Un po’ di affetto in più può solo far diventare migliori le persone Ristretti Orizzonti, 11 ottobre 2017 Famigliari di detenuti scrivono alla Commissione per la riforma penitenziaria. All’attenzione della Commissione per la Riforma penitenziaria E, per conoscenza, all’attenzione del Ministro della Giustizia Andrea Orlando all’attenzione del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, dottor Santi Consolo all’attenzione del Direttore della Direzione Generale Detenuti e Trattamento del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, dottor Roberto Piscitello Gentili membri della Commissione, abbiamo appreso che state lavorando per elaborare delle proposte di modifica dell’Ordinamento penitenziario, con cui dare corpo alla legge delega recentemente approvata. Sappiamo che dovrebbero esserci importanti novità, alcune in particolare, riguardanti gli affetti delle persone detenute. Noi, che ci stiamo rivolgendo a voi dopo l’incontro "Includere gli Esclusi. Ergastolo, ostatività e riforma" che si è svolto il 29 settembre 2017 a Villa San Giovanni, siamo tutti familiari di detenuti, e vi chiediamo con forza che le proposte riguardanti gli affetti, e più in generale la qualità della vita detentiva, per una profonda umanizzazione della pena, che avete formulato o state formulando in questi giorni, riguardino non solo i detenuti comuni, ma anche i detenuti rinchiusi nei circuiti di Alta Sicurezza. Ve lo chiediamo perché siamo stanchi, come loro familiari, di essere considerati meno di tutti, stanchi di non essere mai ritenuti interlocutori importanti delle istituzioni, stanchi che si continui a pensare che i nostri cari non potranno mai cambiare e quindi non devono venire trattati da esseri umani, e di conseguenza noi con loro. Gli affetti, le relazioni, l’attenzione per la famiglia sono aspetti della vita delle persone fondamentali per permettere ad ogni essere umano, anche in condizioni di privazione della libertà, di preservare la sua dignità e di diventare una persona più responsabile. Noi questo vi chiediamo, che l’Ordinamento penitenziario tratti noi familiari e i nostri cari detenuti TUTTI con la stessa umanità e che dia a TUTTI, nessuno escluso, le stesse possibilità di salvare i loro affetti: perché qualche telefonata in più, qualche ora di colloquio in condizioni più decenti, possono solo far diventare migliori le persone. Quelle persone che dovrebbero avere la speranza di dimostrare il cambiamento maturato in lunghe carcerazioni non solo all’amministrazione penitenziaria, ma anche e soprattutto alla società. Una opportunità, questa, che dovrebbe essere data a TUTTI, senza escludere i condannati all’ergastolo. Tra noi il 29 settembre c’erano anche familiari di persone che sono state rinchiuse, o lo sono tuttora, in regime di 41bis, quello della cui esistenza tanta parte del mondo politico preferisce tacere. Non possiamo oggi entrare nel merito di un regime che riteniamo privo di qualsiasi umanità, ma come famigliari chiediamo almeno un allargamento della possibilità di contatto tra noi e i nostri cari: un’ora di colloquio al mese dietro un vetro è semplicemente una condizione indegna di un paese civile. Per ultimo, voi conoscete senz’altro le parole del Papa che ha definito l’ergastolo una pena di morte nascosta: vi preghiamo, per quel che potete, di fare in modo che una pena così mostruosa non esista più. Seguono adesioni: D’Agostino Vanessa, D’Agostino Tonio, D’Agostino Gianfranco, D’Agostino Denis, D’Agostino Luciano, D’Agostino Irene, D’Agostino Salvatore, familiari di D’Agostino Cosimo - detenuto nella Casa di reclusione di Sulmona Dessì Antonio, Dessì Salvatore, Dessì Carmelo, Dessì Giovanni, familiari del detenuto Audino Giuseppe 41 bis Varriale Lucia, Varriale Luigi, Cianciulli Maria, Conte Gennaro, Esposito Rosaria, Baldassarre Nicola, Pestorino Nicola, Varriale Vincenza, Velluso Massimiliano, Conte Immacolata, Varriale Maria, Scera Patrizia, Di Matteo Francesca, Di Maio Anna, Varriale Giuseppina, Conte Giuseppe, Esposito Flora, Ballerino Immacolata, Cianciulli Antonietta, Cianciulli Angela, Cianciulli Clara, Gennaro Ferrara, Di Sauro Gianluca, tedesco Immacolata, Di Matteo Salvatore, Romagnoli Vincenza, Conte Ernesto, Alfiero Annamaria, Pirozzi Anna, Esposito Marina, Baldassarre Veronica, Ciro Stasi, Varriale Giuseppe, Pecorella Salvatore, Pecorella Emanuela, Esposito Carmela, Antonio Mosca, Cicatiello Mario, Nappi Emanuele, Iasevoli Giuseppe, Giuseppe Titas, Maria di Febbraro, Antonio Titas, Varriale Ciro, Rosafio Salvatore, Romano Luigi, Carriello Emilia, Peluso Rosaria, Ciro Carriello, Abbinante Rosa, Leopoldo Anna, Minichiello Elsa, Corcione Immacolata - familiari e parenti di Baldassarre Salvatore - detenuto nella Casa di Reclusione Fossombrone Bello Giuseppina, Bello Daniele, Bello Claudio, Bello Rossella, Cesarino Patrizia, Bello Vincenzo, Francioso Anna Gina, familiari di Bello Massimiliano - detenuto nella Casa Circondariale di Catanzaro Bonaccorsi Salvatore - figlio di Bonaccorsi Ignazio - detenuto nella Casa Reclusione di Padova Molinaro Saveria, Giuliano Vincenza, Calidonna Gaspare, Vetromilo Giuseppe, Vetromilo Pietro, Dattilo Carolina - familiari e amici di Calidonna Roberto detenuto a Spoleto Monteforte Lucia, Sperti Simone, Sperti Marco, Sperti Sabrina, Sperti Massimo, Casalino Alba, Curcetti Dalila, familiari di Campana Francesco - detenuto nella Casa Circondariale di Voghera Cappello Stefania, Milesi Patrizia, familiari di Salvatore Cappello - detenuto nella Casa Circondariale di Bancali - 41 bis Di Nardo Luigi , Di Nardo Giovanni, Di Nardo Michele, Carannante Sonia, Carannante Valeria, Carannante Marco, Di Nardo Sonia, Natale Giuseppina, Carannante Nicolina, Palumbo Agostino, Panzariello Angelo, Rizzo Stefania, Mastroianni Luisa familiari di Carannante Francesco detenuto nel carcere di Rossano Carnovale Katiuscia, Carnovale Daniela, Carnovale Luigina, Marafioti Bruno, Marafioti Nicola, Marafioti Giuseppe, Marafioti Daniele, Menniti Piero, Menniti Giuseppe, Menniti Vincenzo, Menniti Raffaele, Gallelli Marco, Piperissa Giuseppe, Vincenzo Vasile, Geracitano Nicoletta, Leuzzi Caterina, Giannini Antonio, Giannini Anthony, Giannini Francesco, Giannini Giovanni, Vincenzo Lazzaro, Giuseppina Lazzaro, Maria Tassone, Tassone Matilde, Comitogianni Salvatore, Comitogianni Giorgio, Comitogianni Giusy, Caristo Francesco, Giannini Antonio, Santoro Salvatore, Rudi Giuseppe, Leuzzi Maria, Rudi Stella, Leuzzi Antonio, Carnovale Rosa, Pilato Carmela, Leuzzi Francesca, Carnovale Giuseppe, Carnovale Domenico, Carnovale Marco, Carnovale Matteo, Rudi Vittoria, Repice Caterina, Leuzzi Sara, Massimo Giannini, Caterina Fiorenza, Leto Claudi, - parenti e familiari di Carnovale Antonio - detenuto nella Casa Circondariale di Livorno. Romano Nicoletta, Esposito Giovanna, Caterino Fortuna, Caterino Lucia, Bencivenga Elena, Romano Gennaro, Romano Antonio, Della gatta Maria, Cavaricci Noemi, Falcone Consiglia, Guerra Guido, Licciardiello Anna, Picone Sofia, Perfetto Carmela, Esposito Loredana, Esposito Massimo, Esposito Maria, Bencivenga Bartolomeo, Bencivenga Franco, Cesaro Domenico, Romano Pietro, Bencivenga Sara, Belardo Anna, Bencivenga Nicola familiari di: Caterino Nicola detenuto a Spoleto, Caterino Amedeo detenuto a Benevento e Caterino Paolo detenuto a Secondigliano. Nappo Adele- moglie di Cicero Domenico - detenuto nella Casa di Reclusione di Parma 41 bis Condello Giuseppa, Tegano Margherita, Condello Vincenzo, Condello Maria, Condello Francesco, familiari di Condello Domenico - detenuto nella Casa Circondariale L ‘ Aquila-41 bis area riservata Nocera Bruna, Nocera Raffaele, Cotroneo Giuseppa, Nocera Antonino, Araniti Pietro, Mangiola Chiara, Barillà Serafina, Condello Giuseppa, Condello Francesco, Giordano Antonietta - Parenti e familiari di Condello Pasquale - detenuto nella Casa Circondariale di Voghera Morabito Maria - moglie di Condello Pasquale - detenuto nella Casa Circondariale di Novara 41 bis Conte Salvatore, Scardino Cesaria, Conte Francesca, Conte Cosimo, Conte Giuliana, Conte Giuseppe, Conte Maria, Dito Maria Grazia, Vito Rafella, Rafella Salvatore, Rafella Alessandro, Greco Angelo, Cosimo Roi , Romano Marilù, Romano Salvatore, Romano Laura, Scardino Flora, Scardino Neve, Scardino Pina, Scardino Maria, Elia Massimiliano, Elia Mauro, Elia Valerio, Elia Francesco, Elia Matilde, Tondo Luigi, Tondo Mario, Tondo Gianni, familiari e parenti di Conte Claudio - detenuto nella Casa di Reclusione di Parma. Corrado Francesco, familiare di Corrado Andrea - detenuto nella Casa di reclusione di Sulmona Curcio Teresa, Schillaci Maurizio , Amenta Santa, Curcio Valentina, Curcio Giovanna, Urso Agostino - familiari di Curcio Vincenzo - detenuto nella Casa di Reclusione di Spoleto Cerminara Assunta, Farao Vincenzo, Farao Francesco, Farao Elena, Farao Vittorio, Farao Silvio, Farao Angela, Chiarello Vincenzina, familiari di Farao Giuseppe - detenuto nella Casa di Reclusione di Opera - MI Fazio Michela, Gallello Tiziana, familiari di Fazio Giuseppe Mario, detenuto nella Casa circondariale Asti. Fazzalari Concetta, Lazzaro Marilena, Longo Antonietta, Sposato Federica, Zagari Rosita - familiari di Fazzalari Ernesto - detenuto nella Casa di Reclusione di Opera - MI 41 bis - area riservata Feliciello Raffaele, Feliciello Pietro, Feliciello Vittorio, Feliciello Maria Caterina, Feliciello Paola, FelicielloVincenzo, Feliciello Nicola, Feliciello Giovanni, Feliciello Francesco, Feliciello Giuseppe familiari di Feliciello Domenico detenuto nel Carcere di Milano Opera Gancitano Giacomo, Gancitano Barbara, Gancitano Veronica, Gancitano Vincenza, Gancitano Cristina, familiari di Gancitano Andrea - detenuto nella Casa di reclusione di Parma Garofalo Emanuela, Garofalo Biagio, Sarubbo Rosina, Garofalo Irene, Serio Francesco. Familiari di Garofalo Giuseppe - detenuto nella Casa Circondariale di Voghera Greco Silvana, Berardi Sandra, Greco Antonio, Castrogiovanni Alessandro, Castrogiovanni Silvana, Greco Salvatrice, Greco Maria P., Greco Franco, Greco Giuseppe, Greco Patrizia, Rugani Alda, Aloschi Nino, Castrogiovanni Maikol, Greco Carmelina, Ellul Giuseppe, Romano Franco, Romano Massimo, Romano Eugenia, Lauretta Melania, Greco Cinzia, Rizza Iole, Rizza Cinzia, Greco Giusi, Greco Francesco, Rizza Francesco, Rizza Carmelo - Parenti e familiari di Greco Alessandro, detenuto nella Casa Circondariale di Voghera Condello Giuseppina, Imerti Maria, Imerti Francesca, Condello Loredana, Francesco Aurora, Schirripa Francesca familiari di Imerti Antonino - detenuto nella Casa Circondariale de L’Aquila Di Fusco Maria, De Liso Michela, Riva Cira, De Liso Marica- familiari di De Liso Guido - detenuto nella Casa di Reclusione di Oristano Marincola Enza, Marincola Francesco, Sestito Felicia, Marincola Serafino, MarincolaAldo, MarincolaPino, MarincolaAntonio, Marincola Ottavio, Marincola Giuseppina, Marincola Annarita, Marincola Franceschina, Leone Vincenzina, MaioranoVincenzo, MaioranoFrancesca, Nostrini Gessica, Nostrini Roberto, Nostrini Gianluca, familiari di Marincola Cataldo - detenuto nella Casa di reclusione di Sulmona Buommino Annarita, Buommino Antonio, Ruggiero Concetta, Niro Anna, Niro Gianluca, Buommino Eduardo, Buommino Giovanni, Montanera Antonio, Montanera Saverio, Montanera Assunta, Montanera Angela, Vaio Salvatore, Trematerra Caterina, Trematerra Gaetano, Migliore Francesca, Migliore Salvatore, Silvestri Luigi, Silvestri Elena, Capasso Patrizia, Capasso Annunziata, Capasso Annamaria, Capasso Concetta, Borriello Flora, Mincione Giovanna, Mincione Anna, Mincione Ciro, Mincione Domenico, Mincione Nicola, Spera Nicola, Spera Alessandro, Esposito Concetta, Esposito Rita, Esposito Luisa, Esposito Raffaele, Esposito Gennaro, Esposito Marco, Spera Pasquale, Liccardi Maria, Lubrano Luisa, Lubrano Lucia, Lubrano Concetta, Lubrano Domenico, Giangrande Alessandro, Giangrande Gennaro, Granato Angela, Adamo Antonio, Adamo Salvatore, Barone Annamaria, Barone Angela, Moggio Ruggiero, Buonanno Maria, Rispoli Vincenzo - familiari di Montanera Giuseppe - detenuto nella Casa Circondariale Lorusso e Cutugno di Torino Randazzo Angelo, Randazzo Clelia, Randazzo Giuseppe, Randazzo Angelo, Randazzo Luisa, Randazzo Gaetano, Mignemi Camillo, Giunga Rita, Geracciolo Francesca, Cantarella Giuseppe, Cantarella Salvo, Cantarella Nunzia, Cantarella Amilcare, Nardo Giuseppe, Nardo Francesco, Nardo Salvo, Nardo Luciano, Nardo Filadelfo, Nardo Eustachia, Nardo Giovanna, Nardo Antonella, Nardo Rita, Nardo Carmela, Nardo Barbara, Nardo Alfina, Nania Agata, Almirante Alfio, Almirante Salvatore, Guercio Marco, Guercio Federico - familiari di Nardo Sebastiano, detenuto nella Casa circondariale di Bancali - Sassari 41 bis Riserbato Roberto, Riserbato Patrizia, Riserbato Gaspare, Riserbato Antonino, Rallo Giovanna, Alcamo Salvatore, Alcamo Andrea, Alcamo Francesco, Alcamo Nicola, familiari di Riserbato Davide - detenuto nella Casa Circondariale di Voghera De Falco Annamaria - familiare di Catello Romano - detenuto nella Casa Circondariale di Voghera Ridente Maria, familiare di Ridente Massimo detenuto nel carcere di Voghera. Romeo Francesca, Denisi Alessandro, Denisi Patrizia, Romeo Rossella, Spadaro Maria, Denisi Vanessa, Denisi Federica, Spadaro Domenico, Giuffrè Antonella, Spadaro Katia, Spadaro Carmelo, Scalise Silvia, Romeo Raffaele, Scali Annunziata, Romeo Giada, Romeo Azzurra, D’Agostino Giuseppa, Furfaro Rosa, Scali Carmelo, Albanese Patrizia, Scali Martina, Scali Vincenzo, Scali Salvatore, Scali Tania, Albanese Graziano, Scali Basiliana, Romeo Riccardo, Scali Rita, Abbate Carmelo, Abbate Giuseppe, Abbate Salvatore, Scali Giuliana, Cara Giusy, Sapone Francesca, Foti Antonia, Foti Francesca, Casile Giuseppa, Alati Valentina, Chillemi Gianluca, Cortale Raffaella, Cortale Francesco, Trimarchi Rossella, Custureri Raffaella, Tamiro Michela, Mazzitelli Filomena, Tamiro Domenico, Tamiro Antonio - parenti e familiari di Romeo Tommaso - detenuto nella Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova Mancuso Donatello, Carbone Lucia, Le Rose Giuseppe, Le Rose Salvatore, Le Rose Franca, Le Rose Michelina, Le Rose Maria, Le Rose Antonella, Le Rose Francesca, Le Rose Teresa, familiari di Le Rose Donatello - detenuto nella Casa Circondariale di Voghera Rosmini Suor Consuelo, Rosmini Pino, Rosmini Melina - familiari di Rosmini Demetrio - detenuto nella Casa di Reclusione "Due Palazzi" di Padova Sambasile Rita, Sambasile Paola, Sambasile Alfia, Sambasile Eleonora, Sambasile Sebastiano, Sambasile Giuseppe, Sambasile Ivan, Sambasile Cristian Sambasile Daniele, Sambasile Salvatore, Sambasile Giovanna, Sambasile Leandra, Sambasile Carmela, Sambasile Rachele, Sambasile Martina, Pisasale Giovanna, Pisasale Giuseppe, Pisasale Antonio, Pisasale Katia, Lo Tauro Giovanni, Lo Tauro Lucia, Lo Tauro Salvatore, Calabrò Domenico, Calabrò Alfio, Calabrò Kevin, Calabrò AnnaMaria, Disca Giuseppe, Disca salvatore Disca Antonella, Sanzaro Lidia familiari di Alfio Sambasile detenuto nel Carcere di Siano Cz Lupo Carmela, Lupo Biagio, Galati Concetta, Sciacca Ivan, Sciacca Antonino, Sciacca Signorino, Barbagiovanni Giacomina, familiari di Sciacca Vincenzo - AS3 - detenuto presso Casa Reclusione di Oristano Sciara Pasquale, Sciara Giuseppe, Indelicato Gerlanda, familiari di Sciara Filippo - detenuto nella Casa Circondariale di Voghera Annarita Platania, Fabrizio Sciuto, Valentina Sciuto, Agata Platania, Fortunella Platania, Carmelo Consolo, Pinella Platania, Francesco Scuderi, Domenico Platania, Angelo Platania, D’Arrigo Agata, Viglianesi Graziella, Serena Scuderi Milena Scuderi, familiari di Maurizio Sciuto detenuto nel carcere di Spoleto Sposato Gianni, Sposato Angela, Sposato Giovanni, Sposato Domenico - familiari di Sposato Domenico - detenuto nella Casa Circondariale di Catanzaro Arcoleo Giovanna, convivente di Stuppia Antonino - detenuto nella Casa di reclusione di Parma De Pasquale Alfio, Floramo Silvana, Torre Giusy, Torre Paolo, Torre Carmelo, Floramo Pina, Floramo Lina, Floramo Provvidenza, Mandanici Santina, Mandanici Giuseppe, Mandanici Carmelo, Mandanici Filippo, Crinò Carmelo, Crinò Sebastiano, Naso Debora, Naso Gino, Naso Erika, Saraò Viviana, De Pasquale Alfredo, Floramo Laura, Chiofalo Anna, Trovato Giovanna, Chiofalo Giuseppe, Arcoraci Letizia - parenti e familiari di Torre Salvatore - detenuto nella Casa di Reclusione di Saluzzo Tripodi Antonia, sorella di Tripodi Carmelo - detenuto nella Casa di Reclusione di Rebibbia Veronica Pasta, familiare di Tutti Sebastiano detenuto nel carcere di Parma Lo Scalzo Maria, Lo Scalzo Rosa, Valenti Irene, Valenti Carmela, Pensato Ignazio, Pensato Deborah, Pensato Nadia, Iannuzzo Albert, familiari di Valenti Francesco Fabio detenuto nel carcere di Siano Catanzaro Veneruso Michele, Veneruso Carmela, Incarnato Anna, Pierro Salvatore, Veneruso Immacolata, Veneruso Melania, Veneruso Michele, Mario Veneruso, Pecoraro Francesca, Sarnataro Giuseppina, Veneruso Giuseppe, Veneruso Maria Carmina, Veneruso Michele, Sarnataro Carmine, Ferraro Anna, Pierro Carmine, Salzano Elvira, Veneruso Maria Carmina, Veneruso Giovanni, D’Agostino Candida , D’Ambrosio Antonio, Aprano Francesco, Veneruso Salvatore, Falzarano Maria Carmina, Petrillo Luisa, Veneruso Alfredo, familiari di Veneruso Gennaro - detenuto nella Casa Circondariale di Voghera Verde Raffaele,Verde Salvatore,Verde Filomena,Verde Antimo,Verde Mario, Verde Carolina, Verde Concetta, Verde Rosa, Verde Vincenzo, Verde Rosaria, Verde Luigi, Verde Felicia, Verde Anna, Verde Debora, Verde Anna, Verde Ilenia, Verde Rosa, Amore Annamaria, familiari di Verde Antonio - detenuto nella Casa di Reclusione di Asti e Verde Antonio detenuto nel carcere di Milano Zagari Italia, Zagari Rosita, Moscato Giovanni, Zerbi Simona, Zagari Patrizia, Zagari Concettina, Zagari Maria - familiari di Zagari Pino - detenuto nella Casa di reclusione di Sulmona Palazzo Mattea Cinzia,cugina del detenuto Bonaccorsi Ignazio, detenuto nella Casa di reclusione di Padova, cugina di Lo Giudice Sebastiano rinchiuso nella Casa di reclusione di Spoleto, cugina di Acquavite Vito che si trova nellaCasa di reclusione di Sulmona. Alla giornata del 29 settembre 2017 a Villa San Giovanni, organizzata dall’associazione Yairaiha Onlus, sono intervenuti: Ornella Favero e Bruno Monzoni - Ristretti Orizzonti, Sandra Berardi, Yvonne Graf, Italia Zagari, Giusy Torre e Bruna Nocera - Associazione Yairaiha O.N.L.U.S., Franca Gareffa, docente di Sociologia della devianza - Università della Calabria, Mimmo Petullà- sociologo, Antonello Nicosia-Docente Esperto di Tecnologie di Trattamento Pedagogico Penitenziario, Giuseppe Lanzino avvocato, Antonio Perillo, collaboratore dell’on. Eleonora Forenza - Alberto Mammolenti - Conferenza Volontariato Giustizia della Calabria, Agata Nania, Alfina Nardo, Rita Rita, Francesca Romeo, Maria Di Fusco, Carmen Veneruso, Annarita Buommino, Adele Nappo, Lucia Varriale, Maria Morabito, Giuseppa Condello. In collegamento telefonico sono intervenuti: Pasquale Zagari e Carmelo Musumeci. Due idee inconciliabili di giustizia di Piero Sansonetti Il Dubbio, 11 ottobre 2017 Ieri il Presidente della Repubblica, da tutti considerato giurista e intellettuale prudente e moderato, ha scagliato alcune frecce acuminate contro i protagonisti della giustizia spettacolo. Ha detto con la sua aria soave parole rabbiose: la giustizia non è la scena di un teatro. I magistrati non sono attori e tantomeno attori protagonisti. Il magistrato deve essere imparziale e mostrarsi tale. Altrimenti crolla la credibilità della magistratura. Il Presidente della Repubblica non indicava un pericolo "teorico". Piuttosto biasimava una realtà, grave e preoccupante: quella di un pezzo di magistratura, molto aggressivo, che concepisce il proprio lavoro non come un servizio allo Stato e alla comunità, ma come una forma di militanza politica ed etica. Naturalmente Sergio Mattarella aveva in testa un cognome e anche un nome: Davigo Piercamillo. Il quale ancora recentemente si è distinto, in Tv, per alcuni numeri di buona scuola di populismo giudiziario, in contrasto aperto e inconciliabile con lo Stato di diritto. La partita ora è formalmente aperta. Da una parte la squadra dei Pm d’assalto (e con loro, purtroppo, anche alcuni giudici, tra i quali lo stesso Davigo che è Presidente di sezione della Corte di Cassazione), dall’altra la magistratura, diciamo così, "lealista". Cioè leale alla Costituzione e rispettosa delle leggi e della democrazia. Finora la magistratura "lealista" è sempre stata un passo indietro, anche perché restia, appunto, a far spettacolo, a diventare protagonista. E la sua consistenza è stata sempre nascosta dall’attivismo dei Pm d’assalto, spalleggiati da alcuni giornali e da alcune reti televisive (o addirittura "padroni" in quei giornali e in quelle Tv). La frustata di Mattarella forse cambierà le cose. E finalmente sarà possibile aprire un dibattito vero, e dire - senza essere accusati di complicità con la malavita - che diritto e moralismo non sono parenti. A questo punto, rincuorati dall’uscita coraggiosa del Presidente della Repubblica, vorremmo porre un altro problema, del quale sin qui era permesso parlare solo sottovoce. E cioè l’ingerenza della magistratura, attraverso il suo potere, nella lotta politica. Che è un problema legato, anzi legatissimo, alle questioni sollevate da Mattarella. L’obbligo di imparzialità del quale parla il Presidente, evidentemente, è anche obbligo di non considerare il potere inquirente come uno strumento per modificare i rapporti di forza nell’agone democratico. In questi anni abbiamo assistito a decine e decine di invasioni di campo. Che hanno permesso a singoli Pm, molto spesso, di rovesciare amministrazioni comunali, regionali e governi. In tanti modi. Da qualche anno il reato di abuso d’ufficio è diventato una specie di grimaldello per forzare l’indipendenza del potere politico (democraticamente eletto) e controllare in modo pressoché assoluto le scelte degli enti locali e delle regioni. E intorno all’abuso d’ufficio si riescono a configurare anche altri tipi di reato, spesso molto improbabili, come quello di truffa. L’ultimo caso è stato quello del sindaco di Riace, Mimmo Lucano, da tutti - amici ed avversari - sempre considerato uno specchio di moralità. Anche a lui è toccato l’avviso di garanzia. Così come è toccato, negli ultimi sei o sette anni, a tutti gli amministratori che comunque abbiano preso alcune iniziative politiche per governare e aiutare lo sviluppo nei territori che li hanno eletti. Un signore, o una signora, che venga eletto sindaco, o presidente di Regione, oggigiorno ha due scelte: la prima è quella di restare del tutto immobile, rifiutandosi di firmare qualunque atto e di assumere qualunque misura di sostegno all’economia. E vedere il proprio comune, o la regione, deperire. La seconda possibilità è quella di chiamare un avvocato che lo difenda dall’inchiesta per abuso di ufficio che sarà aperta contro di lui in tempi molto rapidi. È chiaro che non si può andare avanti così. Altrimenti sarà impossibile frenare il declino del nostro paese. E anche evidente che l’uso a pioggia dell’abuso d’ufficio è una delle cause della lentezza con la quale l’Italia si sta riprendendo dalla crisi. Come si può fermare questo impazzimento? Deve intervenire la politica, e riformare l’abuso d’ufficio. Però non è facile trovare in Parlamento chi abbia il coraggio di affrontare il tema e sfidare la magistratura davighiana, e i giornali davighiani, e le Tv davighiane. Forse dovrebbe essere proprio l’ala lealista della magistratura a porre il problema. Voi dite che è una illusione? Chissà, magari il vento sta cambiando e la ragione inizia a fare capolino tra i turbini neri del populismo. Non abbiamo diritti ma doveri. Uno su tutti: confessare le nostre colpe di Diego Gabutti Italia Oggi, 11 ottobre 2017 Meglio (molto meglio) se prima ancora che ci vengano contestate. Un imputato onesto, ha dichiarato Piercamillo Davigo, il più malmostoso dei magistrati, non approfitta della prescrizione, quando lo Stato gliela concede, ma la rifiuta, e pretende che il processo sia celebrato lo stesso, che la vada o la spacchi (e se anche la sentenza è onesta, lascia intendere Davigo, è facile che la spacchi). Come c’è un’antipolitica, c’è un’anti-giustizia, e se la prima impedisce alle istituzioni, che già arrancano, di funzionare in maniera ordinata, la seconda incoraggia l’arbitrio... Di fronte all’anti-legge auspicata dagli anti-giustizieri siamo tutti innocenti (soprattutto se occupiamo una carica pubblica, eletti dal popolo o designati da chi ne ha facoltà) soltanto perché non ci hanno ancora beccati con le dita sporche di marmellata e il sorcio in bocca. Metafisicamente e antropologicamente colpevoli, siamo colpevoli a prescindere, colpevoli per condizione umana, e non abbiamo più diritti; in particolare non abbiamo diritto alla difesa. Colpevoli per definizione, anzi "delinquenti matricolati", come una star di Mani pulite definì uno dei migliori politici della prima repubblica, il leader socialista Bettino Craxi, l’uomo che aveva sconfitto con un referendum la magistratura engagé e sbarrato la strada al compromesso storico, non abbiamo diritti ma doveri. Uno su tutti: confessare le nostre colpe, meglio (molto meglio) se prima ancora che ci vengano contestate. Come a Mosca, ottant’anni fa, quando il pool Mani pulite di Bessarione Stalin convertì un’intera nazione, di riffe o di raffe, alla vera religione dell’anti-giustizia. Quella è la strada. Tutti colpevoli. Chi di reati veri e propri, tipo la dissidenza e l’"origine di classe"; chi di reati di pensiero, o "psico-reati", di gran lunga i più scandalosi e imperdonabili di tutti. Corrotti, peccatori, i cittadini dell’Urss erano tutti meritevoli del massimo della pena: i fortunati d’un colpo alla nuca e amen, gli sfigati di decenni di gulag siberiano. Da noi, nella repubblica di Marco Travaglio, di Giovanni Floris e di Repubblica, non si contano i corrotti propriamente detti né i colpevoli d’orribili reati di pensiero, eppure le pene non sono abbastanza severe, né il carcere abbastanza "duro", come ha dichiarato (leggo sul Dubbio) "il senatore Giuseppe Lumia, capogruppo del Pd in Commissione giustizia e componente della Commissione antimafia presieduta da Rosy Bindi". Così non va. Dobbiamo osare di più. A questo ci esortano il sen. Giuseppe Lumia, il dott. Piercamillo Davigo e il loro massimo ispiratore, il rag. Giuseppe Grillo, giacobino sans culotte, e con una pallina rossa sul naso. Aboliamo d’abord la presunzione d’innocenza; e d’ora in avanti niente prescrizioni ma processi sempre aperti, lunghi (se occorre) almeno quanto la vita degl’imputati. Basta anche con i tribunali: confessionali e pubbliche gogne, non serve altro. Obbligo di firma per tutti. Alla sera, uscendo dal lavoro, non si torna a casa, come nelle società arcaiche, liberali, ma si va agli arresti domiciliari, controllati a vista dai responsabili di caseggiato, come all’Avana e a Pyongyang. Una sola forma di libertà: la libertà vigilata. Basta con le garanzie per gl’imputati, che in caso di condanna, nel paese vagheggiato da Belin Laden e dai suoi Imam giustizieri, non potranno più ricorrere in appello, ma dovranno andare dritti in galera, al "carcere duro". Più garanzie, piuttosto, per l’accusa, che in caso d’assoluzione dell’imputato potrà ricorrere in appello anche dieci, anche cento e mille volte, fino a ottenere il meritato verdetto di condanna. Basta, infine, con le arlecchinate giudiziarie: i testimoni, le attenuanti, le arringhe della difesa. Basta, soprattutto, con gli avvocati. Un avvocato onesto, nella repubblica di Repubblica e di Marco Travaglio, si vergognerebbe del suo mestiere e, invece di difendere colpevoli conclamati e "innocenti" tra virgolette, aprirebbe piuttosto un chioschetto di gelati (o si darebbe apertamente e onestamente al crimine, viste le sue frequentazioni). Qui non si tratta di scrivere nuove leggi, come suggeriscono i riformisti, nemici dell’anti-giustizia e dell’anti-diritto, ma di cancellare quelle che ci sono. La parola ai giudici di Maurizio Crippa Il Foglio, 11 ottobre 2017 Nessuno vuole zittire i magistrati. Ma per il circo mediatico-giudiziario esistono le leggi. Anche europee. La differenza tra un abito di scena, una toga da magistrato e una livrea da domestico dovrebbe essere evidente a chiunque, anche a coloro che ieri si sono affrettati a circoscrivere le parole del presidente della Repubblica, e del Csm, Sergio Mattarella: non parlava del dottore Davigo, il codice deontologico dell’Anm esiste già. Sono ovvie puntualizzazioni, che lasciano la vaga impressione di voler distogliere il dito dalla luna. La luna di un circo mediatico-giudiziario troppo a lungo rimasto fuori controllo, troppo sbilanciato in favore di una capacità di interdizione da parte di un potere dello stato sugli altri, l’esecutivo e il legislativo. Il richiamo di Mattarella puntava alla luna, non a togliere la libertà di parola ai cittadini magistrati, il che non sarebbe plausibile. Così come il suo vice al Csm Giovanni Legnini sabato scorso, così come il magistrato Claudio Galoppi intervistato dal Foglio qualche giorno prima. L’opposizione di lunga durata dei garantisti e dei liberali a quello strapotere non è mai stata volontà di zittire i magistrati, il cui diritto di espressione è sancito, come per tutti, dalla Costituzione. La questione sono le regole, che sono sempre una questione fluida: Ma non utilizzabile, tartufescamente, per nascondere la luna. L’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo - riferimento ricorrente anche nelle decisioni disciplinari del Csm - recita che "ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione", ma al comma 2 specifica che "l’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica" in una serie di ambiti specifici, tra i quali, test but not least, "garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario". Nulla quaestio, come dicono i giuristi, sul fatto che la libertà di espressione per i magistrati possa essere delimitata. Del resto l’articolo 98 della Costituzione prevede anche che "si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici per i magistrati", fatti i dovuti distinguo tra un’intervista e un partito. Nel limbo interpretativo e normativo da attribuire a queste indicazioni si è sempre collocato il rapporto tra magistrati e politica, giudici e informazione. Un limbo che esiste quasi ovunque nelle democrazie, poiché in molti stati mancano norme precise. Tradizionalmente, però esiste un confine culturale ed è la "self-restraint", citata anche dal presidente dell’Anni Eugenio Albamonte. Che è sempre stato inteso dalla magistratura anche come un bilanciamento della propria indipendenza. L’Italia, da molti anni, in alcuni casi - per quanto non maggioritari - la magistratura organizzata in correnti ha travalicato questo volontaria moderazione. L’ultimo caso eclatante, il dibattito dello scorso anno sul referendum costituzionale, quando personalità come il procuratore di Torino Armando Spataro rivendicavano a mezzo stampa il diritto-dovere di schierarsi, in quanto non veniva leso il principio di terzietà, mentre da altre parti, tra cui il vicepresidente Legnini, si invitava alla cautela considerando che il referendum aveva un significato politico. Anche l’infinito dibattito dodici anni fa sulla riforma Castelli dell’ordinamento giudiziario e poi sul decreto sugli illeciti disciplinari dei magistrati spiegano quanto la materia sia sottile. Il monito di Mattarella, e le prese di posizione di magistrati e politici cui il Foglio ha dato spazio negli scorsi giorni, vanno ovviamente sottoposti a verifica di fattibilità e le difficoltà esistono. Un articolo di Giovanni Bianconi ieri sul Corriere le elencava, comprese le "linee guida" sulla comunicazione che sarebbero allo studio del Csm. Ed è chiaro che il sottofondo è sempre un problema di cultura dei magistrati e dell’informazione. Ma tutto questo non può minimizzare la portata di fatti e dichiarazioni che indicano una consapevolezza nuova in materia di controllo del circo mediatico-giudiziario. Tenuità del fatto: senza richiesta del Pm archiviazione del Gip nulla di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 11 ottobre 2017 Corte di Cassazione - Sezione II - Sentenza 4 ottobre 2017 n. 45630. Il giudice per le indagini preliminari non può archiviare per particolare tenuità del fatto se il Pubblico ministero non lo richiede. Concedere una tale possibilità al giudice comporterebbe da una parte un potere di riconoscere la responsabilità, anche se nella dimensione lieve, senza un input della procura, e dall’altra una lesione del diritto di difesa dell’indagato e della persona offesa negando il contraddittorio sull’argomento. La Corte di cassazione, con la sentenza 45630 del 4 ottobre scorso, accoglie il ricorso della parte lesa contro l’ordinanza con la quale il Gip aveva disposto l’archiviazione del procedimento a carico dell’indagato, per il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, applicando l’articolo 131-bis che fa scattare la non punibilità per particolare tenuità del fatto. Un’iniziativa presa nonostante la causa di non punibilità non fosse stata invocata dal Pubblico ministero nella richiesta di archiviazione. Per la Suprema corte l’ordinanza è nulla. I giudici precisano che una lettura corretta dell’articolo 411 del Codice di procedura penale (comma 1 bis)relativo agli "altri casi di archiviazione" richiede che la richiesta del Pm sia portata a conoscenza delle parti, indagato e persona offesa, per consentire, in camera di consiglio un contraddittorio sul punto. I giudici chiariscono che la necessità di una espressa devoluzione al giudice del possibile riconoscimento della causa di non punibilità costituisce una deroga alla disciplina ordinaria dell’archiviazione. Deroga giustificata dal fatto che la richiesta di riconoscimento della causa di non punibilità presuppone una valutazione positiva della responsabilità. Il caso si distingue, infatti, dall’ordinaria archiviazione per mancanza della condizione di procedibilità o infondatezza della notizia di reato "quando il provvedimento di archiviazione non si esprime, neppure implicitamente, sulla responsabilità che, invece è il presupposto del riconoscimento della causa di non punibilità". È chiaro dunque che non si può attribuire all’organo giudicante la facoltà di riconoscere "direttamente" la responsabilità penale senza alcuna richiesta, né spontanea né indotta con ordine di imputazione coatta, da parte della procura. Il Pm è, infatti, l’unico organo al quale spetta il potere di invocare il riconoscimento della responsabilità penale, anche nella "versione" lieve prevista dall’articolo 131-bis. L’assenza della richiesta specifica incide inoltre sul diritto di difesa privando indagato e offeso della possibilità di esprimere il loro dissenso. Beni culturali, per il sequestro l’opera va valutata nel suo complesso di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 11 ottobre 2017 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 10 ottobre 2017 n. 46479. Quando plurimi interventi edilizi portano alla realizzazione di un opera diversa dalla precedente, tanto da stravolgerne l’impianto originario, deve ritenersi legittimo il sequestro disposto sull’intera opera. Ai fini dell’applicazione della misura cautelare, infatti, l’opera deve essere valutata unitariamente nel suo complesso, senza che sia consentito scindere e considerare separatamente i singoli interventi. Difatti, la parcellizzazione delle opere, se anche eseguite non contestualmente, non può eludere il rilascio delle autorizzazioni. E ciò a maggior ragione se tali interventi siano eseguiti su beni culturali. Questo è quanto emerge dalla sentenza 46479 della Cassazione depositata ieri. Il caso - La vicenda prende le mosse dal sequestro preventivo dei locali della canonica facente parte del Complesso Monumentale di San Martino a Corella, disposto per la violazione dell’articolo 169 comma 1 lettera a) del Codice dei beni culturali e del paesaggio (Dlgs 42/2004). All’interno del complesso, considerato un immobile di interesse storico-artistico, infatti, erano state eseguite diverse opere edilizie, tra cui l’installazione di un antibagno e di un gazebo esterno, l’ampliamento dei locali cucina e la realizzazione di una tettoia per l’esposizione di stendardi pubblicitari. Tali opere avevano stravolto la natura monumentale della Canonica divenuta una sorta di "pizzeria con locali all’aperto". Il Gip aveva disposto in via cautelare il sequestro dell’intero complesso, considerato in un ottica funzionale, in quanto le varie opere avevano stravolto l’intero complesso edilizio. Il Tribunale del riesame, invece, aveva ritenuto che la misura cautelare dovesse riguardare solo le singole opere, tra tutte quelle realizzate, che non fossero in conformità con le disposizioni urbanistiche. La decisione - La questione arriva così in Cassazione dove i giudici di legittimità accolgono il ricorso della Procura spiegando la ratio della normativa dettata in tema di beni di interesse artistico-culturale. Per la Corte, il reato in esame è quello di esecuzione di opere edilizie su beni culturali in assenza dell’apposita autorizzazione, che si configura come reato di pericolo astratto, "in cui ciò che rileva non è il danno eventualmente arrecato al bene oggetto di intervento", bensì "la mancata osservanza degli obblighi formali nei confronti delle autorità predisposte al controllo sui beni culturali". In sostanza, il reato di cui all’articolo 169 comma 1 lettera a) del Codice dei beni culturali si configura a prescindere dalla realizzazione di un effettivo pregiudizio del valore culturale del bene. E nel caso di specie, gli interventi edilizi hanno alterato significativamente il complesso monumentale e sono stati realizzati in assenza di "qualsiasi vaglio della pubblica amministrazione, trattandosi perciò di opere integralmente abusive, per la mancanza delle prescritte autorizzazioni". Ciò posto, spiega il Collegio, per l’applicabilità della misura cautelare reale, non può non tenersi conto dell’attività edificatoria finale: l’elemento caratterizzante è la connessione finalistica delle opere eseguite, le quali non devono essere riguardate singolarmente, ma valutate nel loro complesso. E ciò a maggior ragione se si tratta, come nella fattispecie, di un immobile sottoposto al particolare regime dei beni culturali. Collegarsi a Sky senza card costa caro: è accesso abusivo punito con il carcere di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 11 ottobre 2017 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 10 ottobre 2017 n. 46443. Collegarsi alla piattaforma Sky senza avere l’apposita card integra il reato previsto dall’articolo 171-octies della legge 633/1941. La Corte con la sentenza n. 46443/2017, ha chiarito che la condotta è quella di decodificazione a uso privato di programmi televisivi ad accesso condizionato. Confermato il giudizio d’appello. I Supremi giudici hanno così pienamente confermato il giudizio d’appello che aveva condannato a quattro mesi di reclusione e a 2000 euro di multa un soggetto che aveva installato un apparecchio con decoder regolarmente alimentato alla rete Lan domestica e internet collegato alla tv e connessione all’impianto satellitare, rendendo così visibili i canali televisivi del gruppo Sky. In questo modo, si legge nella decisione, sono state eluse le misure tecnologiche destinate a impedire l’accesso indiscriminato. A nulla sono servite le giustificazioni avanzate dall’indagato e cioè di aver acquistato i codici di decodifica sul web. In definitiva va censurato l’operato dello spettatore senza scrupoli evidenziando la finalità fraudolenta nel mancato pagamento del canone applicato agli utenti per poter vedere i programmi. Depenalizzazione a fasi alterne. La Corte, infine, ha anche ricordato che il reato previsto dall’articolo 171-octies della legge 633/41 che sanziona chi ai fini fraudolenti "produce, pone in vendita, importa, utilizza per uso privato, apparati o parti di apparati atti alla decodificazione di trasmissione audiovisive". La norma, prima depenalizzata dal Dlgs 373/2000, successivamente ha riacquistato la natura penale a seguito delle modifiche apportate dall’articolo 1 della legge 7 febbraio 2003 n. 22, con la previsione per l’appunto anche delle sanzioni penali e delle altre misure accessorie ex articoli 171-bis e 171-octies della legge 633/1941. Società, il reato di impedito controllo commesso dagli amministratori in danno ai soci Il Sole 24 Ore, 11 ottobre 2017 Società di capitali - Amministratori - Reato di impedito controllo (articolo 2625 c.c.) - Danno ai soci - Infedeltà patrimoniale (articolo 2634 c.c.) - Identificazione e prova del danno. Il reato di impedito controllo previsto dall’articolo 2625 c.c., comma 2, ricorre ogniqualvolta la condotta degli amministratori che ostacolano l’attività di controllo dei soci e degli organi sociali sia di rilevanza penale, vale a dire cagioni ai soci stessi un danno, non meglio precisato ed anche di natura non patrimoniale. Tale danno va adeguatamente identificato e provato, sia nella fattispecie ex articolo 2625 c.c., sia in quella articolata dal 2634(infedeltà patrimoniale) per il danno patrimoniale inflitto alla società, anche in sede cautelare. (Nel caso di specie, la Suprema Corte avallava la decisione della Corte territoriale di annullare il sequestro preventivo di un’azienda Srl per un conflitto d’interessi dell’amministratore trovato in rapporti di parentela con i soci, in un’operazione di affitto di ramo d’azienda, in assenza della prova del danno arrecato ai soci o alla società, non essendo sufficienti né un ipotetico pregiudizio, né il solo lucro cessante). • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 25 settembre 2017, n. 44053. Società di persone - Reato di impedito controllo (articolo 2625 c.c.) - Reato proprio di danno - Mancata messa a disposizione della documentazione sociale e contabile - Annullamento senza rinvio. Il reato di omesso controllo di cui all’articolo 2625 c.c. è un reato proprio, inteso a garantire soltanto le funzioni di controllo esercitabili sulla gestione ed amministrazione della società, una fattispecie di danno (e non di pericolo), che si perfeziona con il realizzarsi dell’evento pregiudizievole successivo alla condotta di impedito controllo da parte del socio, poiché a questa collegato causalmente quale conseguenza. Dato che il termine per la presentazione della querela decorre dal momento in cui il titolare ha conoscenza certa, sulla base di elementi seri, del fatto reato nella sua dimensione oggettiva e soggettiva, occorre perciò accertare puntualmente il danno patito dalla persona offesa (o, all’opposto, la mancanza di pregiudizio), quali la mancata liquidazione della quota sociale o ripartizione di utili, l’indebita percezione di introiti da parte dell’amministrazione, il mancato pagamento di imposte e tasse, tenuto peraltro conto del fatto che l’impedita consultazione della documentazione societaria non può essere considerata causa della mancata liquidazione della quota e della divergenza di valore tra quanto preteso dal socio receduto e quanto accertato. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 28 agosto 2017, n. 39443. Reati fallimentari (articoli 216-223 Rd 267/1942) - Amministratore di fatto - Accertamento della qualità - Criteri - Attività di gestione significativa e continuativa - Fattispecie. In tema di bancarotta fraudolenta e reati fallimentari, i destinatari delle norme di cui agli articoli 216 e 223 Rd 267/1942 vanno individuati sulla base delle concrete funzioni esercitate, non già rapportandosi alle mere qualifiche formali o alla rilevanza degli atti posti in essere in adempimento della qualifica ricoperta. Nel caso di specie, risulta correttamente individuato l’amministratore di fatto al quale fossero state conferite deleghe in settori fondamentali dell’impresa, che avesse partecipato direttamente alla gestione della vita societaria, nella costante assenza dell’amministratore di diritto, rimasto sconosciuto ai dipendenti. La nozione di amministratore di fatto, introdotta dall’articolo 2639 c.c., postula l’esercizio in modo continuativo e significativo dei poteri tipici inerenti alla qualifica od alla funzione in maniera apprezzabile, non episodica od occasionale, senza richiedersi peraltro l’esercizio di tutti i poteri propri dell’organo di gestione. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 22 febbraio 2017 n. 8479. Società di capitali - Delitto di impedito controllo (articolo 2625 c.c.) - Amministratore - Mancata esibizione dei bilanci - Insufficienza - Attività di occultamento o alterazione dei documenti contabili. Il delitto di impedito controllo ex articolo 2625 c.c. è ravvisabile allorché l’amministratore non si limiti a negare, in tutto o in parte, l’esibizione della documentazione contabile e societaria, ma ponga in essere operazioni positive volte ad occultare i documenti richiesti, anche dopo che il giudice gli abbia ordinato di fare accedere il socio alla consultazione in virtù di un vero e proprio diritto potestativo, ovvero alteri fraudolentemente il contenuto dei libri contabili e/o dei verbali assembleari, e ciò a prescindere dall’esistenza di un collegio sindacale all’interno della società. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 10 novembre 2016 n. 47307. Reati societari - Società a responsabilità limitata - Delibera di aumento di capitale - Reato di impedito controllo (articolo 2625 c.c.) - Mancata convocazione del socio all’assemblea - Non integra la fattispecie. Il reato di omesso controllo è un reato proprio che non riguarda la partecipazione del socio e l’esercizio dei relativi diritti in riferimento a tutti gli aspetti della vita societaria, comprese le deliberazioni della società, ma intende garantire soltanto le funzioni di controllo esercitabili sulla gestione ed amministrazione della società, integrando violazione della norma di cui all’articolo 2625 c.c. non l’impedita partecipazione del socio ad ogni attività societaria bensì un impedimento che attenga in modo specifico alle funzioni ispettive circa la regolarità della gestione. (Nel caso di specie, la Corte non ha ritenuto integrasse la fattispecie delittuosa la mancata convocazione del socio di Srl all’assemblea indetta per l’aumento di capitale). Corte di cassazione, sezione V, sentenza 15 aprile 2015 n. 15641. Reati societari - Reato di impedito controllo (articolo 2625 c.c.) - Diritto di querela dei soci - Danno patrimoniale diretto o indiretto - Distinzione tra soci - Irrilevanza. L’articolo 2625, comma 2, c.c. non pone alcun limite alla titolarità dei soci del diritto di presentare istanza punitiva sulla base di una distinzione tra soci che abbiano subito un danno patrimoniale come conseguenza immediata del comportamento degli amministratori e soci che abbiano subito un pregiudizio come mero riflesso dei danni recati al patrimonio sociale. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 3 ottobre 2012 n. 38393. Società di capitali - Reato di impedito controllo (articolo 2625 c.c.) - False comunicazioni in danno della società, dei soci o dei creditori - Condotta attiva diretta a impedire od ostacolare l’attività di controllo. L’articolo 2625 c.c. presidia sia il regolare esercizio del controllo sugli atti di gestione sociali, sia il patrimonio dei soci - e, di riflesso, anche la tutela delle minoranze, contemplando una condotta diversa dalla previgente normativa (il "vecchio" articolo 2623, n. 3), che puniva il solo comportamento di impedimento, non anche quello del solo ostacolo al controllo. La norma incrimina ogni modalità che renda impossibile o difficoltosa l’azione di verifica da parte di chi, secondo la legge, è legittimato ad un’istanza di controllo sulla gestione o sulla sua rappresentazione contabile. Quando il 2625 c.c. sanziona, in modo ampio ed elastico, l’impedimento o l’ostacolo all’attività di controllo del socio mediante l’occultamento di documenti o il ricorso ad altri artifici, pretende il compimento di una condotta necessariamente attiva dell’amministratore della società, attuata mediante la distrazione, la distruzione dei documenti sociali, ovvero mediante l’impiego di particolari espedienti volti a trarre in inganno, quali la simulazione, la falsificazione materiale, la rappresentazione tanto carente da risultare artificiosa, l’infedele verbalizzazione o la tenuta delle scritture contabili in modo così disordinato da impedire la possibilità di una corretta rappresentazione del dato di gestione o di patrimonio. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 14 luglio 2010 n. 27296. Emilia Romagna: Foti (Fdi-An) "carceri sovraffollate e con pochi agenti" di Andrea Perini cronacabianca.eu, 11 ottobre 2017 Otto delle dieci Case circondariali della regione sforano la capienza, mentre la pianta organica della penitenziaria è coperta solo al 75 per cento. Carceri sovraffollate e polizia penitenziaria in deficit organico. Sono questi i motivi che spingono il consigliere regionale di Fratelli d’Italia-Alleanza nazionale Tommaso Foti a chiedere al governo regionale, attraverso una risoluzione depositata oggi, di "intervenire nei confronti del ministro di Giustizia", Andrea Orlando, in modo da disporre "un piano di nuove assunzioni di agenti di polizia penitenziaria così da colmare le lacune presenti nelle piante organiche del Corpo". Nell’atto d’indirizzo il capogruppo di Fdi-An rimarca, ricorrendo ai dati forniti dallo stesso ministero, come su dieci strutture carcerarie presenti in Emilia-Romagna, otto siano sovraffollate con una popolazione carceraria, aggiornata al 30 settembre 2017, "di 3.514 detenuti di cui 1.757 stranieri". Solo la casa di reclusione di Castelfranco Emilia (in provincia di Modena) e la casa circondariale di Forlì rispetterebbero i limiti di capienza. In tutto sarebbero "690 i detenuti in eccesso: la casa circondariale di Bologna registra un sovraffollamento del 156 per cento, quella di Ferrara del 154, Parma del 124 mentre quella di Piacenza del 118 per cento con il record regionale di carcerati stranieri, ovvero il 73 per cento del totale". Una situazione che si scontra con i numeri degli agenti della polizia penitenziaria. "Dai dati forniti dalle organizzazioni sindacali - specifica Foti nella risoluzione- risulterebbero presenti 1.736" agenti a fronte delle 2.391 unità che sarebbero richieste per l’Emilia-Romagna. "La pianta organica della polizia penitenziaria risulterebbe - spiega Foti - coperta al 75 per cento, con un caso emblematico su tutti: quello della casa circondariale San Lazzaro di Piacenza. La polizia penitenziaria è sotto organico del 30 per cento e il rapporto tra detenuti e agenti, che dovrebbe essere di 1.5, è di 2.65". Questi numeri, punge il consigliere, costringerebbero "numerosi agenti a disertare le manifestazioni indette per celebrare il bicentenario della costituzione del Corpo". Per tutti questi motivi Foti sprona la Giunta a "esprimere solidarietà e gratitudine nei confronti di tutti quegli agenti che quotidianamente mettono a rischio la propria incolumità" e di intervenire nei confronti del governo per risolvere la situazione "anche con un provvedimento di natura legislativa". Cagliari: "porto il car sharing nel carcere di Uta", l’idea del sindaco metropolitano di Massimo Ledda L’Unione Sarda, 11 ottobre 2017 Una distesa di pale eoliche in mezzo alle sterpaglie e sullo sfondo il profilo dei capannoni industriali di Macchiareddu. Guardando oltre le sbarre i circa 610 detenuti di Uta non hanno di fronte uno spettacolo indimenticabile. Da qui Cagliari è lontana, molto più dei 15 chilometri indicati dalle mappe. Forse per certi aspetti è meglio così, perché quando le loro celle stavano a Buoncammino potevano vedere il mare azzurro del Golfo degli Angeli e l’idea di non poter uscire era ancora più dura da accettare. Ma la difficoltà nel raggiungere il penitenziario resta il problema principale per i detenuti, i loro familiari, il personale. La visita Sono le 10,30 di ieri quando i cancelli del moderno penitenziario, il più grande della Sardegna, si aprono per far entrare la delegazione dei Radicali italiani guidata dal segretario di Cagliari Carlo Loi, il senatore Luciano Uras e il sindaco della Città metropolitana Massimo Zedda. Nonostante la richiesta formulata la sera prima, i giornalisti restano fuori. Per i tempi del Dap, rimasti alla prima Repubblica, non è tecnicamente possibile autorizzare l’ingresso. Ad accogliere gli osservatori è il direttore pro tempore Marco Porcu. Un summit nel suo ufficio e poi il tour ha inizio. Nel frattempo al cancello principale c’è la fila dei parenti dei reclusi in attesa di colloquio. Uno è in ritardo e maledice il mondo insieme ai mezzi pubblici. Ha una busta in cui porta indumenti puliti. Zedda e il car sharing. All’uscita, un’ora e mezzo dopo, Zedda fa il punto della situazione: "Il carcere di Uta è certamente più moderno e funzionale rispetto a Buoncammino - sono le sue parole -, ma esiste un problema trasporti, soprattutto per i detenuti in semilibertà che devono rientrare la sera e per i volontari". Così annuncia la sua proposta: "Siamo disponibili a fornire alcune delle biciclette che erano in dotazione alla Provincia per gli spostamenti interni - spiega -, ma anche a creare una stazione di car sharing, al servizio degli ospiti che hanno l’autorizzazione a uscire e del personale che lavora nella struttura. Sono idee su cui dovremo confrontarci con la Regione, ma che riteniamo possano aiutare a rendere il carcere più vicino alla città e ai paesi dell’hinterland". "Servono fondi". "Una visita istruttiva", la definisce invece l’onorevole Uras. "A Uta - spiega - c’è un evidente problema di sovraffollamento con un centinaio di detenuti in più di quanto previsto. Questo peggiora non solo il disagio di chi sta scontando la pena ma anche le condizioni di lavoro degli agenti e degli operatori. La struttura è moderna e ben curata, anche se non finita, ma ha il difetto enorme di essere molto lontana dalla città. Il 40% degli ospiti è qui per reati connessi agli stupefacenti, tanti sono extracomunitari, ma molti di loro per fortuna sono impegnati in attività di lavoro o di studio. In questo senso c’è un impegno notevole che potrebbe però dare più risultati se si consentisse a tutti i detenuti di entrare in percorsi di reinserimento: per fare questo servono però più fondi e farò una battaglia perché da questa legge di stabilità siano individuati finanziamenti adeguati". Disagio mentale. Durante la visita è stato affrontato anche il tema della sofferenza mentale dietro le sbarre: il 30% dei reclusi a Uta ha infatti bisogno di cure psichiatriche e non a caso gli "incidenti" - a volte gravi - sono frequenti. "Questo - spiega Uras - riguarda il tema di come è stata gestita la chiusura degli ospedali psichiatrici che erano dei lager: un fronte in cui c’è ancora molto da fare". E anche qui Zedda ha lanciato la sua proposta: "Studieremo la possibilità di inserire gli ospiti del carcere nei progetti Plus per alleviare il disagio mentale". "C’è umanità" Chiudono i Radicali italiani, che hanno organizzato la visita: "Complessivamente è una buona struttura - spiega Carlo Loi, dove ci sono ampi spazi anche se pochi sono dedicati all’alternativa alla cella. Esistono sale studio e biblioteca, diversi laboratori, dalla piccola falegnameria alla lavanderia, ma pochi luoghi per la socialità. Una parola meritano però il direttore e tutti i suoi collaboratori: abbiamo notato grande umanità e sensibilità verso la popolazione detenuta". Agrigento: i Radicali Italiani in visita al carcere "reparto maschile? muri sporchi e muffa" agrigentonotizie.it, 11 ottobre 2017 La visita nel carcere dell’antica Girgenti, si è conclusa nel primo di ieri con la promessa del direttore e del Commissario di continuare ad operare per il recupero di tutte le aree dell’Istituto che necessitano di interventi. Antonino Nicosia, accompagnato dal figlio Giovanni e altri compagni facenti parte della delegazione dei Radicali Italiani, autorizzata dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ha visitato tutto l’Istituto iniziando come promesso dal reparto femminile, unico reparto interamente funzionante e pertanto degno di essere abitato poiché rispettoso della dignità delle 43 donne, anziane e giovani, detenute. Nel reparto femminile, queste, condividono racconti e attività ludiche negli spazi detentivi. Una di loro sta allestendo una biblioteca grazie ai libri raccolti da un gruppo di volontari. "Tragica invece, la condizione delle sezioni del reparto maschile: muri sporchi, acqua calda a fasce orarie e docce da ristrutturare a causa della condensa e della muffa. Punto particolarmente critico - scrivono in una nota i Radicali italiani - le poche ore destinate all’assistenza psicologica, infatti solo due psicologhe per 374 detenute con un contratto di 16 ore al mese, visite mediche tre volte a settimana. L’ambulatorio odontoiatrico è chiuso da parecchi mesi e i detenuti chiedono interventi, presso medici convenzionati, all’esterno, ma per ovvi motivi quali traduzioni e alle prenotazioni attendono anche otto mesi. Nel carrello degli infermieri mancano le medicine, assente il dermatologo, il cardiologo e soprattutto lo psichiatra per i numerosi detenuti in terapia neuropsichiatrica. Buone le condizioni dei detenuti del reparto primo a sinistra, in regime di "sorveglianza dinamica" con celle aperte tutto il giorno. Meno confortevoli le condizioni degli altri reparti ove si contano, in 6 mq, anche tre detenuti. Altissima la percentuale di extracomunitari dei reparti di media sicurezza, assenti i corsi di formazione professionale, buona l’offerta formativa del Cipia con le classi di Scuola secondaria di primo grado e l’ alfabetizzazione di base. Decisamente alto il numero dei presenti all’appello nelle classi dell’Istituto Alberghiero. I 177 gli operatori di Polizia Penitenziaria su un organico di 212 unità, numeri troppo bassi per garantire la sicurezza soprattutto nelle ore notturne, con turni faticosi che vanno dalle 18,00 alle 7,00 a.m., spesso un solo agente per due reparti, per un totale di circa oltre 130 detenuti; nel caso di malore di un detenuto o tentato suicidio i rischi aumentano considerevolmente. Tutto ciò sotto la lente di ingrandimento del Commissario e del Direttore che stanno operando per le soluzioni più breve e meno costose. Per questa ragione chiederemo al Dap, con apposita nota, più risorse economiche ed umane per la Casa Circondariale Agrigentina. Otre al dissesto sanitario si registra l’assenza degli Educatori, 4 educatori che i detenuti non hanno il piacere di incontrare infatti, per avvalorare le loro lamentele, neanche noi oggi abbiamo avuto il piacere di parlare con loro, ma neanche con il Capo dell’Area Trattamentale, al quale avremmo voluto chiedere alcune informazioni, ma non è stato possibile. È mio dovere ricordare che il carcere dovrebbe consentire di curare il reo con attività trattamentali e con progetti specifici per il trattamento e il reinserimento; per questa ragione la figura dell’educatore è fondamentale, come importanti sono le relazioni post osservazione che permettono ai detenuti di usufruire di pene alternative o altri benefici. Gli unici spazi per praticare sport sono le aree passeggio, molti detenuti giocano a calcio e per queste ragioni questa delegazione si assume l’impegno di richiedere alle aziende produttrici di donare palloni di calcio e calcetto ai detenuti del Petrusa di Agrigento. Questo Istituto e le attività programmate verranno costantemente monitorate in termini di efficienza così da poter ritornare ad essere una struttura detentiva dignitosa a garanzia dei diritti del detenuto come quello alla salute e al trattamento pedagogico in ambienti sani e salubri nel rispetto bio-psicosociale della persona in quanto tale". Roma: "eWriting", l’arte dello scrivere corre sul web e unisce 4 carceri di Teresa Valiani Redattore Sociale, 11 ottobre 2017 Parte da Roma per raggiungere istituti di tutta Italia il primo laboratorio di scrittura creativa in e-learning organizzato in carcere. Il progetto è inserito nella nuova edizione del concorso letterario "Goliarda Sapienza". Tra gli insegnanti: Erri De Luca, Pino Corrias, Gianrico Carofiglio. Premiazione al prossimo Salone del Libro di Torino. Un laboratorio di scrittura creativa a distanza nelle carceri, il primo in Italia, 60 detenuti partecipanti, tra cui 15 donne e ristretti dell’alta sicurezza. Un punto di partenza, l’Università telematica eCampus di Roma, e 4 di arrivo: gli istituti Rebibbia Femminile, Rebibbia Reclusione, Santa Maria Capua Vetere e Saluzzo. Tre mesi e mezzo di corso, organizzato in 15 lezioni (una ogni settimana, di 2 ore ciascuna), da ottobre a gennaio, con altrettanti scrittori nel ruolo di tutor. E una giuria che apre anche a studenti, grandi lettori e ascoltatori radiofonici. Sono i nuovi numeri dello storico premio letterario "Goliarda Sapienza", rivolto a detenuti, che quest’anno cambia veste e lancia una doppia sfida: l’e-learning con il collegamento tra le carceri e una nuova apertura verso l’esterno. La premiazione del vincitore, infatti, non si terrà più in un istituto di pena ma tra la gente, in un luogo simbolo della cultura come il prossimo Salone Internazionale del Libro di Torino. Ideato dalla giornalista Antonella Bolelli Ferrera, giunto alla settima edizione e promosso da InVerso Onlus, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e Siae, il concorso propone quest’anno "eWriting - l’arte dello scrivere", laboratorio di scrittura creativa a distanza nelle carceri. partito il 3 ottobre e che vede coinvolti 15 scrittori nella veste di tutor, come nella tradizione del "Goliarda Sapienza". L’autobiografia, i dialoghi, il punto di vista, lo stile, la tensione, l’intreccio e il finale, i personaggi, le storie d’amore, il giallo e il noir, tra gli argomenti al centro delle lezioni dei 15 autori che sono Romana Petri, Serena Dandini, Antonio Pascale, Paolo Di Paolo, Maria Pia Ammirati, Erri De Luca, Marcello Simoni, Pino Corrias, Andrea Purgatori, Dacia Maraini, Federico Moccia, Gianrico Carofiglio, Massimo Lugli, Nicola Lagioia e Giulio Perrone. In collegamento diretto dalla sede di Roma dell’università telematica eCampus (partner dell’iniziativa), gli Scrittori-Tutor fanno lezione ai detenuti aspiranti scrittori che partecipano al corso all’interno di aule attrezzate con grande schermo, webcam, impianto audio, microfoni e computer. I migliori 20 corsisti saranno i finalisti del Premio Goliarda Sapienza. Mentre l’autore del racconto vincitore sarà annunciato e premiato nel corso del Salone del Libro di Torino 2018. "Il leitmotiv di questa nuova edizione è "la scrittura nasce dentro ma ti porta fuori" - spiega Antonella Bolelli Ferrera, curatrice del concorso. Oggi il Premio si amplia e si completa, rinnovandosi. Con eWriting chiudiamo un cerchio già tracciato: dopo una fase di interazione fra scrittori e detenuti attraverso il laboratorio telematico, la scrittura carceraria esce dalle mura in cui è stata generata e raggiunge il mondo esterno, approdando ad una delle più importanti manifestazioni letterarie italiane". "Si amplia tutto il significato del concorso - sottolinea l’ideatrice. Prima il racconto nasceva dentro e restava dentro, anche se il libro che raccoglie i testi migliori portava fuori dal carcere le storie delle persone. Ora vogliamo cercare di portare fuori anche soltanto una persona, simbolicamente, che è il vincitore, o anche qualche altro corsista che arriverà in finale. Il sogno di tutti i detenuti è uscire, anche solo per un giorno. Portare questo premio, che li riguarda, al Salone del Libro con uno o più di loro, ha un profondo significato". I 60 corsisti, dotati di un pc portatile donato dall’organizzazione, dialogano con gli Scrittori-Tutor collegandosi in diretta video con l’aula virtuale dell’Università eCampus dove, di volta in volta, gli autori si avvicendano. Mentre in alcuni casi gli scrittori svolgono il loro incontro letterario all’interno di un carcere e in diretta con gli altri istituti. Ogni settimana, nelle vesti di Scrittore-Editor, Cinzia Tani affronta un argomento e segue l’intervento di uno Scrittore-Tutor che interagisce con i detenuti rispondendo in diretta alle loro domande e fornendo suggerimenti. Nel corso del laboratorio, i detenuti, dislocati in carceri diverse, sono accompagnati nell’apprendimento delle tecniche di scrittura e guidati nella composizione dei loro racconti come se fossero nella stessa aula. "Credo fortemente nelle possibilità taumaturgiche della scrittura - sottolinea Dacia Maraini, da sempre madrina del Premio e da quest’anno anche Tutor. L’evoluzione del Premio Goliarda Sapienza con il laboratorio di scrittura, che lo precede, è un passaggio necessario: in questo modo, le detenute e i detenuti, ricchi delle proprie storie di vita e d’azione, apprendono le regole del mestiere dello scrittore, in un percorso che prima prepara e poi accoglie le idee, un terreno fertile per la riflessione e per una narrazione consapevole". "I 60 racconti redatti durante l’attività di laboratorio - spiega una nota dell’organizzazione - saranno quelli in concorso al Premio. La giuria, composta da scrittori, critici letterari, artisti e, altra novità di quest’anno, da studenti, grandi lettori e ascoltatori radiofonici, decreterà il vincitore fra i 20 racconti ammessi alla finale. Il primo classificato, a cui andrà un premio di 2.500 euro, sarà annunciato e premiato nel corso del Salone del Libro di Torino (10-14 maggio 2018) e, nell’occasione, sarà presentato il libro con i venti racconti finalisti della serie "Racconti dal carcere" (Giulio Perrone Editore), distribuito nelle librerie. Alla premiazione saranno presenti anche persone detenute e Scrittori-Tutor che hanno partecipato al progetto. "Sono orgoglioso di prendere parte a questo laboratorio di scrittura del Premio Goliarda Sapienza, la cui premiazione si terrà quest’anno a Torino - spiega il direttore del Salone del Libro, Nicola Lagioia. Promuovere la lettura nelle carceri, e in generale far sentire la propria presenza negli istituti di detenzione perché la pena sia uno strumento di rieducazione come previsto dalla carta costituzionale, è da sempre nella cultura e nelle corde del Salone. La vicinanza al Premio Goliarda Sapienza si affianca alle altre nostre iniziative legate alle carceri, su cui pure continueremo a lavorare". Ascoli: riparte il laboratorio di scrittura espressiva al carcere del Marino picenotime.it, 11 ottobre 2017 Dopo la pausa estiva e l’organizzazione fra le sbarre del concerto gratuito di Antonio Sorgentone voluto dagli stessi esecutori del progetto, riprende il Corso di Scrittura Espressiva dal titolo "Scrivo me" presso il Carcere Marino del Tronto di Ascoli Piceno. Nell’ambito del programma promosso dall’Associazione Amnis di Biosistemica, sotto l’ideazione e la cura della giornalista-scrittrice Piera Ruffini congiuntamente all’ausilio terapeutico del Dott. Stefano Cristofori, continua l’attività laboratoriale, partita a gennaio di questo anno e che interesserà nella stagione autunnale i mesi da ottobre a dicembre. Prosegue dunque il dialogo ma soprattutto l’aiuto ai ristretti del Carcere ascolano per la costruzione di un macro-spazio, generato da mente e sentimento che, attraverso la scrittura, consentirà un processo di ricordo e memoria della propria storia e pertanto un’articolata consapevolezza dell’esperienza di marginalità o devianza maturata. "Il disagio, visto come momento di vuoto e di mancanza, può diventare una risorsa preziosa" - spiega la Direttrice della Casa Circondariale, Lucia Di Feliciantonio, attenta da sempre alle attività di formazione rivolte ai reclusi - "per stimolare l’auto-riflessività, ripensare il percorso di vita, ricreare la relazione con se stessi e con la comunità collocata tra il "dentro" e il "fuori". Il Presidente dell’Associazione Aminis, Stefano Cristofori, sottolinea l’importanza di come "la coralità dei vissuti, il feedback, il rispecchiarsi, in misura più o meno intensa nella storia del compagno, il conoscersi e conoscere gli altri in modo diverso, producano insieme importanti effetti sia sul piano personale che interpersonale fra i detenuti". "Scrivere significa anche buttare fuori il rancore, la perdita di dignità" racconta la giornalista Piera Ruffini "costruire da soli, o insieme, qualcosa", - poi prosegue. "È un’opportunità rilevante di cambiamento possibile, di auspicabile revisione e di riprogettazione del futuro, che per questa nuova fase si concluderà con un filo diretto con il mondo esterno". Prevista, infatti, la creazione di un racconto in parte elaborato dai reclusi, in parte scritto dagli studenti di una quinta di un Istituto Superiore di Ascoli, per favorire in seno alle nuove generazioni la sensibilità in materia di lotta al pregiudizio, all’intolleranza, all’emarginazione, per valorizzare una più vera ed efficace cultura alla legalità e costruire una società migliore. Bologna: "Cinevasioni" premia Carlo Delle Piane di Piero Di Domenico Corriere di Bologna, 11 ottobre 2017 Oggi al carcere della Dozza il protagonista di 70 anni di cinema. Se l’anno scorso era toccato a una divina del cinema come Claudia Cardinale, quest’anno il premio alla carriera di Cinevasioni, primo festival di film in un carcere, andrà a un attore che incarna settant’anni del nostro cinema. Già, perché Carlo Delle Piane debuttò a dodici anni nel 1948, scelto da Vittorio De Sica per Cuore da De Amicis. Da allora, per lui e per il suo volto asimmetrico, anche a causa di una frattura procuratasi da ragazzino giocando a calcio, una sequela di commedie. Da Steno a Monicelli, sino al "Cicalone", amico fidato di Alberto Sordi. Con 104 film all’attivo, Delle Piane ha più che meritato la Farfalla di ferro, realizzata nelle officine interne della Casa circondariale, che questa mattina riceverà alla Dozza dopo la proiezione, alle ore 9.30, del suo ultimo film Chi salverà le rose?, da lui interpretato al fianco di Lando Buzzanca. Per la carriera di Delle Piane un punto di svolta resta però l’incontro negli anni 70 con Pupi Avati, che ne scorge una sino ad allora inedita vena malinconica. Non a caso la cerimonia di premiazione, a cui avrebbe dovuto partecipare lo stesso regista bolognese, si aprirà proprio con un messaggio di auguri e complimenti di Avati all’attore nato a Campo dei Fiori. "Con Antonio e Pupi Avati - racconta Delle Piane - continuiamo a sentirci, con loro è sempre un gran divertimento anche fuori dal set". Per la sua prima uscita pubblica dopo alcuni mesi in ospedale, Delle Piane ha scelto proprio Cinevasioni: "Ho accettato subito - dice - mi è sembrata una bellissima iniziativa. Dopo tanti festival e proiezioni, è la prima volta che entro in carcere. Non so che reazione avrò. Il carcere è un posto suggestivo ma anche molto inquietante. Mi auguro di fare una buona impressione, di risultare simpatico. La cosa più importante è che poi, in serata, potrò tornare... in albergo". Chi salverà le rose?, diretto dall’ex funzionario della regione Sardegna Cesare Furesi, è una sorta di spin-off di Regalo di Natale, dove Delle Piane giganteggiava nei panni dell’ambiguo avvocato Santelia, con il beneplacito di Avati che ha apprezzato anche il film finito. Il film mette in scena l’assistenza da parte di Giulio (Delle Piane), ex professionista di poker, a Claudio (Buzzanca), suo grande amore allettato da anni, in una prestigiosa villa nella quale quasi tutti i mobili sono stati pignorati. "Credo - continua l’attore, tornato dopo qualche anno sul grande schermo, ma ancora molto corteggiato con offerte per film e fiction - nell’amore assoluto anche tra due maschi. Ho compiuto 81 anni e 69 di carriera e trovo che questa mia interpretazione sia la più fantasiosa, emozionante e matura di tutta la mia carriera. Al di sopra di tutto c’è oggi mia moglie. Due anni fa ho avuto, come molti sapranno, un’emorragia cerebrale e senza di lei non ce l’avrei fatta". Nel pomeriggio, alle 14.30, il secondo film di giornata sarà La pelle dell’orso di Marco Segato, con Marco Paolini. Treviso: sabato la presentazione del libro "Per qualche metro e un po’ d’amore in più" Ristretti Orizzonti, 11 ottobre 2017 Sabato 14 ottobre, presso la Libreria IBS di Treviso, alle ore 19:30, nell’ambito di CartaCarbone festival letterario, si svolgerà l’incontro "Per qualche metro e un po’ d’amore in più", per parlare di affetti e carcere, con Angelo Ferrarini, Ornella Favero e Bruno Monzoni, della redazione di Ristretti Orizzonti, rivista realizzata da detenuti e volontari della Casa di reclusione di Padova. Brescia: il nuovo Vescovo domenica 22 ottobre farà visita ai detenuti di Giuseppe Spatola Brescia Oggi, 11 ottobre 2017 Dal pulpito del Duomo lo ha ribadito con fermezza e determinazione, indicando la strada del suo mandato: "La missione ecclesiale implica il fare attenzione a quella fame e sete profonda dell’uomo che è fame di senso di amore, di senso di speranza, di Dio". Una missione del Vangelo che il neo-vescovo di Brescia, monsignor Pierantonio Tremolada, ha interpretato vivendo subito il suo quotidiano tra la gente e ascoltandola in piazza come dallo scranno di Pietro. Così dopo essersi presentato in Duomo "a sorpresa" per dire messa e stare tra i fedeli, il vescovo ha deciso che la sua prima uscita ufficiale sarà tra i volti scavati dei carcerati, tra quelle celle così lontane dal mondo vissuto che la parola di Dio diventa unico segno di speranza nel buio della pena. Per questo il 22 ottobre monsignor Tremolata sarà tra i detenuti del Nerio Fischione, passando a rassegna l’umanità perduta e stipata tra le brandine di un luogo da sempre considerato "al limite". I particolari della visita non sono stati ancora resi noti, ma sicuramente l’arrivo del vescovo aprirà anche in carcere una via per il dialogo interreligioso auspicato anche nell’omelia di domenica scorsa. "Contemplare e rivelare il volto di Cristo: ecco il nostro compito - ha sottolineato il vescovo in Duomo. Il volto rinvia all’identità segreta del soggetto e la rende familiare. Il volto della madre per un bimbo è tutto il suo mondo, è garanzia di sicurezza e di vita. Il suo sorriso è il motivo della sua felicità. Questo è per noi il volto di Cristo, volto del Signore crocifisso e risorto, rivelazione inaspettata del mistero di Dio, che è misericordia infinita, mitezza e umiltà". La Chiesa vive di questo sguardo e in questo sguardo. Lo stesso pensiero che i detenuti avranno domenica 22 ottobre incrociando gli occhi del vescovo e cercando nelle sue parole il conforto necessario per "sperare. "Vorrei tanto che alla base di tutta la nostra azione di Chiesa ci fosse la contemplazione del volto amabile di Gesù, il nostro grande Dio e salvatore - ha ribadito nella sua omelia Tremolada. Così dal volto di Cristo si passerà, quasi senza accorgersi, al volto degli uomini e la nostra diventerà la "pastorale dei volti". Acquisterà la forma della cura delle persone per quello che sono, ciascuna con la sua identità. La vita non è mai generica e quindi nemmeno potrà esserlo l’amore per la vita: non esiste, infatti, la vita come tale, esiste il volto di ciascuno che vive. C’è bisogno di una pastorale "generativa", che faccia sentire a ciascuno la carica positiva dell’esistenza quotidiana. Su questo si deve concentrare tutto ciò che la Chiesa fa". Il primo passo della "pastorale generativa" sarà in carcere tra gli ultimi. A partire dal Nerio Fischione il vescovo sicuramente guarderà con coraggio al suo mandato bresciano. Tra le celle la sua parola consentirà di incontrare l’amore di Dio, che dona gioia e speranza, a chi Dio lo ha lasciato fuori dall’uscio del carcere assieme alla normalità della vita. Migranti. Ius soli, mille adesioni allo sciopero della fame di Eleonora Martini Il Manifesto, 11 ottobre 2017 Il ministro Minniti ribadisce il sì alla legge: "Principio che va oltre la maggioranza". Dopo i 900 insegnanti italiani che hanno digiunato il 3 ottobre scorso, ieri altre 200 persone - tra cui l’intero staff dell’Associazione "A Buon diritto", il sindaco di Napoli Luigi De Magistris e il presidente del Parco nazionale delle Cinque terre Vittorio Alessandro - hanno preso parte allo sciopero della fame a staffetta per chiedere l’approvazione della legge sulla cittadinanza. Un’iniziativa nonviolenta, rilanciata da numerosi parlamentari tra cui Luigi Manconi, Elena Ferrara, Paolo Corsini e da Radicali Italiani, che negli ultimi giorni ha trovato molte adesioni arrivando ieri a quota mille, secondo il sito dell’associazione radicale. E a ribadire la necessità di una legge che riconosca la cittadinanza agli oltre 800 mila minori che non sono più stranieri in Italia è stato anche lo stesso Marco Minniti: "È una questione di principio che va oltre la maggioranza di Governo", ha detto il ministro dell’Interno riferendosi alla possibilità ventilata in queste ore di porre la fiducia sul provvedimento approvato ad agosto alla Camera e non ancora calendarizzato al Senato. Ma Ap e Forza Italia hanno già negato il loro consenso. "Lo ius soli - ha precisato Minniti in audizione al comitato Schengen - non c’entra con le politiche migratorie, riguarda persone che sono nate in Italia. Persone o figli di persone che hanno già un permesso di soggiorno riconosciuto". Il ministro ha poi da un lato annunciato la prossima "costituzione dei Centri per i rimpatri, che sono altra cosa rispetto ai Cie": "piccoli centri" che andrebbero aperti "uno per in ogni regione" anche se al momento "attraverso un processo di cooperazione positiva con le Regioni noi siamo arrivati a individuarne 11". E contemporaneamente ha ricordato che la legge in discussione tiene conto sia dello ius soli che dello ius culturae, ossia del diritto acquisito per nascita e quello per formazione. Approvarla, afferma Minniti in una lettera indirizzata al senatore Manconi, significa costruire "un paese che integra" e dunque "costruisce meglio i suoi percorsi di sicurezza". Tanto più perché, cittadinanza significa diritti e doveri, come sottolineano i Radicali italiani. Ecco perché "estendere i diritti fa bene non solo a chi ne beneficia, ma all’intera società. È questo il principio di ragionevolezza che deve orientare le scelte del legislatore, non certo i sondaggi elettorali o le paure strumentalmente indotte". Migranti. Ius soli, l’allarme infondato sulla sanatoria per "un milione" di adulti di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 11 ottobre 2017 Negli ultimi giorni c’è un’argomentazione ricorrente, icastica in apparenza quanto esagerata alla verifica dei fatti, fra quelle sbandierate nel confronto politico fra sostenitori e contrari alla legge sullo ius culturae. È il timore, paventato da Fratelli d’Italia, che l’articolo 4 del testo 2092, all’esame del Senato, si trasformi in una "legge truffa" per via di una norma passe-partout escogitata per far votare "almeno un milione di stranieri maggiorenni". Ad affermarlo è stato, nella trasmissione "L’aria che tira" su La7, il deputato di Fdi Ignazio La Russa: "La sinistra continua a sostenere che lo ius soli è una legge a favore dei bambini - ha detto -. Ma in realtà c’è una norma transitoria, e sfido chiunque a smentirmi, che dice che almeno un milione di stranieri maggiorenni possono diventare italiani portando carte di 20-30 anni fa, sostenendo che hanno superato un corso della durata di 2 anni". Questa legge, chiosa l’ex ministro della Difesa "serve solo a far votare subito milioni di persone straniere, è una vera truffa". Una posizione che, interpellato da Avvenire, La Russa mantiene ("Confermo ciò che ho detto"), con alcune precisazioni: "La durata minima dei corsi professionali è di tre anni. Ma la norma non ne chiede il superamento, solo la frequenza. E dunque, pur senza diploma, in molti potrebbero asserire di averne frequentato uno, esibendo autocertificazioni o atti notori. Quella norma transitoria è mal congegnata, andrebbe cancellata". Gli fa eco la presidente di Fdi, Giorgia Meloni: "Cittadinanza a tutti gli immigrati dopo solo 5 anni di residenza in Italia: è quello che prevede l’art. 4 della proposta di legge sullo ius soli", scrive su Facebook, parlando di "bambini stranieri usati come scudi umani dalla sinistra per regalare la cittadinanza italiana a milioni di stranieri". Toni forti, dunque, quasi che nelle pieghe del disegno di legge si annidi una ‘sanatorià mascherata. Tuttavia, andando a leggere il dettato del testo al vaglio di Palazzo Madama, la realtà è differente. In linea generale, va premesso, le disposizioni si applicano anche agli stranieri che abbiano maturato (prima dell’entrata in vigore) i diritti previsti, purché non abbiano compiuto il ventesimo anno d’età. Ma tale termine non vale per l’acquisto della cittadinanza tramite l’esercizio dello ius culturae (ossia a seguito di percorso formativo). In tal caso, il combinato disposto dell’articolo 4 con le altre norme, stabilisce che occorra il possesso di una dettagliata serie di requisiti: nascita in Italia o ingresso entro il compimento del dodicesimo anno di età; regolare frequenza del prescritto percorso formativo per almeno cinque anni nel territorio nazionale ("o percorsi di istruzione e formazione professionale triennale o quadriennale", come dispone l’art. 1, comma 1, lettera d). Parimenti, è richiesta la residenza legale e ininterrotta nel territorio nazionale per cinque anni. Più paletti da rispettare, dunque, e non la semplice esibizione di un attestato di frequenza di un corso triennale. L’altro interrogativo riguarda la cifra dei potenziali fruitori della finestra normativa: "Un milione - spiega La Russa - è una cifra che non ho calcolato io, ma alcuni esperti, e che comunque sarebbe per difetto". Di tutt’altro parere la senatrice di Mdp Doris Lo Moro, già relatrice del testo: "Non mi risulta che qualcuno abbia già formulato stime sui possibili utilizzatori di quella norma. Ma in ogni caso, dovrebbe trattarsi di numeri minimi, vista la serie di requisiti fissati dalla legge. È stata introdotta per disciplinare casi particolari. E non credo proprio che saranno molti". L’iter della legge: resiste l’ipotesi fiducia. Ma Ap ripete: "Non ci staremmo" - Fra le fonti di maggioranza, c’è anche chi ipotizza che, per far passare in tempi rapidi in Senato il disegno di legge sullo ius culturae, alla fine il governo Gentiloni possa decidere di apporre la fiducia. Uno scenario sul quale non c’è al momento alcuna conferma. Ma Maurizio Lupi, coordinatore nazionale di Ap, mette le mani avanti: "I ministri di Alternativa popolare non la appoggeranno, qualora venisse proposta". Sempre nella compagine di governo, i sostenitori della legge continuano a lanciare appelli al voto di coscienza. Come il ministro dell’Interno Marco Minniti, che parla di "una questione di principio che va oltre la maggioranza di governo". Nel frattempo, sono salite a quota 1.030 le adesioni allo sciopero della fame "a staffetta", a sostegno del voto parlamentare sullo ius culturae. Il dato è stato reso noto ieri dal senatore del Pd Luigi Manconi, presidente della commissione Diritti umani. Ieri hanno digiunato in 198, fra cui il governatore del Piemonte Sergio Chiamparino (insieme alla giunta regionale), il presidente della commissione affari sociali della Camera Mario Marazziti (Des) e diversi parlamentari, fra i quali Paolo Beni e Monica Cirinnà, del Pd, e Lucio Romano (Des), che afferma: "La legge non c’entra con le migrazioni, riguarda italiani di fatto. Non è giustificabile la loro esclusione dalla cittadinanza. Si sono formati e siedono nei banchi di scuola accanto ai nostri figli o nipoti". Molte le adesioni al digiuno da parte di esponenti della società civile, compresi 37 docenti universitari di diversi atenei. Migranti. "Diritto a una vita dignitosa": 200 braccianti occupano la cattedrale di Foggia di Gianmario Leone Il Manifesto, 11 ottobre 2017 Sono i lavoratori stagionali che vivevano nel famoso "Gran Ghetto" e vivono ora accampati in tende o capanni di fortuna. Hanno occupato in 200 la Cattedrale di Foggia per chiedere alla Regione Puglia il rispetto degli accordi e ribadire ancora una volta il diritto ad una vita dignitosa. Sono i lavoratori stagionali, anche se molti di loro in realtà vivono qui tutto l’anno, che sino allo scorso marzo vivevano nel famoso "Gran Ghetto" tra Rignano Garganico e San Severo, in provincia di Foggia: da allora sono accampati nell’area adiacente in attesa di ricevere una sistemazione dignitosa, in tende o capanni di fortuna. A provocare la protesa e l’occupazione simbolica della Cattedrale, dopo aver chiesto l’aiuto di Papa Francesco con una lettera, il taglio della fornitura dell’acqua dello scorso 13 settembre. L’arcivescovo di Foggia, monsignor Pelvi, dopo essersi confrontato con i lavoratori, si è offerto da mediatore con la Regione e la istituzioni locali: subito dopo una delegazione è stata ricevuta dal Prefetto Massimo Mariani, ottenendo il ripristino immediato dell’acqua potabile nelle aree in cui vivono. Le parole della protesta sono "dignità", "giustizia sociale", "diritti". In realtà, il tutto si trova nero su bianco su un verbale di un incontro che il 31 luglio scorso era stato sottoscritto con la Regione Puglia nel quale si stabiliva, oltre alla distribuzione dell’acqua, il superamento della ghettizzazione, l’inserimento lavorativo, il rispetto dei contratti di lavoro e l’istituzione di un tavolo permanente sull’agricoltura. Alla testa della protesta Aboubakar Soumahoro, senegalese in Italia da oltre 15 anni, appartenente all’Usb, che contesta duramente l’operato della Regione guidata da Michele Emiliano. "Viviamo in condizioni inumane, nonostante vi siano 1,6 miliardi di euro di fondi comunitari destinati all’agricoltura pugliese. Emiliano non può sgomberare la nostra dignità e i nostri diritti. Anche se migranti, sempre braccianti siamo". Molti dei quali impegnati nell’ultima raccolta di pomodori, mentre in tanti resteranno anche l’inverno per le verdure di stagione. Lavoratori a tutti gli effetti, da anni vittime del caporalato nelle campagne pugliesi. "Chiediamo il rafforzamento dei centri per l’impiego, per ridurre l’intermediazione delle agenzie di somministrazione e dei caporali", sottolinea Soumahoro. Ricordando l’esistenza di un altro accordo siglato con la Provincia "che prevede che al vitto e all’alloggio debbano provvedere le aziende". Il governatore Emiliano non ci sta e risponde alle accuse rivendicando la decisione dello sgombero del "Gran Ghetto", "area utilizzata per sfruttamento della prostituzione, spaccio di stupefacenti e caporalato", presa di concerto con le altre istituzioni. "Non esiste alcun accordo finalizzato alla distribuzione dell’acqua. Durante l’incontro del 31 luglio nessun accordo è stato raggiunto", sostiene Emiliano. Eppure l’intesa esiste e riguarda proprio le persone che vivono all’esterno dell’ex Ghetto: vi è scritto che le parti condividono "il ripristino immediato della distribuzione dell’acqua potabile nelle campagne di San Severo al di fuori dell’area posta sotto sequestro", firmato dall’assessore Sebastiano Leo. "Tutte le persone presenti nel Gran Ghetto possono alloggiare a loro richiesta in strutture di accoglienza messe a disposizione dalla Prefettura, Comuni e Regione", ribadisce Emiliano. Ma anche in questo caso si chiedono "progetti reali e non concessioni a pioggia di risorse economiche da parte della Regione in favore di cooperative che si occupino del problema casa", ribatte Soumahoro. La lotta al caporalato e per i diritti umani in Puglia è ancora lungi dall’essere vinta. Pena di morte. 105 gli Stati che l’hanno abolita, i poveri sono i più colpiti Redattore Sociale, 11 ottobre 2017 In occasione della XV Giornata mondiale contro la pena di morte, Amnesty International ha chiesto alla minoranza di stati che ancora ricorrono alla pena capitale di unirsi alla tendenza abolizionista. Ricerche evidenziano che le persone provenienti da ambienti socio-economici sfavorevoli sono colpite in modo sproporzionato. In occasione della XV Giornata mondiale contro la pena di morte (oggi, 10 ottobre), Amnesty International ha chiesto a quella minoranza sempre più isolata di stati che ancora ricorrono alla pena capitale di prendere iniziative per unirsi alla tendenza abolizionista globale. Quarant’anni fa, Amnesty International favorì l’adozione della Dichiarazione di Stoccolma, il primo manifesto abolizionista internazionale. Emanata nel 1977, la Dichiarazione chiedeva a tutti gli stati di abolire completamente la pena di morte. "Quando uno stato usa il suo potere per porre fine alla vita di un essere umano, è probabile che nessun altro diritto resti inviolato. Lo stato non può dare la vita e si presume che non dovrebbe neanche toglierla", recitava la Dichiarazione. I dati. All’epoca della Dichiarazione, solo 16 stati (otto in Europa e altrettanti nelle Americhe) avevano abolito completamente la pena di morte, nelle leggi o nella prassi. Quel numero ora è salito a 105. Altri 36 stati hanno abolito la pena capitale per i reati ordinari o ne hanno di fatto sospeso l’uso pur mantenendola in vigore. Nel 2016 solo 23 stati hanno eseguito condanne a morte e un piccolo gruppo di essi (Cina, Iran, Arabia Saudita, Iraq e Pakistan) sono stati responsabili della stragrande maggioranza delle esecuzioni. Amnesty International chiede oggi a tutti gli stati che ancora mantengono in vigore la pena di morte di abolirla e, in attesa dell’abolizione completa, di istituire immediatamente una moratoria sulle esecuzioni. La Giornata mondiale contro la pena di morte. "Quest’anno la Giornata mondiale contro la pena di morte si concentra sul legame tra la pena capitale e la povertà - ricorda l’organizzazione -. Le ricerche evidenziano che le persone provenienti da ambienti socio-economici sfavorevoli sono colpite in modo sproporzionato dal sistema giudiziario, inclusa la pena di morte. Queste persone difficilmente possono permettersi una difesa efficace. La capacità di affrontare il sistema giudiziario dipende anche dal livello di alfabetizzazione e dalla disponibilità di reti sociali influenti cui affidarsi". Recenti analisi condotte da Amnesty International sull’uso della pena di morte in Cina hanno rivelato una preoccupante tendenza: "La pena capitale colpisce in modo sproporzionato le persone povere, quelle con livelli più bassi di istruzione e coloro che appartengono alle minoranze etniche o religiose - si afferma -. Solo la totale messa a disposizione dei dati sulla pena di morte da parte delle autorità cinesi potrebbe chiarire l’effettiva dimensione di questo fenomeno". In Arabia Saudita, il 48,5 per cento di tutte le esecuzioni registrate da Amnesty International dal gennaio 1985 al giugno 2015 ha riguardato cittadini stranieri, la maggior parte dei quali lavoratori migranti senza alcuna conoscenza della lingua araba, con cui si svolgono gli interrogatori e i processi, spesso in assenza di adeguati servizi d’interpretariato. "Le ambasciate e i consolati non vengono informati del loro arresto e persino della loro esecuzione. In alcuni casi le famiglie non ricevono il preavviso dell’esecuzione e non ottengono indietro i corpi dei loro parenti messi a morte". Gli appelli di Amnesty International. In occasione della Giornata mondiale contro la pena di morte, Amnesty International lancia un appello in favore di Hoo Yew Wah, nel braccio della morte della Malesia. Arrestato nel 2005, è stato processato e condannato a morte per traffico di droga. Amnesty International chiede alle autorità malesi di esercitare clemenza commutando la sua condanna a morte. "Hoo Yew Wah proviene da un ambiente socio-economico sfavorevole - ricorda Amnesty: a 11 anni ha lasciato la scuola per fare il cuoco in un ristorante di strada. All’epoca del reato aveva 20 anni e non aveva precedenti penali. Ha chiesto perdono al sultano dello stato di Johor, che ha il potere di concedergli clemenza. "Se mi dessero la possibilità, vorrei provare che sono cambiato: cercherei un lavoro serio e trascorrerei la mia vita prendendomi cura di mia madre", ha dichiarato. Il traffico di droga non rientra nella categoria dei "reati più gravi" ai quali secondo il diritto internazionale dev’essere limitata l’applicazione della pena di morte. In più, per il resto commesso da Hoo Yew Wah la pena di morte era obbligatoria, circostanza vietata dal diritto internazionale. Ricorda Amnesty International: "Hoo Yew Wah è stato condannato a seguito di una dichiarazione fatta al momento dell’arresto in lingua mandarina, successivamente tradotta in malese dalla polizia, in assenza di un avvocato. Inoltre, secondo il suo racconto, il giorno dell’arresto gli agenti gli spezzarono un dito e minacciarono di picchiare la sua fidanzata, se non avesse firmato la dichiarazione. I giudici non hanno tenuto conto di questa denuncia". Amnesty International chiede ai suoi sostenitori di inviare appelli in favore di altri condannati a morte, tra i quali gli ultimi 14 prigionieri nel braccio della morte del Benin, che nel frattempo ha abolito la pena di morte, e Ammar al-Baluchi, che potrebbe essere condannato a morte dalle commissioni militari statunitensi dopo essere stato torturato durante la prigionia a Guantánamo Bay. Pena di morte. Nessuno tocchi Caino: giornata mondiale contro l’Iran di Sergio D’Elia* e Elisabetta Zamparutti** Il Dubbio, 11 ottobre 2017 Il 10 ottobre ricorre la giornata mondiale contro la pena di morte e Nessuno tocchi Caino la dedica all’Iran, il Paese che continua a registrare il maggior numero di esecuzioni pro- capite al mondo. Secondo Human Rights Monitor, sono state almeno 456 le esecuzioni compiute nel 2017, tra cui quelle di 12 donne e di 4 persone minorenni al momento del fatto, mentre il totale delle esecuzioni compiute sotto la Presidenza Rouhani, dall’agosto 2013 al settembre 2017, ha raggiunto l’impressionante cifra di 3.111 esecuzioni. Per Rouhani queste esecuzioni "si basano su leggi divine o su norme approvate dal Parlamento", di cui si sente mero attuatore. Le persone sono mandate al patibolo soprattutto per reati legati alla droga: sono state ben 238 le esecuzioni del 2017 compiute per reati nonviolenti legati alla droga e nonostante il Parlamento abbia deciso di abolirla per gran parte di questi casi, la legge è ancora al vaglio del Consiglio dei Guardiani da cui dipende l’entrata in vigore. L’impiccagione è il metodo preferito con cui è applicata la Sharia in Iran, e le esecuzioni pubbliche sono continuate nel 2017 con almeno 25 persone che sono state impiccate sulla pubblica piazza. Ma in Iran è l’intero sistema di promozione e tutela dei diritti umani ad essere disatteso dal regime teocratico: secondo i dettami della Sharia iraniana, ci sono anche torture, amputazioni degli arti, fustigazioni e altre punizioni crudeli, disumane e degradanti. Non si tratta di casi isolati e avvengono in aperto contrasto con il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici che l’Iran ha ratificato e queste pratiche vieta. Per comprendere la natura di questo regime sanguinario è importante conoscere la linea di continuità che lega figure di primo piano istituzionale dell’attuale Governo con la messa a morte di 30.000 prigionieri politici nel 1988, un massacro a cui fa riferimento il recente rapporto dell’Inviato Speciale delle Nazioni Unite sulla Situazione dei Diritti Umani in Iran e che lo stesso regime ha recentemente ammesso di aver compiuto. Infatti, Rouhani ha voluto come Ministro della Giustizia nel suo primo mandato proprio Mostafa Pour- Mohammadi, un membro della Commissione della Morte di Teheran ed ora, nel suo secondo mandato, Alireza Avaie, un altro responsabile di quel massacro nella provincia del Khuzestan e sottoposto dall’Unione Europea a sanzioni per le violazioni dei diritti umani di cui si è reso responsabile. Il silenzio da parte della Comunità internazionale su tutto questo incoraggia il regime iraniano a proseguire nelle esecuzioni come nella violazione degli standard internazionali sui diritti umani. Per questo è importante che l’Assemblea Generale dell’Onu, in corso a New York, istituisca una commissione internazionale d’inchiesta sul massacro del 1988 e che ribadisca nei confronti dell’Iran la richiesta di moratoria in vista dell’abolizione della pena di morte. La questione della pena di morte e più in generale del rispetto dei Diritti Umani sia al centro di ogni intesa ed incontro tanto in sede multilaterale che bilaterale con rappresentanti della Repubblica Islamica dell’Iran, a partire dal suo Presidente Rouhani. *Segretario di Nessuno Tocchi Caino **Tesoriere di Nessuno Tocchi Caino Amnesty International alla Germania: rilasciate subito Fabio Vettorel di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 ottobre 2017 Il 18enne italiano è detenuto in attesa di giudizio per aver preso parte al G20 di Amburgo. Nella denuncia si ricorda che le autorità giudiziarie non abbiano preso in considerazione misure alternative, quali l’obbligo di residenza in Germania in attesa del processo, o forme di controllo in Italia. "Rilasciatelo subito", Amnesty International si interessa del caso del 18enne Fabio Vettorel, uno dei due ragazzi italiani ancora rimasti ristretti nella prigione tedesca da oltre tre mesi prima ancora di essere processati. Come già ricordato sulle pagine de Il Dubbio, il 7 luglio scorso la polizia tedesca ha arrestato 16 cittadini italiani che stavano prendendo parte alle proteste contro il G20 di Amburgo. Sei di loro sono stati posti in detenzione preventiva insieme a persone di altre nazionalità. Due sono ancora detenuti in attesa del processo. Uno è Fabio Vettorel, accusato di disturbo alla quiete pubblica, tentativo di causare danni mediante mezzi pericolosi e resistenza a pubblico ufficiale. Secondo il suo avvocato finora le autorità tedesche non sono riuscite a produrre alcuna prova specifica sul coinvolgimento di Vettorel nelle azioni criminali di cui è accusato: la sua presunta condotta violenta sarebbe solo desunta dall’aver partecipato a proteste nel corso delle quali alcuni manifestanti avevano avuto un comportamento violento. Del caso se ne occuparono anche alcuni quotidiani tedeschi e misero in dubbio le accuse mosse dai magistrati. Il dubbio che resta, nei media tedeschi, è che Fabio si sia trovato nel momento sbagliato al posto sbagliato. Amnesty International ritiene che l’uso della detenzione preventiva in situazioni del genere "debba essere limitato ai casi in cui sia strettamente necessario e debba essere preso in considerazione solo come misura estrema". Amnesty ricorda la Raccomandazione (anno 2006) del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa sul fatto che se una persona sospettata di aver commesso un reato non sia cittadino o non abbia la residenza dello stato in cui è avvenuto il presunto reato, non è un motivo sufficiente per stabilire che vi sia quel rischio di fuga che giustificherebbe la detenzione preventiva. "Inoltre - denuncia sempre Amnesty -, non pare che nel caso di Vettorel le autorità giudiziarie abbiano preso in considerazione misure alternative, quali ad esempio l’obbligo di resiparono denza in Germania in attesa del processo, o forme di controllo in Italia con la cooperazione delle autorità di quest’ultimo paese, come prevede la Decisione quadro del Consiglio, del 23 ottobre 2009, sull’applicazione tra gli Stati membri dell’Unione europea del principio del reciproco riconoscimento alle decisioni sulle misure alternative alla detenzione cautelare". Amnesty International chiede dunque alle autorità della Germania di rilasciare Vettorel in attesa del processo a meno che non siano in grado di dimostrare che la sua detenzione preventiva è strettamente necessaria per evitare i rischi di fuga, di azioni dolose nei confronti di terzi o d’interferenza nelle prove o nelle indagini e che non vi siano altre misure per scongiurare tali rischi. Amnesty conclude con una raccomandazione generale spiegando che le autorità tedesche dovrebbero ricorrere alla detenzione preventiva "solo quando strettamente necessario e considerandola come misura estrema e considerare diligentemente l’imposizione di misure alternative nei confronti degli altri cittadini stranieri posti in detenzione preventiva a seguito della partecipazione alle proteste contro il G20". Libia. Chi controlla i centri di detenzione degli immigrati? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 ottobre 2017 Nelle 29 strutture ci sono circa seimila persone, in tutto il paese sono 42.834 i rifugiati registrati. La sconfitta della milizia libica che controllava la città costiera libica di Sabratha, punto nevralgico dei flussi migratori verso l’Europa, e ciò procurerà conseguenze gravi sulle condizioni, già precarie, di migliaia di migranti presenti nei centri di detenzione della città. Parliamo della milizia dei Dabbashi, una delle più potenti della città, e l’Italia su indicazione del governo ufficiale la considerava un punto di riferimento. La milizia era conosciuta - come riporta l’agenzia Reuters - per aver fatto affari con il traffico degli immigrati. Dopodiché avrebbe siglato un accordo con l’Italia per fermare le imbarcazioni che si affacciano il Mediterraneo. Fu il quotidiano francese Le Monde, il 14 settembre scorso, a mettere in grande evidenza, con un titolo di prima pagina, le accuse secondo cui il ministro dell’Interno, Marco Minniti, avrebbe trattato con i trafficanti libici per bloccare i flussi di migranti. Accuse che comunque il nostro governo ha respinto, compreso il premier libico Serraj che, intervistato nei giorni scorsi sempre da Le Monde, ha smentito l’esistenza di un presunto "accordo segreto" tra l’Italia e i trafficanti per fermare gli sbarchi. Alla domanda su un ipotetico patto segreto tra il governo italiano e una milizia di trafficanti a Sabratha il premier libico rispose: "C’è un accordo con l’Italia per aiutare le municipalità libiche del nord e del sud a sviluppare l’economia e creare occupazione. Ma non c’è un accordo del tipo di quello di cui parlate, vale a dire sostenere un gruppo armato". Resta il fatto oggettivo che ora a controllare i centri di detenzione per immigrati c’è una milizia che si chiama "Shuhada al Wadi". La situazione, quindi, si è aggravata. Durante gli scontri, circa 4000 migranti che venivano tenuti in numerosi centri di detenzione a Sabratha sono stati trasferiti in un hangar della zona di Dahman della stessa città costiera libica situata circa 80 km a ovest di Tripoli. A riferirlo è stato l’Unsmil, la missione dell’Onu di supporto in Libia. Un hangar, riferisce sempre l’agenzia dell’Onu, che "non ha servizi, c’è un urgente bisogno di assistenza di base, tra cui cibo, acqua, generi di prima necessità e assistenza medica". Ufficialmente sono 29 i centri di detenzione per immigrati sparsi nel territorio libico. L’alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ne sta monitorando 27 di quelli ufficiali gestiti dal dipartimento di contrasto dell’immigrazione irregolare del governo di Al Serraj, ma assicura che nel paese ci sono decine di centri che sono sotto il controllo diretto delle milizie e dei trafficanti di esseri umani. Secondo alcune stime, le persone detenute nei centri sono seimila, di cui 5.500 nell’ovest e nel sud del paese e 500 nella parte est. In tutto, secondo l’Unhcr, ci sono 42.834 rifugiati registrati, per lo più arrivati in Libia molti anni fa, mentre circa settemila fanno parte dell’ultima ondata di profughi. Ma ogni giorno apre un centro e ne chiude un altro, rendendo ingestibile l’osservazione da parte dei funzionari dell’Onu. Il quadro delle condizioni dei centri è stato più volte denunciato sia dall’Onu che dalle organizzazioni non governative come Medici senza frontiere: assenza di cure mediche, servizi igienici e privacy, sovraffollamento e detenzione prolungata. Lo staff di Medici senza frontiere visita circa 1300 detenuti al mese (nei centri accessibili) e parla di "disponibilità quotidiana d’acqua in quantità minima per bere o lavarsi, correnti interruzioni di corrente elettrica, cure mediche permesse in un ambiente altamente militarizzato e non sempre in piena libertà". Gran Bretagna. Immigrati torturati nei paesi d’origine e ora detenuti ingiustamente di Enrico Franceschini La Repubblica, 11 ottobre 2017 Nei loro Paesi vittime di torture e abusi, da parte di trafficanti, terroristi e forze non governative. Arrivati nel Regno Unito il dramma è continuato: erano finiti in carcere come "persone a rischio". Ora una sentenza dell’Alta Corte londinese ne riconosce la violazione dei diritti: decine pronti a far causa al ministero dell’Interno. Torturati nel paese di origine. Detenuti all’arrivo in Gran Bretagna come "persone a rischio". Scioccati per i maltrattamenti ricevuti. E ora pronti a fare causa al ministero degli Interni britannico, in virtù di una sentenza che finalmente riconosce i loro diritti. È l’odissea vissuta da centinaia di immigrati nel Regno Unito, venuta alla luce oggi aprendo un nuovo capitolo su una storia già segnata da sospetti di abusi di stato. Tutto comincia con la normativa introdotta nel 2016 dall’Home Office di Londra sotto la formula "Adult at risk". Le nuove regole permettevano di applicare lo status di vittime di torture soltanto quando la violenza veniva perpetrata da agenti ufficiali del paese di residenza: dunque militari, poliziotti, uomini dei servizi di sicurezza. Il risultato, come riporta il Guardian, è che chi era stato torturato da trafficanti, terroristi o altre forze non-governative poteva essere trattenuto in detenzione all’ingresso in Inghilterra anche se a un esame medico le sue ferite risultavano consistenti con la descrizione di tortura fornita alle autorità britanniche. Ma questa settimana una sentenza dell’Alta Corte londinese ha stabilito che questa interpretazione della legge consente di imprigionare individui che sono in realtà vittime di violenze. Il giudice ha inoltre sottolineato che queste persone, avendo già sofferto violenze, sono "particolarmente vulnerabili" durante la prigionia e possono subire seri danni psicologici. Inoltre non può spettare ai medici stabilire se cicatrici o ferite sono il risultato di torture "governative o non governative". Così com’è, conclude il verdetto, la definizione di tortura "manca di una base razionale". Il giudizio fa seguito all’appello di sette immigrati detenuti in Gran Bretagna: due sono stati torturati per la loro identità sessuale, uno dai Taleban in Afghanistan e gli altri erano vittime di trafficanti di esseri umani. Uno di essi, un 39enne nigeriano bisessuale, è stato detenuto al centro per immigrati a Harmondsworth dal 21 settembre al 2 novembre 2016. Picchiato e frustrato in Nigeria per la sua sessualità, afferma che il suo stato mentale è "deteriorato durante la detenzione in Inghilterra, dove eravamo trattati non come esseri umani ma come rifiuti". Avvocati dei diritti umani prevedono che la sentenza metterà in moto decine di cause analoghe contro il ministero degli Interni britannico. L’archivio dell’Home Office rivela che più di 200 immigrati sono stati detenuti illegalmente soltanto negli ultimi quattro mesi del 2016. La decisione dell’Alta Corte è fonte di nuovo imbarazzo per il governo britannico, dopo una serie di altre sentenze sfavorevoli nei suoi confronti da parte dei tribunali di Londra, la morte di tre persone in centri di detenzione per immigrati nelle ultime settimane e le rivelazioni di un’inchiesta della Bbc su abusi commessi dal personale del G4S, un’agenzia di guardie private di cui si serve spesso lo stato britannico, al centro di detenzione per immigrati vicino all’aeroporto di Gatwick. "L’idea che il nostro paese chiuda in carcere vittime di tortura è semplicemente sconvolgente", commenta Diane Abbott, ministro degli Interni nel governo ombra dell’opposizione laburista. Myanmar. Aung Suu Ky prigioniera dei generali di Antonio Armellini Corriere della Sera, 11 ottobre 2017 Nulla può spiegare al resto del mondo la mancata condanna della repressione selvaggia della minoranza Rohingya. Le cose però sono più complicate. Aung Suu Kyi ha con il suo ultimo discorso nuovamente deluso, compromettendo ancor più l’immagine di paladina della rinascita democratica del suo paese; nulla può spiegare al resto del mondo la mancata condanna della repressione selvaggia della minoranza Rohingya. Le cose però in Birmania sono più complicate e, se non giustificano, possono in parte spiegare. Il problema di una minoranza musulmana in un paese buddista non è solo religioso. Durante la seconda guerra Mondiale i Rohingya si schierarono con l’amministrazione coloniale inglese e la maggioranza della popolazione prese le parti del Giappone, sperando di ottenere così l’indipendenza. A conflitto finito, i Rohingya tentarono senza successo di dare vita a uno stato indipendente, fornendo il destro per una repressione che non è in pratica mai terminata e con i militari al potere determinati a stroncare in radice qualsiasi accenno di rivolta. Anche l’ultima campagna è nata da alcune azioni dei movimenti indipendentisti rohingiya, cui l’esercito ha reagito come è suo costume: con una pulizia etnica senza pietà. Senza il Premio Nobel ad Aung Suu Kyi, pochi avrebbero fatto molto caso a un’altra delle tante tensioni etniche che insanguinano l’Asia. E invece stavolta non è stato così, l’Onu è intervenuta e lo sdegno è stato unanime. Di tutto ciò i militari che detengono il potere si curano pochissimo e l’opinione pubblica birmana è probabilmente con loro. Aung Su Kyi invece avrebbe dovuto preoccuparsene e, soprattutto, far sentire la sua voce. Perché non lo ha fatto? Essa è solo agli occhi del mondo il leader di fatto del Myanmar, ma il controllo reale è sempre nelle mani dei generali, i quali si sono serviti della sua immagine per una politica di graduale apertura agli investimenti internazionali, da cui si ripromettevano grandi vantaggi (visto che è loro gran parte dell’economia del paese). Non però a costo di una messa in discussione del loro potere; ed è qui che le aperture verso l’esterno finiscono e Aung Suu Kyi deve star bene attenta a non travalicare confini non scritti, ma rigidamente definiti. La moral suasionche pensava - o si era illusa - di poter esercitare si è scontrata con la chiusura di un regime che non intende abdicare al suo controllo totalitario, e se questo comporta l’esecrazione del mondo, tanto peggio. Avrebbe potuto parlare e sacrificarsi. Forse non lo ha fatto perché spera ancora che qualche spiraglio si apra. O forse perché ne ha avuto abbastanza di sofferenze senza costrutto. La lezione comunque è che per il Myanmar la strada verso la comunità delle nazioni civili resta lunga. Cecenia. Zara Mourtazalieva, 8 anni di carcere per terrorismo mai commesso estense.com, 11 ottobre 2017 "È successo 14 anni fa. Prima del mio arresto non mi interessavo di politica. Avevo 20 anni. Durante la prima guerra civile in Cecenia ne avevo 5 o 6, e pochi di più durante la seconda. Ma essere un ceceno voleva dire essere nemico di un russo. Per questo ho passato tutta la mia giovinezza in prigione. Per due Paesi che erano in guerra". Queste le parole di Zara Mourtazalieva, la giovane attivista cecena rimasta dietro le sbarre 8 anni e mezzo dopo essere stata ingiustamente accusata di terrorismo. Una verità che costa cara, ma che viene riconosciuta con la targa ad honorem consegnata martedì pomeriggio dal sindaco Tagliani, alla presenza dell’associazione Case degli Angeli di Daniele, per iniziativa della quale lo scorso 7 ottobre Zara ha ricevuto anche il premio internazionale Daniele Po, alla sua undicesima edizione. "8 anni e mezzo", l’indelebile lasso di tempo nella memoria di Zara, è diventato anche il titolo del suo libro, tradotto da un’amica in comune con la celebre giornalista Anna Politkovskaja, ricordata alla cerimonia di consegna assieme alle vittime di "quello che Papa Francesco chiama il cancro della società". "I 17 anni di governo Putin hanno portato il maggior numero di giornalisti uccisi - ricorda Zara - aumentato la quantità di persone che sono fuggite dal proprio Paese, e raddoppiato i detenuti politici. Inutile dire che mass media liberi, ad oggi, in Russia non esistono". Una realtà amara che Zara si sta impegnando a raccontare soprattutto agli studenti degli istituti superiori, anche nel suo soggiorno ferrarese: "Noi rappresentiamo il passato nel presente - afferma - raccontiamo ciò che è già successo perché ai giovani possa servire nelle loro scelte, perché possano riuscire a costruire un futuro migliore". Oggi Zara vive a Parigi, dove studia, lavora e viaggia, ma tiene "soprattutto molti incontri col pubblico", come tiene a precisare. Una sete di determinazione a "combattere ancora di più la propria battaglia", quella di una persona che, come recita la targa, "ha preferito subire con dignità una lunga detenzione piuttosto che ammettere un crimine mai commesso, testimone innocente della verità".