“I bimbi devono abbracciare i papà”. Il lascito di Roberti sul 41bis di Errico Novi Il Dubbio, 9 novembre 2017 Il Procuratore alla bicamerale antimafia: bene la Circolare Consolo. È solo un caso, una coincidenza. Ma certo l’audizione di Franco Roberti ieri davanti alla commissione Antimafia si farà ricordare anche perché avvenuta nel giorno in cui il Csm ha scelto il suo successore alla Dna, Federico Cafiero de Raho. Roberti si congeda in Parlamento: da oggi è formalmente in pensione. Non tralascia però di lasciare un segno importante su due temi delicatissimi, dopo essersi già segnalato come il procuratore Antimafia che in ben tre consecutive relazioni annuali ha sollecitato la legalizzazione delle droghe leggere. All’organismo bicamerale presieduto da Rosy Bindi, infatti, Roberti propone di superare il “concorso esterno in associazione mafiosa, sempre difficile da provare” e definire piuttosto un “416 quater sul patto imprenditoriale-malavitoso, che individui il rapporto fra professionisti e mafiosi”. Non solo, perché il capo uscente della Superprocura sconfessa proprio Bindi, Beppe Lumia e il resto della commissione sul 41 bis. Più precisamente, sulla circolare con cui il direttore dell’Amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, ha uniformato alcuni aspetti applicativi del regime detentivo, a cominciare dai colloqui tra i boss e i figli minori. I vertici della bicamerale avevano intravisto pericoli e manifestato perplessità. Roberti dice: “Il nostro giudizio è favorevole. Ci sono indubbiamente dei rischi come la caduta del vetro divisorio con i minori: bisogna fare un bilanciamento rispetto ai diritti che queste persone hanno, il minore può essere utilizzato per portare informazioni all’esterno, ma c’è il diritto del minore ad abbracciare il padre”. Parole che resteranno agli atti del Parlamento. E che non sarà facile bollare come una sottile forma di fiancheggiamento ideologico al crimine, come avvenuto in più di una recente occasione, da parte di Palazzo San Macuto, nei confronti di chi ha osato proporre valutazioni garantiste. “Io sarei per un 416 quater”, è dunque la frase che rappresenta uno dei lasciti di Roberti. Basta con il concorso esterno, impalpabile e probabilmente illogico. E un altro dogma vacilla, nel corso dell’audizione: quello secondo cui alla commissione parlamentare Antimafia spetterebbe selezionare i candidati per le elezioni. “Credo che sia una responsabilità politica: le istituzioni e la commissione hanno eseguito tempestivamente le attività necessarie, ma questo rimanda a una valutazione politica preventiva rispetto alla formazione delle liste”. E poi arriva quella che per alcuni parlamentari della bicamerale pure dev’essere vissuta come una doccia fredda: il giudizio del procuratore uscente sulla circolare di Consolo, “l’abbiamo vista e ci siamo pronunciati in modo sostanzialmente favorevole”. fino al passaggio sui bambini che hanno “diritto ad abbracciare il padre” persino se costui è un capomafia. Bindi ringrazia Roberti per i suoi anni a via Giulia. Ma dice: “L’audizione è sostanzialmente un’occasione di saluto istituzionale e ringraziamento personale del procuratore”. Macché. È stata un lascito da mettere in cornice. Processi lenti? C’è un software che li accelera, ma lo usano soltanto cinque giudici di Maurizio Tortorelia Panorama, 9 novembre 2017 Qual è il primo difetto della giustizia italiana? Lo sanno anche i bambini e lo ammette perfino il Consiglio superiore della magistratura: la lentezza. Quello che pochi sanno è che il difetto nasce non solo da ignavia, burocrazia e scarse risorse, ma anche da una violazione di legge: in sede civile, per esempio, all’inizio di ogni processo l’articolo 81 delle disposizioni d’attuazione del Codice di procedura obbligherebbe i giudici a fissarne l’intero calendario. Dovrebbero stabilire date, orari e durate di ogni udienza, fino alla sentenza. Però nessuno lo fa. Parrà strano, se non paradossale, ma il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha da tempo a disposizione una soluzione informatica che potrebbe migliorare la situazione in tutti i tribunali, penali e civili, eppure sembra non volersene servire. La soluzione si chiama A-Lex, è stata elaborata da una soft ware-house bolognese, la Cnc, che dal 1984 produce applicazioni di nicchia: è un’agenda informatica online che in un secondo propone al giudice le migliori date per le udienze, applicando algoritmi che minimizzano la durata di ogni tipo di processo. Oggi, nella maggior parte dei casi, i giudici usano un’agenda cartacea; sono rari quelli che adottano una versione elettronica. Risultato? Tempi morti e, ogni anno, decine e decine di giorni persi. A-Lex, invece, incastra tra loro tutti i procedimenti aperti e lascia comunque al magistrato la facoltà di accettare la soluzione o di chiederne una alternativa. L’agenda individua gli spazi liberi in base alle priorità del giudice; recupera anche i tempi persi alla chiusura di un processo; è capace perfino di gestire i “buchi” lasciati per attività urgenti, e gestisce eventi inattesi e emergenze improvvise. Messa a punto nel 2012, ottenuto alla fin del 2013 il via libera dal ministero, A-Lex è stata sperimentata per quasi quattro anni. Oggi la usano stabilmente cinque giudici tra Roma, Pesaro, Urbino e Cremona, e tutti hanno ottenuto drastici tagli dei tempi morti. Altri 11 magistrati la stanno testando a Milano, Monza, Genova, Lucca, Foggia e Rimini. “La loro risposta è entusiasta” dice a Panorama l’amministratore di Cnc, Paolo Umiliacchi. A-Lex non è costata nulla allo Stato. I 300 mila euro spesi fin qui sono stati versati dalla Fondazione Giuseppe Pera di Lucca, grazie ai suoi sponsor: Confìndustria, Abi, Assonime, Ania. Il problema è che da mesi la Fondazione propone l’agenda in regalo al ministero, che però nicchia. Se la donazione non sì concretizzerà, i finanziamenti si fermeranno: gli sponsor non intendono continuare se A-Lex non verrà lanciata su ampia scala. Così, però, tutto il lavoro verrà buttato via. E, ancora una volta, sarà stato tempo perso Il giudice Nicola Quatrano: “per punire i mafiosi gli togliamo i figli? che assurdità!” di Errico Novi Il Dubbio, 9 novembre 2017 “Lo si vede nelle singole decisioni prima ancora che in formulazioni teoriche come quella per cui, secondo la delibera del Csm, le famiglie dei mafiosi sarebbero di per sé “maltrattanti” nei confronti dei loro figli”. Nicola Quatrano non è un magistrato qualsiasi. Da pm è stato protagonista delle indagini sulla “Tangentopoli partenopea”, da giudice ha inflitto ergastoli a boss del calibro di Carmine Alfieri. Oggi presiede uno dei collegi del Riesame al Tribunale di Napoli. Ma non si tratta solo delle attività con la toga addosso: Quatrano è un militante. Di sinistra. Fa missioni in Mauritania come osservatore internazionale per i diritti umani. Scrive sul Corriere del Mezzogiorno, dorso campano del Corriere della Sera. E martedì scorso ha firmato un editoriale in cui ha sostenuto appunto che forse non è interesse di un minore figlio di camorristi avere la fedina penale pulita ma sviluppare un disagio per il distacco dai genitori. Detto da un magistrato potrà suonare peggio di una bestemmia. Forse è solo un atto d’amore per la verità. Va bene dottore. Complimenti per il coraggio. Ma chissà che diranno alcuni suoi colleghi. La deriva moralistica c’è, in certe decisioni è evidente. Quando si tratta di teorizzare, invece, è più difficile che un magistrato ceda a quel tipo di impostazione, anche se poi capitano delibere come quella approvata alcuni giorni fa dal Csm: la “famiglia mafiosa” sarebbe di per sé “maltrattante” nei confronti dei bambini. E su quale presupposto si fonda l’analisi? Sul fatto che essere mafiosi non è bello? Non è chiaro. Un conto è il disagio che deriva da condizioni di degrado, di estrema povertà, da una quadro psicologico non adeguato dei genitori: e lì intervengono i servizi sociali. Ma non è che il contesto mafioso comporti di per sé tale condizione degradante. Ci sono figli di boss che vengono mandati a studiare all’estero. Mi chiedo cosa c’entri quell’inoltrarsi nel presunto carattere “maltrattante” delle famiglie mafiose con i compiti del giudice. Oltre che con gli interessi del bambini. La sua è una prospettiva molto lontana dal mainstream dell’antimafia. Ma no, moltissimi miei colleghi la pensano in questo modo, magari non sono quelli che amano apparire, ma il buonsenso esiste anche tra i magistrati. Secondo Rosy Bindi il Mattino ha criticato aspramente il nuovo Codice antimafia perché, acrobatico sillogismo, è edito da un costruttore. Chissà cosa dirà di lei. Non cerchi di spingermi su questo terreno. Nel momento in cui scelgo di dire pubblicamente queste cose mi espongo a legittime critiche, certo: le ascolterò. Ma le sue ipotesi maliziose sono inutili. La delibera sui figli da portar via ai boss, i sequestri preventivi ai corrotti: tutti prodotti di una stessa logica? Credo proprio di sì. E il problema, come ho scritto sul Corriere del Mezzogiorno, è che non ci si ferma un attimo a riflettere su questi anni di misure severissime, di pene sempre più alte: una corsa sfrenata. Ebbene: cosa hanno prodotto? Certo, alcuni grandi cartelli criminali sono stati scompaginati, ma non è affatto detto che la qualità della vita delle persone sia migliorata. C’è in giro una violenza sempre più incontrollabile, la droga continua a scorrere a fiumi, non c’è una piazza di spaccio che sia stata chiusa davvero. Quando la criminalità è così diffusa e al Sud coinvolge così ampie fasce di popolazione, come si fa a liquidarla come un fenomeno esclusivamente criminale, a non riconoscere che si tratta di una questione sociale, politica, che in termini politici va affrontata, oltre che con misure repressive? E invece i sequestri “di prevenzione” si estendono dalle indagini di mafia a quelle per corruzione. Avevo riserve anche sui sequestri ai mafiosi, considerato che il Codice li consente anche in presenza di elementi indiziari modesti. È vero che la Cassazione parla di valutazioni più approfondite, di previsione di condanne, ma resta un’enorme sproporzione tra la gravità dei possibili effetti che queste misure possono avere e il livello modesto del quadro indiziario richiesto per applicarle. A maggior ragione non mi convince l’allargamento a un’altra tipologia di reati, come quelli contro la pubblica amministrazione. Quali sono i “gravi effetti”? Sequestrare un’azienda è peggio che sbattere una persona in carcere per cinque anni. Finire in cella da innocenti è terribile ma non irrimediabile. Se ti portano via l’azienda, e chi la prende in carico non è capace di tenerla in vita, quando ti assolvono ti trovi un cumulo di macerie al posto di quello che avevi realizzato in una vita. Molto peggio. Tutto questo, appunto, come se si avesse una benda sugli occhi e non ci si rendesse conto delle conseguenze di determinate scelte. Persino magistrati come lei e Cantone restano inascoltati: perché? Credo ci sia una forte influenza dell’antimafia militante, o dell’anticriminalità militante com’è più corretto definirla: un sistema, per non dire una lobby, che coinvolge esponenti delle Procure come della società civile. La loro impostazione trova pieno accoglimento e sostegno da parte della stampa e del legislatore: sono forti. Ma il vero nodo non è neppure questo. E qual è? Il punto è che in tutti in questi anni non c’è mai stato un momento di riflessione sulla validità di determinate politiche di contrasto del crimine organizzato. Adesso non c’è neppure più l’alibi dell’inadeguatezza degli strumenti. Abbiamo alle spalle 25 anni di attenzione straordinaria, apparati giudiziari e di polizia operativi giorno per giorno. Se nonostante tutto questo la violenza, la droga e le piazze di spaccio restano, non è che c’è qualcosa di sbagliato? A quali alternative pensa? Depenalizzare la droga, per esempio, piuttosto che reprimerne l’uso. Sarebbe una soluzione migliore, meno costosa e meno tragica per l’esistenza di centinaia di migliaia di persone. Si riferisce ai consumatori? No: a quelli che la droga la vendono. Il mio sogno è che la vitalità imprenditoriale dimostrata dai clan di Scampia nell’inventare la cocaina low cost possa esprimersi in un’attività lecita. Ma mi rendo conto che è complicato e perciò sono favorevole alla legalizzazione delle droghe leggere, anzi mi augurerei che la si estendesse a tutte le droghe, sotto il controllo dello Stato. La Dna lo propone, inascoltata, da anni. Il punto di partenza è decidere, a proposito dei criminali, se parliamo di nemici da annientare o di problema da risolvere. Nel primo caso, buttiamo la chiave. Altrimenti proviamo a offrire qualche alternativa di lavoro: perché oggi, a Scampia, non è che un ragazzo abbia molte alternative allo spaccio. Sarà brutto per qualcuno, ma è così. La Tangentopoli infinita che avvelena il Paese di Gianluca Di Feo La Repubblica, 9 novembre 2017 Da Nord a Sud, le indagini su scandali e mazzette fanno emergere ogni giorno nuovi scandali. Alimentando la disillusione dei cittadini. E i movimenti populisti. La corruzione c’è sempre stata, ma l’inizio di questa lunga campagna elettorale rischia di renderla dirompente: benzina sul fuoco dei populismi d’ogni colore. Certo, c’è già chi parla di “giustizia ad orologeria”, chi si difende evocando “complotti dei poteri forti”: un copione logoro, che viene ripetuto da un quarto di secolo. La realtà è brutalmente semplice: la corruzione è presente in tutti gli aspetti della nostra vita. Quello che manca è la volontà di combatterla. La cronaca di questa pagina ci offre casi che vanno dal profondo Nord alle capitali del Sud. Le indagini hanno messo in luce gli illeciti nella gestione dei fondi regionali della Val d’Aosta e negli appalti ospedalieri napoletani: due settori chiave, sanità e regioni, perché sono quelli che inghiottono la maggioranza del denaro pubblico. Siamo davanti a due esempi di “corruzione decentrata”, definizione di Piercamillo Davigo, che ha sostituito l’arcaico sistema nazionale di Tangentopoli: si ruba nella periferia del potere, dove è più facile siglare accordi sottobanco e dove sono concentrate le risorse. Un malaffare federale, che paradossalmente appare come un male minore. Un esempio? Ieri è stato indagato Augusto Rolandin: venne condannato con sentenza definitiva già nel 1994 ma i suoi elettori l’hanno comunque votato, portandolo più volte alla presidenza della Val d’Aosta e persino al Senato. Un lungo regno, durato fino allo scorso marzo, che gli è valso il soprannome di Empereur. Ieri c’è stata anche un terza retata, condotta in Puglia. Sono finiti agli arresti quattro giudici tributari che chiudevano i processi contro gli evasori fiscali in cambio di mazzette: mille euro a pratica, un prezzo molto più conveniente che non pagare le tasse. Un altro tema, quella della corruzione nei tribunali fiscali dalla Lombardia alla Sicilia, che il Parlamento ha promesso più volte di volere affrontare senza mai concludere nulla. Anche la macchina della giustizia ormai appare inconcludente, con una sequela di indagini clamorose che si dissolvono nella prescrizione per la sentenza dei dibattimenti o si chiudono con sentenze prive di effetti concreti. Mentre i partiti - o quello che ne resta - hanno rinunciato ad esercitare qualunque giudizio etico sui loro iscritti, rinviando ogni valutazione all’attesa dei verdetti penali. Tutto questo alimenta un clima di disillusa rassegnazione. E amplifica le invettive indignate dei movimenti populisti, pronti a cavalcare le inchieste contro gli avversari, salvo poi minimizzare gli intrallazzi dei loro esponenti. Nella campagna elettorale appena cominciata, però, non c’è traccia di proposte per affrontare la corruzione. Mentre la questione morale resta centrale per ricostruire la fiducia dei cittadini nelle istituzioni. Tutti sanno cosa pensa in materia il pregiudicato Silvio Berlusconi, ma a sinistra c’è ancora qualcuno che ricorda la lezione di Enrico Berlinguer? Stalking, pronto il correttivo: per cancellare reato non basterà un risarcimento di Caterina Pasolini La Repubblica, 9 novembre 2017 Accordo trasversale sull’emendamento Carfagna per eliminarlo dalla lista dei reati estinguibili con una condotta riparatoria, ossia offrendo una somma di denaro. L’impegno alla Camera: “Approvazione entro novembre”. Non si potrà più cancellare il reato di stalking pagando alla vittima poche centinaia di euro, come se giorni e notti di paura non fossero mai esistiti. “Approveremo l’emendamento entro novembre”, assicura Donatella Ferranti, deputata dem, presidente della Commissione giustizia della Camera che si riunirà nel pomeriggio per concludere la discussione. Da Fi al Pd e al M5S, la maggioranza è compatta e favorevole a porre rapidamente rimedio a quello che viene considerato ‘un errorè della riforma penale approvata in estate. Riforma che, per l’appunto, includeva lo stalking tra i reati estinguibili con risarcimento. In molti confidano che venga votato subito l’emendamento presentato a luglio da Mara Carfagna all’articolo 162 della legge. Che torna a escludere lo stalking dai reati cancellabili attraverso un risarcimento. Perché non si ripetano sentenze come quella emanata a ottobre a Torino, dove una donna si è vista offrire 1.500 euro come compensazione. Ha rifiutato i soldi, ma il tribunale, applicando la legge, ha deciso che il risarcimento poteva bastare perché c’era stata una condotta riparatoria. E il reato di stalking è quindi scomparso. Una sentenza che ha rinfocolato le proteste, mobilitando tutto l’arco costituzionale (anche in Senato c’è una proposta di riforma presentata dal Pd). Dopo l’ok alla riforma, erano state tre sindacaliste a sollevare per prime la questione: Loredana Taddei, responsabile Politiche di genere della Cgil, Liliana Ocmin, del Coordinamento nazionale donne della Cisl e Alessandra Menelao, responsabile Centri di ascolto della Uil. Il reato di stalking è stato introdotto dalla legge 38 del 2009. L’articolo. 612-bis del codice penale prevede tra l’altro che sia “punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura”. Da allora molte cose sono cambiate, e le denunce per stalking sono aumentate. Sono state 7.764 nel 2016, già 6.042 nei primi sette mesi del 2017 (dati Viminale). Una trend che rischia di bloccarsi, dicono in molti: chi denuncerà più col rischio di veder cancellato il reato in cambio di un semplice pagamento? “Bisogna approvare l’emendamento in tempi rapidi, per porre rimedio ad uno scempio che depotenzia uno dei pochi strumenti che le donne vittime di violenza hanno per difendersi”, dice Carfagna, promotrice della legge e ora dell’emendamento. Tabulati da conservare per sei anni di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 9 novembre 2017 La data retention passa a 6 anni. La legge europea 2017 fissa in 72 mesi il termine di conservazione dei dati di traffico telefonico e telematico e dei dati relativi alle chiamate senza risposta, con l’obiettivo di garantire strumenti di indagine efficaci contro il terrorismo, anche internazionale. Più nel dettaglio la disposizione interviene in attuazione dell’articolo 2033 della direttiva 2017/541/UE per le finalità di accertamento e repressione dei delitti consumati o tentati con finalità di terrorismo (articolo 51, comma 3-quater del Codice di procedura penale) e dei gravi reati previsti dall’articolo 407, comma 2, lettera a) del Codice. Il precedente termine per la conservazione dei dati era scaduto al 30 giugno 2017. Si tratta di una disciplina in deroga a quella generale fissata dall’articolo 132 del decreto legislativo n. 196 del 2003 (Codice della privacy), che fissa la data retention in 2 anni per il traffico telefonico, in 1 anno per quello telematico e in 30 giorni per le chiamate senza risposta. Critico il Garante della privacy Antonello Soro sulla compatibilità di una finestra così ampia con le misure a protezione della riservatezza. “È evidente - spiega Soro - che il contrasto al terrorismo rappresenti un obiettivo di interesse generale e quindi non è in discussione la raccolta e la conservazione di dati, quanto i tempi di conservazione e le modalità di accesso agli stessi. Le norme e la giurisprudenza europea precludono una raccolta generale e indiscriminata dei dati di traffico telefonico e telematico, perché non è proporzionata alle esigenze investigative e al nucleo essenziale del diritto alla protezione dati e non può quindi essere giustificata in una società democratica”. Il riferimento è, tra l’altro, alla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 21 dicembre 2016 sull’interpretazione da dare all’articolo 15 della direttiva 2002/58/Ce che consente agli Stati membri di derogare al principio di riservatezza per adottare misure necessarie, opportune e proporzionate, in una società democratica, per la salvaguardia di alcuni rilevanti interessi, fra cui la sicurezza dello Stato. La sentenza ribadisce che una raccolta indiscriminata di dati non è compatibile con la normativa comunitaria, in particolare con i diritti fondamentali di riservatezza e data protection tutelati dagli articoli 7 e 8 della Carta del diritti fondamentali Ue. Inoltre la legge amplia i poteri dell’Agcom nel contrasto della pirateria sulla rete. In particolare l’Autorità potrà intervenire sulle piattaforme elettroniche per ordinare in via cautelare di porre fine immediatamente alle violazioni del diritto d’autore e di porre misure per impedire la reiterazione degli illeciti. In base alla nuova disciplina in Italia le piattaforme dovranno rimuovere i contenuti illeciti e impedirne la riproposizione. La legge introduce, ancora, la riforma delle agevolazioni sui costi elettrici per le industrie energivore. Il nuovo meccanismo, sul quale la Commissione Ue si è già espressa favorevolmente, entrerà in vigore dal 2018 in seguito all’introduzione dei criteri basati su valore aggiunto e internazionalizzazione che fisserà il ministero dello Sviluppo economico entro 30 giorni dall’entrata in vigore della norma. Le risorse derivanti dal riordino complessivo del sistema delle agevolazioni sugli energivori e degli oneri da rinnovabili, per gli anni 2018-2020 sono destinate, per un minimo del 50% alla riduzione diretta delle tariffe a carico delle famiglie e delle imprese non energivore. Antimafia, Cafiero de Raho nuovo procuratore nazionale La Repubblica, 9 novembre 2017 Come pm, ha legato il suo nome alle inchieste del processo “Spartacus” in Campania e dell’operazione “Matauros” in Calabria. Federico Cafiero de Raho è il nuovo procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. La decisione è stata presa oggi, all’unanimità, dal plenum Consiglio superiore della magistratura. De Raho, attuale procuratore di Reggio Calabria, succede a Franco Roberti il cui incarico terminerà il 16 novembre. La scelta di de Raho, unico nome proposto al plenum per questo direttivo, arriva dopo che ieri il pg di Palermo Roberto Scarpinato aveva ritirato la propria candidatura. Napoletano, 65 anni, de Raho è stato a lungo pm a Napoli e ha legato il suo nome al processo ‘Spartacus’ che, scaturito dalle dichiarazioni del primo pentito dei casalesi Carmine Schiavone, portò all’azzeramento della cupola del clan. Tanti i ringraziamenti al procuratore uscente Roberti, come gli auguri inviati a Raho, compresi quelli della presidente della Commissione parlamentare Antimafia Rosy Bindi, del segretario del Pd Matteo Renzi e del governatore della Campania Vincenzo De Luca. A congratularsi anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando con una chiamata personale: “La sua nomina è un’ottima notizia”. Un “magistrato di assoluta competenza e straordinaria esperienza”, lo ha definito il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, davanti al plenum del Csm subito dopo la votazione, che, ha sottolineato Legnini, ha “dimostrato straordinarie doti investigative insieme con una non comune capacità organizzativa dimostrata sul campo prima nel contrasto alle organizzazioni camorristiche campane quale procuratore aggiunto di Napoli e, poi, negli ultimi anni, quale procuratore della Repubblica di Reggio Calabria”. “Con questa nomina - ha aggiunto Legnini - il Consiglio superiore dimostra di saper individuare il magistrato più adatto e meritevole, in tempi congrui e con capacità di svolgere un’istruttoria accurata ed efficace. L’unità di visione con cui si giunge a questa nomina è un segnale positivo e incoraggiante di cui non posso non compiacermi e per i il quale ribadisco la mia profonda soddisfazione”. E poi su Twitter: “Buon lavoro al neo procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho e un sentito ringraziamento al procuratore Roberti per alto servizio al Paese”. Nato nel 1952 a Napoli, Federico Cafiero de Raho è in magistratura dal 1978: nel corso della sua carriera ha svolto sempre funzioni requirenti, prima come pm a Milano (dal 1979 al 1984), poi a Napoli, dove nel 2006 è stato promosso procuratore aggiunto, per poi passare, nell’aprile 2013, a capo della Procura di Reggio Calabria, incarico ricoperto fino a oggi. È inammissibile l’opposizione via pec al decreto penale di Enrico Bronzo Il Sole 24 Ore, 9 novembre 2017 Corte di cassazione - Sentenza 50932/2017. “In assenza di una norma specifica che consenta nel sistema processuale penale alle parti il deposito di atti in via telematica, deve ritenersi inammissibile la presentazione dell’opposizione al decreto penale di condanna da parte del destinatario a mezzo di posta elettronica certificata” (Pec). Questo il principio affermato dalla Corte di cassazione, terza sezione penale, con la sentenza 50932 depositata ieri. La sentenza, nel respingere il ricorso, ha confermato un’ordinanza del tribunale di Macerata che nel gennaio 2014 dichiarò inammissibile l’opposizione a un decreto penale svolta dall’imputato e pervenuta via Pec alla cancelleria l’ultimo giorno utile. Il dispositivo ricorda che nonostante l’articolo 461 del Codice di procedura penale preveda la presentazione mediante dichiarazione ricevuta dalla cancelleria, per univoca giurisprudenza sono ammesse le forme previste dagli articoli 582 e 583 del Codice di procedure penale tra cui la presentazione per mezzo di incaricato e quindi anche tramite il servizio postale. Così come il?Dpr 68/2015 equipara il valore legale della Pec alla raccomandata con ricevuta di ritorno. Però nel processo penale manca una norma che consenta l’inoltro in via telematica degli atti di parte, a differenza di quello civile. Allo stato attuale del processo penale telematico, infatti, le parti private e i propri difensori possono assumere soltanto la posizione di soggetti destinatari delle comunicazioni, mai quello di soggetti agenti. Il decreto legge 179/2012, poi convertito nella legge 212/2012, con l’articolo 16 ha infatti introdotto l’obbligatorietà delle comunicazioni e delle notificazioni in via telematica a carico solo della cancelleria nei confronti di tutti i soggetti obbligati dalla legge ad avere la posta elettronica:?nel civile per tutti gli atti, nel penale per tutti i destinatari tranne che per l’imputato, per il quale restano ferme le forme tradizionali. Diversa infine è la situazione del deposito di atti di parte: nel civile il procedimento è sostanzialmente concluso nel penale non è stato neppure avviato. Diagnosi ritardata, specialista responsabile anche se la malattia è incurabile di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 9 novembre 2017 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 8 novembre 2017 n. 50975. L’essere affetti da una malattia incurabile non è sufficiente a scriminare la condotta del medico che ritardi di molti mesi la corretta diagnosi. Anche il prolungamento della vita, di settimane o anni, è infatti un elemento che va preso in considerazione ai fini della valutazione della responsabilità penale (e civile) del medico. Lo ha stabilito la IV Sezione penale della Corte di cassazione, sentenza 50975 dell’8 novembre 2017, annullando con rinvio ai soli effetti civili, vista la prescrizione del reato, la sentenza di assoluzione “inspiegabilmente” emessa dalla Corte di appello di Bari. Lo specialista era finito sotto processo per omicidio colposo per aver scambiato un tumore al pancreas per un’ernia iatale, arrivando alla corretta diagnosi soltanto quando la malattia era ormai in fase troppo avanzata per qualsiasi intervento. Secondo il giudice di merito invece la questione “se una diversa diagnostica, più tempestiva, avrebbe potuto ritardare o meno l’esito infausto resta al di fuori della tipicità penale, non essendo contemplato in alcuna fattispecie l’evento che ne sarebbe l’effetto (il ritardo del decesso per cause naturali), non costituendo di certo omicidio colposo, né integrando il reato di lesioni colpose”. Inoltre, è certo che “la patologia pancreatica era ad esito infausto inevitabile, allo stato delle conoscenze attuali, e che il sanitario non ha compiuto alcuna azione che ha provocato la morte della paziente”, per cui “è evidente che l’accusa di aver commesso un omicidio “per colpa” è del tutto infondata”. “La causa della morte è stata infatti la patologia, e l’azione del medico non poteva evitarla e non l’avrebbe evitata”. Al contrario per la Suprema corte, dato per scontato che in tutti i casi di morte conseguente ad errore diagnostico “la causa della morte è sempre la patologia”, va valutato “se vi sia stata una colpevole omissione nel disporre gli opportuni accertamenti diagnostici”. Del resto, nel campo oncologico, “assurge a fatto notorio che la diagnosi precoce è fattore di assoluto rilievo”. In taluni casi per approntare delle terapie salvifiche. In altri - come in quello del tumore al pancreas - “per apprestare un intervento chirurgico e delle terapie molto probabilmente non salvifiche, ma idonee quanto meno ad allungare significativamente la vita residua del paziente”. Non può dunque escludersi la responsabilità del medico il quale “colposamente non si attivi e contribuisca con il proprio errore diagnostico a che il paziente venga conoscenza di una malattia tumorale, anche a fronte di una prospettazione della morte ritenuta inevitabile, laddove, nel giudizio controfattuale, vi è l’alta probabilità logica che il ricorso ad altri rimedi terapeutici, o all’intervento chirurgico, avrebbe determinato un allungamento della vita, che è un bene giuridicamente rilevante anche se temporalmente non molto esteso”. Ed il consulente di parte civile, in tutti i gradi di giudizio, ha evidenziato come “una diagnosi corretta e la prescrizione da subito, sin dalla prima visita, di un accertamento attraverso ago aspirato che avesse subito consentito di individuare la formazione neoplastica al pancreas, avrebbe consentito un intervento chirurgico che non avrebbe scongiurato l’esito infausto, ma avrebbe consentito alla persona offesa un significativo prolungamento della vita”. Ciò anche in ragione del fatto che dalla radiografia al torace dell’aprile 2008 non si evidenziavano metastasi polmonari (situazione ben diversa da quella riscontrata nell’agosto 2008, allorché, per le dimensioni del tumore e per la presenza delle metastasi polmonari, ogni tipo di intervento sarebbe stato inutile). L’evasore dribbla la confisca di Debora Alberici Italia Oggi, 9 novembre 2017 La confisca di prevenzione non può essere applicata sui beni dell’evasore fi scale. Il tipo di reato non configura infatti quella pericolosità sociale richiesta per l’applicabilità della misura che, a questo punto, può scattare solo ove l’indagato viva abitualmente di proventi illeciti. Dopo questa sentenza, la n. 51059 depositata l’8 novembre 2017 dalla Corte di cassazione, i requisiti per l’adozione della misura finiscono per muoversi su un terreno magmatico e privo di certezze. È infatti di due giorni fa (sentenza 50437) la notizia secondo cui la confisca di prevenzione dev’essere applicata anche sui beni dell’imprenditore pure se l’acquisto degli immobili deriva solo da una prolungata elusione fi scale. Il caso. La vicenda prende le mosse a Roma: tre cittadini cinesi erano stati messi sotto processo per evasione fiscale. Era dunque scattata la confisca su alcuni loro immobili. Inutile il ricorso dei tre in Corte d’appello. Quindi la difesa ha giocato la carta del gravame in Cassazione e con successo. I Supremi giudici, ribaltando il verdetto impugnato, hanno sancito espressamente che “in tema di misure di prevenzione patrimoniale, il mero status di evasore fiscale non è sufficiente ai fini del giudizio di pericolosità generica che legittima l’applicazione della confisca, considerato che i requisiti di stretta interpretazione necessari per l’assoggettabilità a tale misura sono indicati dagli artt. 1 e 4 del dlgs n. 159 del 2011 e concernono i soggetti abitualmente dediti a traffici delittuosi e che vivano abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose, requisiti non automaticamente e necessariamente sovrapponibili all’evasore fi scale, in sé e per sé considerato, sicché, se i delitti tributari possono consentire l’applicazione delle misure di prevenzione, il decreto di confisca dei beni del proposto deve precisare, tra l’altro, il superamento delle soglie di punibilità nel corso del tempo”. I motivi. In poche parole non è escluso che la confisca di prevenzione possa scattare in caso di illeciti tributari ma, in questo caso, l’accusa deve dimostrare che l’indagato vive solo di questo e che la condotta è abituale. Deve poi provare il superamento delle soglie di punibilità. Lazio: la proposta di Cangemi (Fi) “una nuova Asl dedicata ai detenuti” di Daniele Di Mario Il Tempo, 9 novembre 2017 Una Asl dedicata agli istituti penitenziari del Lazio. È la proposta lanciata dal consigliere regionale di Forza Italia Giuseppe Cangemi nel corso della tavola rotonda “Sanità oltre il cancello”, organizzata martedì all’interno del nuovo complesso del carcere di Rebibbia promosso dallo stesso Cangemi insieme con le associazioni Gruppo Idee e Dietro il Cancello, con il patrocinio del Consiglio regionale del Lazio. I lavori sono stati conclusi dal sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri, che ha illustrato i piani di via Arenula per la gestione della sanità all’interno delle carceri. “La sanità nelle carceri è un tema importante - spiega Cangemi - per questo vogliamo approfondire le problematiche esistenti attraverso le testimonianze di chi ogni giorno lavora negli istituti penitenziari, valutare le azioni concrete che le Asl possono mettere in campo per migliorare il sistema e definire l’impegno che le istituzioni sono chiamate a garantire, a partire da Regione Lazio e Governo”. L’idea di Cangemi di istituire una Asl dedicata ai penitenziari laziali nasce dall’esigenza di intervenire più tempestivamente nel raccordo tra istituzioni regionali e ministero della Giustizia, in modo da rendere più fluidi i rapporti tra Asl e Dap. Il principio ispiratore della proposta del consigliere regionale di FI è garantire parità di trattamento tra i cittadini liberi e quelli detenuti, risolvendo al contempo diversi problemi legati alla tutela della salute delle persone private della libertà e andando progressivamente a decongestionare l’ospedale Pertini e il reparto protetto. Ad esempio, la presenza delle scorte e della polizia penitenziaria all’interno dei pronto soccorso, che spesso crea allarme tra i pazienti comuni. Dai lavori del convegno è emersa la necessità di coniugare le esigenze di sicurezza e di espiazione della pena con la tutela del diritto alla salute del detenuto che, seppur compresso in fatto di scelta del medico e della struttura sanitaria, deve poter avere gli stessi livelli di assistenza dei cittadini liberi. Fondamentale, anche al fine di non intasare i pronto soccorso, accorciare le liste d’attesa e risolvere i problemi legati a scorte, traduzioni e piantonamenti, sarà la riattivazione del Centro clinico di Regina Coeli, un vero e proprio ospedale da 80 letti con tanto di sale operatorie che ministero della Giustizia, Regione Lazio e Asl stanno riattivando. Provvedimenti che hanno l’intenzione di andare incontro al lavoro degli agenti di polizia penitenziaria, agevolandone i compiti, e ai diritti dei detenuti, ampliando le garanzie di tutela del diritto alla salute senza creare disagi ai cittadini comuni. Rems del Lazio: passo avanti per evitare reclusioni illegittime di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 novembre 2017 Firmato un protocollo d’intesa con il Ministero della giustizia e Corte d’appello. Sottoscritto il protocollo d’intesa tra il ministero della Giustizia, la Presidenza della Corte di Appello di Roma, la Procura Generale di Roma e la Regione Lazio, in materia di Rems (Residenza Esecuzione Misure di Sicurezza). Il Protocollo contiene misure organizzative e impegni programmatici finalizzati a rendere effettive le previsioni di legge che hanno disposto la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Si tratta di rendere effettiva l’esecuzione delle misure di sicurezza - applicate in via definitiva o provvisoria - nei confronti di soggetti che, affetti da vizio parziale o totale di mente, vengono condannati a scontare le stesse all’interno delle Rems del Lazio. Nella regione sono cinque le Rems attive, di cui due si trovano a Palombara, le altre tre a Subiaco, Pontecorvo (struttura che ospita solo donne) e Ceccano. A firmare il protocollo il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, il presidente della Corte d’appello di Roma Luciano Panzani e Giovanni Salvi, procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello. L’accordo prevede prima di tutto la definizione delle modalità operative di collaborazione tra magistrato/ perito-consulente/ Asl/ Dsm (Dipartimento salute mentale) e Uepe, gli uffici per l’esecuzione penale esterna. Il protocollo stabilisce, inoltre, una tempestiva ed efficace comunicazione tra direttore della Rems, referente Asl/ Dsm e magistratura e la regolamentazione delle modalità con le quali inviare gli internati presso luoghi di cura esterni. Un punto fondamentale è l’accordo con la prefettura, che ha la competenza nell’area dov’è situata la Rems, per avere standard comuni di sicurezza interna e perimetrale delle residenze. Per attuare tutto questo sarà necessaria la condivisione dei dati relativi al movimento e alle liste dei ricoverati e quella dei dati sulla posizione giuridica e cartella sanitaria delle persone internate. La Regione Lazio, inoltre, assicura nelle strutture presenti sul territorio regionale, livelli di assistenza terapeutica, ambulatoriale, semi-residenziale, residenziale, ospedaliera diversificati e proporzionati ai diversi livelli di sicurezza al fine di garantire, con il solo intervento sanitario, adeguato ricovero anche ai soggetti di difficile gestione. L’emanazione e l’esecuzione dei provvedimenti di presa in carico, che devono essere eseguiti nel territorio della Regione Lazio, saranno precedute e accompagnate da progetti terapeutici individuali. I dipartimenti di salute mentale dell’Asl, con il perito/ consulente e con il magistrato, concorreranno all’individuazione del trattamento terapeutico più appropriato. In prossimità della scadenza della misura di sicurezza, il magistrato di sorveglianza potrà autorizzare un periodo di licenza finale di esperimento della durata di sei mesi - eventualmente rinnovabile - durante il quale il paziente, sottoposto al regime della libertà vigilata, potrà essere inserito in una struttura terapeutica residenziale o presso la famiglia al fine di proseguire la fase di riabilitazione e reinserimento nel territorio con opportuno Progetto terapeutico individualizzato. L’accordo prevede, infine, anche che periodicamente venga convocato il Tavolo Sanità- Magistratura istituito presso la Direzione Salute e Politiche Sociali della Regione Lazio, per monitorare l’applicazione del protocollo d’intesa. “È un passo importante per ridurre l’abuso di misure di sicurezza e facilitare le funzioni sanitarie delle Rems”, dichiara il garante regionale dei detenuti Stefano Anastasia. “Le Rems - sottolinea il garante - sono ormai una importante realtà del nostro sistema di esecuzione penale. Nella Regione Lazio ne sono attive cinque che in due anni hanno ospitato 170 persone che altrimenti sarebbero state destinate a perdersi nell’inferno degli ospedali psichiatrici giudiziari”. Sempre Anastasia spiega però che, purtroppo, l’intero circuito delle Rems è in sofferenza per un uso eccessivo che si fa dell’internamento, in modo particolare in via cautelare, prima ancora che sia acclarata la incapacità d’intendere e di volere dei presunti autori di reato. Proprio su queste stesse pagine de Il Dubbio, Stefano Anastasia aveva infatti denunciato la presenza illegittima di reclusi in carcere, in attesa di essere ricoverati nelle Rems. Casi che poi sono sfociati in tragedia. Come la storia di Valerio Guerrieri, un ragazzo di 22 anni che si era ammazzato durante la permanenza al carcere di Regina Coeli. Da dieci giorni aveva un provvedimento di misura di sicurezza e non doveva stare in carcere. Taranto: muore dopo 5 mesi di agonia a seguito di uno sciopero della fame in carcere lavocedimanduria.it, 9 novembre 2017 È morto in sordina lo scorso 17 ottobre, dopo cinque mesi di agonia, l’ex boss della malavita locale, Salvatore Urbano, detto “Bionda”. Era ricoverato in un Centro per malati terminali di Martina Franca dopo essere stato per quattro mesi e mezzo prima nella rianimazione di Taranto e poi in quella di Manduria dove era stato giudicato inguaribile. Urbano che non era sposato aveva 64 anni ed era finito in coma per le complicanze di un lungo periodo di sciopero della fame e delle cure mentre era rinchiuso nel carcere di Taranto. A fine luglio scorso, su istanza del suo avvocato difensore, Alessandro Cavallo, il tribunale di Taranto lo aveva “scarcerato” a causa delle sue gravi condizioni di salute. Una libertà finita già quel 4 maggio quando le condizioni di salute dell’allora detenuto Urbano lo condussero in uno stato di coma da cui non si è più ripreso. Stava scontando un residuo di pena per reati minori. Augusta (Sr): morto detenuto semilibero travolto da un’auto mentre rientrava in carcere siracusa2000.com, 9 novembre 2017 È morto dopo 20 giorni di agonia al Policlinico di Messina, dove era stato trasferito a causa della gravità delle ferite riportate, il 61enne di Catania, detenuto in semilibertà, investito da un’auto sulla S.P. 1 Augusta-Brucoli. La Procura della Repubblica di Siracusa ha disposto il sequestro della salma per l’effettuazione dell’autopsia. I carabinieri del Nucleo Radiomobile di Augusta, che si erano occupati dei rilievi dell’incidente, in base alla nuova legge n.41 del 23 marzo 2016, sul reato di omicidio stradale, hanno adesso segnalato alla competente Autorità Giudiziaria il conducente dell’autovettura, un 70enne che, comunque, si era fermato per prestare i primi soccorsi. Ed i Carabinieri sono intervenuti, ieri mattina, sulla S.S. 385, a Lentini, per un incidente autonomo, in cui è rimasta coinvolta una 32enne di Scordia che, per cause in via di accertamento, è andata a sbattere contro il meccanismo automatico di un passaggio a livello. La donna, ferita in maniera lieve, è stata trasportata all’ospedale di Lentini per le cure del caso. Bolzano: nuovo carcere, pronto il contratto. Kompatscher: avanti con i lavori di Marco Angelucci Corriere dell’Alto Adige, 9 novembre 2017 Condotte Spa dovrà realizzare il progetto definitivo. Il cantiere aprirà in estate. “Abbiamo trovato l’accordo sui soldi”. Il presidente della Provincia Arno Kompatscher ha annunciato ieri in Consiglio l’imminente firma del contratto con la cordata che costruirà il nuovo carcere a Bolzano sud, proprio accanto all’aeroporto. Una notizia che fa bene sperare i rappresentanti delle guardie carcerarie che tornano a denunciare l’inadeguatezza della struttura di via Dante. “La settimana prossima sigleremo l’accordo con l’impresa costruttrice” spiega Kompatscher chiarendo che il contratto è già stato predisposto dall’Agenzia per gli appalti. “Sarà un appalto integrato. Ora l’azienda avrà tre mesi di tempo per realizzare il progetto esecutivo, poi partiranno i lavori. Roma ha sbloccato i fondi e l’operazione può procedere” aggiunge ancora Kompatscher. Il nuovo carcere di Bolzano è un progetto altamente sperimentale. Infatti verrà costruito con in project financing. Per l’Italia si tratta del primo progetto di questo genere. I costi, stimati in 31,8 milioni, saranno a carico della cordata che realizzerà la struttura che riceverà un rimborso parziale dallo Stato alla fine dei lavori. Il resto verrà liquidato anno per anno insieme ai rimborsi per la gestione dei servizi interni al carcere come la pulizia, la manutenzione degli impianti, l’attività formativa e ricreativa e anche i progetti di reinserimento sociale dei detenuti. La sorveglianza sarà sempre garantita dalla Polizia penitenziaria. La cordata che ha vinto la gara è capeggiata dal colosso Condotte d’acqua spa insieme a Inso e allo studio trentino Sws. Nell’Ati ci sono anche diverse imprese locali: lo studio bolzanino Pasquali-Rausa, Policrea srl, Sint Ingegneria srl, Bwb Ingenierbüro srl e Jesacher Geologiebüro. Il nuovo penitenziario, che sorgerà proprio accanto all’aeroporto, dovrebbe essere in grado di ospitare fino a duecento detenuti che avranno a disposizione anche delle aree ricreative. Spazi che oggi nella struttura di via Dante mancano. Oggi i detenuti passano la maggior parte del tempo nelle celle anche perché il personale è poco e non sempre è possibile garantire la sicurezza negli spazi aperti o nei laboratori. “Il carcere è fatiscente e gli spazi inadeguati. In queste condizione è difficile portare avanti progetto di reinserimento sociale” spiegano i sindacalisti della polizia penitenziaria che sperano di poter presto lasciare via Dante. Sala Consilina (Sa): Casa circondariale chiusa, Comune sul piede di guerra di Pasquale Sorrentino Il Mattino, 9 novembre 2017 Il carcere di Sala ha davvero poche, pochissime, possibilità di restare in vita. Questo anche e soprattutto dopo la sentenza del Consiglio di Stato che ha accolto - seppur parzialmente - l’appello presentato dal Ministero della Giustizia in merito alla decisione del Tar che aveva bloccato la chiusura della casa circondariale. Per capire come si era arrivati a questo punto occorre fare un passo indietro nel tempo. La chiusura del carcere da parte del Ministero era giunta dopo quella del Tribunale (annesso a quello di Lagonegro), una decisione conseguente, che però aveva mandato su tutte le furie l’amministrazione comunale. Il Comune di Sala Consilina aveva contestato sia le modalità che il contenuto della decisione. Per questo motivo l’ente guidato dal sindaco Francesco Cavallone aveva presentato ricorso al Tribunale amministrativo. E il Tar aveva bocciato la chiusura del carcere. Il Tribunale amministrativo di Salerno lo scorso anno aveva aggiunto nelle motivazioni che la chiusura del carcere aveva danneggiato non solo l’economia della città valdianese, ma anche i familiari dei detenuti e gli avvocati e in più il Ministero non aveva comunicato la decisione agli enti locali. Di fronte a questa decisione il Ministero ha presentato ricorso, che il Consiglio di Stato ha accolto in modo parziale. Ovvero solo con riguardo alla violazione del “principio di territorialità dell’esecuzione penale”, affermando che esso non ha rilievo assoluto. Il Consiglio di Stato ha confermato la seconda motivazione dell’annullamento ovvero che il Ministero non ha coinvolto i ricorrenti nel procedimento concluso con la chiusura dell’Istituto penitenziario. “Dunque ‘ afferma il primo cittadino - il provvedimento di soppressione del carcere di Sala è stato annullato per la mancata partecipazione del Comune, della collettività locale, del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lagonegro, della classe forense locale e, mediatamente, degli stessi utenti del sistema - giustizia”. “Il Ministero - conclude il primo cittadino - per disporre la chiusura del carcere dovrà rinnovare il procedimento, in tale contesto il Comune e il Consiglio dell’Ordine degli avvocati potranno far valere le proprie ragioni”. Trento: carcere di Spini, vertice Rossi-Orlando, forse arriverà nuovo personale Corriere del Trentino, 9 novembre 2017 Presto ci saranno nuove assegnazioni di personale della polizia penitenziaria che riguarderanno soprattutto le strutture carcerarie del nord Italia. È questo l’elemento politico più interessante emerso dall’incontro di ieri tra il presidente della Provincia, Ugo Rossi, e il ministro della giustizia, Andrea Orlando. Un incontro sollecitato dal governatore trentino sulla scorta delle numerose proteste che hanno attraversato il carcere di Spini di Gardolo. Nel vertice Rossi ha fatto anche presente il sovraffollamento della struttura, nata per diventare una prigione modello e presto accomunata alle carenze delle altre case circondariali in Italia. Il ministro Orlando, nel prendere atto delle osservazioni, ha assicurato l’impegno e l’attenzione del ministero sulle questioni sollevate, confermando che sono in previsione nuove assegnazioni di personale che interesseranno le strutture carcerarie, in particolare quelle del Nord Italia. È stata inoltre l’occasione per programmare la visita al carcere di Spini di Gardolo del direttore dell’amministrazione penitenziaria Santi Consolo, il quale, nei prossimi mesi, verrà in Trentino. Milano: topi nelle aule dell’Ipm Beccaria, evacuati i giovani detenuti di Franco Vanni La Repubblica, 9 novembre 2017 Emergenza sanitaria nel penitenziario minorile, il cappellano: “teniamo duro qualche giorno”. I lavori di manutenzione sono stati sospesi in vista della ristrutturazione del carcere e dello spostamento dei ragazzi nella nuova struttura. Alcune aule del carcere minorile Beccaria di Milano, utilizzate per la didattica, sono state evacuate per la presenza di topi. Un’infestazione denunciata da giorni dai sindacati di polizia penitenziaria e dalla Camera penale milanese, associazione che riunisce gli avvocati penalisti. La situazione dell’igiene al Beccaria è particolarmente drammatica, anche perché da qualche tempo gli interventi di manutenzione sono stati posticipati. Presto, infatti, sarà disponibile una nuova ala del penitenziario, e quella vecchia oggi in uso subirà profondi interventi di ristrutturazione. L’emergenza sanitaria potrebbe convincere la direzione della struttura ad accelerare ulteriormente il trasferimento dei giovani detenuti nei nuovi edifici, sempre all’interno del perimetro del penitenziario di via Calchi Taeggi, nella periferia orientale della città. Sulla situazione del Beccaria interviene il sindacato Sinappe, con una nota firmata dal segretario regionale Giuseppe Merola: “Non possiamo più assistere a queste situazioni di degrado igienico-sanitario con la presenza costante di rifiuti”. Nelle scorse settimane all’interno del Beccaria si era segnalata anche un’infestazione di blatte. Don Claudio Burgio, cappellano del penitenziario, rassicura: “Se è vero che la struttura è fatiscente, è anche vero che stiamo per fortuna per trasferirci. Si tratta di tenere duro qualche giorno”. Eugenio Losco, consigliere della Camera penale milanese, aggiunge: “Come denunciamo da tempo, la questione è strutturale e va affrontata una volta e per tutte. Al Beccaria manca tutto. Le istituzioni devono investire in personale, pulizia, educatori e progetti. Solo così sarà possibile davvero rieducare i giovanissimi detenuti”. Sulmona (Aq): nella città del supercarcere un convegno per discutere del 41bis ilgerme.it, 9 novembre 2017 Nella città del supercarcere si parlerà di 41bis, anche se a Sulmona ci sono solo gli ex, una sessantina in tutto, sottoposti a questo regime di detenzione. Un argomento attuale e delicato quello che verrà affrontato venerdì mattina nel convegno organizzato al teatro Caniglia nell’ambito del sesto seminario di criminologia. Relatori nazionali, la presenza del sottosegretario Cosimo Ferri e un tema, quello sull’efficacia e i limiti del carcere duro, che da un mese è tornato al centro del dibattito nazionale dopo la circolare di ottobre che permette a questi detenuti di poter abbracciare durante i colloqui i figli minori di dodici anni. “Una correzione amministrativa e un segnale - spiega Mauro Nardella, organizzatore del seminario - che ci preoccupa più come cittadini che come agenti di polizia penitenziaria, perché è già successo che i mafiosi utilizzino i minori per consegnare messaggi”. A venticinque anni dalla legge firmata dall’allora ministro Claudio Martelli e nata all’indomani delle stragi di Capaci e via D’Amelio, si cercherà di fare il punto su efficacia e limiti del 41bis: un regime carcerario che ha prodotto oltre mille pentiti finora, permettendo di arrestare migliaia di mafiosi, “ma che non è risolutiva - continua il sindacalista Uil - allo smantellamento della criminalità organizzata”. Tra i relatori anche Pino Arlacchi, amico di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e la consegna di due premi internazionali alle vittime del dovere, quei rappresentanti cioè delle forze di polizia e delle forze armate che hanno perso la vita nell’esercizio del loro lavoro e a cui, domani, sarà intitolato anche il piazzale ubicato davanti al carcere di via Lamaccio. I riconoscimenti andranno in particolare a Joseph Gallucci, capo dell’antiterrorismo di New York e tra i primi ad alzarsi in volo l’11 settembre del 2001 sul disastro delle torre gemelle alle cui vittime è dedicato questo premio. Gallucci, che aveva già prenotato il volo aereo, non sarà però presente alla cerimonia di consegna per i fatti di cronaca che lo hanno precettato a restare nella Grande Mela. L’altro premio sarà invece consegnato al fratello di Franco Lattanzio, il carabiniere di Pacentro morto nell’aprile del 2006 a Nassirya. Un seminario di respiro internazionale, ma dall’interesse anche locale, perché a Sulmona, come detto, una sessantina di detenuti sono ex 41 bis e gli altri comunque per associazione mafiosa. Una presenza che deve fare i conti anche con la città, come dimostrato nell’ultima rovente polemica l’assunzione da parte della cooperativa Creaservice (cooperativa di servizio del Comune) di un ex detenuto: “Il percorso seguito dal Comune in questa vicenda - commenta Nardella - è pienamente legale e rispondente al percorso di reinserimento, probabilmente era meglio evitare di affidargli un servizio delicato come quello della guardiania”. Bologna: musica & carcere, ecco “Shalom!”, libro + dvd presentato da Mozart14 bolognatoday.it, 9 novembre 2017 “Shalom” significa pace, completezza e rappresenta il concetto dello stare bene. “Shalom” è stato scelto come titolo del cofanetto - prodotto da Mozart14 - che presenta il documentario “Shalom! La musica viene da dentro. Viaggio nel Coro Papageno” - regia di Enza Negroni, produzione Proposta Video di Valeria Consolo in collaborazione con Associazione Mozart14 e Film Commission Emilia Romagna - che raccoglie la testimonianza diretta e toccante di chi, da dietro le sbarre del carcere, scopre che la musica può portare lontano. Le voci sono quelle del Coro Papageno - creato per iniziativa di Claudio Abbado nel 2011 con i detenuti e le detenute della Casa Circondariale Dozza di Bologna. Il Coro Papageno, diretto da Michele Napolitano, rappresenta solo una parte dell’attività di Mozart14, l’Associazione nata nel 2014, per sostenere e continuare le attività musicali avviate in ambito sociale ed educativo da Claudio Abbado. Una straordinaria realtà condotta ora dalla figlia Alessandra con gli stessi ideali impostati sul valore educativo del fare musica e del cantare insieme, e del loro grande potere di rendere sopportabili il disagio fisico e quello interiore. Alla presentazione del cofanetto alla stampa, avvenuta ieri a Milano, era presente anche il testimonial di Mozart14, Ezio Bosso, che con l’Associazione condivide l’idea che la musica migliora la condizione fisica e psichica delle persone. Il sostegno di Bosso è un’ulteriore conferma del valore dello slogan “La musica ti cambia la vita”, principio ispiratore dei laboratori di musicoterapia e di canto corale, sostenuti e promossi da Mozart14, per bambini ricoverati in ospedale, per giovani coristi con e senza disabilità, per i detenuti della Casa Circondariale Dozza di Bologna, per i giovani reclusi dell’Istituto Penale Minorile. “Questo lavoro è la dimostrazione di come la musica sia fondamentale per vivere - ha affermato Ezio Bosso - La musica non solo ti salva la vita, diceva qualcuno, ma ti cambia la vita ogni volta che ne hai accesso. Ecco Mozart14 è questo. Io porto Mozart14 con me ovunque perché ne sono parte.” “La musica è un linguaggio universale, che supera barriere fisiche e geografiche. Ha l’enorme potere di arrivare dritta al cuore delle persone, confortarle e aiutarle ad esprimere se stesse - ha dichiarato Alessandra Abbado. La musica fatta insieme - insieme a colui che ci ascolta, a colui che suona o canta al nostro fianco - ha un immenso potere terapeutico, che è proprio ciò che Mozart14 vuole sostenere. Con la musicoterapia e il canto corale vogliamo aiutare chi lotta con un disagio interiore, sia adulto, ragazzo o bambino, sia nelle carceri che in pediatria, in quanto la musica permette di elaborare il disagio causato dal sentirsi recluso o dal ritrovarsi in un reparto d’ospedale; è in grado di ridurre gli stati di ansia; di alleviare la percezione del dolore; placa il pianto del prematuro, facilita la creazione di una relazione emotiva tra il neonato in incubatrice e i genitori. Per questo chiediamo sostegno, per continuare a mantenere vivo lo spirito con cui Mozart14 conduce con entusiasmo la propria attività”. La vita violenta di Mattia Feltri La Stampa, 9 novembre 2017 C’è qualche cosa di primitivo, e di genuino, nella testata con cui Roberto Spada ha fracassato il naso al giornalista della Rai, Daniele Piervincenzi. Una genuinità che lo condurrà in galera, ci si augura. E però Roberto Spada è un nerboruto pugile di una nota famiglia di Ostia con condanne per mafia che, come tutte le famiglie di quell’indole, non annovera l’argomentazione filosofica fra le sue armi di persuasione: rompere le ossa a chi rompe le scatole, ecco il metodo. E così Roberto Spada, che è cattivo, fa il cattivo e nulla gli importa di farlo in favore di telecamera, gli sono girati i cinque minuti e patapum, questione risolta. Così fanno i cattivi, no? E i buoni? No perché l’argomentazione filosofica (ma anche senza aggettivo: l’argomentazione e basta) non è più tanto di moda da queste parti. I buoni a noi giornalisti hanno regalato banconote (false, purtroppo) da 500 euro, a sostenere violentemente, e senza nessuna genuinità, il nostro asservimento ai potenti. Tutto il discorso pubblico e politico è incentrato sulla violenza: l’avversario era diventato un nemico, e oggi è di più, è un nemico del popolo, ci vuole la galera perché è corrotto, mafioso, ladro, affamatore del popolo, criminale, golpista, complice dei golpisti, ogni santo giorno, da parte di tutti, in tv, in Parlamento, nelle piazze, su internet. Sapete che c’è? Siamo un popolo di aspiranti Spada. Ius soli, un libro svela i falsi miti sulla riforma della cittadinanza di Alessandro Rosina La Repubblica, 9 novembre 2017 Neodemos pubblica un e-book dal titolo “Ius Soli e Ius Culturae”. Un dibattito sulla cittadinanza dei giovani migranti” con i contributi di dodici studiosi per spiegare e sfatare i falsi miti. Il disegno di legge che propone una revisione dei criteri di acquisizione della cittadinanza ha un principale ostinato avversario: la disinformazione. Il cosiddetto “Ddl Ius Soli” (“Modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91, e altre disposizioni in materia di cittadinanza”) dopo esser partito due anni fa con una larga maggioranza alla Camera, ha trovato successivamente un percorso irto di crescenti ostacoli. Questo indebolimento del processo di approvazione può essere imputato sostanzialmente a due ordini di motivi. Il primo ha in parte alla base le stesse cause del fallimento del Referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, ovvero la mancanza di un dibattito pubblico che precede le proposte, ne chiarisce termini e obiettivi, favorisce informazione, consapevolezza e partecipazione alle decisioni pubbliche sul futuro del paese. Le “proposte-imposte” (dall’alto) non funzionano più, su tutto l’elettorato e tantomeno sulle nuove generazioni. La combinazione tra complessità dei cambiamenti, bassa fiducia nelle istituzioni, in un clima sociale ed economico problematico, espone i cittadini a reazioni di chiusura e diffidenza, facilmente cavalcabili dalle forze di opposizione. Il secondo ordine di motivi risiede nel crescente contesto di ostilità nei confronti dell’immigrazione, in tutta Europa, alimentato dall’ondata di rifugiati e dagli attentati terroristici. La proposta di riforma della cittadinanza è così scivolata all’interno di un ingranaggio perverso che ha tritolato le reali ragioni e l’ha resa ostaggio della battaglia politico-elettorale. L’e-book prodotto da Neodemos, presentato al Senato, ha come obiettivo quello di cercare di riportare il dibattitto fuori dallo scontro elettorale ed inserire la proposta all’interno della lettura delle trasformazioni demografiche del Paese e delle scelte per rafforzare la qualità del futuro comune. Il dossier contiene vari contributi di studiosi con posizioni diverse, ma fornisce nel complesso una risposta ad almeno cinque false convinzioni su obiettivi, contenuti e implicazioni della legge proposta. Proviamo a riassumerle rinviando poi all’e-book stesso i lettori interessati ad approfondire. La proposta di legge porta ad un aumento dell’immigrazione nel nostro Paese? Non c’è nessun motivo per pensarlo. Attualmente chi nasce in Italia deve aspettare il diciottesimo compleanno, con una procedura tra l’altro farraginosa, per poter chiedere la cittadinanza. Quello che la riforma propone è, per chi è residente qui fin dalla nascita, di poter anticipare l’acquisizione in età più giovane, in una fase in cui stiamo investendo sulla formazione del suo capitale umano all’interno delle nostre scuole. Al di là dell’emergenza profughi va considerato che il numero di residenti stranieri, nascite comprese, ha visto frenare la propria crescita negli ultimi anni. L’incidenza sulla popolazione totale italiana è ferma poco sopra l’8 percento e la fecondità è scesa sotto i due figli per donna. La riforma assegna la cittadinanza in modo automatico? Questa falsa convinzione è forse dovuta anche all’improprio nome di “Ius soli” dato alla proposta di legge. Gli Stati Uniti sono un esempio effettivo di “ius soli”, ovvero di cittadinanza che si ottiene nascendo sul suolo del Paese. La riforma di cui si discute invece non ha nulla di automatico. Per chi nasce in Italia è richiesto che i genitori possiedano un permesso di lunga durata: quindi regolari e stabilizzati da almeno 5 anni (secondo l’Istat sono 416 mila i minori stranieri non UE nati in Italia con un genitore avente permesso di lunga durata). Per chi non rientra in tale casistica l’acquisizione può avvenire attraverso lo ius culturae (o meglio ius scholae), ovvero condizionatamente ad un percorso formativo che consenta una buona conoscenza della lingua italiana, della cultura, della storia, delle istituzioni (una platea di circa 80 mila ragazzi come precisato nel dossier). Ma è possibile una effettiva integrazione dei figli degli immigrati? Nel dibattito pubblico è presente anche la posizione di chi pensa che con la cittadinanza si aprirebbero le porte a giovani fortemente condizionati da valori del contesto familiare poco compatibili con quelli occidentali. Secondo questa posizione alcune tipologie di figli di immigrati non sarebbero integrabili. In realtà, come molti studi dimostrano, la grande maggioranza di tali giovani, soprattutto se qui fin dalla nascita o in età molto giovane, tende a sentirsi italiana o a sviluppare una appartenenza multipla positivamente a cavallo tra le due culture e che tende a convergere verso la cultura del paese in cui si vive. Per gli altri, l’adozione dei valori del paese ospitante è un percorso legato anche alle possibilità di inclusione e allo sviluppo del senso di appartenenza. Dato che si tratta di giovani che sono già nelle nostre scuole perché dare per scontato che non possano integrarsi? È una proposta che nasce per aumentare i voti a favore delle forze attualmente di governo? Come abbiamo già detto non si tratta di ottenere nuovi elettori visto che comunque la legge si rivolge a minorenni che in ogni caso dopo i 18 anni avrebbero potuto richiedere la cittadinanza. L’orientamento al voto degli immigrati stessi, dei loro figli e dei giovani in generale non è mai scontato e dipende volta per volta da valutazioni che riguardano non tanto la cittadinanza ma le opportunità di una vita di qualità nel paese in cui si vive, analogamente agli altri cittadini. Chi ha invece possibilità di ottenere strumentalmente un vantaggio immediato elettorale, sui cittadini italiani, è, al contrario, chi si oppone alla legge soffiando su timori e paure. Infine, una obiezione mette in luce il fatto che la riforma potrebbe avere conseguenze negative sulle famiglie stesse di immigrati che si troverebbero con figli cittadini italiani e genitori senza cittadinanza. A ben vedere però questo è un aspetto positivo in un paese che troppo spesso vincola il destino dei figli alle caratteristiche dei genitori. Pensare a leggi - non solo sulla cittadinanza - che assegnino diritti propri, impegni, responsabilità ai giovani stessi è esattamente quello di cui questo paese ha bisogno per costruire un futuro in cui chi è nuovo può portare anche nuovo valore. Senza vera protezione di Eraldo Affinati Avvenire, 9 novembre 2017 Leggere il Rapporto sulla protezione internazionale in Italia, che ogni anno viene elaborato dai principali attori dell’accoglienza, fra i quali spiccano l’Anci, la Caritas e la fondazione Migrantes, in collaborazione con l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, rischia di provocare qualche paterna d’animo a tutti coloro che hanno a cuore le sorti del Belpaese, costretto a tappare i buchi creati dall’Unione Europea. Sempre più spesso si ha l’impressione che stiamo avanzando a tastoni nel tentativo di tamponare le falle dell’emergenza senza riuscire a trovare una risposta strutturale al fenomeno migratorio. E vero: dopo gli accordi stipulati dal nostro governo nelle zone calde del Maghreb, abbiamo assistito a una significativa diminuzione degli sbarchi in Sicilia, ma i difficili reportage dalle coste nordafricane e le testimonianze di chi continua ad arrivare sono spaventose, come se in Libia ci fosse oggi una terra di nessuno dove i diritti umani vengono calpestati. Personalmente potrei riportare alcune fonti di ragazzi provenienti dall’Africa subsahariana con particolari raccapriccianti che dimostrerebbero il ritorno a barbarie che qualcuno illudendosi poteva aver considerato superate per sempre: stupri, torture, perfino cannibalismo. E chiaro che il Vecchio Continente non può restare insensibile, è chiaro che sensibile non è abbastanza. I problemi riguardano anche quelli che, nonostante tutto, riescono a sopravvivere e giungono fra noi non come cadaveri, ma in quanto esseri umani che, feriti dentro e fuori, hanno bisogno di aiuto e sostegno. Il sistema che dovrebbe accoglierli, essendo il frutto di una stratificazione cresciuta nel tempo, è diventato, come ha affermato Maurizia Iachino, presidente di Oxfam Italia, confederazione internazionale contro le nuove e vecchie povertà, una vera “lotteria”, per cui l’inserimento dei migranti nei vari Cas, Cara e Sprar può risultare casuale e tutt’altro che mirato. Il funzionamento dei centri di prima identificazione, i cosiddetti “hotspot”, sulla cui istituzione tanto si sperava, si è rivelato più lento del previsto con protocolli d’azione spesso ancora inattivi. I tempi per vedere riconosciuto lo statuto di rifugiato si allungano a dismisura. I raccordi fra prima e seconda accoglienza stentano a decollare. Continuano ad aumentare a vista d’occhio i minori non accompagnati (soprattutto gambiani e senegalesi, mentre si è interrotto il flusso egiziano), la cui gestione, nonostante la recente approvazione della legge che li tutela, non è facile anche perché manca un organismo unico in grado di intervenire in modo completo su ognuno di loro. Ad esempio, per quanto riguarda i corsi di lingua italiana, decisivi per una vera integrazione, molto è lasciato ancora all’improvvisazione e alla buona volontà degli operatori e all’alacrità attivistica delle associazioni che operano sul territorio in ambienti di fortuna senza il necessario sostegno istituzionale. Lo stesso sacrosanto superamento del famigerato Regolamento di Dublino rischia di restare imbrigliato in una gigantesca rete burocratica. Lo scorso anno conobbi un ragazzo afghano che, dopo essere giunto in Italia, si era trasferito in Germania, aveva imparato il tedesco e trovato lavoro come magazziniere: insomma si era pienamente inserito ad Amburgo. A un certo punto, proprio a causa della famigerata suddetta convenzione, è stato costretto a tornare in Italia dove ha dovuto ricominciare tutto da capo. Di casi come il suo ce ne sono tanti: vengono chiamati “i dublinanti”. Il Rapporto sulla protezione internazionale appena diffuso dice anche altro, richiamando la nostra attenzione su Paesi dove le condizioni di vita sono spesso insostenibili: Ciad, Bangladesh, Niger. Una contrapposizione lancinante, accende le luci su certi recenti egoismi europei: Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, senza dimenticare il comportamento francese sul confine ligure. Alcuni osservatori e politici hanno sostenuto la necessità di un nuovo Piano Marshall per l’Africa. Ebbene, tante volte sembra che, accanto agli aiuti finanziari rivolti al Terzo Mondo, sia necessario approntare una task force culturale per noi europei che dovremmo recuperare e proteggere nelle nostre coscienze la vecchia convinzione del salmista: “L’uomo nella prosperità non comprende. È come gli animali che periscono”. Le stragi di immigrati e il lato oscuro dell’accoglienza di Gianandrea Gaiani Il Mattino, 9 novembre 2017 Domenica scorsa Il Mattino aveva evidenziato l’ambiguità dell’attuale politica italiana nei confronti dell’immigrazione illegale dalla Libia parlando di una vera e propria “lotteria”. Roma sostiene, addestra e finanzia la Guardia costiera libica affinché blocchi i migranti illegali riportandoli indietro per affidarli a centri di detenzione e campi profughi da dove le agenzie dell’ Onu provvederanno a rimpatriarli. Al tempo stesso però le navi italiane, della flotta Ue (Operazione Sophia) e delle Ong soccorrono gommoni e barconi che riescono a sfuggire alle motovedette di Tripoli e ne trasferiscono gli occupanti in Italia. Per un migrante illegale, che ha corso molti rischi e speso migliaia di euro per cercare di raggiungere l’Europa, la differenza è sostanziale come è apparso drammaticamente evidente nella vicenda che ha visto lunedì scorso i migranti raccolti da una motovedetta libica buttarsi in mare (5 i morti, incluso un bambino) per raggiungere la nave di una Ong tedesca. “Quando i migranti hanno visto la nave della Ong si sono tuffati in acqua perché preferiscono essere salvati da loro per essere portati in Europa invece di essere salvati da noi che li riportiamo in Libia”, ha dichiarato a Il Mattino l’ammiraglio Ayub Kasem, comandante della Marina libica, minacciando di arrestare gli equipaggi delle navi “se le Ong continueranno a creare problemi”. In questa vicenda sono almeno tre gli aspetti di rilievo. Il primo è che l’accoglienza ai migranti illegali praticata dall’Italia, che non ha chiuso la rotta libica ma dichiara solo di voler “governare i flussi”, continua a essere responsabile di molti morti in mare. Il secondo è che ancora una volta sono le autorità libiche, di uno Stato che di fatto non esiste, a dare lezioni all’Italia la cui posizione sulla questione delle migrazioni illegali è talmente ambigua e imbarazzante dall’aver perso ogni credibilità. Il terzo aspetto riguarda il permanere delle navi di alcune Ong nella gestione di un problema migratorio che investe direttamente la sicurezza nazionale degli Stati, Italia e Libia in primis, e che dovrebbe quindi essere gestito esclusivamente dagli apparati militari e di sicurezza pubblici, non da organizzazioni private che hanno interessi diversi e spesso divergenti da quelli degli Stati. Dopo quanto emerso circa il ruolo delle Ong e le inchieste giudiziarie in corso è inaccettabile che la Guardia costiera italiana mantenga in atto convenzioni con le navi di queste organizzazioni. A spiegare tale ambiguità non può bastare la più volte emersa rivalità tra il ministero dei Trasporti (che gestisce la Guardia costiera), e quelli di Interno e Difesa a meno che non si dica chiaramente che il governo italiano non ha una politica unitaria né un vertice autorevole ma è diviso in feudi e orticelli che rispondono a personalismi e si dividono la gestione della cosa pubblica. Per liberare una volta per tutte il Canale di Sicilia dalle ambigue e ingombranti Ong basterebbe vietare loro l’accesso ai porti italiani per sbarcarvi i migranti raccolti in mare. Un’iniziativa necessaria per ridare credibilità alla lotta al traffico illegale di esseri umani e rinsaldare l’accordo con Tripoli, ma che da sola non risolverebbe l’ambiguità della politica di Italia e Ue sulla “rotta libica”. Anche le navi militari italiane delle flotte europee, in misura anche maggiore a quanto fanno quelle delle Ong, sbarcano nei nostri porti i migranti sfuggiti alle motovedette libiche (che operano fino a 100 miglia dalla costa africana nell’ambito della loro area di ricerca e soccorso) contribuendo alla “lotteria del migrante” e a mettere a rischio vite umane. È infatti del tutto evidente che se le navi militari consegnassero alla Guardia costiera di Tripoli i migranti soccorsi per farli riportare in Libia e rimpatriarli nei Paesi d’origine, i flussi dalla Libia cesserebbero in pochi giorni e a breve anche i flussi che dal Sahel portano migranti nella nostra ex colonia. Del resto uno sforzo per rimpatriare i 120 mila migranti che secondo le stime si trovano in Tripolitania in attesa di salpare sarebbe alla portata dell’Europa e delle Nazioni Unite tenuto conto che nel 2011, durante la guerra civile libica, oltre un milione di lavoratori africani e asiatici fuggiti in Tunisia vennero riportati nei Paesi di origine da un ponte aereo gestito dall’Onu. La certezza dell’impossibilità di raggiungere l’Europa rappresenta l’unico deterrente in grado di far cessare le partenze provocare il crollo del giro d’affari dei trafficanti azzerando così il numero sempre più elevato di morti in mare e nella traversata del deserto libico. Certo crollerebbe anche il business del soccorso e dell’accoglienza, una vera e propria “industria” che in Italia assorbe 4/5 miliardi all’anno di stanziamenti pubblici coinvolgendo Ong, cooperative ed enti strettamente legati alla politica e che costituiscono un serbatoio di voti rilevante per l’attuale maggioranza di governo. La necessità di ridare un minimo di credibilità all’Italia impone però di scegliere tra interessi di lobby e interessi nazionali. Spagna. “Liberate i detenuti politici”: sciopero generale, Catalogna bloccata globalist.it, 9 novembre 2017 Interrotto il traffico sulle autostrade, bloccata ferrovia e alta velocità. La manifestazione convocata inizialmente contro la precarietà nel lavoro. Una protesta che andrà avanti a lungo: sciopero generale in Catalogna con strade, autostrade e linee ferroviarie bloccate per chiedere la liberazione degli attivisti indipendentisti e degli ex consigliere arrestati. Il traffico è stato interrotto in 70 punti: Le autostrade Ap7 e A2 sono state le prime vie in cui il traffico è stato bloccato poco dopo le 6 del mattino. La convocazione dello sciopero generale è stata lanciata dall’organizzazione inter-sindacale CSC inizialmente per protestare contro la precarietà del lavoro e contro il decreto del governo spagnolo centrale che ha facilitato l’iter per consentire alle aziende di fuggire dalla Catalogna. Gruppi di manifestanti con striscioni indipendentisti e manifesti che chiedono la libertà per i leader sindacali detenuti sono presenti ai vari posti di blocco, come alla stazione ferroviaria di Girona. Il conflitto in Yemen, una tragedia da non dimenticare di Guido Olimpio Corriere della Sera, 9 novembre 2017 Molti fronti di crisi e altri focolai rischiano di far dimenticare una guerra feroce, ogni giorno più grave: quello nello Yemen. Il rischio di conflitto in Corea, la crisi siriana e altri focolai che provocano ondate migratorie. Molti fronti che rischiano di far dimenticare una guerra feroce, ogni giorno più grave: quella nello Yemen. I sauditi, impegnati nella lotta contro gli insorti sciiti Houti, hanno deciso di bloccare qualsiasi accesso al Paese. Mossa che potrebbe aver ripercussioni umanitarie devastanti in un Paese dove già c’è poco. Povertà, condizioni sanitarie, distruzioni, vittime di bombardamenti rappresentano un bilancio oneroso per una popolazione stremata. A questa dimensione se ne aggiunge una seconda. Il principe ereditario saudita Mohammed, oltre a scatenare la grande epurazione interna con l’arresto di decine di personalità, ha rialzato i toni sul confronto dello Yemen. Ed ha rinnovato gli attacchi contro l’Iran, accusato di armare i ribelli fornendo loro missili terra-terra utilizzati contro target in Arabia Saudita: rappresenta una minaccia, ha detto facendo intendere quali siano le priorità. Una tesi condivisa anche dagli Stati Uniti che, ieri, hanno sottolineato le responsabilità di Teheran. I due partner parlano con una sola voce, paiono coordinare le posizioni in vista di nuove strategie di contenimento. Il punto è abbastanza chiaro. Sembra una storia remota, esistono dossier che premono di più, ma c’è la possibilità che il fronte yemenita si saldi ad altri. Washington, Gerusalemme e Riad (con il seguito degli alleati regionali) vedono le mosse iraniane come parte di un disegno ampio, temono la nascita di un corridoio che dalle sponde del Golfo possa arrivare, un giorno, fino al Mediterraneo. E lo immaginano aperto dalle milizie sciite sostenute dagli ayatollah, le stesse che agiscono da tempo in Siria e in Iraq. Ecco che le sofferenze yemenite diventano all’improvviso molto vicine e per questo è un errore non occuparsene. Vietnam. Appello di 17 Ong per gli attivisti detenuti da Hanoi asianews.it, 9 novembre 2017 Chiesto il loro rilascio. La lettera cita Tran Thi Nga, Nguyen Van Oai e Nguyen Ngoc Nhu Quynh. “Usate infondate ragioni di sicurezza nazionale e accuse illegittime per la criminalizzazione dell’espressione libera, la diffusione delle informazioni e la pacifica protesta”. In Vietnam almeno 84 prigionieri di coscienza, il numero più alto fra tutte le nazioni del Sudest asiatico. Un gruppo di 17 organizzazioni non governative ha scritto una lettera congiunta, chiedendo ai leader che questa settimana prenderanno parte al vertice dell’Asia Pacific Economic Cooperation (Apec), di esercitare pressioni sul Vietnam, il Paese ospitante, per il rilascio di blogger ed attivisti per i diritti umani. Il documento si rivolge al presidente americano Donald Trump, al cinese Xi Jinping ed al russo Vladimir Putin, tra i leader attesi il 10 e l’11 novembre prossimo a Da Nang per l’incontro principale tra i 21 membri dell’Apec. “In una serie di processi farsa, il governo vietnamita ha orchestrato l’imprigionamento e la condanna di importanti difensori dei diritti umani e blogger”, si legge nella nota pubblicata ieri. La lettera cita Tran Thi Nga, Nguyen Van Oai e Nguyen Ngoc Nhu Quynh. Quynh, arrestato nell’ottobre 2016 e Nga, arrestato nel gennaio di quest’anno, sono stati condannati rispettivamente a 10 e nove anni di prigione. Oai è stato condannato a cinque anni di carcere e quattro anni di arresti domiciliari per “resistenza a pubblico ufficiale” e “violazione della libertà vigilata”. “Il governo vietnamita - proseguono le Ong - ha usato infondate ragioni di sicurezza nazionale e accuse illegittime per giustificare e mettere in pratica la criminalizzazione dell’espressione libera, la diffusione delle informazioni e la pacifica protesta. La detenzione arbitraria, la censura e la violenza promossa dagli Stato contro gli attivisti ed i difensori dei diritti umani non sono solo un affronto alla nostra comune umanità, ma anche una grave violazione delle leggi e normative internazionali sui diritti umani”. Tra le 17 organizzazioni firmatarie vi sono Access Now, Brotherhood for Democracy, English Pen, Frontline Defenders, l’Associazione dei giornalisti indipendenti del Vietnam, Reporters Without Borders, il Viet Labour Movement e Viet Tan. Secondo Amnesty International al presente in Vietnam vi sono almeno 84 prigionieri di coscienza, il numero più alto fra tutte le nazioni del Sudest asiatico. Cina. Un altro dissidente muore poco dopo la scarcerazione progettoitalianews.net, 9 novembre 2017 Un dissidente cinese, scarcerato per motivi di salute, è morto dopo aver scontato quasi l’intera condanna a 12 anni di carcere per “sovversione”. Lo ha reso Amnesty International. Lo scrittore Yang Tongyan è deceduto ieri, circa tre mesi dopo aver subito un intervento per rimuovere un tumore al cervello. Amnesty ha sottolineato un modello emerso negli anni recenti che vede la Cina rilasciare gli attivisti malati poco prima della morte. Il Premio Nobel per la pace Liu Xiaobo ne è l’esempio più recente. La notizia della morte di Yang Tongyan giunge mentre il presidente americano Donald Trump, il cui governo aveva esortato la Cina a rilasciare Liu prima che morisse, è arrivato a Pechino per incontrare l’omologo cinese Xi Jinping. “La morte di un altro detenuto cinese rilasciato per motivi di salute è inquietante”, ha dichiarato Nicholas Bequelin, di Amnesty. “Sembra che non esistano responsabilità per la morte di detenuti scarcerati per condizioni mediche bollati dalle autorità ‘nemici dello Stato’“, ha aggiunto Bequelin.