memoria e manutentori delle strutture presenti nell’isola in capo al ministero della Giustizia”. La salvaguardia della storia penitenziaria dell’Asinara proseguirà anche grazie all’impegno del Guardasigilli, dunque, per valorizzare ulteriormente un’attività durata anni con il recupero di tantissimo materiale: in parte donato da ex agenti di polizia penitenziaria, ma in gran parte trovato disperso nelle abitazioni abbandonate dell’isola. Oggetti di uso quotidiano, strumentazioni da lavoro, fotografie, lettere, oggetti personali e soprattutto il recupero del vecchio archivio del carcere dislocato all’interno della casa di reclusione di Alghero, che sta permettendo di ricostruire 115 anni di vita dell’isola. Alcuni elementi di questo materiale sono già esposti al pubblico all’interno dell’Osservatorio di Cala d’Oliva, con un’attenzione particolare nei confronti di tutte le persone protagoniste delle vicende. Il lavoro rappresenta un altro tassello nella conoscenza della ricchezza ambientale e storica dell’isola e un nodo nella rete delle strutture recuperate e gestite dal Parco per i servizi istituzionali e la fruizione turistica sostenibile. Firenze: scrittori in carcere, per insegnare ai detenuti l’arte del romanzo Redattore Sociale, 13 ottobre 2017 Nel penitenziario fiorentino di Sollicciano, famosi autori di libri terranno un corso ai reclusi e alle persone provenienti fuori dal carcere. Tra gli ospiti Caminito, Baldanzi, Leogrande. Gli scrittori entrano in carcere per stimolare i detenuti alla scrittura creativa. È il progetto di Arci Firenze denominato “Scrittura d’evasione”, giunto al terzo anno consecutivo, che si terrà nel carcere di Sollicciano. A partire da martedì 28 novembre e fino alla fine di maggio, il martedì pomeriggio le aule della scuola del carcere - anche per questa edizione - si apriranno agli scrittori, tra cui Giulia Caminito, autrice de “La grande A”, Simona Baldanzi, il cui ultimo libro “Maldifiume” ha riscosso uno straordinario successo, lo scrittore Alessandro Leogrande, vicedirettore della rivista “Lo Straniero” e la poetessa, performer e saggista Rosaria Lo Russo. Le lezioni di scrittura saranno aperte, oltre che ai detenuti, al pubblico proveniente da fuori del carcere, per un massimo di dodici iscritti (iscrizioni su www.arcifirenze.it). Quest’anno per la prima volta il corso si snoderà lungo un tema definito: quello del reportage, del racconto del mondo e delle proprie esperienze attraverso immagini, attraverso ritratti di persone, luoghi ed episodi capaci di tratteggiare una tela più ampia e sfaccettata. Per questo, tra gli autori che parteciperanno ci sarà il giornalista Saverio Tommasi e, in veste di documentarista, anche LorenzoHendel, regista televisivo già responsabile editoriale della trasmissione DOC3 - lo storico spazio di Rai3 dedicato ai documentari. “Nel corso delle passate edizioni, - commenta Monica Sarsini, curatrice del progetto - abbiamo potuto vedere come sia cresciuta la viva passione che gli allievi dimostrano nei confronti del corso. Altro grande motivo di gioia è poi la conferma, anno dopo anno, di molti degli autori che collaborano, a dimostrazione dell’alto valore umano e creativo di questa esperienza. Su tutti, le ormai affezionate Roberta Mazzanti, Ernestina Pellegrini e Augusta Brettoni che, nel corso delle tre edizioni, mi hanno affiancata con partecipazione sempre crescente”. “Il corso rappresenta davvero al meglio i nostri valori - dice Jacopo Forconi, presidente di Arci Firenze - Parteciparvi significa entrare in contatto con scrittori e professionisti davvero eccellenti e aver l’opportunità di imparare molto da loro, ma soprattutto significa stabilire delle relazioni umane capaci di lasciare davvero una traccia. In un’epoca in cui tutto appare filtrato dal virtuale, questo corso assume un valore ancor più significativo per la sua capacità di far immergere le persone in mondi diversi dal proprio quotidiano, aiutandoli a conoscere realmente l’altro”. Come già lo scorso anno poi, il corso, farà uscire la parola scritta dal carcere, attraverso la diffusione dei racconti sull’emittente fiorentina Novaradio di cui Arci Firenze è editore, racconti tra i quali si annoverano già i vincitori di diversi premi nazionali. Pescara: torna la “Colletta del Libro” destinata ai detenuti di Martina Franchion cityrumors.it, 13 ottobre 2017 Sabato 14 ottobre, in diverse librerie di Pescara, si svolgerà la quinta edizione della “Colletta del Libro”, iniziativa promossa dall’associazione Stella del Mare, dalla Caritas Pescara-Penne e dalla Casa Circondariale di Pescara con il patrocinio del Comune e della Provincia di Pescara, e la collaborazione dell’associazione Percorsi e della Croce Rossa Italiana. Verrà chiesto di acquistare un libro e poi donarlo: tutti i libri raccolti sono destinati ai detenuti del carcere o per i minori in case famiglia di Pescara e dintorni. “Pensiamo che dare la possibilità di elevare la cultura delle persone, li aiuti nel loro percorso di recupero e inserimento nella società civile”, ha dichiarato la professoressa Paolone, nonché presidente di Stella del Mare. Anche quest’anno tra i volontari che si alterneranno davanti le librerie coinvolte, ci saranno dieci detenuti in permesso speciale che chiederanno di acquistare libri. Per loro è un’occasione per poter restituire in parte alla società il loro contributo. Le librerie coinvolte sono: Mondadori (Corso Vittorio Emanuele),Edizioni San Paolo (Corso Vittorio Emanuele), Feltrinelli (Via Milano), Primo Moroni (Via Quarto dei Mille), Rusconi librerie (Stazione centrale), Mondadori (Via Milano), Giunti al Punto (Corso Vittorio Emanuele), On the road Galleria Europa 2 (C.so Umberto - Montesilvano), Giunti al Punto (Centro commerciale Arca - Spoltore). Vigevano (Pv): Rega, ex camorrista, ora attore e scrittore “il teatro mi ha salvato la vita” inforete.it, 13 ottobre 2017 La durissima realtà del carcere, in questo caso senza via di fuga (con l’ergastolo, il “fine pena mai”) e il teatro come arma di redenzione, di riscatto, di speranza. L’incontro con Cosimo Rega di stasera (giovedì) alle 20.30 al Moderno, in via San Pio V a Vigevano, non sarà privo di emozioni e suggestioni profonde. Lui, 65 enne, ex camorrista, sta scontando la sua pena. Ma nel frattempo ha vinto un Orso d’Oro al Festival del cinema di Berlino nel 2012 col film “Cesare deve morire”, diretto dai fratelli Taviani. A Vigevano presenterà la sua autobiografia, “Sumino o Falco”, che ha richiesto quattro anni di lavoro. “Ma - chiarisce subito lui - il titolo non c’entra con la camorra. “Sumino”, dalle mie parti, è il diminutivo di “Cosimo”. E “Falco” è il soprannome con cui, da sempre, è conosciuta la mia famiglia”. Che cosa ti ha veramente salvato e fatto cambiare vita? “Dietro le sbarre ero riuscito a crearmi un pezzo di paradiso. Non l’ho nemmeno cercato. Ma ero arrivato a un punto di non ritorno anche nei rapporti coi miei familiari, gente per bene. All’inizio il teatro mi serviva per passare la giornata, per non pensare. Poi è diventato una magia, non più un passatempo. Dovevo essere il suo servitore, non servirmene. Ho iniziato a studiare, non volevo che i miei nipotini avessero un ricordo pessimo del loro nonno, dei crimini che ha compiuto. Il teatro per me è stato quello che Virgilio fu per Dante”. Cosa vuoi comunicare al pubblico del Teatro Moderno? “La mia vera speranza è quella di parlare con gli spettatori. Di avere un dialogo con loro e che mi facciano delle domande, anche forti. Le persone non hanno l’esatta percezione della camorra. Si sa poco dei meccanismo che porta un ragazzo a sbagliare: spesso non ci sono alternative e ci vuole pochissimo per scivolare. I guadagni facili, la bella vita. E i giovani si perdono. Ci vuole poco a diventare camorristi dove non ci sono ideali e modelli positivi, dove i valori vengono distrutti, dove non c’è cultura. Io voglio parlare di questo. Vorrei che la gente ne parlasse con me”. Parli spesso di “cultura” come rimedio ai problemi e alla quotidianità del carcere. “Certo. Le carceri hanno un’anima (negativa) che ti avvolge, insieme alle loro regole. Chi ci vive molte volte è vittima dell’ignoranza. Non ha potuto costruire da ragazzo un edificio sociale e un suo humus culturale. Ma poi, in prigione, la “criminalità” diventa “cultura” e si combatte contro la cultura vera. Trovo sbagliato costruire carceri dentro le carceri: bisogna invogliare le persone alla conoscenza. Se si riuscisse a salvarne anche solo uno sarebbe già un grande traguardo. I detenuti si abituano a cose che fuori sono anormali. Loro le trovano normali. Ma, e voglio precisarlo assolutamente, si tratta di persone che hanno sbagliato. che hanno fatto del male. Devono accettare di essere stati dei carnefici ma comunicare con la cultura, con la conoscenza, con l’arte i loro errori e trovare la loro strada positiva. Non c’è un altro modo, davvero”. Milano: “Ci avete rotto il caos”, il carcere di Bollate in scena di Giusi De Roma viveremilano.info, 13 ottobre 2017 I detenuti del IV reparto diventano attori e registi in collettiva e realizzano un cortometraggio. Attività teatrale e formazione nel mese di ottobre si alternano nel carcere di Bollate che vede i detenuti scrittori, protagonisti e spettatori. Dal 9 al 13 ottobre 2017 all’interno del Teatro IN-Stabile della II Casa di Reclusione l’associazione Lieux Fictifs, realtà impegnata da anni nel lavoro sulle “frontiere” della società attraverso un lavoro artistico che include video e arti performative tiene un workshop intensivo “In Living Memory”. Il progetto è realizzato grazie alla Comunità Europea e alla Cultural and Educational Agency of Bruxelles. Mentre con materiale d’archivio messo a disposizione dalla Fondazione Cineteca Italiana i detenuti-studenti realizzano un cortometraggio guidati da Caroline Caccavale e da Joseph Cesarini, fondatori di Lieux Fictifs, da Michelina Capato, direttrice artistica e regista della compagnia teatrale E.s.t.i.a., e da Roberto della Torre, responsabile dell’Archivio Storico di Fondazione Cineteca Italiana. Con la pièce “Ci avete rotto il caos”, in scena il 12 e 13, il 19 e il 20 di ottobre tante storie si susseguono ma è come se fosse una. La difficoltà di vivere la fragilità è una condizione che affligge il genere umano. Uomini che si sentono o che si devono sentire forti perché è questo che chiede la società, ma che a un tratto devono fare i conti con le loro insicurezze e le loro paure. Ed ecco che ci si ritrova in una dimensione dove c’è bisogno di ricostruire un equilibrio nuovo. Basta mettersi comodi, ascoltare e lasciarsi travolgere dall’umanità dei detenuti. I baci feroci di Saviano per il trono di Gomorra di Massimo Giannini La Repubblica, 13 ottobre 2017 Esce il nuovo libro dello scrittore, sequel ideale della “Paranza dei bambini”, ispirato alla faida tra gang di giovanissimi. Non per la fame, né per l’iPhone. Se i bambini di Napoli rubano, sparano, molto spesso uccidono, lo fanno perché le cose “vanno accussì”, in quel paradiso abitato da diavoli. Lo fanno perché dove regna la camorra, dove non esiste il diritto e dove le strade non hanno nome, “la vita di ogni criaturo sfida la morte, così come deve essere, finché la morte non se lo piglia”. Eccola, nel linguaggio ruvido del disincanto, la morale di Bacio feroce, l’ultimo regalo di Roberto Saviano a un Paese che non si vuole specchiare nelle sue miserie. Un affresco dolente e potente su una generazione criminale appena nata e già perduta. Che vive e muore senza conoscere infanzia. Che affoga la rabbia in un’adolescenza fulminea di polvere e piombo. Che sa di avere davanti una sola missione esistenziale: stabilire, nel fuoco di una battaglia dove bene e male non esistono, chi sarà preda e chi predatore. Per chi ha già conosciuto ed amato “La paranza dei bambini” (sempre Feltrinelli), il nuovo libro di Saviano è il secondo capitolo di una saga quasi pasoliniana. L’ascesa dei “muschilli” che diventano grandi e che scalano a colpi di mitra la cupola mafiosa del narcotraffico. Cercano di prendersi il Centro Storico della città, scalzando le vecchie famiglie e tessendo alleanze con le nuove. La vita agra di ‘O Marajà e di Tucano, di Dentino e Pesce Moscio, di Drone e Biscottino, rimanda alla “Vita Violenta” di Tommasino e di Zimmio, di Ugo e Carletto, di Budda e Zucabbo. Lì era Pietralata, qui è Forcella. E se in Pasolini trasudava la “pietas” per quei figli derelitti del proletariato, in Saviano emerge la pena per quelle “criature” della piccola borghesia. Carne viva, ma portata al macello da madri che la nutrono di veleno e vendetta, perché “si ‘a strada r’o bbene nun c’ha purtato niente, la strada del male porterà qualcosa”. Sulle orme di Pasolini, Saviano è uno dei pochi intellettuali, forse l’unico, che ha ancora il coraggio di sfidare le convenzioni e le convenienze. Di rompere il conformismo, con scritti e parole “corsare”. Sui migranti o sul fine vita. Sulla liberalizzazione della cannabis o sulla corruzione. Le organizzazioni criminali sono la sua giusta ossessione civile. E su quelle, più ancora che su tutto il resto, ci chiama da tempo a un brutale risveglio. Nell’eterno reality in cui ci hanno immerso le serie tv, rinunciamo a tirare fuori la testa per guardare in faccia la realtà. Non ci rendiamo più conto che il reale è già molto più “oltre” rispetto al virtuale. Ogni riga di Saviano sta lì a ricordarcelo. Crediamo che sia solo un romanzo, la breve epopea di Nicolas. Costellata di baci d’amore e di morte, di baci normali e di baci feroci “che non conoscono limiti... vogliono essere ciò che baciano... e lasciano sempre un sapore di sangue”. La guerra quotidiana per il controllo delle piazze di spaccio, con i suoi eserciti in lotta e i suoi caduti sul campo. Gli amici massacrati e le torture inaudite, le teste mozzate e i denti strappati. Poi le “stese”, le sparatorie, gli omicidi. Materia estrema ed inerte, sceneggiatura già pronta per il prossimo film, come i libri migliori di Don Winslow, da Il potere del cane a I re del mondo. E invece no. Come già per Gomorra, Saviano affonda le mani in un’altra materia, vibrante e persino più estrema: la cronaca di ogni giorno. Quella nascosta. Quella che non vediamo, o fingiamo di non vedere. Nicolas Fiorillo, detto appunto ‘o Marajà, in questo tragico sequel della Paranza dei bambini è solo l’alter ego letterario di un baby boss nato e morto sul serio: Emanuele Sibillo, adolescente capo- clan dei “Nuovi Giuliano”, assassinato il 2 luglio di due anni fa a Forcella, con una pistolettata alla schiena, dalla banda rivale dei Buonerba. Come Nicolas, Emanuele non aveva ancora compiuto vent’anni, ma si portava già dietro una scia impetuosa di sangue. Nel libro, Nicolas avverte il vecchio ras del quartiere: “Io non sono nato per fare il principe, io sono ‘o re...”. Rimprovera suo padre davanti alla tomba del fratellino assassinato in una faida: “Il perdono è per i deboli come te... ‘O tiempo pè fa crescere ‘a criatura ce sta sempre, è ‘o tiempo ‘e addiventa capo che se ne fuje...”. Nella realtà, Emanuele ad appena 17 anni faceva le sue prime “stese” a colpi di Ak 47 a via Oronzio Costa e lanciava la sfida agli anziani affiliati dei Mazzarella. Il giorno del suo diciottesimo compleanno scriveva sui social: “Fatemi tanti belli auguri, perché non arriverò a 21 anni...”. I “paranzini” lo sanno. Sono vite a perdere, che si consumano in un attimo, tra una raffica di kalashnikov e una pista di coca. Non c’è scuola né Stato, non c’è tetto né legge. Soprattutto, non c’è tempo, “quando hai deciso di stare dentro ‘sta vita... Oggi ci siamo, domani no”. E domani arriva presto, in questa Apocalisse riempita di nulla, fatta di disprezzo per la codardia dei genitori che piangono i figli persi e per la pezzenteria degli onesti che tirano la carretta per 4 soldi. Loro, invece, hanno un solo scopo, qui ed ora: guadagnare subito 5 mila euro, rubando taglieggiando e ammazzando, per investirli in cocaina che li moltiplica in un solo anno in un milione di euro. È in quell’anno che tutto comincia e tutto può finire. Quando la paranza al gran completo decide di fare un’intervista a un tg locale, Nicolas e gli altri si presentano incappucciati, e spiegano il loro attimo fuggente e sospeso tra euforia e paura: “Cosa vuoi fare da grande? - Io sono già grande... E quando sarete più vecchi? - Io non voglio diventare vecchio...”. C’è una suggestione, in questa gioventù bruciata descritta da Saviano: i 18 anni, la stessa età dei terroristi dello Stato Islamico che hanno colpito a Barcellona e a Londra. Nicolas li ammira, perché “tengono le palle”. La paranza, mentre festeggia il prossimo arrivo del carico di droga e si prepara a giustiziare il suo ennesimo “hi- guain”, inneggia in coro ai militanti del Califfo Nero: siamo come “l’Isis contro il pianeta Terra”! I paranzini di Forcella, come i kamikaze di Daesh, devono scegliere: campare da mediocri, farsi arrestare da polli, o crepare da eroi. In uno scontro a fuoco, o con una cintura di esplosivo addosso. Una fine molto più dignitosa, secondo il legno storto di queste schegge di umanità impazzita. Se muori a 99 anni sei centenario, se muori a 21 sei leggendario. Per questo il destino di Nicolas e della sua banda è già segnato. Perché nonostante la fame e la sete di soldi e di potere che hanno espresso, “comandare è tosto” e “dopo che voli sai quanti cazzi in culo prendi...”. Alla fine “i bambini restano bambini”, come dice a Nicolas don Vittorio, l’Arcangelo della morte che lo aveva incoronato “sul trono di Napule” e che ora lo destituisce a colpi di coltello, non prima di avergli dato l’ultimo bacio feroce, e stavolta fatale. “Devi sempre guardare dove gli altri non guardano - gli sussurra - e stavolta tu non hai guardato”. Ma poi cosa c’era da vedere, al di là di questo gorgo di tenerezza e dolore che inghiotte tutto e tutti, di questo “ordine” terrificante imposto dai clan tra una mattanza e l’altra, di questa muta indifferenza dell’opinione pubblica e di questa cinica latitanza della politica? Tutto questo, c’era e c’è da vedere. Una lotta infinita, combattuta da “muccusielli” che hanno da perdere solo la loro inutile giovinezza. Per una banda di guaglioni che scompare, come quella del Marajà, ce n’è già un’altra che nasce, come quella del Lucertola. Basta un “fierro” da far cantare, basta un pacchetto di hashish da spacciare, e la paranza ricomincia. Sotto i nostri occhi socchiusi. Saviano ce li spalanca, con l’asprezza e la forza della sua testimonianza. Per questo non smetteremo mai di ringraziarlo. L’Italia alla Germania: “Fate scontare la pena ai manager Thyssen” di Simona Lorenzetti La Stampa, 13 ottobre 2017 Appello del ministro Orlando all’omologo tedesco. La tragedia sconvolse Torino. È da maggio del 2016 che si attende l’incarcerazione dei due manager tedeschi, condannati a 9 anni e 6 anni e 10 mesi. Tre mesi d’indagine. Nove anni di processi, con due passaggi in Cassazione. E poi improvvisamente per le vittime e i condannati della Thyssen la giustizia ha inforcato binari distinti. I quattro imputati italiani sono finiti in carcere, mentre i vertici tedeschi della multinazionale dell’acciaio, l’ad Harald Espenhahn e il direttore generale Gerald Priegnitz, sono ancora in libertà. E questo nonostante debbano scontare, rispettivamente, 9 anni e 6 anni e 10 mesi di reclusione. A poche settimane dal decennale del rogo costato la vita a sette operai, un senso di frustrazione pervade ancora i familiari, la cui sete di giustizia è rimasta inevasa, appesa ai cavilli del diritto internazionale. È di questo sentimento che si è fatto carico il ministro della Giustizia Andrea Orlando, che a margine della riunione del Consiglio Gai in corso a Lussemburgo ha incontrato il suo omologo tedesco Heiko Maas e gli ha rivolto un appello affinché la Germania dia esecuzione alla sentenza, facendo scontare ai manager la loro pena. La richiesta non è caduta nel vuoto: Maas si è impegnato a svolgere nel più breve tempo possibile un approfondimento sulla questione, al fine di poter dare riscontro alla richiesta italiana. È dal maggio del 2016 che si attende l’incarcerazione dei due manager. All’indomani del verdetto della Cassazione, che ha messo la parola fine alla storia giudiziaria del rogo, i quattro imputati italiani si erano presentati spontaneamente dai carabinieri. In carcere erano finiti: il direttore dello stabilimento italiano, Marco Pucci, condannato a 6 anni e 10 mesi; il membro del comitato esecutivo dell’azienda, Daniele Moroni, condannato a 7 anni e 6 mesi; l’ex direttore dello stabilimento, Raffaele Salerno, a 8 anni e 6 mesi; e il responsabile della sicurezza, Cosimo Cafueri, a 6 anni e 8 mesi. Diversamente avevano scelto di agire l’ad Harald Espenhahn e il direttore generale Gerald Priegnitz, che non erano rientrati in Italia per scontare la pena. La procura generale, pertanto, aveva inoltrato agli uffici giudiziari tedeschi un mandato di arresto europeo. Un documento ufficiale con il quale l’Italia chiedeva alla Germania di rendere esecutiva la condanna, così come previsto dagli accordi tra i due Paesi. Ma affinché si avviasse questa procedura, era necessario che venisse inviata a Berlino anche la sentenza dei giudici romani tradotta in tedesco, e anche la precedente sentenza, quella della corte d’appello di Torino. Una prima parte della procedura sarebbe stata completata, ma da Berlino sarebbero poi arrivate nuove richieste di acquisizione di atti. Sta di fatto che ad oggi l’iter è bloccato. Da qui l’intervento del ministro Orlando, che ha consegnato al collega tedesco una lettera nella quale ripercorre i passaggi della vicenda. “Il caso ha avuto ampia diffusione mediatica a causa della gravità dello stesso, che ha coinvolto decine di famiglie. Vi è quindi un forte interesse a vedere definito il procedimento”, si legge nella missiva. Ad ogni modo, anche se l’autorità giudiziaria di Berlino dovesse accogliere la richiesta italiana, Harald Espenhahn e Gerard Priegnitz non sconterebbero più di 5 anni di carcere: il massimo consentito dalla legge tedesca per il reato di omicidio colposo aggravato. E poco cambia se in questo caso gli omicidi colposi sono stati addirittura sette. Brasile. Battisti: “se mi estradano mi consegnano alla morte” La Repubblica, 13 ottobre 2017 “Se il Brasile confermerà la mia estradizione mi consegnerà alla morte”. Così Cesare Battisti, l’ex terrorista dei Proletaria Armati per il Comunismo (Pac) latitante da 36 anni, si è espresso sulla possibilità che il presidente Michel Temer revochi il suo permesso di soggiorno permanente nel Paese in un’intervista al giornale O Estado de Sao Paulo. “Non so su cosa si voglia basare il gabinetto giuridico della presidenza perché io possa essere estradato. Non so se il Brasile voglia macchiarsi sapendo che il governo e i media hanno creato questo mostro in Italia. Mi consegneranno alla morte”. Nel corso dell’intervista, l’ex terrorista è tornato a parlare del suo arresto nella città di Corumbà, al confine con la Bolivia, per sospetto traffico di valuta. Battisti ha negato la tentata fuga nel Paese confinante e ha definito il tutto una montatura. Ai giornalisti di O Estado ha ribadito che quel giorno si trovava su un’auto con degli amici per andare “in Bolivia a comprare giacche di pelle, vino e materiale da pesca” e che la polizia federale li “ha seguiti”: “Ci stavano aspettando, da tempo l’operazione era stata preparata con l’aiuto dell’ambasciata italiana. Era evidente - continua il latitante - c’erano persone che non avrebbero dovuto lavorare alla frontiera”, e poi “erano molto contenti, ballavano”. Ha poi raccontato che gli agenti avrebbero messo insieme i suoi soldi con quelli degli amici in modo che risultasse tutto a suo carico: “Hanno creato un crimine che non esisteva”. “Non avevo pensato” di lasciare il Brasile, dove la sinistra ha perso il potere, “ma se avessi voluto uscire dal Paese non sarei andato in Bolivia. Ho più legami in Uruguay, per cui sarei andato lì. È un Paese un po’ più affidabile”. E alla domanda su quali siano le sue intenzioni in caso Temer decida per l’estradizione, ha risposto: “Ancora non sappiamo nulla, perché gli avvocati hanno chiesto informazioni” ma non le hanno ancora ricevute. Tuttavia la difesa di Battisti ha definito la “revisione della decisione presidenziale non più possibile” Il “termine per un eventuale impugnazione del decreto” con cui, nel 2010, l’ex presidente brasiliano Luiz Inacio Lula da Salvia concesse la residenza permanente a Battisti “è scaduto” e la Corte suprema brasiliana “ha riconosciuto l’assenza di qualsiasi vizio” nella decisione finale presa da Lula. L’estradizione sarebbe inoltre impedita dalla “prescrizione della rivendicazione punitiva dei crimini a lui imputati nel paese di nascita”, concludono gli avvocati. Stati Uniti. Texas, giustiziato detenuto: aveva 15 anni al momento dell’arresto Askanews, 13 ottobre 2017 Lo stato del Texas ha giustiziato oggi un uomo condannato per l’uccisione di una guardia carceraria, malgrado la mancanza di prove materiali che stabilissero l’implicazione diretta del detenuto nell’omicidio. Robert Pruett, 38 anni, aveva inoltre solo 15 anni al momento del suo arresto e non ha trascorso un solo giorno della sua vita da adulto al di fuori di una prigione. Pruett è stato ucciso alle 18.46 locali di ieri (01.46 di oggi in Italia), un’ora dopo che la Corte suprema Usa ha respinto le ultime richieste di clemenza dei suoi avvocati. “Vi voglio solo dire, lo voglio dire a tutti, che amo. Ho fatto male a delle persone e delle persone mi hanno fatto male”, ha detto nelle sue ultime parole di addio, secondo un comunicato della Giustizia penale del Texas. Il suo arresto avvenne quando aveva solo 15 anni, per complicità in un omicidio commesso dal padre. Allora fu condannato a una pena di 99 anni di carcere, secondo una legge assai controversa che equipara la pena per un omicida e i suoi complici. Questa condanna non offriva possibilità di redenzione a un adolescente cresciuto tra una madre tossicomane e un padre spesso in prigione. Lo stesso Pruett aveva già cominciato all’età di sette anni a consumare stupefacenti, che vendeva ai suoi compagni di scuola elementare. Nonostante fosse un minore, fu immediatamente incarcerato in una prigione per adulti. All’età di 20 anni si ritrovò accusato dell’uccisione di un agente penitenziario, Daniel Nagle, ritrovato pugnalato. Aveva appena scritto un rapporto disciplinare su Pruett, che fino all’ultimo istante ha rivendicato la sua innocenza. Dal 2013 Pruett è riuscito a sfuggire all’esecuzione, richiedendo il test del Dna sui vestiti della vittima e sull’arma del delitto. Queste analisi si sono rivelate non conclusive e non hanno provato la presenza di Pruett sulla scena del delitto Nagle. Tuttavia non sono state giudicate sufficienti a rimettere in questione il verdetto. La famiglia di Daniel Nagle ha reagito all’annuncio dell’esecuzione attraverso la sorella della vittima, Nora Oyler, citata da un comunicato delle autorità texane: “Anche se sono 18 anni che ce l’hanno tolto, Daniel ci manca ancora ogni giorno e l’esecuzione non diminuirà in alcun modo la nostra perdita. Abbiamo scelto di passare questo momento lontano dai media per poter celebrare la vita di Daniel e non la tragedia della sua morte”.