Radicali Italiani. Viaggio nelle carceri per mostrare i danni del proibizionismo di Eleonora Martini Il Manifesto, 10 ottobre 2017 Un esercito di 110 militanti sguinzagliati in 35 istituti penitenziari da ieri fino al 20 ottobre. Da ieri c’è un esercito di militanti radicali che gira per le carceri del Paese. Sono partiti dalla Sicilia, i 110 esponenti dell’associazione Radicali italiani che fino al 20 ottobre risaliranno la penisola visitando 35 istituti, da Sciacca a Imperia, e portando dentro le mura penitenziarie anche parlamentari, tra cui Gennaro Migliore (sottosegretario alla Giustizia), Alberto Orellana, Luciano Uras, Mara Mucci, Massimo Cassano, e sindaci come quello di Pavia Massimo Depaoli e di Cagliari Massimo Zedda. Negli ultimi anni, dopo la condanna Cedu del 2013, il ministro Orlando si è prodigato molto per migliorare le condizioni di vita dei detenuti e per rendere più efficiente il sistema giudiziario. Ma non è bastato per rimuovere quella che i dirigenti di Radicali italiani, Riccardo Magi, Michele Capano e Antonella Soldo, descrivono come “una grave violazione della legalità costituzionale, come da sempre denunciato da Marco Pannella e dai Radicali, che mina le fondamenta stesse dello Stato di diritto”. Da lunedì 16 ottobre anche Rita Bernardini, della direzione del Partito Radicale, riprenderà lo sciopero della fame “insieme a tutti i detenuti, familiari e cittadini a piede libero che vorranno esserci”, come scrive in un post su Fb. Nelle carceri italiane infatti il “tasso medio di sovraffollamento è del 114% e in strutture come quelle di Lodi, Larino, Chieti, Como, Brescia Caton Mombello tocca o sfiora il 200%”, riferisce Magi. Popolazione reclusa formata per il 34% da stranieri con picchi di oltre il 70%, e per un terzo da persone che scontano pene per reati di droga e che nella grande maggioranza sono tossicodipendenti. “Una forte riforma antiproibizionista, come quella che proponiamo - spiegano i Radicali italiani - eviterebbe anche tantissimi procedimenti che oggi ingolfano la macchina giudiziaria e colpiscono anche giovani e giovanissimi”. Tubercolosi in carcere, il 50% degli stranieri è positivo al test Redattore Sociale, 10 ottobre 2017 Il test alla tubercolina indica un pregresso contatto con il bacillo tubercolare. Queste persone non presentano una malattia attiva, ma sono a rischio di svilupparla. Circa 20.000 i detenuti stranieri presenti, che rappresentano il 34,5% di tutti i detenuti. Oltre il 50% di questi risultano positivi al test alla Tubercolina che indica un pregresso contatto con il bacillo Tubercolare. Queste persone non presentano una malattia attiva, ma sono a rischio di svilupparla in caso di forti stress in grado di ridurre l’efficienza del proprio sistema immunitario. Questi alcuni dei preoccupanti dati presentati a Roma al Congresso della Simspe, patrocinato dalla SIMIT - Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali: oltre 200 specialisti riuniti in occasione della XVIII Edizione del Congresso Nazionale Simspe-Onlus Agorà Penitenziaria. Un confronto multidisciplinare, tra medici, specialisti, infettivologi, psichiatri, dermatologi, cardiologi, infermieri, organizzato insieme alla Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali - Simit. Tubercolosi e carceri - I dati Simspe sui detenuti in Italia risultati Tubercolino positivi, indicano un rischio che è 5,7 volte superiore per chi ha avuto precedenti detenzioni, 4,9 volte superiore per gli stranieri, 3,8 volte superiore per i detenuti di età superiore a 40 anni. La detenzione è un’occasione straordinaria per il controllo clinico, l’educazione sanitaria e le eventuali profilassi o terapie delle malattie infettive e segnatamente della Tubercolosi, eventualmente diagnosticate. In Italia sono presenti 38 case di reclusione, 161 Case Circondariali, 7 Istituti per le misure di sicurezza. I detenuti presenti, a maggio 2017, sono 56.863, con un esubero di quasi 7mila posti rispetto ai 50.069 regolamentati. Le donne sono 2.394 (4,2 %), gli stranieri 19.365 (38,67%). Secondo le ultime stime disponibili (2012), il 32,8% hanno dai 30 ai 39 anni; il 25,9% dai 40 ai 49 anni; il 21,7% dai 21 ai 29; il 18% dai 50 in su; l’1,6% dai 18 ai 20. Alto il livello di suicidi tra i detenuti - Alto il livello di suicidi tra i detenuti: il numero più alto, nel periodo tra il 1980 e il 2013, si è registrato nel 2001 (70 casi) e nel 2010 (più di 60), con un minimo storico nel 1990 (circa 20). Anche i tentativi di suicidio sono cresciuti e addirittura raddoppiati nell’arco di 30 anni. Nel 2012, ultimo anno osservato, il tasso più alto di tentativi di suicidio, con circa 1300 episodi. Poco meno nel 2010, con circa 1150 casi. Tra il 1980 e il 1990, invece, i numeri oscillano tra i 180 e i 600. Secondo i risultati dello studio multicentrico 2014 (Veneto, Liguria, Toscana, Umbria, Lazio, ASL Salerno) tra i detenuti, è presente almeno una patologia nel 67.5% dei casi. I disturbi psichiatrici riguardano il 41.3% della popolazione nelle carceri; le malattie dell’apparato digerente il 14.5%; le malattie infettive l’11.5%; le malattie cardiovascolari l’11.4%; le malattie endocrine, del metabolismo ed immunitarie l’8.6%; le malattie apparato respiratorio il 5.4%; le malattie osteoarticolari il 5%; le malattie del sistema nervoso il 4%; le malattie genitourinario il 2,9%; le malattie dermatologiche l’1,8%. Molti casi di HIV - La sorveglianza sanitaria in Italia dell’infezione da HIV riesce a raggiungere una copertura nazionale nel 2008. Da allora al 2015 sono stati notificati 25.677 nuove infezioni. Le persone sottoposte a terapia antiretrovirale presso i Centri di Malattie Infettive erano nel 2014 91.945. Tra le malattie infettive tra i residenti, l’Epatite C riguarda il 54,6% delle diagnosi, l’Epatite B il 15%, l’HIV il 14,5%, la tubercolosi il 4,9%; la sifilide il 3,3%. Il tasso di trasmissione stimato dalle persone HIV+ consapevoli è 1.7/2.4%, mentre quello delle persone inconsapevoli è 8.8/10.8%. Mattarella: “La toga non è un abito di scena ma segno d’imparzialità” di Franco Stefanoni Corriere della Sera, 10 ottobre 2017 “Non si tratta di un simbolo ridondante” ma rappresenta “il senso della funzione” e “viene indossata per rivestire il magistrato”. La toga dei magistrati “non è un abito di scena” ma il simbolo della “garanzia di imparzialità”. Lo ha detto Sergio Mattarella incontrando al Quirinale i magistrati ordinari in tirocinio nominati a febbraio. Il capo dello Stato ha sottolineato che “il diritto vive attraverso la conoscenza dei fatti e l’interpretazione delle norme” ma tale interpretazione, “la scelta adottata deve essere plausibile e non può mai esprimere arbitrio: è sempre la norma a dover delineare, perimetrandolo, l’ambito di riferimento dello ius dicere”. Per questo la toga “non è un abito di scena. Non si tratta di un simbolo ridondante” ma rappresenta “il senso della funzione” e viene indossata per rivestire il magistrato “che deve dismettere i propri panni personali ed esprimere così appieno la garanzia di imparzialità che si realizza mediante l’esclusiva soggezione alla legge e quindi la conformità ad essa”. Sono stati presenti, all’incontro, il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, il vice presidente del Consiglio superiore della magistratura, Giovanni Legnini, il primo presidente della Corte Suprema di Cassazione, Giovanni Canzio, il procuratore generale della Corte Suprema di Cassazione, Pasquale Ciccolo, il presidente della Scuola superiore della magistratura, Gaetano Silvestri. Dopo gli interventi del vice presidente del Csm Legnini, e del professor Silvestri, il presidente Mattarella ha pronunciato un discorso e ha salutato i nuovi magistrati presenti alla cerimonia. Il rischio credibilità - “È bene rifuggire da una visione individualistica della propria funzione che può far correre il rischio di perdere di vista la finalità della legge e l’interesse generale della collettività”. “Vi è un delicato confine da rispettare, tra interpretazione della legge e creazione arbitraria della regola”, ha detto ancora il presidente della Repubblica, dopo aver sottolineato che il magistrato non è “uno strumento meccanico”, il capo dello Stato ha però affermato che egli “non deve né perseguire né dar l’impressione di perseguire finalità estranee alla legge ovvero di elevare a parametro opinioni personali quando fa uso dei poteri conferitigli dallo Stato” perché questo metterebbe “a rischio la credibilità della funzione giudiziaria che è un bene prezioso e fondamentale nella società democratica e nel disegno della nostra Costituzione”. Attività giudiziaria e mezzi di comunicazione - “I magistrati devono inoltre “essere consapevoli che l’attenzione della pubblica opinione rivolta all’azione giudiziaria non può e non deve determinare alcun condizionamento nelle decisioni”. Per Mattarella “oggi forse più che in passato l’attività giudiziaria è spesso al centro del quotidiano dibattito pubblico, grazie anche all’evoluzione dei mezzi di comunicazione. Si tratta di un fenomeno che consente, ancor di più, alla magistratura, nel rispetto delle regole processuali, di amministrare la giurisdizione con la doverosa trasparenza”. Ma l’opinione pubblica non deve condizionare le decisioni. “Il processo penale non è una contesa tra privati che possano presumere di orientarlo condizionando i magistrati. Si svolge nelle aule di tribunale” ed è in queste aule che “i fatti vengono ricostruiti secondo l’ordinato svolgersi del processo, le cui singole fasi sono strutturate proprio per assicurare e garantire autonomia e indipendenza”. Cantone: “Ma il magistrato che entra in politica non può rientrare” - Nelle stesse ore, sul tema magistrati è intervenuto anche Raffaele Cantone, a capo dell’Anac, intervenendo alla presentazione del libro di Antonio Bonajuto, ex presidente della Corte d’Appello di Napoli, dal titolo “Pagine di impegno civile”. “Non credo che sia corretto che ai magistrati sia impedito l’esercizio della politica”, ha detto Cantone, “ma il tema è il rientro in magistratura”. “Credo che non possa tornare a indossare la toga - ha affermato - ma il legislatore deve consentire una scelta per il dopo”. “Non credo che possa tornare a fare il magistrato - ha concluso - o quantomeno non può tornare a farlo con l’autorevolezza che la toga impone”. “Secondo me i magistrati possono partecipare al dibattito pubblico, ma devono tenere presente che il loro ruolo di imparzialità richiede moderazione”. “Penso quello che ha detto il presidente dell’Anm, Albamonte - ha affermato - nel quale mi riconosco e non è una critica a Legnini. Lo stesso Albamonte ha specificato che non si trattava di una critica”. “Credo che proprio questo sia lo spirito dell’intervento di Legnini - ha aggiunto - e in questo spirito io mi riconosco, senza logiche del passato”. “L’idea di magistrati che parlano solo con le sentenze appartiene al passato e finiva per essere tutt’altro che trasparente - ha concluso. Ben venga il dibattito sui temi della magistratura ma dobbiamo fare attenzione alle cose che si dicono”. Legittima difesa: boom di richieste per il porto d’armi di Cristiana Mangani Il Messaggero, 10 ottobre 2017 Quante armi esistono in Italia? È una domanda alla quale difficilmente si può rispondere con precisione, perché non c’è un database complessivo. La corsa “al riarmo”, però, sembra evidente leggendo gli ultimi dati emessi dal ministero dell’Interno, e si avverte ancora di più dopo alcuni fatti di cronaca che hanno portato il Parlamento a ridiscutere la legge sulla Legittima difesa. Una normativa ancora in via di definizione, ma che sembra aver creato già un effetto indotto: un aumento delle licenze per uso sportivo. E sì, perché, secondo le questure, è l’escamotage usato per poter ottenere un porto d’armi di più lunga durata, senza troppe complicazioni e controlli. Infatti, dati alla mano si passa dalle 397.751 licenze valide per il tiro a volo nel 2013, alle 456.096 del 2016. E i primi mesi dell’anno in corso confermano il trend. Negli ultimi 15 anni, poi, “gli appassionati” di armi hanno avuto un incremento del 200 per cento. La ragione, secondo gli esperti del settore, sta nel fatto che la procedura per il rilascio di questo tipo di licenza è più semplice. Innanzitutto il porto d’armi vale per sei anni, mentre quello per difesa personale viene soggetto a controllo ogni anno. Il certificato viene rilasciato dal medico di base, e quello militare o della polizia si limita a prenderne atto. Ma anche i numeri generali di chi è amante di pistole, fucili, e tutto ciò che spara, sono molto elevati. In Italia, nel 2016 sono state registrate più di un milione e cento licenze per sparare. Armi di vario tipo: caccia, sportiva, difesa personale. La Lombardia è in testa con 176.451 porto d’armi, dove più di 50 mila sono state assegnate a Brescia, zona che insieme a Bergamo e Como, ha visto parecchi episodi di rapine in casa. Seguono la Toscana con 116.153 licenze valide, e la Sicilia, con un numero di un certo rilievo (101.813), se si considera che in quella regione, secondo gli operatori di Polizia, sono moltissime le armi non “ufficiali”, e quindi non dichiarate. Il Lazio è al sesto posto con 71.799, delle quali “solo” 23.571 sono a Roma, mentre ben 20.626 a Frosinone. Va detto anche che chi possiede un porto d’armi regolare può tenere in casa praticamente una Santa Barbara. Nell’elenco del ministero dell’Interno sono ammesse “3 armi comuni da sparo, 6 armi classificate a uso sportivo sia lunghe che corte, un numero illimitato di fucili e carabine con calibro e funzionamento indicati nell’articolo 13 della legge 157 del 1992, 8 armi complessive tra antiche di importanza storica, artistiche e rare. E non finisce qui, perché sono ammesse 200 cartucce per arma comune, 1.500 cartucce per fucili da caccia, e anche un po’ di “esplosivo”: 5 chili di polveri da caricamento”. Cifre che destano qualche allarme. “È vero, l’incremento del numero delle armi in circolazione non è positivo - afferma Daniele Tissone del sindacato di polizia Silp Cgil - in un Paese dove tutti sono armati può accadere che anche i criminali decidano di attrezzarsi in modo adeguato per aumentare la propria potenza di fuoco, sapendo di poter finire male. E questa rincorsa alla “giustizia fai da te” è alimentata anche dalla crescita delle licenze a uso sportivo che spesso diventano un modo per potersi armare più facilmente”. Al lungo elenco di armi possibili, il Viminale aggiunge un capitolo che riguarda quelle ad aria o gas compresso con potenza inferiore ai 7,5 joule (unità di misura) e quelle repliche di armi ad avancarica a colpo singolo. Per acquistarle in un’armeria basta dimostrare la maggiore età, e non rientrano tra queste quelle in grado di sparare a raffica. Sono invece vietate le armi ad aria o gas compresso il cui proiettile possa contenere altre sostanze come, a esempio, quelle che sparano sfere di plastica contenenti liquidi macchianti destinate ai giochi di guerra (splash contact), indipendentemente dalla potenza. La Cassazione sul caso-Cucchi: intempestivi e inadeguati gli interventi dei medici Il Sole 24 Ore, 10 ottobre 2017 Il percorso che ha portato i giudici d’appello ad assolvere i sanitari accusati dell’omicidio colposo di Stefano Cucchi, non si confronta “con l’accertata intempestività e inadeguatezza delle cure derivanti dal comportamento palesemente inattivo dei medici”, che pure era stato evidenziato dal giudice di primo grado e dai periti. Lo scrive la Cassazione nelle motivazioni della sentenza con cui lo scorso 19 aprile ha annullato l’appello bis. Una decisione arrivata, tra l’altro, nell’imminenza della prescrizione per cinque medici dell’ospedale Pertini che parla anche di “terapie inidonee” e “mero adempimento burocratico”. “Il giudice d’appello è giunto a un’ingiustificata semplificazione del proprio compito - sottolinea la Cassazione - e, per conseguenza, si è arreso davanti alla difficoltà di accertare le responsabilità di coloro che, ricoprendo specifiche posizioni di garanzia, avevano posto in essere una serie di comportamenti giudicati gravemente negligenti”. “Per tale via è stato, paradossalmente, premiato il ritardo nella diagnosi e cura di Stefano Cucchi”: il giudizio controfattuale, spiega la Cassazione, “non ha tenuto conto di tutti i comportamenti negligenti” ma si è limitato, “erroneamente”, a vagliare se tali comportamenti potessero spiegare la morte di Stefano, senza invece valutare se “un comportamento doveroso fosse in grado di evitare l’evento”. In questo caso, secondo la Corte - non si tratta di porre in verifica una “specifica condotta curativa caratterizzata da particolare difficoltà tecnica o diagnostica, ma semplicemente l’adempimento del generico dovere di anamnesi e “ascolto” del paziente”. E “lo sguardo del giudice deve rivolgersi all’indietro verso qualsivoglia condotta omissiva antecedente, perché al contrario sarebbe premiato il medico neghittoso e distratto che trascuri il giuramento d’Ippocrate”. La Cassazione era già intervenuta annullando, nel dicembre 2015, la prima assoluzione dei medici, e chiedendo all’appello di pronunciarsi sulla particolare forma di reato, “omissivo improprio o commissivo mediante omissione”, di chi nella sua attività professionale viola i suoi doveri e non impedisce un evento lesivo. Ma anche la nuova pronuncia di assoluzione della Corte d’Appello di Roma, di luglio 2016, secondo la Cassazione è viziata da “contraddittorietà e illogicità”. A cominciare dalla causa della morte, che la Cassazione aveva chiesto di individuare. “In sintesi - sottolinea oggi la Cassazione - la sentenza impugnata identifica la causa della morte nella sindrome da inanizione: Stefano Cucchi è morto di fame e di sete”. Stefano sarebbe morto per privazione di acqua e cibo: una situazione auto-inflitta che aveva aggravato il suo già compromesso quadro clinico (la rottura delle vertebre, la tossicodipendenza, la celiachia), escludendo la responsabilità dei medici. Una spiegazione che, evidentemente, non soddisfa la Cassazione, che sottolinea come l’appello, “dopo aver aspramente stigmatizzato le numerose e gravi condotte dei sanitari”, abbia sottovalutato le conclusioni dei periti e “impiegato la propria scienza privata per discostarsi da esse”, senza procedere ad ulteriori approfondimenti tecnici su temi che potevano essere dubbi. Archiviazione per particolare tenuità non ricorribile di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 10 ottobre 2017 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 9 ottobre 2017 n. 46379. Il provvedimento di archiviazione per particolare tenuità del fatto non è ricorribile per Cassazione. Lo ha stabilito la Terza Sezione penale, con la sentenza 46379/2017, dichiarando inammissibile il ricorso di un uomo contro il provvedimento del Gip che aveva rigettato la sua opposizione. Secondo il ricorrente “l’ordinanza di archiviazione presuppone una responsabilità, invece la notizia di reato doveva essere archiviata non ex art. 131 bis, c.p., ma perché infondata”. Per l’applicazione dell’articolo 131 bis del codice penale, prosegue, il giudice avrebbe dovuto accertare l’effettiva commissione del fatto reato. Nel caso di specie invece il Gip non esclude “assolutamente la ricorrenza degli elementi costitutivi”, senza però motivare sulle argomentazioni dell’opposizione. Di diverso avviso i giudici di legittimità secondo i quali “la lesione dell’interesse dell’indagato risulterebbe sussistente solo ed esclusivamente qualora il provvedimento di archiviazione fosse iscritto nel casellario”. Per l’iscrizione nel casellario giudiziale però la legge prevede che il provvedimento sia definitivo: “infatti tutti i provvedimenti iscrivibili sono tali solo se definitivi, ovvero non impugnati o altrimenti definitivi (per rigetto dell’impugnazione)”. Il decreto di archiviazione, prosegue la decisione, “non risulta impugnabile, e quindi lo stesso per la sua natura di provvedimento sempre provvisorio, per la possibilità di riapertura delle indagini (art. 414 c.p.p,), non può ritenersi definitivo”. “Conseguentemente il provvedimento di archiviazione non deve essere iscritto nel casellario giudiziario perché provvedimento non definitivo”. Per la Cassazione si può dunque affermare un principio di diritto: “Il provvedimento di archiviazione per particolare tenuità del fatto non è ricorribile per Cassazione, ad esclusione delle ipotesi previste nel comma 6, dell’art. 409 cod. proc. pen. (casi di nullità previsti dall’art. 127, comma 5, cod. proc. pen.) sia perché espressamente previsto dall’art. 409, comma 6, c.p.p., e sia perché il provvedimento di archiviazione non risulta iscrivibile nel casellario giudiziale, trattandosi di provvedimento non definitivo, e pertanto viene a mancare l’interesse ad impugnare, non risultando il provvedimento lesivo di alcun interesse dell’indagato”. Va però ricordato, la sentenza è stata depositata oggi ma decisa il 26 gennaio 2017, che il comma 6 dell’articolo 409 c.p.p. è stato abrogato dall’articolo 1, comma 32, della legge 23 giugno 2017 n. 103 - “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario” - con decorrenza dal 3 agosto 2017. Ad ogni modo, conclude la Cassazione, “le norme che non prevedono l’impugnazione del provvedimento di archiviazione o la rinuncia (non ammessa) da parte dell’indagato all’archiviazione per l’art. 131 bis c.p. risultano conformi a Costituzione, perché nessun effetto pregiudizievole - quale potrebbe essere l’iscrizione nel casellario - risulta dall’archiviazione”. Sentenze non luogo a procedere: ricorso in Cassazione se emesse prima della riforma dei Codici di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 10 ottobre 2017 Corte di cassazione - Sezione V - Sentenza ottobre 2017 n. 46430. Le sentenze di non luogo a procedere, emesse prima dell’entrata in vigore delle modifiche sul Codice penale e di rito, sono impugnabili in Cassazione e non in appello. Le nuove disposizioni, in assenza di una disciplina transitoria, si applicano solo ai provvedimenti emessi dopo la loro entrata in vigore. La Cassazione (sentenza 46430) accoglie il ricorso delle parti civili, contro la decisione del Giudice per le indagini preliminari di dichiarare il non luogo a procedere (articolo 425 del Codice di procedura penale) contro un imputato per omicidio preterintenzionale. L’uomo era accusato di aver accoltellato un rapinatore in casa del nonno per difendere l’anziano parente. Per il difensore dell’imputato il ricorso, proposto dalla madre e dalla zia della persona uccisa, doveva essere dichiarato inammissibile perché attivato in una sede sbagliata. Con la legge 103/2017 (articoli 38,39 e 40), entrata in vigore il 3 agosto, è stato modificato il Codice di rito (articolo 428) stabilendo che la sentenza di non luogo a procedere è impugnabile con l’appello. Il difensore dell’imputato aveva inoltre fatto presente che le ricorrenti non sarebbero state legittimate ad opporsi neppure con il regime precedente non essendo, anche se parti civili, persone offese dal reato ma solo danneggiate. La Cassazione però non è d’accordo. I giudici chiariscono che, sul punto, la riforma non ha effetto retroattivo e dunque in assenza di specifica disciplina intertemporale, per le sentenze di non luogo a procedere emesse prima delle modifiche valgono le vecchie regole. La Cassazione considera estensibile al caso di specie quanto affermato dalle Sezioni unite (27614/2007) in occasione dell’abrogazione dell’articolo 577 del Codice di rito che prevedeva l’impugnazione della persona offesa per ingiuria e diffamazione. Allora, sempre in assenza di una norma di “passaggio”, i giudici affermarono che il principio del tempus regit actum impone di fare riferimento al momento di emissione del provvedimento impugnato e non a quello in cui l’impugnazione è stata proposta. Per i giudici l’appello è ammissibile e le ricorrenti sono legittimate a proporlo perché rientrano tra i prossimi congiunti da considerare persone offese. E il ricorso è fondato. Il Gup ha anticipato un giudizio di merito, concludendo per la legittima difesa, senza approfondire la dinamica dei fatti. Va chiarito se nipote e ladro si siano fronteggiati ad armi pari, o l’imputato abbia colpito il ladro mentre fuggiva. Differenza che farebbe venire meno la causa di giustificazione del pericolo attuale (legge 59\2006). Amministratore responsabile dei danni causati dall’impresa di Giulio Benedetti Il Sole 24 Ore, 10 ottobre 2017 Corte di cassazione - Sentenza 43500/2017. Il condominio vive di appalti con i quali fa assumere agli imprenditori, con l’organizzazione dei mezzi necessari e con la gestione a proprio rischio, il compimento di opere anche ad alto contenuto tecnologico. E l’amministratore è responsabile anche degli incidenti causati dall’impresa quando non si è preoccupato, con la dovuta diligenza, di verificare l’idoneità tecnico professionale delle imprese affidatarie, delle imprese esecutrici e dei lavoratori autonomi in relazione alle funzioni o ai lavori da affidare (articolo 90 del Dlgs 81/2008). Il mancato percorso virtuoso è testimoniato dalla recente sentenza della Corte di Cassazione 43500/2017 che ha affermato la responsabilità colposa di un amministratore e di un tecnico per incendio colposo del tetto e di una mansarda di un condominio. In particolare all’amministratore era stato addebitato di avere conferito l’incarico senza verificare l’idoneità tecnico professionale dell’artigiano, incaricato delle opere di impermeabilizzazione del tetto, non avendo acquisito la documentazione relativa alla conformità alla normativa antinfortunistica delle attrezzatura usate e dei dispositivi di protezione in dotazione e neppure gli attestati inerenti la sua formazione ed il documento di regolarità contributiva. La Cassazione ha affermato la responsabilità penale dell’amministratore in quanto, avendo stipulato un contratto di affidamento di appalto da eseguirsi nell’interesse del condominio, è comunque tenuto, quale committente, all’osservanza degli obblighi di verifica della idoneità tecnico professionale dell’impresa appaltatrice, poiché è titolare di una posizione di garanzia, quanto alla conservazione e manutenzione delle parti comuni dell’edificio condominiale, ai sensi dell’articolo 1130 del Codice civile. Infine la Corte sostiene che la responsabilità dell’amministratore sussiste anche se l’incendio si è inizialmente sviluppato su un bene di un singolo condomino, accessibile da una parte comune. Infatti l’amministratore era consapevole che i lavori da eseguire comportavano l’utilizzo di materiale infiammabile e pertanto avrebbe dovuto attivarsi a tutela delle parti comuni esposte a pericolo. Intangibilità decisioni della suprema corte e ricorso straordinario ex articolo 625-bis del Cpp Il Sole 24 Ore, 10 ottobre 2017 Ricorso straordinario per errore materiale o di fatto - Articolo 625-bis c.p.p.- Errore di fatto - Errore di percezione - Inammissibilità dell’errore valutativo. La regola dell’intangibilità dei provvedimenti della Corte di Cassazione, pur avendo perduto il carattere di assolutezza per effetto dell’articolo 625-bis c.p.p., resta a cardine del sistema delle impugnazioni e della formazione del giudicato. L’errore di fatto che può dare luogo all’annullamento di una sentenza della Suprema Corte è solo quello costituito da sviste o errori di percezione nella lettura degli atti del giudizio di legittimità che si traduce in un’inesatta intuizione delle risultanze processuali, che abbia indotto il giudice ad affermare l’esistenza o l’inesistenza di un fatto decisivo, la cui sussistenza o insussistenza risulti invece in modo incontrovertibile dagli atti. Conseguentemente, va escluso ogni errore valutativo o di giudizio come giustificativo per l’attivazione del ricorso straordinario ex articolo 625-bis c.p.p. • Corte di Cassazione, sezione I, sentenza 26 aprile 2017 n. 19633. Impugnazioni - Cassazione - In genere - Ricorso straordinario per errore materiale o di fatto - Nozione di errore materiale e di errore di fatto - Applicazione in tema di interpretazione di dichiarazioni testimoniali. L’errore materiale e l’errore di fatto, indicati dall’articolo 625-bis c.p.p. come motivi di possibile ricorso straordinario avverso provvedimenti della corte di cassazione, consistono, rispettivamente, il primo nella mancata rispondenza tra la volontà, correttamente formatasi, e la sua estrinsecazione grafica; il secondo in una svista o in un equivoco incidenti sugli atti interni al giudizio di legittimità, il cui contenuto viene percepito in modo difforme da quello effettivo; ne deriva che rimangono del tutto estranei all’area dell’errore di fatto - restando quindi fermo, con riguardo ad essi, il principio di inoppugnabilità dei provvedimenti della Corte di cassazione - gli errori di valutazione e di giudizio dovuti ad una non corretta interpretazione degli atti del processo di cassazione, da assimilare agli errori di diritto conseguenti all’inesatta ricostruzione del significato delle norme sostanziali e processuali. (Nella specie, in applicazione di tali principi, la Corte ha escluso che costituisse errore di fatto denunciabile mediante ricorso straordinario quello in cui la stessa Corte sarebbe incorsa nell’interpretare le dichiarazioni testimoniali e l’illogicità della motivazione sulla variazione dei ruoli cedente-cessionario nei rapporti tra tossicodipendenti). • Corte di Cassazione, sezione IV, sentenza 23 gennaio 2017 n. 3367. Impugnazioni - Cassazione- Casi di ricorso - Ricorso straordinario per errore materiale o di fatto - Rigetto del ricorso avverso ordinanza di reiezione della richiesta di riparazione per ingiusta detenzione - Legittimazione dell’imputato assolto - Esclusione - Ragioni. È inammissibile il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto proposto dall’imputato assolto avverso la sentenza della Corte di Cassazione di rigetto del ricorso presentato contro l’ordinanza di reiezione della richiesta di riparazione per ingiusta detenzione, essendo la legittimazione ad agire, ai sensi dell’articolo 625-bis c.p.p., circoscritta al solo condannato. • Corte di Cassazione, sezione III, ordinanza 13 ottobre 2015 n. 41071. Impugnazioni - Cassazione - Casi di ricorso - Ricorso straordinario per errore materiale o di fatto - Ambito di operatività - Sentenze della corte di cassazione in materia di misure cautelari - Ammissibilità - Esclusione. È inammissibile il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto avverso la sentenza della Corte di cassazione che ha rigettato l’impugnazione proposta contro la decisione del tribunale del riesame in materia di misure cautelari personali, trattandosi di un rimedio previsto soltanto a seguito di una pronuncia irrevocabile di condanna. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 16 gennaio 2017 n. 1821. Impugnazioni - Cassazione - Casi di ricorso - Ricorso straordinario per errore materiale o di fatto - Ambito di operatività - Decisioni ante iudicatum - Ammissibilità - Esclusione. Il ricorso straordinario per errore di fatto non è proponibile nei confronti delle decisioni della Corte di cassazione che intervengono ante iudicatum. (In motivazione la S.C. ha fatto riferimento, a titolo esemplificativo, ai provvedimenti emessi in fase cautelare, alle decisioni in materia di misure di prevenzione, a quelle in materia di rimessione del processo, alle decisioni processuali in materia di estradizione o di mandato di arresto europeo, nonché a quelle decisioni nelle quali la pronuncia della Cassazione, pur avendo come presupposto il giudicato, non è destinata ad incidere in alcun modo sull’accertamento della responsabilità, come nelle decisioni in materia di indennizzo per ingiusta detenzione o di riabilitazione). • Corte di cassazione, sezioni Unite, sentenza 17 marzo 2017 n. 13199. Marche: torna l’allarme sovraffollamento, le carceri diventano un caso di Stefano Pagliarini anconatoday.it, 10 ottobre 2017 Nel prossimo fine settimana i Radicali Italiani visiteranno 3 carceri delle Marche insieme a consiglieri comunali e istituzioni delle varie città. Sovraffollamento, casi di suicidio e autolesionismo tra i detenuti, aggressioni ad agenti di Polizia Penitenziaria, proteste e ritardi nei servizi più basilari come quello odontoiatrico e di consegna dei pacchi dall’esterno. Ma soprattutto l’assenza di un direttore nella grande casa circondariale di Montacuto Ancona e, per tutte le Marche, la posizione vacante di un Provveditore a capo dell’amministrazione penitenziaria. Insomma, come raccontato da settimana da Ancona Today, si naviga a vista con anche gravi problemi di convivenza tra detenuti come denunciato dallo stesso Ombudsman delle Marche Andrea Nobili. Le carceri anconetane e marchigiane sono diventate un caso ed è per questo che nel prossimo fine settimana i Radicali Italiani e Radicali Marche hanno già annunciato visite ispettive in 3 istituti penitenziari di Ancona ed Ascoli insieme a consiglieri comunali e istituzioni delle varie città. “Le condizioni sulla situazione carceraria sono state costantemente denunciate negli anni dal Partito Radicale Transazionale e nel luglio scorso è uscito il rapporto del ufficio valutazione impatto del Senato che ci dice che i numeri della situazione carceraria hanno ripreso a peggiorare - si legge in una nota dell’associazione Radicali Marche - In questo scenario abbiamo ritenuto urgente aprire un fronte, a partire da questa settimana, con la visita in 3 istituti marchigiani: Ascoli Piceno, Ancona Montacuto e Barcaglione. Abbiamo trovato come sempre dei compagni di viaggio. Fanno parte della delegazione in visita ad Ascoli la consigliera Flavia Mandrelli (Mdp) e Paula Amadio (Sinistra Italiana). Ad Ancona ci saranno i consiglieri comunali Federica Fiordelmondo (Pd), Michele Fanesi (Pd), Francesco Prosperi (M5S), Susanna Dini (Pd) e Matteo Vichi (Psi). Un’iniziativa rilanciata anche a livello nazionale dal Comitato di Radicali Italiani di cui fa parte Alexandre Rossi (foto a sinistra) che sabato e domenica sarà ad Ancona e ha spiegato: “Siamo impegnati in questa battaglia non solo perché decliniamo la questione giustizia nell’annosa questione dell’amnistia, ma anche perché siamo impegnati in due campagne altrettanto importanti che andrebbero ad impattare positivamente sulle carceri. In primis la campagna “Ero straniero” per il superamento della legge Bossi-Fini e lo sgravamento dei reati connessi alla condizione di clandestinità. E poi la lotta al proibizionismo per la legalizzazione della cannabis che se divenisse realtà vedrebbe uno svuotamento delle carceri italiane, tenendo anche conto che in media il 40% dei detenuti è in attesa del primo grado di giudizio e quindi è recluso da innocente”. Abruzzo: i Radicali “la legge sul Garante non garantisce i diritti dei detenuti” di Massimo Ascolto L’Opinione, 10 ottobre 2017 La candidatura di Rita Bernardini all’incarico di Garante dei detenuti nella Regione Abruzzo fu avanzata da Marco Pannella più di due anni fa e la legge sul Garante esisteva già da un pezzo. La nomina del Garante è stata posta all’ordine del giorno di ogni riunione del Consiglio ed è stata puntualmente rinviata di volta in volta con pretesti davvero risibili: neppure la sollecitazione giunta da parte del Garante Nazionale ha convinto i consiglieri a trovare un accordo. La candidatura di Rita Bernardini era finora sostenuta soltanto dall’associazione “Amnistia Giustizia Libertà Abruzzi”, fondata da Marco Pannella a Teramo e da lui presieduta fino all’ultimo. Finalmente, qualche giorno fa, il presidente del Consiglio regionale Giuseppe Di Pangrazio ha espresso indignazione per il colpevole ritardo nella nomina del Garante e ha offerto il suo appoggio alla candidatura di Rita Bernardini. Appresa questa notizia, la presidente, il segretario e la tesoriera dell’associazione Agla hanno scritto al presidente Di Pangrazio per affiancarlo nella sua azione. Ecco il testo della lettera. Caro presidente Di Pangrazio, Il suo appello a superare l’”impasse” in cui si trova impantanata la nomina del Garante dei detenuti ci sembra quanto mai opportuno e riteniamo anzi doveroso unirci alla sua voce, avendo noi per primi avviato una campagna finalizzata alla elezione del Garante, insieme a Marco Pannella e a Rita Bernardini, proponendo con entusiasmo quest’ultima per via della sua innegabile dedizione, capacità e competenza. Tuttavia, il riferimento che lei fa alla modifica della legge istitutiva ci conduce a un’analisi che purtroppo non ha nulla di edificante sul contegno mantenuto dal Consiglio regionale tutto, con rarissime eccezioni. Pannella parlava di “solfa indecente” ormai circa due anni or sono, e con buona ragione: da allora infatti abbiamo assistito a ogni genere di capriola politica, ed è utile ripercorrerne qualcuna per inquadrare il cambiamento normativo nel suo contesto. La candidatura di Rita Bernardini risale all’estate del 2015, quando già la legge giaceva vergognosamente inapplicata ai danni non soltanto dei detenuti, ma dell’intero apparato giudiziario. E fin dal primo istante vi fu un tentativo d’impedirne la nomina, agitando una presunta ineleggibilità per via delle condanne ricevute dalla Bernardini a causa delle sue azioni di disobbedienza civile. Seguì, com’è noto, un appello trasversale per la sua elezione, sostenuto da varie forze politiche oltre che dall’Unione delle Camere Penali e personalità del mondo dell’informazione e dello spettacolo. Contro la presunta ineleggibilità si espresse in tempi record il Tar, a seguito del ricorso presentato dalla candidata. Di lì, l’elezione del Garante viene sistematicamente inserita all’ultimo punto dell’ordine del giorno, slittando di seduta in seduta fino ad oggi. Stendiamo un velo pietoso sulla strumentalità delle motivazioni con cui forze politiche come il Movimento 5 Stelle si sono opposte alla nomina della Bernardini, al pari dei ripetuti tentativi di spingerla a fare “un passo indietro”, cui lei ha sempre replicato: “Votate chi vi pare, purché votiate”. Dopo tutto questo tempo viene da domandarsi: possiamo noi credere che le modalità di elezione previste dalla legge siano state il vero ostacolo alla elezione del Garante? O è piuttosto una foglia di fico con cui si vuole coprire altre logiche? In virtù del suo ruolo istituzionale, le chiediamo di opporsi con forza a questa solfa indecente, unendosi a noi nel denunciare la grave irresponsabilità dimostrata dal Consiglio e correndo ai ripari anzitutto inserendo la nomina in cima all’ordine del giorno. Noi continuiamo a sostenere la candidata di Marco Pannella: ci dispiace che in Regione ci sia chi, anziché cogliere la straordinaria occasione offerta dalla disponibilità di una persona dall’alto profilo istituzionale e politico, pensa piuttosto a litigare per le poltrone. Laura Arconti, presidente di Amnistia Giustizia e Libertà Abruzzi Vincenzo Di Nanna, segretario di Amnistia Giustizia e Libertà Abruzzi Federica Benguardato, tesoriera di Amnistia Giustizia e Libertà Abruzzi Trento: ieri i primi passi della Garante dei detenuti di Andrea Tumiotto La Voce del Trentino, 10 ottobre 2017 La nuova Garante provinciale dei diritti dei detenuti, Antonia Menghini, ha iniziato ieri il proprio lavoro, raggiungendo palazzo Trentini e incontrando il presidente del Consiglio provinciale, Bruno Dorigatti. Professoressa aggregata di diritto penitenziario alla Facoltà di Giurisprudenza di Trento, trentina di nascita e famiglia, la docente è stata chiamata dall’assemblea legislativa per il ruolo istituito dalla legge provinciale 5 del 2017, con nomina che è stata votata mercoledì scorso. Menghini si è subito messa in moto e oggi - nella sede del Consiglio provinciale - ha mosso i primi passi per l’avvio dell’ufficio e dell’attività, incontrando assieme a Dorigatti la dirigente generale Patrizia Gentile e tutti i dirigenti dei settori consiliari. La garante ha potuto sedersi al tavolo anche con il difensore civico provinciale, Daniela Longo, nella cui struttura la legge ha collocato la figura del garante, assegnando al difensore un ruolo di coordinamento. Menghini ha detto al presidente Dorigatti che andrà presto in visita al carcere di Spini e cercherà di entrare rapidamente in contatto con tutte le realtà coinvolte - dentro e fuori - nel sistema penitenziario. Fondamentale sarà, tra gli altri, il rapporto con il Tribunale di sorveglianza e con la direzione dell’Uepe, l’Ufficio ministeriale per l’esecuzione penale esterna. La garante ha in animo di chiedere un incontro anche con il vescovo di Trento. L’intenzione è poi quella di centrare il cuore dell’attività sulle visite alle persone ristrette, in modo da far percepire a tutti che ora c’è un prezioso punto di riferimento. La docente s’è detta molto fiduciosa in un lavoro corale, che possa davvero servire ad avvicinare il mondo della detenzione ala nostra comunità trentina. Solo se c’è diretto contatto con la comunità e tra le persone - ha detto stamane Menghini - si riesce a recuperare socialmente il condannato e a sollevarlo da una condizione segnata molto spesso da solitudine e disperazione. Si tratta anche di un interesse economico della società, se si pensa che un detenuto costa allo Stato 250 euro al giorno e che attraverso un serio lavoro di supporto è possibile ridurre in grande parte le recidive e quindi il ritorno in carcere delle stesse persone. Per la stessa via è anche possibile agire concretamente per deflazionare le carceri italiane, afflitte da un sovraffollamento che conduce spesso a condizioni detentive disumane e degradanti (come la riduzione dello spazio personale a meno di tre metri quadrati), tant’è che l’Italia è stata già condannata per questo dalla Corte di Strasburgo. Salerno: “nelle Rems non c’è posto”; malati e pericolosi, ma restano liberi di Clemy De Maio La Città, 10 ottobre 2017 Da venti giorni il giudice ha ordinato il ricovero dì due persone, ma le residenze per le misure di sicurezza non hanno posti. Per i giudici sono persone “socialmente pericolose”, tanto che ne è stato ordinato l’immediato ricovero in Rems, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, che di recente hanno sostituito gli ospedali psichiatrici giudiziari. Eppure dall’emissione di quelle ordinanze sono già passate più di due settimane e altre rischiano di doverne trascorrere ancora, perché nelle Rems della Campania il posto non c’è e risposte negative stanno arrivando anche dalle altre residenze che il Ministero della Giustizia sta contattando in tutta Italia. È il corto circuito di una normativa approvata nel 2014 e che a fine 2016 ha visto concludersi la fase transitoria, con la chiusura degli Opg e l’affidamento dei pazienti alle nuove strutture che dovrebbero garantire un’assistenza più attenta e, soprattutto, un percorso dì riabilitazione. Sì tratta di contemperare due esigenze: da un lato la cura della malattia psichiatrica, dall’altro la difesa sociale. Ma quando gli intenti cozzano contro i numeri, e i posti nelle residenze non bastano, il meccanismo salta. Così ci si trova davanti al paradosso che si sta sperimentando in questi giorni nel Palazzo dì giustizia di Salerno, in difficoltà ad attuare due ordinanze firmate, rispettivamente, il 20 e il 25 settembre. Destinatari sono un uomo e una donna, autori di condotte violente che sono state ritenute frutto di una patologia mentale e tali da potersi ripetere, da un momento all’altro, se agli autori non viene prestata quell’assistenza continua e in qualche modo coatta che solo un ricovero è in grado di garantire. L’esecuzione della misura, però, si è scontrata con i numeri. Quelli, appunto, dei posti letto. Le quattro Rems della Campania (a San Nicola Baronia nell’Avellinese, Mondragone, Vairano Patenora e Calvi Risorta in provincia di Caserta) hanno risposto di essere al completo. Sono state le prime ad essere contattate dalla Procura, in base al principio di regionalizzazione posto dalla stessa normativa per provare a evitare l’allontanamento del paziente dal territorio dì origine, dove si presume abbia legami familiari e altri contatti che potrebbero supportarlo nel percorso di psicoterapia. Poi del caso è stato investito il Ministero della Giustizia, che ha inviato una richiesta ad altre quindici strutture lungo tutta la penisola: ma finora soltanto due hanno risposto (spiegando di non avere spazio) mentre per le altre si è ancora in attesa. Così a giudici e Procura non resta clic incrociare le dita, sperando che nel frattempo di un riscontro positivo non si verifichino altri episodi di violenza. D’altronde i segnali di conti che non tornano erano arrivati nei mesi scorsi anche da altri tribunali, tanto da indurre il Consiglio superiore della magistratura a un monitoraggio che aveva dato risultati insoddisfacenti proprio sul numero dei posti letto disponibili. E se da un lato non si riesce a eseguire con tempestività le misure di sicurezza (con buona pace della difesa sociale), l’altra faccia della medaglia e che alcuni detenuti che potrebbero lasciare il carcere per le Rems sono invece obbligati a restare in cella, lasciando così sulla strada anche l’altra esigenza che la legge vorrebbe perseguire: la terapia della patologia psichiatrica, con un’assistenza umanizzata e la fine di quelli che la stessa ministra della salute, Beatrice Lorenzin, ha definito “ergastoli bianchi”. Volterra (Pi): detenuti agricoltori, i prodotti dell’orto finiranno sulle tavole La Nazione, 10 ottobre 2017 Accordo tra Comune e Casa di reclusione per dare il via al progetto. È realtà il protocollo d’intesa per la realizzazione del progetto “Orto urbano della Fortezza Medicea di Volterra”. È quanto siglato tra il Comune e la Casa di reclusione di Volterra e che vedrà i detenuti, a titolo di volontariato, realizzare una produzione orto-florovivaistica che sarà destinata alla cucina detenuti e a specifici progetti interni anche nell’ambito del corso turistico alberghiero aperto agli studenti detenuti e agli studenti esterni. “Grazie al lavoro congiunto della direzione del carcere da cui è partita l’idea progettuale e dell’assessorato alle politiche sociali - spiega il sindaco Marco Buselli - abbiamo potuti intercettare i finanziamenti legati al bando e avviare un percorso improntato alla realizzazione di orti in città e sul territorio”. Il protocollo - La direzione della casa di reclusione mette a disposizione del progetto, per un periodo di cinque anni, le fasce di terreno nell’area del Vecchio forno, oltre ai due appezzamenti destinati all’orto interno del progetto “L’Orto, luogo di incontri e di vita”. Le aree saranno così destinate alla produzione orticola e florovivaistica; la casa di reclusione prenderà in carico il materiale, gli utensili e le attrezzature acquistate e provvederà alla realizzazione del progetto che sarà finanziato dall’ente Terre regionali Toscane con il cofinanziamento dell’Amministrazione comunale. Larino (Cb): i detenuti diventano pizzaioli, il carcere rieduca e dà una nuova chance quotidianomolise.com, 10 ottobre 2017 Il carcere come nuovo inizio, come luogo dove accantonare vita ed esperienze che li hanno portati a ritrovarsi lì per scontare una pena e partire per guardare avanti e farlo nel migliore dei modi possibili. È questo lo spirito che ha portato alcuni dei detenuti della casa circondariale frentana a frequentare un corso di pizzaiolo realizzato dall’Istituto Alberghiero di Termoli che all’interno dell’istituto penitenziario di contrada Monte Arcano a Larino ha sei classi e quasi 90 iscritti. E così per 40 ore tra fine settembre e inizio ottobre 20 di loro hanno avuto la possibilità di frequentare le lezioni del “maestro” Claudio Bavota con cui hanno imparato i segreti della pizza, a partire dalle diverse farine, passando per la lievitazione e fino ad arrivare alla cottura all’interno del forno a legna. Un corso durante il quale hanno appreso anche a fare le acrobazie con la pasta, con i detenuti che hanno anche dimostrato la loro abilità nel maneggiare a far volare in aria gli impasti. Sono stati anche gli stessi neo pizzaioli a preparare le pizze che sono state sfornate a comporre il buffet: da quella classica margherita, passando per la capricciosa, pomodorini e olive, e la pizza dolce, quella con la Nutella, il mascarpone e le nocciole. Pizze che, indubbiamente, rappresentano la rinascita e la possibilità di trovare un lavoro quando usciranno dal carcere. Perché da sempre l’obiettivo della casa circondariale di Larino guidata dalla direttrice Rosa La Ginestra, è quello di dare ai detenuti delle competenze affinché, una volta finito il percorso della pena che devono scontare, possano evitare di ricadere in brutte acque e iniziare una vita nel segno della legalità. “Per questo - ha spiegato Ottavio, accento tipicamente siciliano, a nome di tutti - chiediamo alla preside Chimisso e alla direttrice La Ginestra la possibilità di farci frequentare un corso vero, di quello con il rilascio della qualifica perché quando usciremo da qui avremo la possibilità di poter candidarci come pizzaioli”. Detenuti che sono rimasti affascinati da un mondo, quello della pizza, che spesso è sconosciuto. “Non escludo di cercare lavoro come pizzaiolo se avrò la qualifica quando sarò uscito”, ha affermato più di uno di loro. “Il nostro compito - ha continuato la direttrice Rosa La Ginestra - è quello di educare e rieducare, per questo iniziative ed attività del genere, inserite anche nel percorso di alternanza scuola - lavoro aiutano tanto”. Nuoro: i libri tattili dei detenuti abbattono tutte le barriere di Luciano Piras La Nuova Sardegna, 10 ottobre 2017 Al carcere di Badu e Carros la menzione speciale del concorso “Tocca a te”. “Così si apre un ponte di dialogo e di inclusione tra l’istituto e la realtà esterna”. “Entrare per la prima volta in una realtà carceraria ci ha fatto vedere un mondo escluso. Un mondo di sofferenza in cui le persone che abbiamo incontrato ci hanno mostrato grande rispetto, sensibilità umana e desiderio di fare. Fare delle cose, dedicarsi, essere motivati a fare per restituire qualcosa al mondo di fuori. Quest’esperienza, che speriamo di poter replicare in futuro, ci fa pensare che il carcere debba dare delle opportunità di riscatto ai suoi ospiti. In mezzo al freddo di tutto quel ferro cigolante e arrugginito”. Parlano in coro, Cristina Berardi e Daniela Pomata, insegnante bibliotecaria alle elementari di Furreddu, la prima; bibliotecaria della Cooperativa per i Servizi bibliotecari di Nuoro, la seconda. Pronte entrambe, ora, a consegnare di persona ai detenuti di Badu e Carros la targa appena arrivata “Menzione speciale Libro del Cuore”, assegnata ad Assisi in occasione della quarta edizione del concorso nazionale di editoria tattile “Tocca a te!”, organizzato dalla Federazione nazionale delle Istituzioni pro ciechi Onlus insieme alla Fondazione Robert Hollman e con il patrocinio della Regione Umbria e del Comune capoluogo, la città di San Francesco, appunto. “I detenuti dell’Istituto di pena di massima sicurezza Badu e Carros di Nuoro che hanno partecipato al progetto - sottolinea Gianluca Rapisarda, direttore IRiFoR e presidente della giuria del concorso - si sono mostrati entusiasti della proposta e motivati al lavoro e alla ricerca di soluzioni per la realizzazione delle storie, delle illustrazioni e delle rilegature dei libri, organizzandosi autonomamente in gruppi di lavoro coordinati da Cristina Berardi e Daniela Pomata”. Sono le due bibliotecarie, infatti, ad aver proposto al carcere, a titolo di volontariato, il progetto “Leggere con le mani” e ad aver saputo coinvolgere a partire dal febbraio scorso 21 detenuti (disposti in quattro gruppi) del penitenziario nuorese, con il sostegno e la disponibilità della direttrice della Casa circondariale Luisa Pesante (sostituita il 15 settembre scorso da Patrizia Incollu) e dello staff delle educatrici. “L’introduzione dei vari materiali all’interno dell’Istituto di pena - spiegano le due volontarie - non è cosa scontata (non sono consentiti: metalli vari, forbici appuntite, tubetti di latta come quelli dell’attaccatutto e altri materiali ancora) e ogni settimana è stato necessario presentare in anticipo al reparto di sicurezza del carcere, l’elenco dei materiali da introdurre, perché fossero autorizzati”. Piccole difficoltà davanti al grande entusiasmo subito manifestato dai detenuti che hanno poi realizzato i libri tattili o cosiddetti “sensoriali”. “La grande forza e la splendida “magia” dei libri tattili - spiega ancora Gianluca Rapisarda - è quella di favorire attività manuali e di laboratorio in ciascuno di noi, annullando ogni tipo di “barriera” e riuscendo persino a creare un ponte di dialogo e di inclusione tra la realtà esterna e il carcere”. Tre i libri realizzati dai detenuti di Badu e Carros con Cristina Berardi e Daniela Pomata e poi premiati con la menzione speciale: “L’Italia e le sue venti Regioni”; “Gli animali della savana” e “La giornata di Mario”. “Per la trascrizione dei testi in braille - dicono le due bibliotecarie volontarie - ci siamo rivolte all’Istituto Unione ciechi di Nuoro, che con dedizione e tempismo ha provveduto, nella persona del signor Pietro Manca, a tradurre i testi dei tre libri”. A dire il vero c’era in programma anche la realizzazione di un quarto libro, ma il gruppo di lavoro dei carcerati è stato interamente trasferito da Nuoro in altri penitenziari dell’isola e della penisola. “Il quarto libro era stato pensato sulle mani e la diversa pelle - svelano Berardi e Pomata, non soltanto da un punto di vista del colore ma dal punto di vista tattile: le mani ruvide che lavorano, quelle lisce che accarezzano, le mani grandi che stringono quelle piccole”. Aversa (Ce): al via un progetto per i figli dei reclusi di Mena Grimaldi anteprima24.it, 10 ottobre 2017 Giochi, dolci e animazione durante i colloqui tra genitori reclusi e figli. È questo in sintesi l’innovativo progetto che tra pochi giorni verrà attuato presso la Casa di Reclusione di Aversa, ex Opg “Filippo Saporito”, grazie ad una sinergia avviata tra la dirigenza dell’istituto penitenziario con Elisabetta Palmieri e alcune associazioni del territorio. Un’iniziativa che segue solo di pochi giorni un altro evento assai significativo: l’inaugurazione di uno spazio verde attrezzato completamente dedicato ai bambini che si recano in carcere per incontrare i papà reclusi. Il piccolo e accogliente parco giochi è stato donato da Soroptimist International Club di Aversa, un’organizzazione senza scopo di lucro di service club che, attraverso progetti mirati, promuove i diritti umani e, quindi, anche quelli dei bambini. Tale iniziativa si colloca all’interno del più ampio progetto sulla genitorialità, finalizzato ad incentivare i contatti tra genitori reclusi e figli e a rafforzare il vincolo familiare, nonostante la lontananza e le forti limitazioni dovute allo stato detentivo. Per questa ragione nell’istituto penitenziario normanno, quando il tempo lo consentirà, i colloqui si svolgeranno all’aperto in bellissimi giardini e si svolgeranno anche di domenica, proprio per favorire i piccoli quando le scuole sono chiuse. In particolare, la domenica, grazie all’associazione Casmu di Mario Guida, in collaborazione con PulciNellaMente guidata da Elpidio Iorio, i colloqui tra genitori e figli saranno assistiti da un sociologo, uno psicologo, un assistente sociale e diversi animatori che, a titolo gratuito, con giochi e dolci, alleggeriranno le tensioni e le ansie di chi entra in un carcere, soprattutto dei bambini. Le sinergie che la direttrice Elisabetta Palmieri sta costruendo con le varie associazioni, come il Soroptimist, la Casmu e PulciNellaMente, mirano a fare della Casa di Reclusione di Aversa un istituto in linea con gli standard europei di apertura e umanizzazione della detenzione. L’ex Opg di Aversa, dove ora si trova il carcere a misura attenuata, è stato il primo manicomio giudiziario d’Italia. Da quei luoghi clamorosa fu la fuga di Raffaele Cutolo, il capo della Nuova Camorra Organizzata, avvenuta nel 1978. Novara: inaugurata al carcere la nuova area giochi dedicata ai figli dei detenuti di Paolo Migliavacca La Stampa, 10 ottobre 2017 Inaugurato questa mattina (lunedì) la nuova area giochi all’interno del carcere di via Sforzesca, a disposizione dei figli dei detenuti. L’iniziativa è del club Soroptimisti (con la presidentessa novarese Lucia Bonzanini) che ha attuato il progetto in tutt’Italia. Alla cerimonia hanno presenziato le principali autorità cittadine, con la direttrice del carcere Rosalia Marino. Il prossimo obiettivo è dotare di riscaldamento il tendone installato nel 2013 dalla Compagnia dell’Olmo del volontario Pietro Pesare che ora, con la nuova associazione degli Amici della casa circondariale, si è rimesso in moto. Busto Arsizio: una Via Crucis dipinta per il carcere, “un segno di speranza” di Luca Girardi La Provincia di Varese, 10 ottobre 2017 “C’è bisogno di un segno di speranza”: così l’artista Angelo De Natale ha spiegato il significato della Via Crucis da lui dipinta per il carcere di Busto Arsizio e presentata ieri mattina a Cassano Magnago, in occasione della festa patronale della Madonna del Rosario. Per realizzare le immagini in acrilico, che già oggi saranno collocate nella cappella della casa circondariale, il pittore cassanese, che ha lavorato del tutto gratuitamente, si è messo nei panni di chi è costretto a vivere dietro le sbarre: per questo ha scelto di raffigurare, in ciascuna icona, il sacro legno in un modo diverso, proprio per sottolineare che “ognuno ha la propria croce da portare”. De Natale, che si è avvalso della consulenza di Daniele Mantegazza, esperto di esegesi biblica, non ha voluto dipingere il sangue, perché “molti detenuti ne hanno già visto abbastanza”. Proprio per sostenere la speranza dei carcerati, alle tradizionali 14 stazioni della Via Crucis l’artista ha voluto aggiungere la quindicesima: la Risurrezione. I quadri firmati da De Natale, pittore e scultore i cui capolavori si trovano in tutto il mondo, approdano dunque in una struttura di detenzione per dire che, come ha notato don Silvano Brambilla, cappellano della casa circondariale, “non si è da soli in una situazione come quella del carcere. La strada del Calvario è stata percorsa da Gesù insieme a due malfattori: Egli non lascia solo nessuno, è con tutti”. Grazie alla bellezza di un’opera che è stata loro donata, inoltre, i detenuti “sapranno di non essere dimenticati: si sentiranno incoraggiati a vivere un cammino”. Quella che don Gabriele Gioia, parroco di Cassano Magnago, ha definito “un’opera dal profondo significato spirituale” vuole insomma esprimere, come ha aggiunto il sindaco Nicola Poliseno, “la speranza che chi si trova in carcere possa vivere un giorno in un modo diverso”. L’opera di De Natale si deve all’iniziativa dell’”Associazione volontari assistenti ai carcerati e loro famiglie”, in particolare al desiderio di madre Augusta Negri e Luigia Roggiani, che non sono volute mancare ieri, insieme al presidente del loro sodalizio, Carlo Stelluti. “L’assedio. Troppi nemici per Giovanni Falcone”. Un eroe, ma da morto di Simone Innocenti Corriere Fiorentino, 10 ottobre 2017 Giovanni Bianconi oggi alla Feltrinelli parla del suo libro sul magistrato. “Era un problema per lo Stato”. Lo cova dal 1987, da quando cioè Giovanni Bianconi, inviato del Corriere della Sera, esperto di criminalità organizzata e terrorismo, andò a seguire il maxiprocesso e le inchieste su Cosa Nostra. “A questo libro ci ho lavorato un anno ma ci sono cose che osservo da più di 20 anni”, dice Bianconi che ha scritto “L’assedio. Troppi nemici per Giovanni Falcone” (Einaudi). Libro che oggi (alle 18) presenterà alla Feltrinelli di Firenze in via de Cerretani in un incontro moderato dal direttore del Corriere Fiorentino Paolo Ermini a cui interverranno Francesco Butini, presidente del Centro studi Giovanni delle Bande Nere; Eugenio Albamonte (presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati), Marco Mayer (docente presso la Luiss) e Liliana Ferraro (ex direttore generale affari penali del Ministero di Grazia e Giustizia) e grande amica di Giovanni Falcone. Il libro è una puntigliosa e per certi versi inedita ricostruzione a venticinque anni dall’attentato di Capaci. Giovanni Bianconi che ha già pubblicato volumi importanti come Mi dichiaro prigioniero politico. Storia delle Brigate Rosse (Stile libero, 2003) e Eseguendo la Sopra il giornalista e scrittore Giovanni Bianconi, a destra il magistrato Giovanni Falcone. Fu assassinato da Cosa Nostra il 23 maggio del 1992 con la moglie e tre uomini della scorta sentenza. Roma, 1978. Dietro le quinte del sequestro Moro (ultima edizione “Super ET”, 2010), ricostruisce attraverso i documenti e i ricordi dei protagonisti, l’ultimo periodo della vita di Falcone, rivelando la condizione di accerchiamento in cui si è trovato il giudice. Il giudice Falcone è morto e quindi “è diventato credibile” in Italia. “È questa la tragedia, che sta esattamente in questa battuta che lui in maniera amara fece a un cronista. E il suo sacrificio - dopo la strage di Capaci - ha portato ad ottenere quello che lui voleva vedere realizzato in vita: ad esempio, voleva il 41 bis, che è il carcere duro per i mafiosi; voleva anche la legge sui mafiosi, che poi è arrivata”. Parole amare. “Ora sembra tutto annacquato e distante, ma all’epoca Cosa Nostra era una struttura militare che stava per mettere in ginocchio l’Italia. Cosa Nostra ha cambiato pelle ma non il modo di dialogare con le istituzioni: basti pensare che, negli agli anni Duemila, ci sono due presidenti della Regione che sono stati inquisiti e processati. Questo lo dico al di là delle condanne, che invece in altri casi sono arrivate”. Se ne verrà fuori? “Cosa Nostra, come le altre mafie, sfrutta la corruzione che, proprio per la sua stessa natura, è un reato difficile da denunciare anche da parte della presunta vittima, che si trova di fronte la criminalità organizzata”. In tutto questo racconta appunto Falcone. “Un eroe che diventa tale solo dopo la morte. Lui, fino al maxiprocesso, era un problema per lo Stato. Era consapevole che sarebbe stato ucciso: gli allarmi che lanciava attraverso le interviste o il libro che scrisse servivano per richiamare l’attenzione su un problema che veniva sottovalutato e sul fatto che gliela avrebbero fatta pagare. Non aveva contro solo Cosa Nostra ma un certo mondo della magistratura, della politica e dei giornali”. Che cosa ha lasciato in eredità? “Lo racconto nel libro. Aveva due grandi obiettivi: la superprocura antimafia che non è andata molto bene; far arrivare il maxiprocesso di Palermo fino alla Cassazione. I mafiosi fecero di tutto per non farlo arrivare a sentenza”. E la strage di via dei Georgofili, a Firenze? “Sono stati individuati gli esecutori materiali. Ci sono indizi che fanno pensare a mandanti importanti, che al momento non sono stati scoperti”. Migranti. Profugo e disabile, muore a Bolzano. Gli era stata rifiutata l’assistenza di Marco Angelucci Corriere della Sera, 10 ottobre 2017 La vittima aveva appena 13 anni, con la famiglia scappata dal Kurdistan era costretto a vivere in un parco: la Provincia aveva detto no alla richiesta d’aiuto. L’odissea di Adan è finita nel peggiore dei modi. Il ragazzino iracheno affetto da distrofia muscolare è morto domenica all’ospedale San Maurizio di Bolzano. “Ora la Provincia deve cambiare le regole dell’accoglienza, altrimenti Adan sarà morto invano” dicono alcuni volontari della rete Sos Bozen che hanno aiutato la famiglia di Adan dopo che i servizi provinciali si erano rifiutati di accoglierli. Una richiesta che viene rilanciata anche dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati e dall’Asgi, l’associazione di studi giuridici sull’immigrazione che bollano come “illegittime” le direttive provinciali sull’accoglienza dei richiedenti asilo. Messo alle strette, il governatore altoatesino Arno Kompatscher promette un’indagine interna per capire come siano andate esattamente le cose. Dal Kurdistan alla Svezia - La storia di Adan inizia a Kirkuk, nel nord dell’Iraq, 13 anni fa. La sua famiglia decide di lasciare il Kurdistan in seguito alla morte della sorella di Adan, avvenuta durante un bombardamento. Dopo mille peripezie, riescono ad arrivare in Svezia dove presentano richiesta di asilo. La domanda però viene rigettata e la famiglia, per evitare il rimpatrio forzato, lascia Stoccolma su un treno diretto a sud. Il viaggio, insieme ai soldi, finisce il primo ottobre a Bolzano. I genitori si stabiliscono nel parco di fronte alla stazione, dove bivaccano numerosi profughi in attesa di passare la frontiera con l’Austria. Qui vengono notati dai volontari della rete Sos Bozen che provano ad orientarli verso i servizi di prima accoglienza. Ma la risposta della Provincia è impietosa: niente accoglienza in virtù della cosiddetta circolare Critelli (dal nome del dirigente che l’ha firmata) che vieta di accogliere in Alto Adige chi ha già presentato richiesta di asilo in altri Paesi. La Chiesa unico rifugio - Nel frattempo Adan sta male e viene ricoverato in ospedale, ma il giorno dopo viene dimesso dal reparto di pediatria nonostante non abbia un posto dove andare. Dopo aver passato l’intera giornata al parco, la famiglia viene accolta nella chiesa evangelica. Dormono sul pavimento di marmo, accanto all’altare. Il mattino dopo di nuovo al parco. Per Adan è troppo. Stremato, cade dalla sedia a rotelle e si rompe entrambe le gambe. I genitori lo riportano in ospedale dove viene ricoverato in rianimazione. Per lui però non c’è nulla da fare, la notte di domenica il suo cuore smette di battere. “Una morte annunciata, ora vanno cambiate queste regole dell’accoglienza che sono inumane” protestano i volontari di Sos Bozen. Indagine interna della Provincia - Anche l’Unhcr condanna l’accaduto e Stephane Jaquemet, Delegato dell’Unhcr per il Sud Europa sottolinea che “Negare l’accoglienza ad una famiglia con quattro figli minori di cui uno con disabilità è inaccettabile. Un bambino deve essere considerato prima di tutto come un bambino, con bisogni specifici che necessitano di risposte adeguate e tempestive. È una questione morale, ancor prima che legale”. Messa alle strette la Provincia promette un’indagine interna per capire come siano andate le cose. Sia per quanto riguarda la mancata assistenza sociale, sia per capire come mai il piccolo Adan sia stato dimesso così velocemente dall’ospedale. Intanto il padre di Adan si è rivolto ai legali Francesca De Angeli e Giulia Bongiorno. Migranti. Frontiera tunisina, è flop sicurezza, ex detenuti in marcia verso l’Europa di Cristiana Mangani Il Mattino, 10 ottobre 2017 Detenuti in libertà e foreign fighters che tentano di raggiungere l’Europa passando dalle coste italiane. Due fronti diversi, ma rischi altrettanto gravi. Arriva dalla Tunisia l’ultima minaccia sbarchi. E non soltanto per l’aumento evidente di migranti che riescono a raggiungere le coste della Sicilia partendo da Monastir, El Haouaria, Zarzis, Biserta nel nord, e soprattutto da Kerkenna e Sfax, dove l’instabilità ai confini con la Libia ha fatto diminuire i controlli. A preoccupare la nostra intelligence e gli operatori di polizia è la storia personale di chi riesce ad arrivare: molti ex galeotti usciti dalle carceri tunisine grazie a due indulti concessi a giugno, a conclusione del ramadan, e a luglio per la Festa dell’indipendenza. Circa 1600 pregiudicati per reati di droga e contro il patrimonio, dei quali quasi il 50 potrebbe aver raggiunto il nostro Paese. Il Viminale continua a mantenere alto il livello di trattativa con Tunisi. Di recente il ministro Marco Minniti si è recato sul posto proprio per confermare i buoni rapporti che ci legano. Ieri una delegazione tunisina è venuta a Roma, per un tavolo tecnico, e chi opera nel settore tende a tranquillizzare: se anche fossero arrivati tutti questi ex detenuti - spiegano - li rimandiamo indietro, trenta alla volta, con due voli aerei al mese, così come abbiamo sempre fatto e come stiamo continuando a fare. Il ministero dell’Interno, comunque, ha piena consapevolezza del fatto che da quelle zone arrivi il maggior numero di foreign fighters in Europa. Basti guardare gli ultimi attacchi terroristici e le nazionalità d’origine di chi ha colpito. E allora, proprio questa riflessione collega a un altro aspetto preoccupante, e cioè al forte aumento degli “sbarchi fantasma”. È sempre più frequente che piccoli gruppi si organizzino autonomamente. Scelgono la notte per partire a bordo di piccole imbarcazioni, o anche di pescherecci a volte rubati. Sperano così di passare inosservati e di sfuggire ai controlli una volta approdati sulle coste italiane, ben sapendo che potrebbero essere rimandati indietro, soprattutto se con precedenti penali. Nonostante questo, dopo gli ultimi due indulti, e nel solo mese di settembre sono arrivati 1.400 tunisini, mentre dal primo gennaio al primo agosto, secondo i dati dell’Oim, l’Organizzazione internazionale migranti, erano stati 1357. E il dato non può che preoccupare se si considera l’intero 2016, quando da Sfax e dintorni avevano raggiunto le coste italiane in 1.200. Al momento il piano del Viminale sembra tenere, anche se le autorità italiane sembrano preoccupate per la possibilità di trovarsi di nuovo davanti a uno scenario di immigrazione di massa dalla Tunisia come quello post-rivoluzione del 2011. I più preoccupati, infatti, sono proprio i sindaci di Lampedusa e di Pozzallo, che da giorni lanciano l’allarme, certi che tra questi giovani si nascondano delinquenti e jihadisti. Affonda barca di migranti. Lo scafista: “Incidente strano” di Francesco Battistini Corriere della Sera, 10 ottobre 2017 Nella notte tra domenica e lunedì l’imbarcazione con a bordo 70 persone è stata speronata da un guardacoste, Decine di dispersi. Con la chiusura delle coste libiche si riapre la rotta tunisina. “Si salpa da qui”. Spiaggia deserta, bottiglie di plastica, vestiti abbandonati. K., lo chiamano il Topo del Mare: di giorno è guardia d’una banca di Tunisi, quattro notti al mese professione scafista, “ma mia moglie non sa che arrotondo così”. Indica il mare che nella notte tra domenica e lunedì è tornato a uccidere. Laggiù, verso Sfax: un barcone con 70 persone che navigava nella bonaccia notturna, 54 km dall’arcipelago di Kerkenna, inspiegabilmente speronato da un guardacoste, 8 corpi recuperati, una ventina i dispersi. “Di solito queste cose le fa la marina di Malta…”, s’indigna il palestrato K., 33 anni, la cicatrice sulla fronte souvenir d’un carcere francese, il nome di mamma tatuato: “Gli italiani non speronano. Ed è strano che la nostra polizia abbia combinato questo disastro: di solito la paghiamo prima”. La pagate? “Certo! 10 euro per ogni persona portata, basta darli a chi pattuglia la costa: in una notte, si fa lo stipendio d’un mese”. Erano anni che non si partiva più dalla Tunisia… “Ma ora l’Italia ha chiuso le rotte libiche! La differenza è che sui nostri barconi non ci sono molti “africani”: da qui costa di più, usiamo solo barche sicure, e la maggior parte dei miei clienti sono tunisini”. E i guardacoste vanno ad affondare poveretti che potrebbero essere loro parenti? “Se fanno a me una cosa del genere, vado a cercarli uno per uno”. Tunisia, si riapre la via. La strage di domenica notte non è per la solita bagnarola libica in avaria. “È perché - spiega una fonte di sicurezza europea - al governo tunisino abbiamo detto che bisogna fare qualcosa”. Ieri c’è stato un chiarimento al Viminale, s’è rimproverato al governo Chahed l’indulto di luglio che ha messo fuori 1.600 detenuti: Anis Hannachi, il fratello del killer di Marsiglia, l’hanno preso domenica a Ferrara ed era arrivato col barcone. Nell’ultimo mese sono salpati da Cap Bon e da Sfax e da Zarzis tanti migranti quanti da gennaio ad agosto. Viaggi fai-da-te, micro gang di non più di tre scafisti e spesso micro trasporti d’una ventina di persone al massimo, tariffe variate se si va a Lampedusa (1.700 euro) o in Sicilia (2.500). Funziona così: i tunisini contattano sui satellitari Thuraya lo scafista (sms in gergo: nehok el sabkha, attraversiamo le saline) e raggiungono col buio il monte dietro Houaria o le scogliere di Kerkenna. Gli stranieri arrivano sui 4x4 dei contrabbandieri libici di Ben Guerdane o per i monti algerini della guerriglia jihadista: “Mi faccio dare i documenti e li tengo in una casa qualche giorno - spiega K., finché i miei amici poliziotti non li controllano al pc. Non voglio grane, non prendo i salafiti nemmeno se mi offrono 10mila euro: porti un jihadista e rischi l’associazione terroristica, stai dentro dieci anni”. Una volta viste le fedine, si va: “Mettiamo i clandestini sui pescherecci, come se fossero equipaggio. O se no usiamo barche private, comprate apposta”. K. si sente un professionista: “Mica siamo libici, noi usiamo roba sicura, che non affonda. È solo per questo che ci hanno lasciato fare soldi in pace”. Fino a domenica notte, forse. “Trafficanti e crisi economica durissima: ecco perché si è riaperta la rotta tunisina” di Fabio Albanese La Stampa, 10 ottobre 2017 Falvio Di Giacomo dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni racconta cosa c’è dietro l’ultima strage nel Mediterraneo. “Abbiamo un sospetto: che alcuni trafficanti si siano spostati dalla Libia alla Tunisia per proseguire i loro traffici di uomini. Ma questo non basta a spiegare il fenomeno”. Flavio Di Giacomo è il portavoce italiano dell’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, ed è appena rientrato da un viaggio in Tunisia. Quali altre ragioni ci sono dietro la riattivazione della rotta tunisina delle migrazioni? “In Tunisia c’è una crisi economica dura: la disoccupazione è alta, il dinaro si è svalutato e cresce la dispersione scolastica. La gente emigra perché cerca una vita migliore e l’Europa è lì di fronte. Di quelli di cui abbiamo notizia, solo a settembre ne sono partiti 1400 mentre erano stati 1357 in tutti i precedenti otto mesi dell’anno”. Ma perché tutti adesso? Si parla di amnistia e carceri aperte e dunque dell’arrivo in Italia di molti che hanno precedenti penali. “Ogni anno per la festa del sacrificio in Tunisia c’è un indulto e vengono liberati detenuti per reati minori con condanne di appena due o tre mesi. Ma non è questo il punto, sono tutti migranti economici per i quali l’Italia è solo uno Stato di passaggio: vogliono andare in Francia dove conoscono la lingua e hanno una rete di partenti e amici”. E i trafficanti che si sarebbero spostati dalla Libia? “Lo sospettiamo, appunto, ma solo per fare i soliti affari. Questa tunisina non è l’alternativa alla rotta libica. I migranti sono tutti tunisini, le ragioni di questo ritorno alla migrazione del dopo-primavere arabe del 2011 va cercato in Tunisia. D’altronde, sembra di essere tornati proprio a sei anni fa, quando a Lampedusa arrivavano solo tunisini”. Secondo lei perché partono sapendo che, se vengono scoperti, dovranno tornare in Tunisia, in quanto migranti economici? “Perché molti riescono a far perdere le loro tracce. E poi, c’è anche da dire che gli accordi di rimpatrio tra Italia e Tunisia prevedono un certo numero di persone all’anno. Fino all’anno scorso quel numero era più che sufficiente. Con i dati attuali temo invece che presto il tetto sarà raggiunto”. Si parla anche di migranti tunisini che in realtà sarebbero terroristi, visto che dalla Tunisia in passato sono partiti tanti foreign fighters dell’Isis. “Su questo noi non abbiamo alcuna informazione”. Tunisia. Torturato 26 anni fa ma le indagini sono ancora in corso di Riccardo Noury Corriere della Sera, 10 ottobre 2017 Dalla Tunisia arriva un tragico esempio di come sia difficile ottenere giustizia per le violazioni dei diritti umani del passato. Nel 1991 Faysal Baraket aveva 25 anni e studiava matematica all’università di Tunisi. Fu arrestato e torturato a morte, l’8 ottobre, in una stazione di polizia della città costiera di Nabeuf. Per anni e anni, i familiari di Baraket hanno chiesto invano l’apertura di un’indagine. Solo nel 2013 un giudice ha deciso di riaprire il caso e ha ordinato l’esumazione del corpo. Gli esami condotti sui resti di Baraket hanno confermato che il ragazzo era stato torturato a morte e non era morto, come per oltre 20 anni avevano sostenuto le autorità, in un incidente stradale. Un anno fa, finalmente, sono state incriminate 21 persone: 11 per il reato di tortura e 10 per quello di complicità nella tortura. Ma c’è stato un nuovo stop. La settimana scorsa la Corte di cassazione ha rinviato al 2 novembre la sua decisione sul ricorso di alcuni imputati contro l’incriminazione. Ieri ha preso la parola Jamel Baraket, fratello di Faysal. Trascorso oltre un quarto di secolo, insieme alla madre Khira Materi, non demorde e continua a chiedere giustizia: “Non è possibile che i responsabili della morte di mio fratello circolino liberamente, senza neanche il bisogno di nascondersi. Dopo 26 anni, vogliamo vedere almeno una persona condannata. In questo modo, crimini del genere non si ripeterebbero più e le future generazioni non soffrirebbero come ha sofferto la mia”. Turchia. Amnesty: “chiesti 16 anni di carcere per i nostri attivisti, accusa senza prove” agensir.it, 10 ottobre 2017 “Un’accusa oltraggiosa che non si basa su alcuna nuova prova e che invece ripropone accuse assurde di terrorismo nei confronti di alcuni dei più importanti difensori dei diritti umani della Turchia”. Così John Dalhuisen, direttore di Amnesty International per l’Europa, ha commentato la requisitoria di un pubblico ministero che ha chiesto fino a 16 anni di carcere per 11 difensori dei diritti umani, tra i quali Idil Eser e Taner Kiliç, direttrice e presidente della sezione turca dell’organizzazione per i diritti umani. “Questi coraggiosi attivisti languono da mesi in carcere solo perché credono nei diritti umani. Anche un singolo giorno di prigione sarebbe stato una grande ingiustizia”, ha aggiunto Dalhuisen. “La richiesta del pubblico ministero non è altro che una pacchiana raccolta di insinuazioni e falsità. In effetti, è un atto d’accusa verso il sistema giudiziario turco. Il tribunale deve rigettarla del tutto e assicurare che i nostri amici e colleghi siano rilasciati immediatamente e senza condizioni”, ha concluso Dalhuisen. Afghanistan. Così la Cia torturava i detenuti nel carcere di Kabul Agi, 10 ottobre 2017 Privazione del sonno, temperature rigide e altre torture per i sospetti terroristi. Fino alla morte. Un servizio del Guardian. Alle dieci del mattino del 20 novembre 2002 il pakistano Gul Rahman viene trovato morto nella sua cella nel carcere speciale della Cia, nei pressi di Kabul, denominato “Darkness”, Tenebra. Una struttura di venti celle utilizzata, negli anni della “Guerra al terrore”, per interrogare i sospetti adepti di Al Qaeda. Ogni cella un buio cubo di cemento. I prigionieri erano incatenati a un anello di metallo sul muro in sedici di esse. Quelle normali. Nelle altre quattro, destinate alla privazione del sonno, i detenuti erano appesi per i polsi a una barra sopra le loro teste, come nelle più truci galere medievali. Pressoché nudi, al buio, al freddo, con pochissimo cibo, sottoposti a getti di acqua gelata, con musica ad alto volume che rimbombava tra le pareti 24 ore su 24. E nemmeno il conforto di un catino di plastica per le proprie necessità corporali. Quello era un lusso consentito nelle celle normali. Rahman, che si trovava in una delle quattro celle speciali, doveva accontentarsi di un pannolone. L’unica cosa che indossava, insieme a un paio di calzini, quando la guardia ne constatò il decesso per ipotermia. Non aveva mai voluto parlare. Un patteggiamento storico Delle “tecniche di interrogatorio speciali” utilizzate nella prigione di Guantanamo si sa da tempo. Della sua succursale afghana si sapeva invece ben poco fino a oggi, quando la Cia - leggiamo sul Guardian - è stata costretta a desecretare i verbali del patteggiamento extragiudiziale raggiunto dalla famiglia di Rahman e due detenuti usciti vivi dalla “Tenebra”, Mohamed Ben Soud and Suleiman Abdullah Salim, con John Bruce Jessen e James Mitchell, i due psicologi che avevano ideato i metodi di interrogatorio utilizzati nella struttura. Si tratta di una decisione storica: è la prima volta che sospetti jihadisti sottoposti a tortura dalla Cia vengono risarciti. I documenti consentono di ricostruire, ora per ora, l’agonia di Rahman, morto 69 giorni dopo l’apertura del carcere. A gestirlo, con - scrive il quotidiano britannico - “una miscela di attenta pianificazione e improvvisazione impulsiva” era un uomo chiamato Matthew Zirbel che non aveva alcuna esperienza in un penitenziario e venne a sapere del suo ruolo solo tre giorni dopo essere arrivato a Kabul. Ma, secondo gli ultimi verbali desecretati, fu la visita di Jessen al carcere, dal nomine in codice “Cobalt”, che segnò la sorte di Rahman. Quando il sospetto si lamentava del freddo, si apprende da alcune registrazioni, Jessen sostenne che il detenuto stesse utilizzando una “sofisticate tecnica di resistenza di Al Qaeda”. Né c’era da impietosirsi quando “diceva di non riuscire a pensare a causa del gelo” e “lamentava la violazione dei suoi diritti umani”: stava fingendo. Prima di ripartire, Jessen suggerì a Zirbel di procedere con le torture fino a piegarlo. Ma Rahman stava davvero morendo di ipotermia. Nel 2003 la stella di Jessen e Mitchell tramonta. Nei memoriali interni dell’Agenzia si legge che “sebbene questi ragazzi credano che il loro metodo sia l’unico, bisognerebbe sforzarsi di definire ruoli e responsabilità prima che la loro arroganza e il loro narcisismo sfoci in un conflitto improduttivo” e che continuare ad adottare le loro tecniche “non è decisamente opportuno”. La “palese noncuranza” dei due psicologi per “l’etica condivisa da quasi tutti i loro colleghi” costringe i vertici della Cia a dirottarli verso grigi lavori di consulenza. I detenuti rimasti a Cobalt vengono trasferiti a Guantánamo. Per molti di loro sarà un deciso miglioramento. Nigeria. Primo maxi-processo contro militanti Boko Haram, 1.670 imputati Ansa, 10 ottobre 2017 In Nigeria si sono svolti i preparativi per avviare, oggi, un maxi-processo a porte chiuse contro 1.670 imputati detenuti con l’accusa di legami con l’organizzazione terroristica islamica Boko Haram. Lo riferisce il sito del quotidiano nigeriano Vanguard. Il processo, civile, si svolge in una base militare nello stato centrale nigeriano del Niger ed è il primo grande processo contro militanti di Boko Haram, il gruppo jihadista affiliato all’Isis che nella sua rivolta separatista ha ucciso dal 2009 più di 20 mila persone. Come annunciato dal ministero della Giustizia, altri 651 imputati detenuti in una caserma di Maiduguri, capitale dello Stato nigeriano del Borno, saranno processati in seguito.