Credito d’imposta per le imprese che assumono lavoratori detenuti di Alessandro Borghese e Mauro Muraca lalentesulfisco.it, 12 ottobre 2017 Domanda da presentare entro il prossimo 31.10.2017. Il Decreto interministeriale del 24 luglio 2014, n. 148 (pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 246 del 22 ottobre 2014) ha previsto alcuni sgravi fiscali e contributivi a favore di imprese che assumono lavoratori detenuti. Il regolamento di cui trattasi prevede, in favore alle imprese che assumono, per un periodo non inferiore a trenta giorni: i) lavoratori detenuti o internati, anche ammessi al lavoro all’esterno, un credito di imposta di euro 520,00 mensili per ogni lavoratore assunto, e nei limiti del costo per esso sostenuto; ii) lavoratori semiliberi provenienti dalla detenzione o internati semiliberi, un credito di imposta di euro 300,00 mensili per ogni lavoratore assunto e nei limiti del costo per esso sostenuto. Per entrambe le suddette tipologie di lavoratori (detenuti o in regime di semilibertà) assunti con contratto di lavoro a tempo parziale, il credito d’imposta spetta in misura proporzionale alle ore prestate. Il credito viene riconosciuto nelle stesse misure anche nei confronti dei soggetti che formano i detenuti ai fini lavorativi. A decorrere dall’anno 2015, i soggetti che intendono fruire di tale credito di imposta devono presentare, entro il 31 ottobre dell’anno precedente a quello per cui si chiede la fruizione del beneficio, una istanza (relativa sia alle assunzioni già effettuate che a quelle che si prevede di effettuare), presso l’istituto penitenziario con il quale è stata stipulata la convenzione necessaria per accedere appunto al beneficio. Pertanto, il prossimo 31 ottobre 2017 scade il termine per presentare l’istanza di concessione del previsto credito d’imposta: i) in relazione ai lavoratori assunti in esecuzione di pena o di una misura di sicurezza detentiva; ii) presso l’Istituto penitenziario con il quale è stata stipulata l’apposita convenzione; iii) relativa sia alle assunzioni già effettuate che a quelle che si prevede di effettuare; iv) in cui viene quantificato l’ammontare del credito d’imposta che si intende fruire per l’anno successivo. L’istanza di cui sopra sarà poi trasmessa, dall’Istituto penitenziario, al competente Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, entro i quindici giorni successivi alla scadenza del termine di presentazione delle stesse (31 ottobre dell’anno precedente a quello per cui si chiede la fruizione del beneficio), ovvero per l’adempimento in esame entro il prossimo 15 novembre 2017. Servizio Civile: 48 giovani impegnati da oggi negli Uepe di Teresa Valiani Redattore Sociale, 12 ottobre 2017 Parte oggi l’esperienza che accompagnerà per 12 mesi i ragazzi che hanno scelto di collaborare con gli operatori degli uffici per l’esecuzione penale esterna. Tutti hanno scelto di confrontarsi con un settore complesso e delicato che, per la prima volta, ha aperto le porte al servizio civile. Età media 25 anni, provengono in maggioranza dal sud Italia, sono in possesso di una laurea in Scienze del Servizio sociale o Psicologia, ma ci sono anche ragazzi laureati in Giurisprudenza, laureandi o con un semplice diploma di maturità. Percorsi diversi, con un obiettivo comune: tutti hanno scelto di confrontarsi con un settore complesso e delicato che per la prima volta, quest’anno, ha aperto le porte al servizio civile. Sono i 48 giovani volontari che da questa mattina prestano servizio all’interno degli uffici per l’esecuzione penale esterna, gli Uepe: articolazioni territoriali del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità (Dgmc) che si occupano del trattamento socio-educativo delle persone che scontano la pena fuori dal carcere (45.354 unità, al 30 settembre 2017, contro i 57.661 detenuti presenti negli istituti nello stesso periodo - dati: Dgmc e Dap). I 48 volontari sono divisi in gruppi di 4 unità per ogni sede, negli 11 uffici Inter-distrettuali d’Italia e presso la sede centrale. Il bando al quale hanno partecipato si chiama "Insieme: per un nuovo modello di giustizia di comunità", era aperto ai giovani tra i 18 e i 28 anni, ed ha il fine di offrire "un percorso di impegno e di formazione che permetta di diffondere il senso dello Stato; fornire una forte esperienza di servizio che dia spunti sulla scelta professionale e orienti i giovani ai valori della giustizia e del reinserimento sociale; permettere ai giovani in Servizio Civile di condividere i momenti più importanti della loro esperienza, attraverso la partecipazione a percorsi formativi anche residenziali, per favorire lo scambio, il confronto e la partecipazione" Dodici mesi di servizio, per un totale di 1400 ore e un rimborso mensile di 433,80 euro, il progetto intende inoltre "promuovere, organizzare e partecipare in collaborazione con gli operatori penitenziari a momenti di incontro, sensibilizzazione, riflessione e diffusione delle tematiche legate all’esecuzione della pena, anche nell’ottica della promozione del Servizio Civile come strumento di diffusione della solidarietà e della cittadinanza attiva; acquisire abilità e competenze rispetto all’ambito socio-assistenziale e facilitare la comprensione della metodologia di lavoro nel settore sociale; offrire una straordinaria occasione di formazione per i volontari in questa fase di attuazione della riforma e riorganizzazione". Tra i livelli di intervento, ci sono il rafforzamento delle connessioni esistenti fra il mondo dell’esecuzione della pena e la società civile, il consolidamento della rete delle collaborazioni e la cura del processo di reinserimento della persona, superando le difficoltà che hanno determinato il reato. Le sedi inter-distrettuali Uepe presso cui i ragazzi prestano servizio civile sono quelle di Torino, Milano, Venezia, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Bari, Catanzaro, Palermo e Cagliari. Dagli indicatori di bisogno, su cui gli obiettivi specifici del progetto mirano a intervenire, risulta che "l’80 per cento delle persone che richiedono la messa alla prova non sa dove svolgere lavori di pubblica utilità, le convenzioni attivate offrono solo il 30 per cento dei posti necessari per lo svolgimento dei lavori di pubblica utilità, solo il 27 per cento delle indagini per la redazione del programma di trattamento si conclude in 3 mesi e il 51 per cento nel semestre" e che "il personale degli uepe è ridotto del 36 per cento rispetto all’organico, così come le risorse necessarie". "L’inserimento dei volontari in Servizio Civile - si legge nel bando - prevede un periodo propedeutico all’inserimento lavorativo di un mese, che in caso di necessità è prolungabile fino a un massimo di due mesi, per approfondire la conoscenza delle metodologie di intervento del servizio sociale e dell’organizzazione degli Uepe, approfondendo nel contempo la conoscenza della normativa. In questo periodo il volontario svolge la propria attività in stretto rapporto con i referenti del progetto e successivamente sarà inserito nell’equipe di zona. Il volontario collaborerà prevalentemente con l’Area di servizio sociale, con l’Istituto penitenziario e verrà inserito nelle equipe di zona per partecipare alla formulazione del programma individualizzato". Tra le funzioni dei giovani, la collaborazione per "migliorare le attività connesse con le indagini socio-familiari per l’accesso alla messa alla prova, migliorare gli interventi di supporto per l’esecuzione della messa alla prova, sviluppo ed evoluzione delle misure e sanzioni di comunità nel settore degli adulti". "La sfida del nostro ufficio - aveva sottolineato il dirigente generale per l’Esecuzione penale esterna del Dgmc, Lucia Castellano, presentando il progetto - è aumentare il numero di misure alternative e di sanzioni di comunità perché arrivino ad essere la prima risposta, lasciando al carcere un ruolo di secondo piano destinato ai casi più critici. I giovani che presteranno servizio civile nei nostri Uffici, avranno, tra l’altro, un importante ruolo di collegamento tra il volontariato vero e proprio e gli operatori. E, più che volontari, saranno persone che si preparano alla vita lavorativa". Testimoni di Geova in prima linea nella riabilitazione dei detenuti di Matteo Luca Andriola Il Dubbio, 12 ottobre 2017 Oltre 700 detenuti assistiti da 453 ministri di culto. È stata la prima organizzazione cristiana non cattolica a ottenere il permesso di assistere e riabilitare i prigionieri. un’opera svolta gratuitamente sin dal 1976. Chiunque merita una seconda possibilità. A parole siamo tutti convinti di ciò. Se però si tratta di mostrare apertura verso chi è in carcere a scontare una pena, il discorso a volte cambia, e per paura, pregiudizio e diffidenza si emarginano i detenuti, anche dopo l’uscita dal carcere. Questo, perché siamo stati erroneamente abituati, anche coi talk show fondati sul populistico livore forcaiolo, a vedere nell’istituto carcerario il mezzo per "punire" il trasgressore. Peccato che la Costituzione italiana abbia superato da tempo l’impianto punitivo, come recita l’art. 27 che "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Le statistiche indicano che repressione, pene severe, pacchetti sicurezza e indulto, non sempre hanno reinserito al meglio coloro che hanno commesso reati. Uno dei mezzi di reinserimento, come spiega l’art. 15 dell’ordinamento penitenziario (legge 354/ 1975), è il lavoro. Inoltre per arginare il fenomeno della recidività, varie associazioni sono impegnate nel recupero di persone che hanno commesso vari tipi di reati. Un’altra strada parallela è quella delle religione. Lo specifica l’art. 26 del citato ordinamento penitenziario, che riconosce ai detenuti il diritto di professare la propria fede, di "istruirsi" nella propria religione e di praticarne il culto. Fra le confessioni che operano in tal senso vi sono i Testimoni di Geova. Ma non è una peculiarità italiana: la rivista Svegliatevi!, uno dei periodici della confessione, in data 8 maggio 2001 arrivò a dedicare al tema l’articolo di copertina, "È possibile rieducare i detenuti?", richiamando l’attenzione sia dei carcerati che delle autorità. In Messico, nel penitenziario di San Luis Río Colorado nello stato di Sonora, 12 Testimoni volontari distribuirono 2.149 copie della rivista. La modalità di riabilitazione è molto interessante: il detenuto, contattato da uno dei ministri di culto viaggianti autorizzati dalle autorità, se interessato a proseguire il percorso religioso (cosa non obbligatoria per chi è interessato), generalmente tende a cambiare completamente in virtù anche dello stile di vita salutista basato sui precetti biblici, dato che i Testimoni di Geova condannando l’abuso di alcool, l’uso di droghe, il fumo e perseguendo, in nome del comando evangelico di "dare a Cesare quel che è di Cesare", un’onestà che molti, anche i detrattori, non possono negare. In Italia la predicazione nelle carceri sta dando eccellenti risultati: sono più di 700 i detenuti che sono assistiti da 453 ministri di culto, di cui 68 donne. I Testimoni di Geova sono stati la prima organizzazione cristiana non cattolica a chiedere e ottenere il permesso di fare qualcosa di simile. Quest’opera di assistenza carceraria è svolta gratuitamente da ministri di culto autorizzati sin dal 1976 in virtù del primo riconoscimento governativo di questa religione cristiana. E i risultati si sono visti: il direttore del carcere di San Vittore (Mi) ebbe a dire che "L’operato dei testimoni di Geova in questo penitenziario è encomiabile e utile. Studiando la Bibbia con i Testimoni, i detenuti cambiano la loro scala di valori e il loro comportamento, e questo dà un nuovo senso alla loro vita. Agiscono con molto tatto ed educazione. Lavorano con diligenza e non creano quasi mai problemi"; nel 2008 i giornali diedero la notizia di un uomo di Sesto San Giovanni che dopo avere scontato 10 anni di carcere per omicidio e droga si è convertito ai Testimoni di Geova, cambiando completamente la sua vita. Stesso percorso fatto da un boss della malavita pugliese, spingendolo non solo a cambiare fede, ma a recidere ogni legame con la precedente vita criminale. Il Giorno del 6 ottobre 2004 riportava invece la notizia del battesimo di un recluso presso il carcere di Bollate. Ed è da questo carcere, situato a 15 chilometri a nord di Milano, che parte un’ulteriore evoluzione del volontariato. Perché se fino a d’ora, in virtù dell’art. 26 dell’ordinamento penitenziario nelle carceri vi erano cappelle cattoliche, riconoscendo la citata utilità sociale, lo Stato e le autorità dell’istituto penitenziario di Bollate hanno dato alla confessione cristiana un locale interno al carcere da adibire a Sala del Regno, come sono chiamate le Chiese dei Testimoni di Geova. Sul sito web del gruppo religioso, jw.org, il dottor Massimo Parisi, direttore dell’istituto carcerario, spiega che "Uno degli obiettivi che abbiamo è quello di far sì che le persone recuperino la speranza, e sotto questo profilo ci avvaliamo di diversi strumenti. Non riteniamo secondaria la spiritualità". Sono ben 13 anni che i Testimoni di Geova fanno attività religiosa nel carcere di Bollate, e sono 100 i detenuti che, negli ultimi mesi, hanno frequentato con una certa assiduità le funzioni. "I Testimoni collaborano da anni con l’istituto, e con la loro opera di istruzione biblica hanno prodotto in alcuni detenuti cambiamenti positivi. Perciò abbiamo ritenuto opportuno riservare un’area in cui i Testimoni possano aiutarli a esprimere tutte le loro potenzialità". Christian Di Blasio, portavoce dei Testimoni di Geova in Italia, afferma: "Siamo felici che le autorità del carcere di Bollate ci siano venute incontro assegnandoci, all’interno dell’istituto, un locale per le nostre funzioni religiose. Continueremo a collaborare alacremente con le autorità così che sempre più detenuti possano trarre beneficio dalla nostra opera di istruzione basata sulla Bibbia, un’opera pensata appositamente per rispondere ai loro bisogni spirituali". Il più delle volte il recupero è totale: appena scontata la pena l’ex detenuto si prodiga ad aiutare altre persone a conoscere il messaggio evangelico. Una scorsa a Internet fa notare come in vari carceri italiani le autorità stanno autorizzando i volontari autorizzati di questa confessione a svolgere attivamente attività di recupero a favore dei detenuti. La presenza di un luogo di culto dei Testimoni di Geova autorizzato entro le mura di un carcere non è però l’unico caso. Oltre alle citate chiese cattoliche, che numericamente sono quelle che in maggioranza svolgono assistenza spirituale a quei detenuti in cerca di conforto in un paese tradizionalmente cattolico, in una società che sta diventando sempre più multiculturale e con una popolazione carceraria straniera di oltre 18mila unità, l’analisi di ben 190 istituti carcerari ha rilevato che in 69 di essi erano presenti locali adibiti a preghiera per i detenuti musulmani dove si può esercitare il culto congiuntamente, in particolare il venerdì: nel 2009 erano 36. Il guinzaglio del Csm ai pm scomodi: tutto il potere ai capi di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 12 ottobre 2017 Circolare Csm. La bozza dà ai procuratori la potestà di sottrarre le indagini ai pm, senza motivazioni. E l’ultima parola sugli arresti. Autonomia e Indipendenza, la corrente di Piercamillo Davigo ha lanciato l’allarme su una possibile "deriva autoritaria" nelle Procure italiane a causa di una circolare che il Csm sta mettendo a punto e ieri il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini ha fatto il pompiere di palazzo dei Marescialli: la circolare sulle procure, su cui sta lavorando la Settima Commissione "mai potrà ledere le prerogative attribuite dalla legge" ai procuratori e ai pm "garantite dalla Costituzione e dallo stesso ordinamento giudiziario". Della Circolare non c’è ancora un testo definitivo, ma secondo l’ultima bozza, valida fino a ieri sera e peggiorativa rispetto ad altre versioni che riconoscevano maggiore "partecipazione" ai singoli magistrati di ciascun ufficio, si prevede un aumento dei poteri dei procuratori ai danni dell’indipendenza dei singoli pubblici ministeri. Il testo provvisorio, infatti, prevede che un procuratore, senza provvedimento motivato, possa autoassegnarsi un’inchiesta e toglierla al pm, insomma può assegnare o revocare un’indagine a sua discrezione e così - osservano diversi magistrati - un procuratore può avere il potere di isolare un pm scomodo perché fa inchieste su politici, su colletti bianchi o su capimafia. E la storia giudiziaria è piena di dissidi dentro le procura: Pietro Giammanco-Giovanni Falcone, per citare uno dei casi più drammatici. Ai procuratori spetterebbe anche la parola definitiva su un provvedimento cautelare che vuole chiedere un pm. Osserva Autonomia e Indipendenza: "Il principio dell’autonomia del singolo magistrato e della sua sottoposizione soltanto alla legge rappresenta un cardine del nostro ordinamento non derogabile nemmeno dalla legge ordinaria". Se dovesse essere confermato quanto è ancora in discussione, non solo, come detto, AeI "teme una deriva autoritaria" ma "ritiene gravemente contraria ai principi costituzionali la decisione di negare" al pm "la scelta sulla adozione finale dei provvedimenti" legati a un’inchiesta che sta conducendo. E considera contraria alla Costituzione, sempre che la bozza sarà confermata, anche la possibilità di "sottrarre al controllo degli organismi di autogoverno (Csm e Consigli giudiziari locali, ndr) la revoca dell’assegnazione" di un fascicolo a un pm da parte di un procuratore "in caso di dissenso rispetto alla opinione del sostituto". Quindi, conclude AeI, in questo modo non ci sarebbe alcuna possibilità "di controllo democratico". Ma Legnini prova a minimizzare, ribadisce che "non esiste alcun testo definitivo, solo ipotesi di lavoro al vaglio della Settima Commissione", che hanno sentito diversi dirigenti degli uffici. Il vicepresidente del Csm si vanta del fatto che il Consiglio "sta lavorando ad una circolare diretta, per la prima volta, a disciplinare in modo chiaro il ruolo dei dirigenti degli uffici, dei procuratori aggiunti e dei sostituti all’interno delle Procure, nel doveroso rispetto della Costituzione e della legge, nonché delle funzioni riservate al Consiglio" e che questa circolare, precisando i compiti nelle procure, servirà a "risolvere in origine, anzi a prevenire i possibili contrasti interni, assai deleteri per la credibilità della giustizia penale". Bene, ma bisognerà vedere se per prevenire o risolvere i conflitti i pubblici ministeri non saranno più soggetti soltanto alla legge ma ai loro procuratori capo, attraverso astute circolari. Abuso d’ufficio, così si espropria la politica. Il reato azzoppa gli amministratori locali di Errico Novi Il Dubbio, 12 ottobre 2017 Un grimaldello utile ad accertare altri reati dei politici locali? O piuttosto il virus che paralizza la politica? L’abuso d’ufficio è in ogni caso uno dei grandi assenti nel dibattito sulla giustizia. Se ne discute poco. Troppo grande il peso di questioni come il Codice antimafia, le intercettazioni o la prescrizione, perché possa trovare spazio un’urgenza sentita dai sindaci più che dai deputati. Ma più di un segnale dovrebbe incoraggiare maggiore attenzione al tema. E spingere a qualche intervento correttivo quanto meno sugli effetti prodotti dal reato in virtù delle sospensioni che la legge Severino gli ricollega. A segnalare ancora una volta il peso di tale fattispecie per la vita pubblica è il caso del sindaco di Riace, Mimmo Lucano, finito nel mirino della Procura di Locri per attività connesse all’accoglienza dei migranti, terreno sul quale il suo Comune dovrebbe essere considerato un piccolo, virtuosissimo esempio. Vero è che a Lucano i pm contestano anche altro. Addirittura concussione e truffa. Ma è difficile allontana- re il sospetto che le ipotesi più gravi siano meno robuste e che ad aver attirato l’attenzione dei magistrati, dopo quella della prefettura, sia stato qualche "eccesso di potere", come lo definiscono i giuristi, che il primo cittadino calabrese potrebbe aver compiuto. In attesa che l’inchiesta chiarisca i fatti, ci sono però un punto fermo e un possibile vizio di sistema. Il punto fermo è che il ministero dell’Interno, dopo le ripetute acquisizioni di atti da parte della prefettura di Reggio Calabria, aveva concluso che nel "Sistema Lucano" non c’è nulla di illecito e invitato il sindaco ad andare avanti. Il vizio di sistema è nel fatto che questa storia dell’abuso d’ufficio, non solo quella di Riace, riguarda ormai pochissimo gli eletti in Parlamento: il sistema delle liste bloccate fa in modo che siano sempre meno coloro che vi arrivano dalla politica molecolare dei territori. L’appello di Cantone - È forse anche per questo che nel corso della legislatura non si sono viste mobilitazioni né per ridefinire il reato né, soprattutto, per correggere la norma della Severino secondo cui chi ne risulta colpevole anche in via non definitiva viene sospeso dalla carica. Nessun sussulto, nessun tentativo parlamentare degno di nota. Resta inascoltato Enzo De Luca, presidente della Campania, che ha avuto le sue traversie per via del combinato disposto abuso d’ufficio-Severino. Ignorati i suoi appelli, anche recenti, a cambiare la legge del 2012. Ma davvero non vale la pena di occuparsene? Non tutti la pensano così. È stato addirittura il presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone a chiedere "una restrizione delle condotte punibili, che individui in modo più puntuale quelle che perseguono interessi personali o determinano ingiusti vantaggi attraverso atti illegittimi nella pubblica amministrazione". Altrimenti, ha aggiunto il vertice dell’Anac, molti amministratori finiscono per essere "effettivamente bloccati nel loro operato perché temono di finire sotto inchiesta". Dovrebbe bastare, no? I più esigenti potrebbero dare uno sguardo anche alle recenti dichiarazioni di Andrea Orlando, ministro della Giustizia. Che, interpellato da Corriere tv sulla Severino, ha escluso interventi che possano risolvere la questione Berlusconi, ovvero la retroattività delle norme, ma su un punto si è voluto sbilanciare: "Andrebbero fatte delle riflessioni sulla decadenza prima della sentenza definitiva" e "sugli effetti" che la legge può avere "sulla vita politica locale". Si muoverà qualcosa, nella prossima legislatura? Intanto bisogna intendersi su cosa davvero si possa modificare. "Se guardiamo alla norma che regola l’abuso d’ufficio in sé non si può dire che si tratti di una fattispecie strutturata in modo poco garantista", fa notare uno dei pochi parlamentari davvero tecnicamente affidabili in materia penale, il presidente della commissione Giustizia del Senato Nico D’Ascola. "Una sentenza della Corte costituzionale del 1998, la 447, aveva recepito una precedente pronuncia della Cassazione e ulteriormente circoscritto il campo d’applicazione della norma. Se c’è uno spiraglio che può forse favorire un’applicazione estensiva, è in una successiva sentenza delle Sezioni unite, la 155 del 2011, che ha inserito l’eccesso di potere nel campo dei comportamenti riconducibili al quel reato. Ma la sentenza riguardava un magistrato, e sono stati i Tribunali di merito a ritenere che la pronuncia della Cassazione potesse riverberarsi su vicende riguardanti pubblici amministratori". Possibile che l’ambivalenza di quel profilo, l’eccesso di potere, consenta un "abuso dell’abuso d’ufficio" in sede giudiziaria? "Ripeto", dice D’Ascola, "l’applicazione di una norma non dipende dal legislatore che l’ha scritta. Né quella norma in sé conteneva implicitamente l’uso che se n’è fatto: mi riferisco per esempio agli effetti che il reato produce in base alla legge Severino". E i danni causati dalla larghezza concettuale dell’"eccesso di potere" e dalle sospensioni sono persino difficili da misurare. I sindaci che hanno il coraggio di giocare alla roulette russa con la loro fedina penale sono sempre più rari, e la paralisi dell’attività amministrativa, se non è totale, si diffonde come un morbo contagiosissimo. La classe politica territoriale - A questo si aggiunga il fatto che le indagini, i processi e le conseguenti sospensioni rischiano a loro volta di decimare una generazione di politici legati al territorio già impoverita dallo scadimento generale della qualità. I più in gamba sono spesso anche i più coraggiosi, che rischiano, e ci lasciano le penne, in modo da vedersi stroncata anche la prospettiva di un futuro eventuale grande salto verso il Parlamento nazionale. Dove, in ciascun partito, si fa spazio a chi non ha rischiato nulla, se non di esagerare nei corteggiamenti ai capibastone che compilano le liste. Sulle intercettazioni vincono le toghe attente al "riserbo" di Errico Novi Il Dubbio, 12 ottobre 2017 Ieri nuovi incontri sul decreto tra ministro, penalisti e anm. Il decreto c’è. Non si vede, o almeno il ministero della Giustizia farà di tutto perché non finisca sui giornali fino a quando sarà stato anche "vistato" a Palazzo Chigi. Ma nel giro di pochi giorni le norme sulle intercettazioni dovrebbero essere sottoposte all’attenzione del premier Paolo Gentiloni e finire subito dopo all’ordine del giorno del Consiglio dei ministri. Ieri il guardasigilli Andrea Orlando ha fatto un secondo giro di "consultazioni" e ha esposto i contenuti del provvedimento al presidente dell’Unione Camere penali Beniamino Migliucci e dell’Anm Eugenio Albamonte, oltre che al Garante della Privacy Antonello Soro. Confermate le indicazioni dei giorni precedenti. Resta il doppio brogliaccio. Uno riservato, in cui potranno finire anche le trascrizioni delle telefonate non immediatamente destinate a finire negli atti di pm, gip e Riesame, ma comunque a disposizione delle parti che potranno rivalutarne l’utilità. L’altro relativo alle conversazioni effettivamente funzionali alle indagini e a finire in eventuali richieste di misure cautelari da parte della Procura. E che, se pure fossero pubblicate sui giornali, non arrecherebbero i danni fatti in passato. Sopravvive insomma la netta distinzione tra le conversazioni che abbiano effettiva "rilevanza "per i fatti oggetto di prova" e quelle che non ne hanno. Le prime saranno legittimamente richiamate negli atti, le seconde no. Resta sicuramente una grande responsabilità in capo al pubblico ministero: sarà lui a dover valutare la "essenzialità" di telefonate, conversazioni o messaggi captati anche con i virus spia. Una discrezionalità che però si accompagna anche a una responsabilità: come ha sempre sostenuto uno dei relatori del ddl penale in cui la delega intercettazioni era stata inserita, Felice Casson, "l’ordinamento giudiziario è tale per cui il pm che non si attenesse a tali norme sarebbe di per sé possibile oggetto di un procedimento disciplinare". Se la rilevanza di certe conversazioni rispetto ai fatti oggetto di prova fosse oggettivamente impercettibile, qualche rischio, per il magistrato, ci sarebbe. Da una parte si rinuncia all’ulteriore "schermo" delle conversazioni riportate, negli atti, solo "per riassunto", come ipotizzato nella prima bozza Orlando. Dall’altra si trasferisce un peso notevole sul singolo magistrato inquirente. È in realtà la svolta che avevano proposto oltre 20 procuratori capo in altrettante circolari diffuse nei primi mesi dello scorso anno. Già in quei documenti tutti interni agli uffici veniva chiesto di preservare la "privacy" delle persone intercettate e in particolare di chi era estraneo ai fatti oggetto di indagine. Princìpi recepiti e ribaditi da una successiva delibera del Csm, poi tradotti in norme quadro nella delega, infine trasferiti nel decreto. Si è imposta la linea di quella magistratura inquirente preoccupata dal fenomeno di una giustizia penale spettacolarizzata e distorta. Magistraura che incassa una nuova, importante vittoria. Non è abuso d’ufficio se l’agente "perdona" l’infrazione di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 12 ottobre 2017 Corte di cassazione, sentenza 11 ottobre 2017, n. 46788. Non c’è abuso d’ufficio quando le forze dell’ordine fermano un veicolo in transito, riscontrano un’infrazione e omettono di sanzionarla. E non importa che la violazione fosse grave come la mancanza di copertura assicurativa Rc auto: basta che gli agenti impediscano comunque la circolazione del mezzo senza la polizza. Così si tutela l’interesse pubblico, facendo venire meno uno dei presupposti del reato. Lo chiarisce la Sesta sezione penale della Cassazione, nella sentenza 46788depositata ieri. I giudici hanno così annullato con rinvio la condanna irrogata in appello a un maresciallo dei Carabinieri che, in occasione di un controllo stradale su un veicolo risultato non assicurato, non aveva applicato nessuna delle pesanti sanzioni previste dall’articolo 193 del Codice della strada. Tra cui il sequestro amministrativo, che ha lo scopo di impedire la circolazione, prevenendo i problemi di risarcimento che potrebbero sorgere se il veicolo causasse un incidente. Secondo la Cassazione, ciò non basta per configurare l’elemento soggettivo dell’abuso d’ufficio, come aveva invece ritenuto la Corte d’appello parlando di "oggettiva finalizzazione" del comportamento dell’imputato. Infatti, l’ingiusto vantaggio patrimoniale che si causa deve essere voluto da chi agisce "e non semplicemente previsto ed accettato come possibile conseguenza della propria condotta". E, per la Corte, la differenza tra il volere (che denota il dolo) e il prevedere ed accettare sta in questo caso nel "raggiungimento di un fine pubblico", che per un pubblico ufficiale è "proprio del suo ufficio". Inoltre, l’intenzionalità sarebbe stata dimostrata solo se fosse stata certa la volontà dell’imputato di favorire l’automobilista fermato. Tale certezza non si raggiunge sapendo solo che egli ha omesso di applicare le sanzioni previste: in base a due precedenti della stessa sezione (sentenze 35184/2007 e 21192/2013) su materie diverse richiamati nella pronuncia depositata ieri, occorrono "altri elementi sintomatici, quali la specifica competenza professionale dell’agente, l’apparato motivazionale su cui riposa il provvedimento ed i rapporti personali tra l’agente e il soggetto o i soggetti che dal provvedimento ricevono vantaggio patrimoniale o subiscono danno". Di tutto questo non c’è traccia nella sentenza d’appello che condannava il maresciallo. Era invece emerso che egli non conosceva l’automobilista, che il controllo era stato occasionale e che "comunque non fu consentita la prosecuzione della marcia del veicolo" (non è chiaro in che modo). Niente arresti domiciliari per il medico accusato di corruzione di Silvia Marzialetti Il Sole 24 Ore, 12 ottobre 2017 È illegittima la misura degli arresti domiciliari disposta nei confronti del direttore di una struttura oncologica accusato di corruzione per avere implementato, dietro compenso, la prescrizione di un farmaco. Per impedire i contatti professionali che possono costituire occasione per reiterare il reato, sono possibili misure anche non coercitive. Lo ha stabilito la Cassazione - sentenza 46492 del 10 ottobre - esaminando un caso verificatosi all’interno di un Istituto tumori dove, nel 2015, le prescrizioni di un particolare farmaco anti-tumorale erano più che raddoppiate. "Merito" di un direttore sanitario corrotto che, in cambio di una mazzetta da 10mila euro, si era lasciato convincere da un informatore farmaceutico ad aumentare "artatamente" - scrivono boccaccescamente i giudici - gli ordinativi. Arresti domiciliari per il medico, ritenuto dal Tribunale di Napoli spregiudicato e perfettamente in grado di reiterare il reato, stringendo rapporti con altri professionisti liberi di frequentare l’ospedale. Non la pensa così la Cassazione, che ha annullato l’ordinanza. La decisione di disporre misure cautelari - scrivono i giudici nella sentenza depositata ieri - richiede un pericolo "concreto" e "attuale" di reiterazione del reato. La concretezza - chiariscono i giudici - è legata alla capacità a delinquere, mentre l’attualità alla presenza di occasioni prossime al reato, la cui sussistenza deve essere autonomamente e separatamente valutata, anche se desumibile da medesimi indici rivelatori. Nel caso trattato - fanno notare i giudici - nel motivare la scelta della misura adottata degli arresti domiciliari, il Tribunale si è limitato laconicamente ad affermare che si trattasse dell’unica misura idonea a inibire la recidiva. Inoltre è stato fatto notare come l’accordo illecito tra i due indagati (medico e informatore) continuasse ancora nel 2016, una data tale da escludere la continuità del periculim libertatis. L’ordinanza è dunque annullata, limitatamente alla parte in cui affronta l’adeguatezza della misura cautelare applicata. Riciclaggio per chi porta all’estero ciclomotori di provenienza illecita di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 12 ottobre 2017 Tribunale di Genova - Sezione 1 - Sentenza 1 luglio 2017 n. 2773. Integra il reato di riciclaggio - nel caso soltanto tentato - il compimento di operazioni volte non solo ad impedire in modo definitivo, ma anche soltanto a rendere difficile l’accertamento della provenienza del bene. Lo ha stabilito Tribunale di Genova, con la sentenza n. 2773 del 1° luglio 2017, condannando ad un anno e dieci mesi di reclusione, oltre a 3mila euro di multa (pena sospesa), un cittadino franco-tunisino fermato mentre stava per imbarcarsi per l’Africa portando all’interno della sua autovettura tre ciclomotori di cui non era in grado di dimostrare la provenienza. Durante il controllo precedente l’imbarco per Tunisi, effettuato dalla polizia di Frontiera degli Scali Marittimi ed Aerei di Genova, l’imputato alla guida di un furgone veniva sottoposto ad un controllo durante il quale, nascosti sotto bagagli ed altre masserizie, si rinvenivano tre ciclomotori privi di targa d’immatricolazione, carta di circolazione e chiavi d’accensione; oltre a tre biciclette di cui due a pedalata assistita e con blocco antifurto ancora inserito. Dopo diversi accertamenti i motorini risultavano tutti rubati. Così ricostruita la vicenda, per il Tribunale, "nessun dubbio vi è sul fatto di attribuire la condotta di occultamento a carico dell’imputato". Ed infatti, spiega la sentenza, "anche l’attività materiale di trasferimento da un luogo all’altro è idonea ad integrare il reato ove valga a rendere di fatto più difficoltosa l’identificazione dell’origine illecita, tale essendo lo spostamento di autovettura rubata all’estero, in particolare in uno stato extracomunitario, per l’oggettiva diminuzione delle probabilità di risalire al reato presupposto e all’avente diritto, dovuta alla recisione di collegamento con il luogo di provenienza". Infatti, "il delitto di riciclaggio è a forma libera, grazie alla previsione di chiusura che, alle condotte di sostituzione o trasferimento, ha aggiunto qualsiasi altra operazione atta ad ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa del bene ed è, quindi, pacifico che possa trattarsi di operazioni anche meramente materiali sui beni (diversamente, sarebbe bastato ad integrare il delitto il trasferimento della res, già previsto come condotta rilevante nell’originaria formulazione della norma incriminatrice), purché tali da ostacolare "l’identificazione della loro provenienza delittuosa". La condotta del soggetto attivo del reato, conclude la decisione, "può incidere tanto sulla mera identità del bene, ovvero sulla sua "riconoscibilità", quanto sulla "tracciabilità" del suo percorso". Per escludere il delitto di riciclaggio "non basta, dunque, che il bene resti astrattamente tracciabile se poi, proprio in forza di interventi di manomissione delle sue componenti, se ne altera l’identità in modo da non renderlo più riconoscibile". E, per converso, "un bene può restare fisicamente identico e, ciò nondimeno, di difficile tracciabilità a cagione di trasferimenti, che lo sottraggono alla sfera di controllo del suo titolare". Bologna: suicidio in questura, telecamere ancora ko di Giuseppe Baldessarro La Repubblica, 12 ottobre 2017 Dopo la morte di Oumar Ly Cheikou, anche il Garante per i detenuti conferma che il sistema non è funzionante. Sono ancora fuori uso le telecamere di sorveglianza delle celle di sicurezza della questura. Lo ha constatato il garante per i diritti dei detenuti del Comune di Bologna, Antonio Ianniello, che a distanza di due settimane ha svolto un sopralluogo nei locali dove, il 23 settembre, si è suicidato Oumar Ly Cheikou, il senegalese di 39 anni arrestato per maltrattamenti in famiglia. Secondo il resoconto dell’ispezione, le camere di detenzione temporanea sarebbero adeguate dal punto di vista della sicurezza e del decoro, ma resta il nodo del mancato funzionamento degli occhi elettronici e della "mancata predisposizione, all’interno delle camere, di un pulsante che permetta di chiamare l’agente in caso di necessità". Il secondo rilievo non viene considerato decisivo in caso di suicidio, mentre telecamere efficienti avrebbero potuto consentire un intervento tempestivo degli agenti di guardia. A distanza di diversi giorni dalla morte del senegalese, dunque, l’amministrazione della polizia non ha ancora provveduto a risolvere il problema del sistema di videosorveglianza a circuito chiuso, più volte segnalato dai sindacati. Sul fronte dell’inchiesta penale, condotta dalla procura (nel registro degli indagati sono stati iscritti i due giovani poliziotti che erano di turno quel giorno, accusati di omicidio colposo), le prime risposte potrebbero arrivare nelle prossime settimane. La pm Gabriella Tavano è in attesa dell’esito ufficiale dell’autopsia che, informalmente, sarebbe stata anticipata e che confermerebbe la morte per impiccagione. La perizia sul corpo del senegalese andrà a completare la relazione stilata dalla squadra Mobile e, a quel punto, la procura sarà nelle condizioni di decidere in che direzione procedere. Qualora non emergessero elementi di novità, tutto lascia pensare ad una richiesta di archiviazione per i poliziotti. Tutta da vedere invece la questione relativa ad eventuali negligenze sul piano disciplinare. Al momento, in attesa dell’esito dell’inchiesta della procura, i vertici della questura non hanno avviato procedimenti nei confronti dei poliziotti di turno, nè di altri. Salerno: le Rems non decollano, la procura "la soluzione è il carcere" di Viviana De Vita Il Mattino, 12 ottobre 2017 Malati di mente violenti e pericolosi per i quali è stata già firmata dal gip del tribunale di Salerno un’ordinanza di misura di sicurezza per disporre il loro ricovero nelle Rems, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza detentive, che di recente hanno sostituito gli ospedali psichiatrici giudiziari. Peccato, però, che all’interno di queste strutture non vi siano posti con la conseguenza che queste persone, socialmente pericolose, continuano ad essere libere. È per questo che la procura starebbe valutando l’opportunità di emettere un’ordinanza di custodia cautelare al fine di portare in cella - all’interno del penitenziario di Fuorni esiste un reparto destinato alla cura dei detenuti affetti da patologie psichiche ‘ questi soggetti che, da più di due settimane, sono destinatari di una misura di sicurezza allo stato inapplicabile perché le Rems della Campania sono tutte piene e risposte negative stanno arrivando anche dalle altre residenze che il Ministero della Giustizia sta contattando in tutto lo Stivale. Sono almeno due i casi attualmente al vaglio della procura di Salerno e per i quali è stata già emessa il 20 e il 25 settembre scorso un’ordinanza che non riesce ancora a trovare applicazione. Si tratta di un uomo e una donna, entrambi residenti in città, ritenuti socialmente pericolosi a causa di condotte estremamente violente che potrebbero reiterare in qualsiasi momento. Proprio in virtù dei gravi episodi che i due avrebbero commesso ai danni dei rispettivi familiari, la procura ha chiesto e ottenuto dal gip la misura di sicurezza all’interno delle Rems. Nelle ultime ore ci sarebbe però un terzo caso che sta preoccupando molto i piani alti del palazzo di giustizia. Il problema, infatti, resta lo stesso: posti nelle Rems non ce ne sono e questi soggetti, liberi di circolare, sono un rischio potenziale per l’intera comunità. La situazione, che potrebbe divenire esplosiva, è il frutto della riforma che a fine 2016 ha portato alla chiusura degli Opg, definiti nel dicembre 2012 da Giorgio Napolitano un "autentico orrore indegno di un paese appena civile". Oggi in Italia sono attive trenta Rems, che a regime arriveranno a 32, e che possono ospitare fino a 604 pazienti. In Campania ce ne sono quattro: a San Nicola Baronia nell’Avellinese, a Mondragone, a Vairano Patenora e a Calvi Risorta in provincia di Caserta. Tutte le strutture locali, le prime ad essere state contattate dalla procura per evitare l’allontanamento del paziente dal territorio di origine e dalla propria famiglia che potrebbe supportarlo nel percorso di psicoterapia effettuato nelle Rems, hanno risposto di essere al completo. Del caso è stato quindi investito il Ministero della Giustizia, che ha inviato una richiesta ad altre quindici strutture lungo tutta la penisola: finora, però, soltanto due hanno risposto sostenendo di non avere posti mentre per le altre si è ancora in attesa. Ecco perché, anche alla luce di questo terzo caso, la procura starebbe vagliando l’opportunità di emettere un’ordinanza di custodia cautelare e portare queste persone all’interno dello speciale reparto psichiatrico del carcere di Fuorni inaugurato un paio di anni fa e che fornisce un supporto psicologico costante ai detenuti affetti da gravi patologie mentali. Salerno: lega un lenzuolo alle sbarre e tenta di impiccarsi in cella di Angela Trocini Il Mattino, 12 ottobre 2017 Ha tentato di impiccarsi legando un lenzuolo alle inferriate dopo essersi chiuso in bagno. Solo il tempestivo intervento degli agenti della polizia penitenziaria, in servizio presso la prima sezione della casa circondariale di Salerno-Fuorni, ha evitato che C.P. portasse a compimento il suicidio. L’uomo, detenuto per una rapina finita nel sangue (con l’uccisione della vittima), dopo essere stato sottoposto alle prime cure rianimative da parte del medico presente nell’istituto penitenziario è stato trasportato in ospedale dove è in condizioni stabili. L’ennesima criticità è avvenuta nella notte tra martedì e mercoledì, poco dopo mezzanotte, quando gli agenti di sezione (durante l’abituale controllo) si sono accorti che nella cella in cui era ristretto C.P. qualcosa non quadrava evitando, così, che il detenuto portasse alle estreme conseguenze il gesto. E sulla vicenda non è tardato l’intervento dei rappresentanti del sindacato autonomo della polizia penitenziaria che, ancora una volta, stigmatizzano il susseguirsi di eventi critici all’interno dell’istituto penitenziario di Salerno: "la nostra ammirazione va ai colleghi del reparto di polizia che, per l’ennesima volta, con grande professionalità e competenza, hanno evitato il peggio", afferma il segretario per la Campania del Sappe, Emilio Fattorello, "ma non si può andare avanti così, solo grazie allo spirito di sacrificio dei colleghi". E in mancanza di risposte immediate il sindacato si riserva di presentare una denuncia sia alla giustizia del lavoro ma anche alla giustizia ordinaria. Ciò che si contesta, prendendo in esame anche la situazione delle altre carceri italiane, come denuncia Donato Capece (segretario generale Sappe) "è che con la vigilanza dinamica e il regime penitenziario aperto si sono consegnate le carceri in mano ai detenuti abbandonando a loro stessi gli agenti della polizia penitenziaria". E continua Capece: "le celle devono stare chiuse altrimenti si consente ai detenuti di girare per le sezioni tutto il giorno e senza fare nulla, a tutto discapito della sicurezza e dell’incolumità dei poliziotti. E se, chi prende decisioni sulle tematiche penitenziarie, stesse anche una sola settimane al fianco di un agente penitenziario in prima linea lo capirebbe meglio". Una manifestazione di protesta è stata indetta, il prossimo 25 ottobre, davanti al carcere di Poggioreale e Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria. Il Sappe, in quell’occasione, terrà una conferenza stampa in cui si discuterà - tra l’altro - anche della carenza di sicurezza e cattiva gestione della casa circondariale salernitana. Argomenti che saranno oggetto di denunce - da parte del Sappe - all’autorità giudiziaria (sia del lavoro che ordinaria) a causa di una serie di eventi critici che si sono sussegui: dalle aggressioni al personale e tra detenuti, al ritrovamento di droga e telefonini fino all’evasione delle scorse settimane. Criticità che hanno portato ad interrogazioni parlamentari, ispezioni ministeriali e stato di agitazione indetto dai sindacati. Fossano (Cn): progetto "Manuattenzioni"; detenuti "liberi di lavorare" per il bene di tutti di Federico Carle Avvenire, 12 ottobre 2017 Un cantiere "dal basso" che coinvolge anche la comunità. Tra i promotori principali ci sono salesiani e Comune. In città, negli ultimi sei mesi, un ponte è crollato e il cornicione della palestra di una scuola pubblica si è staccato. Tragedie scampate, ma solo per fortuna. Sono però segnali di una fragilità che denota come la manutenzione dei beni comuni da parte dello Stato sia messa in crisi dalla difficile situazione economica. Una fragilità che induce a pensare a quella del fine pena, in cui il reinserimento sociale e lavorativo è spesso troppo complicato. Due fragilità che il progetto "Manuattenzioni" ha unito, generando una forza. Così proprio a Fossano, ancor prima dei crolli, si era già pensato a come far fronte al degrado di una palestra di proprietà dell’Istituto salesiano, progettando un "percorso" di recupero che avesse al centro il lavoro di detenuti in uscita: dodici tra carcerati a fine pena, agli arresti domiciliari o ex detenuti. Così, da aprile, molti di loro sono stati impegnati nella manutenzione e recupero dei locali della palestra. Un cantiere "dal basso", soprattutto, in cui coinvolgere la comunità locale - così come le associazioni sportive o culturali che usano normalmente la palestra - per provare a "disegnare insieme" con dei laboratori creativi, i motivi artistici per gli interni. "Manuattenzioni" però si è rivelato anche un progetto sostenibile perché basato sui criteri della bioedilizia e bioclimatica, come l’utilizzo del sughero per il rivestimento della facciata esterna. "È importante scegliere il materiale giusto, sia per l’ambiente, ma anche per tararlo con la vita media di una palestra pubblica, superiore rispetto ai normali edifici", racconta Monica Mazzucco dell’impresa sociale innovativa Culturadalbasso che ha coordinato il progetto. Un "per-corso", per cui "la formazione è stata fondamentale - sostiene Maurizio Giraudo, coordinatore dei Cfp salesiani della provincia di Cuneo - i detenuti in uscita hanno svolto per otto settimane una formazione in aula e sul campo con le imprese edili e le aziende. Un modo per passare da meri esecutori a piccoli imprenditori, imparando soluzioni e progettando con la testa e con le mani". Sono queste le "attenzioni" del progetto: al lavoro, alla persona, alla comunità e al Creato, che i salesiani sanno fare di "mestiere" molto bene. Per questo sono (come associazione Cnos-Fap) tra i promotori principali del progetto insieme a Culturadalbasso, cooperativa Frassati e Comune di Fossano. Un’iniziativa che ha come maggior sostenitore la Compagnia di San Paolo e che vede in rete, oltre alla casa di reclusione di Fossano e l’ufficio esecuzione penale esterna di Cuneo, anche il Consorzio Monviso solidale, la fondazione NoiAltri onlus, la Caritas della diocesi di Fossano, l’impresa Energia Soave, le cooperative Arti e mestieri, Il Ramo e quella agricola sociale Pensolato. Proprio a Pensolato, realtà nata grazie alla catalizzazione di sinergie che si è attuata col progetto, stanno trovando occupazione alcuni dei detenuti che hanno partecipato a "Manuattenzioni". Adesso il lavoro è quasi ultimato, manca l’abbellimento interno coi disegni emersi dai laboratori svolti fra comunità locale e detenuti. L’inaugurazione - potrebbe essere presente anche il ministro Orlando (il ministero di Grazia e Giustizia ha concesso il patrocinio) -, è prevista a novembre. La palestra è gestita dal Comune, che da solo non avrebbe avuto i fondi necessari per la riqualificazione, per questo Manuattenzioni "è stato un bellissimo esempio di lavoro di squadra", sostiene Stefano Mana direttore della Caritas diocesana. Un progetto di inclusione sociale, di formazione e di secondo welfare in cui il pubblico ha incontrato il privato in modo virtuoso e positivo. E i detenuti? "Grazie…", si limitano a dire con un sorriso che forse a inizio progetto non avevano. Un grazie semplice, ma vero e generativo. Lamezia: Provveditorato sfumato, la politica si impegni per riavere la struttura carceraria lametino.it, 12 ottobre 2017 "A volte il silenzio è l’unico modo per tutelarsi e al tempo stesso dimostrare la propria estraneità e divergenza rispetto a politiche territoriali che, nella più ampia ottica di quella nazionale, assecondano lo smantellamento minuzioso e strisciante di "un potenziale grosso centro urbano" (che di fatto resterà tale perché così si vuole)". Ad affermarlo è il Comitato Riapriamo il Carcere di Lamezia Terme commentando la notizia della firma della convenzione tra il Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria Calabria, il Comune e la provincia di Catanzaro con la quale si sono ceduti i locali di via San Brunone di Colonia del capoluogo per destinarli a nuova sede regionale dello stesso Provveditorato. "Si chiude così un altro capitolo pietoso che aveva fatto sorgere sterili campanilismi tra la città di Catanzaro e quella di Lamezia Terme per la destinazione degli uffici provveditoriali". Il comitato specifica che "non discute una scelta, che rientra nel piano nazionale di razionalizzazione della spesa pubblica, ma punta il dito sulla bassa strumentalizzazione che è stata perpetrata, a far data dalla chiusura del carcere di Lamezia Terme (marzo 2014), fino a tale naturale passaggio. Infatti chi di dovere ha saputo abilmente sviare l’attenzione dell’allora Giunta Speranza con la falsa prospettiva che a fronte della chiusura del carcere cittadino si sarebbero trasferiti a Lamezia Terme gli Uffici regionali del Prap continuando sulla stessa linea anche con la giunta Mascaro che nonostante i tentativi di dialogo con l’Amministrazione Penitenziaria ha dovuto cedere alla sua maggioranza, da sempre abbagliata dalla presunta facilità di attuazione di una promessa proveniente addirittura dal Ministro della Giustizia!". "Resta il fatto indiscutibile - prosegue il comitato - che la città di Lamezia Terme è l’unica in tutta la nazione ad avere un Tribunale con un circondario vastissimo e non una Casa Circondariale contrastando, in tal modo, con l’art. 60, III comma, della legge 354/75, rubricato "Istituti di custodia preventiva", a norma della quale "le case circondariali assicurano la custodia degli imputati a disposizione di ogni autorità giudiziaria. Esse sono istituite nei capoluoghi di circondario". "E non solo, - prosegue - con l’attuale sovraffollamento della popolazione detenuta, ci si ritrova ad avere un istituto dismesso, adeguato alle normative vigenti, che assicurava un servizio di continuità tra la locale Procura e le forze dell’ordine, in particolar modo ora che la Compagnia dei Carabinieri è divenuta sede del Gruppo Carabinieri, promozione che indica un segno chiaro di lotta alla criminalità che per la Calabria passa anche attraverso la città di Lamezia Terme. Appare quindi evidente, adesso che il Provveditorato è finalmente palesemente sfumato, che l’impegno della politica lametina dovrebbe mirare a creare tutti quegli accordi e sinergie volte a riavere la nostra struttura carceraria a cui tra l’altro sono stati recentemente stanziati circa 40 mila euro per il ripristino di tutte quelle prove strutturali che erano state effettuate al fine di verificare la possibilità di adeguarlo a uffici regionali dell’Amministrazione Penitenziaria. Un ulteriore spreco fatto a discapito di quell’adeguamento normativo alle leggi penitenziarie ed europee di cui era stato oggetto proprio prima della chiusura il nostro istituto. Sarebbe più logico e funzionale destinare una tale somma in vista di una riapertura del carcere al fine di contenere l’attuale crescita esponenziale della popolazione detenuta, garantire il principio della territorialità della pena e ridare alla città di Lamezia Terme ciò che con l’inganno le è stato tolto. E condividendo le parole del Sindaco Paolo Mascaro, se un minimo di orgoglio e dignità è rimasto, "bisogna lottare per ciò che ci è stato tolto e non per ciò che non abbiamo mai avuto e che per legge non siamo deputati ad avere"…sempre se non restano solo e sempre belle parole". Roma: "eWriting", l’arte dello scrivere corre sul web e unisce 4 carceri di Teresa Valiani Redattore Sociale, 12 ottobre 2017 Parte da Roma per raggiungere istituti di tutta Italia il primo laboratorio di scrittura creativa in e-learning organizzato in carcere. Il progetto è inserito nella nuova edizione del concorso letterario "Goliarda Sapienza". Tra gli insegnanti: Erri De Luca, Pino Corrias, Gianrico Carofiglio. Premiazione al prossimo Salone del Libro di Torino. Un laboratorio di scrittura creativa a distanza nelle carceri, il primo in Italia, 60 detenuti partecipanti, tra cui 15 donne e ristretti dell’alta sicurezza. Un punto di partenza, l’Università telematica eCampus di Roma, e 4 di arrivo: gli istituti Rebibbia Femminile, Rebibbia Reclusione, Santa Maria Capua Vetere e Saluzzo. Tre mesi e mezzo di corso, organizzato in 15 lezioni (una ogni settimana, di 2 ore ciascuna), da ottobre a gennaio, con altrettanti scrittori nel ruolo di tutor. E una giuria che apre anche a studenti, grandi lettori e ascoltatori radiofonici. Sono i nuovi numeri dello storico premio letterario "Goliarda Sapienza", rivolto a detenuti, che quest’anno cambia veste e lancia una doppia sfida: l’e-learning con il collegamento tra le carceri e una nuova apertura verso l’esterno. La premiazione del vincitore, infatti, non si terrà più in un istituto di pena ma tra la gente, in un luogo simbolo della cultura come il prossimo Salone Internazionale del Libro di Torino. Ideato dalla giornalista Antonella Bolelli Ferrera, giunto alla settima edizione e promosso da InVerso Onlus, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e Siae, il concorso propone quest’anno "eWriting - l’arte dello scrivere", laboratorio di scrittura creativa a distanza nelle carceri. partito il 3 ottobre e che vede coinvolti 15 scrittori nella veste di tutor, come nella tradizione del "Goliarda Sapienza". L’autobiografia, i dialoghi, il punto di vista, lo stile, la tensione, l’intreccio e il finale, i personaggi, le storie d’amore, il giallo e il noir, tra gli argomenti al centro delle lezioni dei 15 autori che sono Romana Petri, Serena Dandini, Antonio Pascale, Paolo Di Paolo, Maria Pia Ammirati, Erri De Luca, Marcello Simoni, Pino Corrias, Andrea Purgatori, Dacia Maraini, Federico Moccia, Gianrico Carofiglio, Massimo Lugli, Nicola Lagioia e Giulio Perrone. In collegamento diretto dalla sede di Roma dell’università telematica eCampus (partner dell’iniziativa), gli Scrittori-Tutor fanno lezione ai detenuti aspiranti scrittori che partecipano al corso all’interno di aule attrezzate con grande schermo, webcam, impianto audio, microfoni e computer. I migliori 20 corsisti saranno i finalisti del Premio Goliarda Sapienza. Mentre l’autore del racconto vincitore sarà annunciato e premiato nel corso del Salone del Libro di Torino 2018. "Il leitmotiv di questa nuova edizione è "la scrittura nasce dentro ma ti porta fuori" - spiega Antonella Bolelli Ferrera, curatrice del concorso. Oggi il Premio si amplia e si completa, rinnovandosi. Con eWriting chiudiamo un cerchio già tracciato: dopo una fase di interazione fra scrittori e detenuti attraverso il laboratorio telematico, la scrittura carceraria esce dalle mura in cui è stata generata e raggiunge il mondo esterno, approdando ad una delle più importanti manifestazioni letterarie italiane". "Si amplia tutto il significato del concorso - sottolinea l’ideatrice. Prima il racconto nasceva dentro e restava dentro, anche se il libro che raccoglie i testi migliori portava fuori dal carcere le storie delle persone. Ora vogliamo cercare di portare fuori anche soltanto una persona, simbolicamente, che è il vincitore, o anche qualche altro corsista che arriverà in finale. Il sogno di tutti i detenuti è uscire, anche solo per un giorno. Portare questo premio, che li riguarda, al Salone del Libro con uno o più di loro, ha un profondo significato". I 60 corsisti, dotati di un pc portatile donato dall’organizzazione, dialogano con gli Scrittori-Tutor collegandosi in diretta video con l’aula virtuale dell’Università eCampus dove, di volta in volta, gli autori si avvicendano. Mentre in alcuni casi gli scrittori svolgono il loro incontro letterario all’interno di un carcere e in diretta con gli altri istituti. Ogni settimana, nelle vesti di Scrittore-Editor, Cinzia Tani affronta un argomento e segue l’intervento di uno Scrittore-Tutor che interagisce con i detenuti rispondendo in diretta alle loro domande e fornendo suggerimenti. Nel corso del laboratorio, i detenuti, dislocati in carceri diverse, sono accompagnati nell’apprendimento delle tecniche di scrittura e guidati nella composizione dei loro racconti come se fossero nella stessa aula. "Credo fortemente nelle possibilità taumaturgiche della scrittura - sottolinea Dacia Maraini, da sempre madrina del Premio e da quest’anno anche Tutor -. L’evoluzione del Premio Goliarda Sapienza con il laboratorio di scrittura, che lo precede, è un passaggio necessario: in questo modo, le detenute e i detenuti, ricchi delle proprie storie di vita e d’azione, apprendono le regole del mestiere dello scrittore, in un percorso che prima prepara e poi accoglie le idee, un terreno fertile per la riflessione e per una narrazione consapevole". "I 60 racconti redatti durante l’attività di laboratorio - spiega una nota dell’organizzazione - saranno quelli in concorso al Premio. La giuria, composta da scrittori, critici letterari, artisti e, altra novità di quest’anno, da studenti, grandi lettori e ascoltatori radiofonici, decreterà il vincitore fra i 20 racconti ammessi alla finale. Il primo classificato, a cui andrà un premio di 2.500 euro, sarà annunciato e premiato nel corso del Salone del Libro di Torino (10-14 maggio 2018) e, nell’occasione, sarà presentato il libro con i venti racconti finalisti della serie "Racconti dal carcere" (Giulio Perrone Editore), distribuito nelle librerie. Alla premiazione saranno presenti anche persone detenute e Scrittori-Tutor che hanno partecipato al progetto. "Sono orgoglioso di prendere parte a questo laboratorio di scrittura del Premio Goliarda Sapienza, la cui premiazione si terrà quest’anno a Torino - spiega il direttore del Salone del Libro, Nicola Lagioia. Promuovere la lettura nelle carceri, e in generale far sentire la propria presenza negli istituti di detenzione perché la pena sia uno strumento di rieducazione come previsto dalla carta costituzionale, è da sempre nella cultura e nelle corde del Salone. La vicinanza al Premio Goliarda Sapienza si affianca alle altre nostre iniziative legate alle carceri, su cui pure continueremo a lavorare". Catanzaro: una squadra di detenuti prenderà parte al torneo Amatori Figc catanzaroinforma.it, 12 ottobre 2017 Protocollo d’intesa siglato dalla direttrice della Casa Circondariale Angela Paravati e dal presidente del Comitato Regionale Calabria, Saverio Mirarchi. Uno degli obiettivi principali della detenzione è quello di permettere il pieno reintegro nella società dei rei in stato di fermo in carcere: da questo presupposto è nato un importante progetto condiviso dalla direttrice della Casa Circondariale di Catanzaro, Angela Paravati e dal presidente del Comitato Regionale Calabria, Saverio Mirarchi, formalizzato attraverso la firma di un protocollo d’intesa che prevede la partecipazione di una squadra della Casa Circondariale di Catanzaro che debutterà nel campionato di calcio amatoriale che in Calabria è ormai una realtà partecipata ed affermata. È la prima volta che in Calabria viene attuata un’iniziativa del genere, con una squadra di detenuti che parteciperà ad un campionato vero e proprio, consentendo l’inclusione in attività sociali e ricreative. I componenti della formazione avranno la possibilità di vivere, grazie allo sport più praticato in Italia, momenti di aggregazione, di libertà e di emozioni che solo il rettangolo di gioco sa dare. La direttrice Paravati "Sono questi i valori sportivi che i detenuti avranno modo di provare". È sicura la direttrice Angela Paravati, promotrice di questa importante iniziativa insieme al Comitato Calabria. "Sono molti gli aspetti positivi di questo progetto: il primo è proprio l’utilità dello sport, fondamentale per persone che sono costrette dalla detenzione ad una vita sedentaria. È importante lo sport, perché ti insegna a stare insieme, a rispettare le regole, quindi a socializzare e soprattutto a controllare la propria personalità, quindi sotto questo punto di vista è anche terapeutico. Essere inseriti in un campionato ufficiale è importante perché viene meno l’isolamento a cui i componenti della squadra sono costretti in carcere". Sana competizione - La formazione affronterà il campionato con la sana competizione necessaria. "Sarà un momento di rivalsa - continua la Direttrice Paravati - per chi sta affrontando un processo di riabilitazione sociale, e sa di aver sbagliato. Ed una competizione sportiva darà certamente la possibilità di far emergere i propri lati positivi". Una novità assoluta, dunque, per la Calabria calcistica che, seppure a livello amatoriale, darà l’opportunità di conoscere una realtà "particolare", di uomini che si rimettono in gioco e cercano attraverso lo sport di sentirsi ancora parte della società. Mirarchi - "La collaborazione con la Direzione della Casa Circondariale di Catanzaro e la conseguente partecipazione di una squadra di detenuti al Torneo Amatoriale è una iniziativa che consente di dare priorità a valori fondamentali per il calcio di base quali l’integrazione ed il rispetto delle regole. Sarà una novità che sono sicuro le nostre squadre, che ormai da tanti anni partecipano a questo divertente campionato, sapranno accogliere con grande entusiasmo e partecipazione. Tutti insieme contribuiremo a svolgere quella funzione sociale che appartiene indiscutibilmente al mondo del calcio dilettantistico". Così il Presidente del Comitato regionale Calabria Saverio Mirarchi, ha inteso presentare le attività del Torneo che partirà nella prima settimana di novembre. "Reclusi. Il carcere raccontato alle donne e agli uomini liberi", di N. Gratteri e A. Nicaso nuovatlantide.org, 12 ottobre 2017 Pubblichiamo la prefazione del libro "Reclusi. Il carcere raccontato alle donne e agli uomini liberi" (Carocci Editore) nel quale si ragiona sulla detenzione penitenziaria. Il compito della giustizia non è la vendetta, ma il ravvedimento, la rieducazione e, in caso di successo, il reinserimento sociale. Per questo la galera deve poter essere il luogo dove riflettere su se stessi, dove ritrovare la voglia di esistere e darsi delle regole. È un libro che coniuga con grande efficacia lo studio scientifico della società con il lavoro quotidiano della Polizia penitenziaria. Uno spaccato a più voci su "quello che c’è dentro", uno sguardo negli abissi della natura umana. Chi non è mai entrato in un carcere immagina i detenuti come tanti dannati dell’Inferno dantesco, schiacciati dal peso dell’errore commesso. I giornali parlano di sovraffollamento e Papa Francesco ricorda continuamente l’importanza di migliorare le condizioni carcerarie, nel rispetto della dignità umana. Chi come noi è convinto dell’origine ambientale del male, pensa che non esistano persone geneticamente predisposte al delitto, ma persone psicologicamente più fragili, spesso spinte al crimine da fattori esterni, come la famiglia, la cultura, il disagio sociale o psichico. Se si accetta questo presupposto scientifico, si è consapevoli che il compito della giustizia non è la nemesi, la vendetta, ma il ravvedimento, la metanoia, e dunque la rieducazione e, in caso di successo, il reinserimento sociale. Bisogna provarci, anche se ci sono detenuti che sfuggono alla possibilità del ravvedimento, avendo giurato fedeltà a un’organizzazione mafiosa che non consente deroghe alla dissoluzione anticipata del contratto di status. Più volte, è stata proposta l’idea di impegnare i detenuti in attività lavorative, suggerendo la modifica della legge sul lavoro stipendiato nelle carceri. Ma, nonostante le statistiche confermino l’importanza dell’occupazione sia come garanzia di riabilitazione sia come calo delle recidive, sono ancora proposte ignorate. Purtroppo, quasi l’80% dei detenuti continua a guardare il soffitto della cella. Una brava giornalista come Milena Gabanelli, durante una puntata di Report, ha suggerito di cambiare la norma, "ispirandosi ad alcune felici esperienze del Nord America, dove l’amministrazione penitenziaria calcola lo stipendio, ma lo trattiene a compensazione delle spese di mantenimento, lasciando [ai detenuti alcune decine di dollari] per le piccole necessità e concedendo [loro] benefici e sconti di pena". Un sistema che ha incentivato il detenuto a darsi da fare, favorendone il reintegro attraverso l’apprendimento di un mestiere, e consentendo al sistema carcerario di non gravare esclusivamente sulle casse dello Stato. Di lavoro da fare nelle carceri ce n’è tanto, così come ce n’è in tanti altri ambiti sociali, soprattutto quello del volontariato. Le stesse attività artistico-ricreative sono altrettanto importanti per il reintegro sociale, come ha confermato la felice esperienza di alcuni detenuti del carcere di Rebibbia nel film con cui i fratelli Taviani hanno vinto l’Orso d’Oro al Festival di Berlino nel febbraio del 2008. Sono modelli esemplari di rieducazione del condannato nel paese di Cesare Beccaria, il cui spirito è stato pienamente raccolto nel nostro dettato costituzionale: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato" (art. 27). In questo manuale, necessario per capire "quello che c’è dentro", gli autori riflettono sul sistema carcerario e lo fanno dando voce ai detenuti. Le lettere, le istanze presentate al comandante della Casa circondariale di Taranto diventano materiale di studio, di confronto, verso cui orientare l’attenzione del lettore. La drammaticità delle parole, in alcuni casi, viene accompagnata dalla leggerezza, dal sorriso di un desiderio, di un sogno, di una necessità che può sembrare trascurabile per la vita di una donna o di un uomo libero ma che nel contesto della detenzione assume la salienza del bisogno, della gratitudine, della consapevolezza che cambiare sia ancora possibile. Il libro prova ad entrare all’interno del sistema carcerario per renderlo più comprensibile, per spiegarlo a chi non conosce le sue trame, la sua organizzazione, la sua burocrazia, il lavoro quotidiano di tanti operatori. Il cittadino libero deve sapere, deve cercare di capire per potersi sottrarre egli stesso all’indifferenza, alla facile condanna. Il dialogo ad un certo punto del libro si allarga e non sono più due voci ma tante, tutte diverse eppure simili, così sorprendentemente vicine all’essere e ai bisogni delle donne e degli uomini liberi. Perché dialogare si può. Perché, forse, si deve. Possiamo dire che l’Italia è uno dei paesi europei con il più alto tasso di sovraffollamento a cui corrispondono da una parte la volontà di ampliare il numero di posti disponibili, dall’altra, e si tratta della minoranza, di accedere con maggiore facilità alle misure alternative. Quanto queste due posizioni nel tempo hanno provato ad incontrarsi e non a prevaricarsi? Quanto il tempo trascorso in carcere riduce la sensibilità rispetto all’afflittività della pena carceraria? Quanto la durata della carcerazione incide sull’effetto di intimidazione della pena detentiva? Forse è da queste domande, ma più ancora dalla necessità di porsele, che una riflessione reale dovrebbe partire sull’intero sistema carcerario italiano. C’è bisogno di un senso più profondo di responsabilità. Il carcere deve poter essere il luogo dove riflettere su se stessi, dove ritrovare la voglia di esistere e darsi delle regole. Chi è recluso è una persona. Chi garantisce la sicurezza deve sentirsi persona tra le persone. Luogo di detenzione e luogo di lavoro, il carcere non può essere inteso solo in chiave coercitiva. Per quello che resta, per quello che ancora può essere, per quello a cui ognuno di noi è chiamato a contribuire. *Nicola Gratteri è un magistrato e saggista italiano, dal 2009 procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Calabria. Dal 2016 procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Catanzaro. Attualmente è uno dei magistrati più conosciuti della dda. Impegnato in prima linea contro la ‘ndrangheta, vive sotto scorta dall’aprile del 1989. **Antonio Nicaso è un giornalista, saggista e consulente italiano. È componente dell’International Advisory Council dell’Istituto italiano di Studi strategici Niccolò Machiavelli (Italia) e del Comitato scientifico del "Nathanson Centre on Transnational Human Rights, Crime and Security", all’Università di York (Canada). Nel 2012 è stato nominato codirettore del Centro di semiotica forense presso il "Victoria College" dell’Università di Toronto. Insegna presso la Scuola Italia del Middlebury College a Oakland, California e alla Queen’s University a Kingston, Canada. È autore di numerosi bestseller internazionali. Il risentimento che ci riguarda e l’invenzione del "gentismo" di Giuliano Santoro Il Manifesto, 12 ottobre 2017 "La Gente", un denso volume del giornalista Leonardo Bianchi per minimum fax. Da oggi in libreria e il 21 a Genova per Book Pride. La rete è ormai precipitata sulla terra. L’uso superficiale del mix di linguaggi vecchi e nuovi - che chiamiamo per semplicità web 2.0 - è arrivato in strada, ha contagiato un pezzo di mondo intellettuale, colonizzato il confronto politico mainstream, ha smesso di essere soltanto una bolla virtuale. Ciò produce effetti concreti e rapidissimi. È accaduto di recente. La demonizzazione delle Ong operanti nel Mediterraneo è partita da un video virale, poi ha trovato sponda in Striscia la Notizia e Luigi di Maio e infine è approdata ai tavoli strategici del Viminale. Di questi fenomeni si occupa La Gente. Viaggio nell’Italia del risentimento (Minimum Fax, pp. 362, euro 18), libro con cui il giornalista Leonardo Bianchi raccoglie anni di studi e osservazioni di un fenomeno che, adottando una definizione ancora sperimentale ma urgente, viene chiamato "gentismo". Bianchi parla di un tema globale, è impossibile non pensare alla vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti. Ma nel paese che ha inventato la Lega e Berlusconi, questa storia assume caratteri peculiari. Il titolo rimanda direttamente a "La Casta", il mega-seller figlio di una campagna stampa messa in piedi anni fa dal Corriere della Sera. Secondo alcuni testimoni, il tutto era funzionale alla discesa in campo dell’ennesimo imprenditore da contrapporre ai "politici di professione". Come è noto, se ne avvantaggiarono Grillo e Casaleggio, che rimodularono la loro comunicazione sui temi degli sprechi della politica corrotta. Se già è difficile definire il concetto di populismo, non è affatto semplice cogliere l’essenza del gentismo. Obbligati ad una certa approssimazione, diremmo che se il populismo è la capacità di costruire un popolo sul quale poi esercitare sovranità, il gentismo è una sua variante. Muove i primi passi nelle piazze microfonate inventate da Michele Santoro ai tempi di Tangentopoli e poi traslocate nei preserali a tema unico (immigrati e rom) di Mediaset come dai comizi su YouTube di leader autoproclamatisi voce della "gente". Il capo gentista usa i media per dialogare col suo popolo, ma è al tempo stesso consapevole del fatto che il suo discorso è impossibile da disarticolare perché non ha, e non può avere, nessuna linearità. È una narrazione sincretistica e disarmonica, priva di ogni consequenzialità. Solo così, ad esempio, è possibile spiegare per quale motivo Yair Netanyahu, figlio del premier israeliano, abbia potuto diffondere via social la paccottiglia antisemita sul miliardario ebreo Soros come burattinaio occulto del mondo. O capire come, per tornare in Italia, ad un convegno sui beni comuni si sia finiti a discutere anche della bufala della Hazard Circular, una lettera tra banchieri scritta al tempo dell’abolizione della schiavitù negli Usa, che conterrebbe il disegno del governo della moneta come forma più sottile e subdola di sottomissione. Il gentista può infischiarsene delle contraddizioni, attinge dall’estrema destra e dall’estrema sinistra, si appiglia ai cardini del liberalismo e al tempo stesso sventola lo spettro di una qualche dittatura stalinista e/o nazista. Grazie alle micro-nicchie di cui è composto l’audience cui ogni gentista si rivolge, il suo argomentare sarà composto da brandelli di storie rimescolate alla bisogna. Siamo oltre le fake news: è lo spappolamento della verità. Il tema comporta due rischi, opposti e speculari, che Leonardo Bianchi evita con perizia. Da un lato, si potrebbe cedere alla tentazione di porsi su di un piedistallo, inarcare il sopracciglio e giudicare con scalpore lo sgrammaticare della "ggente". D’altro canto, c’è il pericolo parallelo di blandire questa parodia della rivoluzione. Questo secondo atteggiamento, a ben vedere, è ancora più elitario del primo, è animato dalla pretesa di indirizzare gli umori della gente dall’alto di una qualche posizione d’avanguardia, manovrando le leve della comunicazione e della tattica. Bianchi bada all’osso, come quando ripercorre l’origine del fantomatico Piano Kalergi, volto a sostituire le popolazioni occidentali con masse di schiavi meticci. Fino a pochi anni fa argomento da neonazisti, oggi quel testo viene citato con piglio serioso dal sedicente marxista Diego Fusaro (vero filosofo del gentismo, apprezzato da xenofobi e indignati qualunque, ben introdotto nei salotti televisivi e pubblicato dalle grandi case editrici progressiste). Si sarà capito: questo non è un libro sul web o sulla comunicazione, contiene pagine scritte sull’asfalto rovente, che raccontano il tentativo neofascista di prendersi le periferie romane modulando il discorso gentista. Dulcis in fundo, documenta le tattiche gentiste sul web di certa comunicazione renziana. Ennesima prova del fatto che i primi gentisti non erano bizzarri agitatori ma pionieri esponenti di una nuova mutazione della politica dopo la fine della rappresentanza Migranti. Il Consiglio d’Europa: "L’Italia chiarisca accordo con la Libia". di Alberto D’Argenio La Repubblica, 12 ottobre 2017 Minniti: "Mai fatto respingimenti". Da Strasburgo il 28 settembre il commissario dei Diritti umani, Nils Muiznieks, ha scritto al ministro degli Interni Marco Minniti. La lettera, resa pubblica in assenza di una risposta dall’Italia, spinge il ministro dell’Interno a replicare: "Sui diritti umani non abbiamo nulla da rimproverarci". Il Consiglio d’Europa richiama l’Italia sul dossier libico. L’organizzazione con sede a Strasburgo - esterna all’Unione europea che vigila sul rispetto dei diritti umani - in particolare chiede chiarimenti al ministro degli Interni, Marco Minniti, su come l’Italia intenda garantire la tutela dei migranti intercettati in acque libiche e rispediti nei campi in cui vengono sottoposti a trattamenti degradanti: "Le sarei grato se potesse chiarire che tipo di sostegno operativo il suo governo prevede di fornire alle autorità libiche nelle loro acque territoriali e quali salvaguardie l’Italia ha messo in atto per garantire che le persone salvate o intercettate non rischino torture e trattamenti e pene inumane", scrive il commissario dei Diritti umani Nils Muiznieks nella missiva inviata al capo del Viminale lo scorso 28 settembre che il Consiglio d’Europa in assenza di una risposta ha deciso di rendere pubblica. Da agosto l’Italia - con l’approvazione dell’Unione europea - ha scritto un codice di condotta per le Ong limitandone il raggio d’azione e ha affiancato le sue navi a quelle della Guardia costiera libica, operazione grazie alla quale gli sbarchi sono drasticamente diminuiti. Ovviamente Muiznieks apre il suo scritto con parole di apprezzamento per gli sforzi di Roma nel "salvare i migranti in mare e per l’accoglienza riservata a chi sbarca sulle coste italiane", una sfida che "sta affrontando con una attività di solidarietà impressionante". Ma poi va dritto al punto, ovvero alle condizioni disumane alle quali sono costretti i migranti bloccati nei campi libici già stigmatizzate dall’Onu e da diverse Ong. Un punto critico che comunque non sfugge all’Italia e all’Unione europea, che da mesi lavorano (e stanziano fondi) affinché l’Unhcr e lo Iom possano lavorare liberamente in Libia per allestire campi nel rispetto dei diritti umani. Operazioni che però vanno a rilento per via delle scarse condizioni di sicurezza nel Paese. Muiznieks ricorda la sentenza del 2012 (Hirsi Jamaa contro Italia) con cui la Corte europea dei diritti umani aveva condannato Roma per aver consegnato migranti alla Libia. Secondo il commissario del Consiglio d’Europa la situazione oggi non è meno preoccupante di allora: "Consegnare individui alle autorità libiche o altri gruppi in Libia li esporrebbe a un rischio reale di tortura o trattamento inumano o degradante e il fatto che queste azioni siano condotte in acque territoriali libiche non assolve l’Italia dagli obblighi previsti dalla Convenzione sui diritti umani". Per questo il commissario del Consiglio d’Europa chiede a Minniti di chiarire "che tipo di operazione di sostegno" il governo italiano fornisce alla Libia nelle sue acque territoriali e "quali salvaguardie l’Italia ha messo in atto per assicurarsi che le persone che dovessero essere intercettate e salvate dalle navi italiane non siano esposte a una situazione in cui si troverebbero a fronteggiare un vero rischio di trattamento o punizione contrario all’articolo 3 della Convenzione". Nel documento si chiedono anche informazioni sul Codice di condotta per le Ong coinvolte in operazioni di salvataggio in mare, una richiesta già rivolta a Roma in una lettera adottata ieri dalla commissione migrazioni dell’Assemblea parlamentare del consiglio d’Europa e indirizzata al capo della delegazione italiana, Michele Nicoletti. La tirata d’orecchie ha spinto il ministro in persona a intervenire per replicare: "Mai" - risponde Minniti - navi italiane o che collaborano con la Guardia costiera italiana hanno riportato in Libia migranti salvati in mare, e "l’Italia non sottovaluta affatto" il tema del rispetto dei diritti umani in Libia, semmai lo ritiene "cruciale" e per questo lo considera elemento chiave dell’intera azione sviluppata dal governo italiano in fatto di migranti. Minniti, in sostanza, ha detto che l’Italia non ha nulla da rimproverarsi, ovvero i migranti salvati non vengono rispediti in Libia e che la collaborazione con le autorità di quel Paese è finalizzata unicamente a rafforzare le capacità operative della locale Guardia costiera, attraverso la formazione, l’equipaggiamento e il supporto logistico in stretta sinergia con gli organismi Ue, e non certo ad attività di respingimento. Il piano d’azione del governo italiano, sottolinea il ministro, fa perno "anche ma non solo" sul sostegno alla Libia nel controllo delle frontiere e alla gestione dei flussi migratori, con obiettivo quello di favorire una riduzione di questi stessi flussi e contribuire - di conseguenza - a ridurre il rischio di naufragi. E non c’è modo migliore dell’azzeramento delle partenze dalle coste libiche per azzerare questo rischio. Ma tutto questo non equivale a dire - è la sostanza della risposta di Minniti - che l’Italia non abbia a cura il tema del rispetto dei diritti umani. Anzi, dichiara il ministro dell’Interno, proprio il rispetto di questi standard internazionali di accoglienza è punto fermo nel dialogo tra l’Italia e la Libia. Minniti ricorda infine che l’Italia sta portando avanti le sue azioni in "piena sintonia" con la Commissione e con i Paesi Ue, sebbene ci sia la consapevolezza della necessità di allargare il coinvolgimento internazionale, ovvero con un ruolo cruciale dell’Onu. Migranti. Ergastolo al somalo che torturò i profughi nel campo libico di Franco Vanni La Repubblica, 12 ottobre 2017 Osman Matammud non dovrà più passare nemmeno un giorno da uomo libero sul territorio italiano. Lo ha deciso la Corte d’assise, che ha condannato il 22enne somalo all’ergastolo, disponendo che in caso di scarcerazione anticipata sia immediatamente allontanato dall’Italia. La decisione del carcere a vita ricalca la richiesta del pubblico ministero Marcello Tatangelo, che ha ritenuto l’imputato responsabile di almeno quattro omicidi ("numerosi", ha detto in requisitoria), stupri anche a danno di minorenni e torture ai migranti prigionieri nel campo di reclusione libico di Bani Whalid, vicino a Tripoli. Matammud fu fermato nel settembre del 2016 dalla polizia locale vicino alla stazione Centrale, dopo essere stato indicato da alcune migranti centrafricane come responsabile di violenze e soprusi in Libia, dove sarebbe stato "uno dei capi" del centro di detenzione. Sono in tutto diciassette le vittime di violenze sentite dai magistrati, dieci in regime di incidente probatorio prima dell’avvio del dibattimento, le altre in aula di fronte alla corte. "Quasi ogni notte veniva a prendermi per violentarmi, quando ancora ero minorenne", ha riferito nel processo una ex detenuta di Bani Whalid, nel frattempo arrivata con un barcone in Italia. Altre vittime hanno testimoniato di come Matammud avrebbe "rotto ossa con tubi di ferro" a giovani rinchiusi, "incendiato sacchetti" sulla schiena di migranti detenuti "di modo che la plastica sciolta li ustionasse". E in più occasioni si è fatto riferimento a una "stanza delle torture" che il 22enne somalo avrebbe gestito, anche allo scopo di estorcere denaro ai parenti dei reclusi, a cui faceva "sentire per telefono le urla di dolore dei torturati". Un quadro raccapricciante, che ha portato il procuratore aggiunto Ilda Boccassini a parlare del "più grande orrore che ho mai visto in 40 anni di indagini". Se la tesi dell’accusa - fondata sulle testimonianze delle vittime - ha convinto la Corte d’assise, la difesa dell’imputato fino all’ultimo ha sostenuto che invece Matammud sarebbe stato a sua volta vittima di violenza. E che anzi sarebbe stato individuato come capro espiatorio, dopo essere entrato in conflitto con un potente ras del racket dei migranti, provenienti soprattutto dall’Africa centro-orientale e diretti in Europa tramite la Libia. L’avvocato Gianni Carlo Rossi, legale dell’uomo, nella sua arringa ha definito Matammud "un migrante che ha viaggiato fra i migranti, senza possibilità economiche, e che si è comportato come gli altri". Per Rossi, il suo assistito non avrebbe "commesso i reati contestati". Una ricostruzione molto diversa da quella fatta dal pm Tatangelo, per cui Matammud sarebbe invece "un sadico che si diverte a torturare e uccidere". Nel condannarlo all’ergastolo, con tre anni di isolamento diurno, la Corte d’assise ha anche stabilito che il 22enne debba versare alle vittime una provvisionale 850mila euro. Lui, appresa la decisione, si è limitato a dire: "Ora spero nel cielo". In rete a caccia dei trafficanti delle nuove droghe chimiche: fermarli è quasi impossibile di Gabriele Martini La Stampa, 12 ottobre 2017 L’ufficio è anonimo, le pareti spoglie. Dentro la cornice da tavolo appoggiata sulla scrivania non c’è la fotografia di una famigliola felice, bensì lo stemma del Napoli Calcio. Il maggiore Giuseppe Grimaldi, originario di Caserta e trapiantato a Roma, incrocia le mani e sorride sornione indicando lo schermo del computer: "Cosa facciamo qui? Diamo la caccia ai trafficanti di droga sul web. Ma mi piace pensare che oggi la mia missione sia quella di proteggere i giovani". "Venga con me, i miei ragazzi devono mostrarle una cosa", dice Grimaldi. Il sito è simile a tanti altri negozi online, con due differenze sostanziali: i prodotti in vendita sono sostanze stupefacenti e si paga in bitcoin, la moneta virtuale che non lascia tracce. L’offerta è sterminata, ma a farla da padrone sono le nuove droghe sintetiche. "Siamo nel Deep Web, l’Internet sommerso composto da tutte quelle pagine inaccessibili dai normali motori di ricerca", spiega l’ispettore di polizia Mauro Ciotti. "Questo è uno degli innumerevoli supermarket online della droga. Noi monitoriamo circa 30 portali al giorno, ma ne nascono di nuovi in continuazione". Descrizioni e commenti sono in inglese, i prezzi partono da dieci euro. Ognuno di questi siti ospita le inserzioni di centinaia di spacciatori. Sembra di stare su Amazon: il cliente sceglie, ordina, paga e la merce arriva a casa via posta. A consegnarla, quasi sempre, è l’ignaro postino. All’interno della direzione centrale per i Servizi antidroga lavora dal 2014 la sezione operativa "drug@online": i "ragazzi" del maggiore Grimaldi sono quindici agenti che hanno il compito di monitorare la rete per prevenire e contrastare il commercio illegale di droghe e coordinare le attività di repressione sul territorio. Si tratta di un nucleo interforze: ci sono carabinieri, poliziotti, finanzieri. Ormai il commercio delle sostanze sintetiche di ultima generazione avviene attraverso circuiti alternativi rispetto a quelli dello spaccio tradizionale. Il 9% degli studenti che ha fatto uso di sostanze illegali riferisce di poterle reperire facilmente via web. Ma perché i ragazzi scelgono di comprare le droghe chimiche in rete? "Non perché risparmiano", spiega Pietro Cardone, appuntato scelto della Guardia di Finanza: "La verità è che acquistare online è meno rischioso rispetto a rifornirsi per strada". La rotta d’Oriente - "La compravendita di droghe via Internet è un fenomeno sempre più diffuso tra i più giovani, anche se spesso viene ridimensionato perché si tratta di quantitativi modesti", conferma Guido Coppola, della direzione centrale per i servizi antidroga. "È un affare enorme - aggiunge Grimaldi - e credo che anche la criminalità organizzata sia entrata in questo business". Le nuove droghe chimiche nascono nei laboratori d’Oriente: Cina, Vietnam, Taiwan. Le sostanze entrano in Europa quasi sempre attraverso il porto di Rotterdam. In Italia avviene il confezionamento, l’ultimo passaggio prima di finire sulle piazze di spaccio (virtuali o reali che siano). "La grande varietà di cannabinoidi sintetici e le differenti composizioni chimiche rendono queste sostanze molto pericolose e difficilmente identificabili", si legge nella relazione annuale 2017 al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze in Italia. I chimici criminali che brevettano pasticche, liquidi e polverine ne cambiano di continuo la composizione a seconda delle richieste dei consumatori. Come in un’infinita battaglia tra guardie e ladri, non appena uno di questi composti sta per essere messo al bando come sostanza illegale già è disponibile per il mercato un prodotto sostitutivo, con una composizione chimica leggermente modificata. Il passo falso - I trafficanti di droga online si nascondono dietro l’anonimia del Deep Web. Individuarli non è facile. "È triste ammetterlo, ma le possibilità di essere scoperti sono minime", ammette Grimaldi. Però chiunque, prima o poi, commette un errore: "Quando pensiamo che dietro il profilo di un venditore online ci sia uno spacciatore italiano, ci muoviamo coordinando i reparti sul territorio". Spesso si tratta di operazioni sotto copertura che prevedono acquisti simulati di droga: nell’ultimo anno ne sono state condotte una cinquantina, cinque i chili di droga sequestrati. Quando il cerchio si stringe l’indagine prosegue con metodologie classiche: controlli incrociati, intercettazioni telefoniche, pedinamenti, appostamenti fuori dagli uffici postali da cui partono i pacchi. "Non ci interessa il ragazzino che compra un paio di pasticche, puntiamo ai pesci grossi", spiega Grimaldi. Come Alberto Villa, insospettabile 31enne di Lecco che si era trasformato in un super spacciatore del Deep Web. In rete era noto come "The italian master". Nella vita reale risultava disoccupato, ma possedeva una Porsche, un motoscafo e tre moto. Prima di finire in cella aveva creato un piccolo impero criminale acquistando e rivendendo sostanze online. Senza mai alzarsi dalla scrivania. Brasile. Il presidente Temer vuole revocare l’asilo a Battisti, attesa per l’estradizione La Repubblica, 12 ottobre 2017 La difesa di Battisti afferma che "non è possibile" rivedere la protezione concessa da Lula. Sospeso anche il permesso di soggiorno. Il presidente del Brasile vuole revocare lo status di rifugiato politico a Cesare Battisti e il permesso di soggiorno. L’estradizione dell’ex terrorista dei Proletari Armati per il Comunismo (Pac) Cesare Battisti dal Brasile all’Italia sembra aver compiuto un passo avanti. Il presidente Michel Temer ha revocato lo status di rifugiato - concesso dall’ex presidente Inacio Lula da Silva - e ha dato ordine di estradarlo in Italia sempre che, nel mentre, i giudici del Tribunale Supremo Federale non accettino la richiesta di ‘habeas corpus’ (si esprimano contro la limitazione delle libertà personali) chiesta dai suoi legali lo scorso 25 settembre quando il governo italiano ripresento la richiesta di estradizione. La difesa di Battisti afferma che "non è possibile" rivedere la protezione concessa da Lula. La decisione spetta ora al giudice Luiz Fux. Lo riferisce il quotidiano locale Jornal do Brasil. La notizia è stata data dal quotidiano Folha de s.Paulo e dal quotidiano locale Jornal do Brasil. Battisti aveva cercato nei giorni scorsi di fuggire dal Brasile ma era stato arrestato. Ma alle accuse di aver cercato di fuggire in Bolivia per evitare una possibile estradizione aveva risposto cosi: "In Brasile sono protetto, posso uscirne come e quando voglio". E aveva aggiunto: "Se pensano di potermi mandare in Italia lo faranno illegalmente". L’intervista a Tv Tribuna, un’emittente affiliata alla brasiliana Rede Globo, era stata concessa nella casa di un amico a Cananeia, sul lungomare di San Paolo. "È qui che vorrei costruire la mia casetta - aveva rivelato - nonostante alcune strane manovre per mandarmi in Italia". Alle dichiarazioni di Battista aveva reagito indignato Alberto Torregiani, figlio del gioielliere ucciso da Battisti nel 1979 durante una rapina durante la quale lo stesso Alberto, allora 15enne, fu ferito e da allora costretto sulla sedia a rotelle: "È la dimostrazione di quanto sia beffardo, menefreghista, assolutamente contro ogni morale", aveva commentato a La Vita in Diretta, guardando la foto che ritraeva Battisti mentre alzava il calice di birra verso i fotografi dopo la sua scarcerazione. "Lui non è un ex terrorista, lui è un terrorista, è un criminale, ha due ergastoli ma si è fatto una vita accomodante", aveva aggiunto Torregiani. Nell’intervista Battisti aveva spiegato la vicenda della sua detenzione-lampo, con l’accusa di traffico di valuta e riciclaggio. "Perché avrei dovuto fuggire? Io sono protetto, il decreto Lula non può essere revocato: sono passati cinque anni", aveva sostenuto. "Non sono un rifugiato politico - aveva aggiunto - ma un immigrato con un visto permanente. Io posso uscire da questo paese come e quando voglio, senza nessuna restrizione, ho tutti i diritti brasiliani". E poi "da cosa stavo fuggendo? L’unico paese in cui sono protetto è questo", aveva affermato. Libano. Taglie milionarie su due leader di Hezbollah, svolta Usa contro il "Partito di Dio" di Giordano Stabile La Stampa, 12 ottobre 2017 Gli Stati Uniti hanno messo taglie milionarie su due leader di spicco di Hezbollah, il Partito di Dio libanese legato all’Iran. Washington pagherà sette milioni di dollari a chi darà informazioni utili su Talal Hamiyah, il capo delle "operazioni estere" del movimento sciita, considerato uno degli organizzatori dell’intervento di Hezbollah in Siria a fianco del presidente Bashar al-Assad e delle milizie sciite iraniane. Misure straordinarie - Di cinque milioni è invece la taglia sulla testa di Fuad Shukr, uno dei comandanti militari. Erano più di dieci anni che gli Stati Uniti non prendevano misure di questo tipo nei confronti di Hezbollah. Nathan Sales, coordinatore dell’antiterrorismo americano ha detto che servono "ad aumentare la pressione sull’organizzazione". Piano anti Iran - Ma la mossa rientra nel piano del presidente Donald Trump, che sarà annunciato domani, per contrastare "l’influenza nella regione" dell’Iran. La Casa Bianca non vuole rinnovare la "certificazione" all’accordo sul nucleare iraniano del 2015 e spingerà per nuove sanzioni contro Teheran. Hezbollah è uno dei principali alleati dell’Iran in Medio Oriente. Invito agli alleati a fare lo stesso - Shukr e Hamiyah erano già sulla lista dei terroristi internazionali dal 2013 e dal 2015. Gli Stati Uniti hanno messo Hezbollah fra le organizzazioni terroristiche già nel 1997. Altri Stati occidentali, e l’Unione europea, hanno fatto lo stesso, ma solo per l’ala militare del gruppo. Washington invece insiste perché tutta l’organizzazione sia sanzionata, perché "non ha un’ala politica". Radicato nel territorio - L’obiettivo di Washington è "congelare gli assets" di Hezbollah, "chiudere le sue aziende, eliminare le capacità di raccogliere fondi e reclutare". Il Partito di Dio è però fortemente radicato sul territorio, nel Sud del Libano e nella parte settentrionale della valle della Bekaa, dove ha un vasto seguito anche per i servizi sociali che fornisce, come cure mediche e scuole superiori gratuite. L’avvertimento di Lieberman - Alle mosse statunitensi si aggiungono gli avvertimenti di Israele. Il ministro della Difesa Avigdor Lieberman ha ribadito che Israele non distinguerà più fra forze armate regolari libanesi e i combattenti del movimento sciita. L’accordo fra il presidente cristiano Michel Aoun e il Partito di Dio ha cambiato la situazione. In caso di attacco l’aviazione israeliana colpirà in profondità, su tutte le infrastrutture dello Stato, non solo nel Sud. Rivolta e scontri in carcere messicano, morti 16 detenuti Associated Press, 12 ottobre 2017 Le guardie della struttura di Cadereyta sono dovute intervenire in seguito a violenti scontri scoppiati tra gang rivali. Almeno 16 detenuti sono morti durante una rivolta che ha portato a scontri con la polizia nel carcere di Cadereyta, nel nord del Messico. Ci sono anche diversi feriti, tra cui due poliziotti, di cui uno grave. Le guardie carcerarie sono dovute intervenire con la forza in seguito a violenti scontri scoppiati tra gang rivali all’interno del penitenziario. Almeno due dei detenuti morti hanno riportato ferite d’arma da fuoco. Alcuni detenuti hanno appiccato il fuoco e provocato un incendio all’interno della prigione, visibile a numerosi chilometri di distanza. La procura locale ha aperto un’inchiesta.