Innocenti evasioni di Francesco Bisozzi Vanity Fair, 8 novembre 2017 Nella riforma dell’ordinamento penitenziario mancano le risorse per le cosiddette “love room”. Eppure all’estero, in Paesi sia cattolici sia musulmani, sono ormai una consuetudine. I detenuti dovranno aspettare ancora: i decreti per la riforma dell’ordinamento penitenziario sono pronti, ma non c’è traccia delle cosiddette “love room”. Il governo, cui quest’estate era stato chiesto di riconoscere il diritto all’affettività dei reclusi, si è fermato a metà strada, decidendo di tutelare esclusivamente i rapporti familiari, con misure che rimoduleranno per esempio la durata delle visite. Mancano le risorse per dotare le prigioni delle “stanze del sesso”, fa sapere il ministero della Giustizia. “Negli istituti penitenziari europei in cui sono autorizzati gli incontri tra partner, ci sono situazioni che lasciano molto a desiderare, è necessario perciò predisporre dei mini-moduli sufficientemente attrezzati nei quali accogliere adeguatamente le coppie”, ci spiega il Garante dei detenuti Mauro Palma, che nei giorni scorsi ha visionato il testo della riforma e richiesto integrazioni. Contrario Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo della polizia penitenziaria (Sappe): “Le priorità sono altre, le risorse a disposizione andrebbero utilizzate per innalzare i livelli di sicurezza”. Il Sappe ricorda i numeri, per esempio, delle evasioni: circa una settantina da inizio 2017, tra fughe vere e proprie e mancati rientri dai permessi. Di “spazi per la cura dell’affetto”, come si dice in linguaggio tecnico, si parla da decenni. Un tentativo d’introdurre gli incontri di coppia nelle carceri già era stato fatto nel 2000, ma il Consiglio di Stato si oppose. Un altro è stato compiuto da Alessandro Zan del Pd, che a fine 2013 ha presentato una proposta di legge a favore del diritto all’intimità dei reclusi, rimasta poi ferma alla Camera. La legge per la riforma del processo penale e dell’ordinamento penitenziario approvata a giugno, nella quale è previsto “il riconoscimento del diritto all’affettività”, poteva segnare una svolta: se ne riparlerà (forse) dopo la Legge di bilancio. Il governo però è in scadenza e anche se dovessero saltar fuori le risorse necessarie appare improbabile che il progetto si realizzi. Intanto nelle carceri italiane oggi ci sono oltre 56 mila detenuti (il tasso di sovraffollamento è al 113,2 per cento secondo l’associazione Antigone). L’unico strumento che i reclusi hanno a disposizione per soddisfare i propri bisogni sessuali è rappresentato dal permesso premio. La legge lo prevede proprio al fine di coltivare gli interessi affettivi: ha una durata massima di 15 giorni e non può superare il limite dei 45 giorni annui. Chi si è sposato durante la detenzione può anche chiedere un permesso per “consumare il matrimonio”. Ma solo una ristretta élite di prigionieri, circa il 30 per cento del totale, ha diritto a certi benefici. Oltre all’Italia, sono contrarie alle “stanze del sesso” la Gran Bretagna e la Nuova Zelanda. E negli Usa sono sempre meno gli Stati che prevedono gli incontri di coppia: sono passati da 17 a 4 in meno di 30 anni, complice la necessità di abbattere i costi. Numerose ricerche indicano, tuttavia, che nelle carceri in cui è consentito fare sesso si riscontra meno violenza. Autorizzano questo tipo di visite 31 Stati del Consiglio d’Europa (su 47), più Australia, Brasile, Israele e persino Iran. In Canada i detenuti una volta ogni due mesi possono addirittura trascorrere un intero weekend d’amore con i loro partner. Nel cattolico Messico, dove non bisogna per forza essere sposati per beneficiare del servizio, anche le persone dello stesso sesso hanno diritto agli incontri di coppia. L’India ha autorizzato il sesso in carcere nel 2015, ma solo a scopo procreativo. In Arabia Saudita, dov’è consentita la poligamia, il detenuto può appartarsi con ogni moglie una volta al mese. E in Qatar per i prigionieri in cerca d’intimità sono state costruite all’interno delle carceri persino delle ville. La tragedia dei bambini “detenuti”, la loro età va da 0 a 6 anni papaboys.org, 8 novembre 2017 Una volta, quando lavoravo per un giornale locale, sono andata in carcere per una conferenza stampa che riguardava un progetto di centro estivo per i figli dei dipendenti. C’erano un orto, dei grandi saloni colorati, ampi spazi. Eppure bastava guardarsi attorno per capire che ci si trovava comunque in una realtà particolare. Si dovevano fare solo pochi passi per vedere le sbarre alle finestre e gli agenti di polizia penitenziaria. In altre parole, ci si ricordava sempre dove ci si trovasse. Bambini in carcere con le mamme: la loro storia - Immagino quale possa essere lo stato d’animo di bambini piccoli che invece in carcere devono starci: hanno dagli 0 ai 6 anni e si ritrovano, pur ovviamente senza colpa, a dover vivere il regime insieme alle madri. È una scelta della mamma quella di poter portare il proprio figlio con sé, anche se ovviamente si tratta di una decisione controversa: un bambino ha di certo il diritto di non crescere lontano da un genitore, ma nei primi anni di vita avere un tipo di quotidianità così diversa può certamente segnare. Il punto è che le mamme spesso non hanno alternative. Per esempio non possono uscire dalle strutture che li ospitano: la più grande in Italia è “Germana Stefanini”, uno dei più attrezzati e meglio tenuti, mentre a Milano c’è uno degli Icam più frequentati. In questo caso si tratta di Istituti a custodia attenuata per madri detenute dove gli spazi sono più grandi e le guardie carcerarie sono vestite in borghese. Poco tempo fa un servizio de “Le Iene” e un reportage del Corriere della Sera hanno evidenziato una situazione drammatica: sono circa 60 i bambini detenuti e i vari Ministri della Giustizia che si sono succeduti hanno dichiarato che avrebbero risolto un problema davvero spaventoso. Risultati? Nessuno, almeno fino ad oggi. Purtroppo spesso queste mamme non hanno altra scelta: i papà sono assenti perché sono a loro in carcere e non hanno nessuno a cui affidare i bambini. Spesso questi piccolini si chiedono perché non possono uscire, se hanno fatto qualcosa di male o vivono con angoscia il momento in cui le porte - che durante il giorno sono aperte - vengono chiuse. “I bambini qui diventano aggressivi, non hanno relazioni sociali. Tra l’altro vedono solo donne e manca del tutto una figura maschile” racconta una mamma al Corriere. Nel caso dell’Icam i bambini possono uscire alcuni pomeriggi a settimana grazie a delle volontarie, mentre allo Stefanini la gita è il sabato e avviene grazie all’associazione “A Roma insieme”, di cui vi abbiamo parlato in passato. “Subiscono una metamorfosi quando devono risalire sul pullman per il ritorno. Non è solo per la fine di una giornata di giochi, come fanno tutti i bambini. Associano l’imbrunire con la chiusura delle celle e s’intristiscono. Qualcuno piange, sbatte la manina sul vetro dell’autobus”. E una volta che ritornano in carcere, non vanno dalle loro madri, ma restano attaccati ai volontari. La volontà di non tornare è più forte, anche se ancora non se ne rendono conto: “Come quel giorno in cui capitò che un agente lasciò una chiave sul tavolo. Uno dei bimbi la prese e corse dalla mamma: “Mamma, vieni, ti porto fuori, ci sono un sacco di cose belle”. Mattarella ha concesso due grazie negli ultimi due mesi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 novembre 2017 Fino al 31 gennaio 2016 erano stati cinque i provvedimenti di clemenza del presidente. Notizia della scorsa settimana è la grazia concessa dal presidente Sergio Mattarella a Livio Bearzi, dirigente scolastico friulano che fu preside del convitto aquilano “Domenico Cutugno”, travolto dal terremoto e spezzò la vita di tre studenti che vi alloggiavano. Bearzi era da pochi mesi a dirigere l’istituto. Ma tanto bastò per condannarlo in via definitiva dalla Corte di Cassazione a 4 anni di reclusione e all’interdizione dai pubblici uffici per 5 anni, per omicidio colposo plurimo e lesioni personali. Numerosi gli attestati di stima, dalla regione del Friuli agli studenti aquilani, a fronte di una condanna che appariva sorprendente, soprattutto se paragonata a scandali che hanno caratterizzato la gestione del prima e dopo-terremoto. Il dirigente fu ritenuto colpevole per la mancata ristrutturazione dell’ottocentesco edificio del Convitto e l’assenza di un piano sicurezza. Bearzi - che intanto era rientrato a Udine e dirigeva in istituto comprensivo - si trovò dietro le sbarre dal 10 novembre al 23 dicembre 2015, quando il suo avvocato, Stefano Buonocore ottenne dal magistrato di sorveglianza di Udine l’affidamento in prova ai servizi sociali, confermato nell’aprile 2016 dal Tribunale di Trieste e che lo vede tuttora svolgere volontariato in un consorzio di accoglienza ai profughi. Ma non è l’unica grazia che il Presidente Mattarella ha concesso quest’anno. Il mese scorso l’ha concessa anche a Fabrizio Spreafico, uno che nel 1997, all’età di 23 anni, strozzò la madre per una questione di soldi. Ora è un uomo ed è gravemente malato. Condannato a 18 anni e 4 mesi dalla Corte d’Assise d’Appello di Milano il 23 marzo del 1999, ha espiato circa 8 anni di pena in carcere. Infatti nel 2005, per motivi gravi di salute, ha ottenuto la sospensione dell’esecutività della pena ed è uscito di cella per curarsi. Spreafico, essendo orfano anche di padre, è stato accolto nella sede centrale di Roma della Congregazione dei Padri Rogazionisti dove gli è stato offerto anche un lavoro. Alla notizia della grazia, Spreafico ha manifestato la propria gioia dicendo di essersi tolto il peso di questa condanna “anche se i sensi di colpa per aver ucciso mia madre restano”. A giugno Mattarella ha concesso la grazia a Nicola Giuseppe Scomparin, condannato a vent’anni e due mesi di reclusione dalle autorità thailandesi per detenzione di sostanze stupefacenti. La domanda di grazia è stata accolta favorevolmente dal momento che “la pena detentiva già scontata da Scomparin è notevolmente superiore a quella normalmente inflitta in Italia per fatti analoghi”. Le “grazie” del Presidente - Il presidente Mattarella, dall’inizio del suo insediamento, secondo quando risulta dal sito del Quirinale, aggiornato al 31 gennaio del 2016, ha concesso 5 grazie a detenuti condannati per reati comuni. Il numero ovviamente risulterà superiore quando verrà aggiornato l’anno 2017 che sta per concludersi. Si è trattato di 2 decreti di grazia per pene detentive temporanee (di cui uno anche per la pena accessoria inflitta con la condanna) e di 3 decreti con cui sono state concesse grazie parziali (riduzione della pena detentiva temporanea). Nessuno dei provvedimenti di grazia è stato adottato su difforme avviso del ministro competente o in assenza di domanda dell’interessato. Nei primi due anni di Presidenza, sono state sottoposte all’attenzione del Presidente Mattarella sia le pratiche che hanno dato luogo all’adozione dei 5 provvedimenti di grazia sia altre 733 domande (o proposte) di grazia oppure di commutazione di pene. Di esse 485 sono state rigettate e 249 archiviate o “poste agli atti”. Delle domande rigettate, 117 hanno riguardato condannati la cui pena non era in corso di esecuzione perché era stata concessa la sospensione condizionale o perché l’esecuzione della pena detentiva era stata sospesa a norma dell’art. 656 c. p. p., ovvero condannati che sin dall’inizio dell’esecuzione della pena, o dopo un periodo di detenzione carceraria, erano stati ammessi a misure alternative al carcere (affidamento in prova; detenzione domiciliare; semilibertà): in questi casi il presidente delle Repubblica ha ritenuto che le esigenze poste a fondamento della domanda di clemenza risultassero già adeguatamente tutelate per effetto degli ordinari strumenti personali, sostanziali e processuali, e penitenziari. In 130 ulteriori casi, l’archiviazione della pratica è stata disposta direttamente dall’Ufficio: è accaduto quando la domanda di clemenza era palesemente priva dei requisiti che potevano consentirne la trattazione. Complessivamente, sono state ad oggi trattate e definite dal Presidente Mattarella 868 pratiche di grazia o commutazione di pena. Le “grazie” degli altri - Nella classifica delle grazie concesse dai vari presidenti della Repubblica, Giorgio Napolitano è il presidente della Repubblica che ha concesso meno grazie durante il suo mandato. Nella classifica, infatti, risulta l’ultimo per numero di grazie concesse: 23 nel primo settennato e neppure una dopo la rielezione. Considerando che le richieste giudicate ammissibili sono state oltre 1.800, si tratta dell’1,3 per cento. L’ultima grazia concessa da Napolitano - la penultima è stata concessa ad Alessandro Sallusti, direttore de Il Giornale - è spettata a Joseph Romano, colonnello dell’Air Force One, condannato nel 2012 nell’ambito della vicenda del rapimento dell’ex imam di Milano Abu Omar. Al tempo del sequestro, Romano era capo della sicurezza della base di Aviano dove venne portato l’imam prima del trasferimento prima alla base Nato di Ramstein e poi in Egitto. Napolitano è stato assai contenuto e in tre casi, durante il suo mandato, ha negato la clemenza nonostante il ministro della Giustizia avesse espresso parere favorevole. Nemmeno nel secondo mandato le occasioni sono mancate. Eppure solo nel primo anno il capo dello Stato ha respinto tutte le 320 richieste di clemenza che avevano superato la fase istruttoria. Tutt’altra storia rispetto agli oltre 15mila atti di clemenza di Luigi Einaudi, in un’Italia segnata dalla violenza e dalla criminalità anche come conseguenza della dilagante povertà figlia della guerra. Fra i beneficiati, sebbene con suo profondo rammarico, ci furono anche numerosi collaborazionisti: quelli maggiormente responsabili erano riusciti a evitare le conseguenze dell’epurazione grazie all’amnistia di Togliatti e a Einaudi, come spiegò lui stesso, non sembrava giusto che alla fine gli unici a pagare fossero quelli meno coinvolti. Giovanni Gronchi ne concesse 7.423, Antonio Segni/ Cesare Merzagora 926, Giuseppe Saragat 2.925, Giovanni Leone 7.498, Sandro Pertini 6.095 e Francesco Cossiga 1.395. Dal presidente Oscar Luigi Scalfaro in poi, il numero della concessione della grazia è sceso vertiginosamente. Quest’ultimo concesse 339 grazie, a seguire Carlo Azeglio Ciampi con 114, fino ad arrivare a Napolitano con 23. Con Scalfaro siamo nel periodo di tangentopoli e le stragi mafiose: da allora ci fu un inasprimento delle pene, il ripristino della carcerazione dura con il 41 bis e fu modificato l’articolo della Costituzione riguardante l’amnistia. Privacy contro sicurezza. Tabulati conservati sei anni: oggi l’ok di Liana Milella La Repubblica, 8 novembre 2017 Voto finale per la legge che allunga i tempi: mail e telefonate resteranno a disposizione della giustizia. “Per battere il terrorismo”. Sicurezza contro privacy, 1 a 0. Oggi, alla Camera, nella partita tra tutela della privacy e allarme sicurezza, vince la sicurezza. Perché ottiene il definitivo via libera la norma che consente di conservare per sei anni i soli dati numerici del traffico telefonico, niente conversazioni, solo le chiamate, comprese quelle senza risposta, e i dati delle consultazioni su internet. “Un tempo indispensabile” dicono i magistrati. “Un inaccettabile sacrificio della privacy” ribattono negli uffici del Garante. Due palazzi - Montecitorio e la sede dell’Authority - uno di fronte all’altro. Due posizioni opposte. Una polemica che si è trascinata per tutta l’estate. Due passaggi tra la Camera - il 20 luglio il via libera - e il Senato - sì il 10 ottobre - hanno reso la norma ormai immodificabile. Una vittoria per chi, toghe e polizia, la ritengono un passaggio fondamentale per cercare di ricostruire le reti mafiose e terroristiche. Una sconfitta per chi cita le regole di altri Paesi. Ma, come dice Walter Verini, capogruppo Pd in commissione Giustizia alla Camera e autore dell’emendamento che a luglio ha portato la durata della conservazione dei dati da 48 a 72 mesi, “il problema non è il tempo in più, ma le garanzie di conservazione, perché basta pagare in rete con la carta di credito ed essere subissati di messaggi, mentre la certezza, e in questo sono assolutamente d’accordo con il Garante Antonello Soro, deve essere quella di avere norme stringenti e sovranazionali per proteggere i dati”. Due fronti, chi privilegia la sicurezza, chi contrappone la privacy, che rischiano di non comunicare. Anche se, come sottolinea Verini, “alla Camera quando abbiamo votato non si è alzato nessuno in aula per contestare la norma”. Che, ricorda Verini, è scaturita da un input del ministero della Giustizia allertato dalla procura nazionale Antimafia. È il capo Franco Roberti che associa il suo all’appello del procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. Proprio Roma, con un documento interno dei pool antiterrorismo e antimafia, a luglio mette su carta l’allarme per il rischio che scada, senza essere prorogato in tempo, il decreto del 2015 che dopo l’attentato di Parigi ha portato da 2 a 4 anni la durata della conservazione dei dati. E qui, mentre si consolida il ruolo dell’Italia come terra di transito e di permanenza di cellule in sonno, si fissa la richiesta di protrarre per altri due anni la conservazione dei dati. Perché, come spiegano le toghe antimafia della procura di Roma, “innanzitutto stiamo parlando di reati di relazione da ricostruire nel tempo, eccezionali come quelli di mafia che certo in altri Paesi non hanno, e poi della possibilità, sfruttando i tabulati, che di per sé non sono una prova ma danno un indizio, di dimostrare che due persone si conoscono da molti anni”. Al Garante Soro che ripete “ma sei anni sono troppi”, ribatte Eugenio Albamonte, più nelle vesti di componente del pool antiterrorismo della procura di Roma che di presidente dell’Anm: “Nel bilanciamento di interessi tra privacy e sicurezza per me deve prevalere la seconda perché non possiamo rinunciare a uno strumento che ci consente di ricostruire, a distanza di alcuni anni, attraverso telefonate e consultazioni web, il percorso di un potenziale terrorista. Certo, la questione è molto delicata, ma guardiamo ai risultati delle indagini che dimostrano come il nostro Paese sia stato un punto di passaggio per cellule dormienti”. Albamonte insiste: “Attenzione, stiamo parlando solo di dati di traffico, non ci sono conversazioni registrate. Dico di più: serve subito una legge che detti alle compagnie telefoniche rigide regole di sicurezza per conservare i dati, vietandone qualsiasi uso distorto e imponendo sanzioni nel caso si scoprano violazioni”. Oggi Verini affronterà il caso in aula. Pronto a citare la frase che Roberti disse ad agosto a Repubblica: “Certo, sei anni sono un tempo lungo. Ma in questo Paese dobbiamo decidere se la lotta al terrorismo si vuol fare davvero oppure no”. Aggiunge Verini: “Se sul piatto della bilancia c’è la possibilità di prevenire un attentato, il prezzo dei sei anni si può pagare, a patto che la garanzia di protezione dei dati sia sicura al cento per cento”. Da dieci settimane a 24 mesi, così l’Europa custodisce i dati. In Italia il “primato” di Alessandro Longo La Repubblica, 8 novembre 2017 Con la nuova norma l’Italia conquista il primato europeo sulla data retention, e con grande distacco sugli altri Paesi. Mentre qui ci si appresta a estendere a sei anni il periodo di conservazione dei tabulati di tutti i cittadini, altrove vengono custoditi al massimo per due anni, in alcuni casi ci si ferma a sei mesi, un anno o anche a sole dieci settimane. Seppur con qualche eccezione, i Paesi europei sono sostanzialmente allineati sulla tipologia di dati degli utenti che gli operatori telefonici devono conservare. Sono i dati di accesso (che identificano l’indirizzo IP e il nome dell’intestatario della connessione Internet), gli orari di inizio e fine collegamento, i siti visitati; i tabulati delle telefonate con il chiamante e il chiamato; mittenti e destinatari delle mail e gli orari di invio. L’obbligo vale a tappeto e a priori, su tutti gli utenti, ma si ferma agli estremi (quelli che chiamiamo i “metadati”) della comunicazione. Non include quindi il contenuto (della telefonata o della mail, per esempio): solo la Russia lo prevede di base, così come un accesso a Whatsapp per le eventuali intercettazioni. In Europa invece per avere i contenuti serve disporre una intercettazione, dietro ordine del giudice. L’Austria e la Romania sono tra i pochi a non prevedere affatto un obbligo di data retention. La Germania esclude le mail dalla data retention ed è anche il Paese con il termine minore: obbligo a conservare i dati solo delle ultime dieci settimane (ma quattro per i quelli di localizzazione dell’utente). Si sale a sei mesi per la Svizzera e la Svezia. La Francia impone di farlo per un anno, mentre Spagna e Regno Unito sono tra paesi più severi, con leggi approvate dopo gli attacchi terroristici: da 12 a 24 mesi (in base tipo di dati). In quasi tutti i Paesi le leggi sono contestate, per motivi di privacy e diritti civili, e quella francese rischia di essere abrogata. Com’è successo con la normativa tedesca precedente, ben più severa ma giudicata anticostituzionale. Intercettazioni, rispettare la norma sul segreto vuol dire bavaglio? di Guido Salvini* Il Dubbio, 8 novembre 2017 Il decreto prevede che le conversazioni irrilevanti siano conservate in un archivio riservato. Non possono essere diffuse ma non vengono nemmeno distrutte. Il commento pubblicato in prima pagina il 5 novembre da La Repubblica a firma Liana Milella su un aspetto della riforma del governo Orlando in materia di intercettazioni è davvero sconcertante. Il decreto legislativo del Governo prevede che le intercettazioni irrilevanti per l’indagine e contenenti dati sensibili e circostanze di carattere privato siano conservate in un apposito archivio riservato da costituirsi in ogni Procura con un vincolo di segretezza e sotto la responsabilità del Procuratore capo. Non possono cioè per la loro natura essere diffuse ma non vengono nemmeno distrutte perché, ed è del tutto ragionevole, è possibile che qualche conversazione nel corso del processo acquisti rilevanza e, ad esempio su richiesta dei difensori, possa essere ascoltata e acquisita. Devono rimanere riservate, tanto per intendersi, conversazioni come quella con la “sguattera del Guatemala” nell’indagine che aveva toccato il ministro Guidi. La giornalista, molto vicina alle Procure come il quotidiano per cui scrive, lamenta con grande enfasi come bavaglio, parola magica, alla libertà di stampa, il fatto che per il giornalista che pubblica le intercettazioni riservate sia prevista una pena sino a tre anni di reclusione. In realtà, e alla fine anche l’articolo lo spiega, non si tratta di un reato specifico introdotto in danno dei giornalisti ma semplicemente del fatto che pubblicando le intercettazioni riservate ora previste dal decreto il giornalista concorre nel reato di cui all’articolo 326 Codice penale, la rivelazione di segreti d’ufficio, con chi gliele ha fornite, magistrato, poliziotto o carabiniere che sia. Un reato per cui comunque, diversamente da quanto si legge con toni di allarme nell’articolo, non si finisce in cella. La giornalista di Repubblica rimpiange forse il sistema precedente, quello della pubblicazione selvaggia di pagine di intercettazioni, spesso ambigue e difficili da interpretare ma ottime per colpire, il sistema in cui si rischiava di incorrere solo in una contravvenzione, la pubblicazione arbitraria di atti di cui all’articolo 684 codice penale, che si poteva estinguere con una multa appena superiore a quello da pagare per un divieto di sosta. Il punto è che non si vuole capire un principio fondamentale. Le intercettazioni servono come strada per indagare su specifici reati e non sono una indefinita raccolta di notizie politiche e di costume destinate alla pubblicazione, anche con le migliori intenzioni, da parte di giornalisti che le carpiscono fraudolentemente o stanno comodamente seduti in redazione nell’attesa che qualcuno le metta nella buca delle lettere del suo giornale. Altrimenti non esisterebbe l’articolo 15 della Costituzione che prevede la libertà e la segretezza delle comunicazioni e qualsiasi amministrazione o azienda privata potrebbe, se ne ha i mezzi, tranquillamente procedere ad intercettare cittadini o dipendenti per trarne qualche vantaggio. Ricordiamo che un’intercettazione non rilevante per un’indagine e decontestualizzata da tutto quello che le sta intorno, se pubblicata, può schiantare una persona, non solo un uomo politico ma ciascuno di noi. Nessuno scandalo dunque per l’introduzione dell’intercettazioni riservate che nemmeno il Pubblico Ministero ha deciso di utilizzare e per le sanzioni a chi commette questo abuso che è punito in ogni parte d’Europa. Ed anche l’Ordine dei Giornalisti dovrebbe fare la sua parte punendo, magari con una sanzione disciplinare, i suoi iscritti che sviliscono la loro professione diventando strumenti e complici di violazioni spesso dettate da finalità tutt’altro che nobili. *Magistrato Soldi delle mafie, quando i conti non tornano di Rosaria Capacchione* La Repubblica, 8 novembre 2017 Ho un cruccio. Un tarlo che non c’è verso di scacciare e che sta corrodendo le ben poche certezze che ho su oltre trent’anni di lotta alla mafia. Non ho dubbi sull’utilità strategica della confisca dei beni, quella è la strada maestra da continuare a perseguire con tenacia e ostinazione. Ma i conti non mi tornano. Dalla stima delle smisurate ricchezze sottratte a Cosa Nostra, Camorra, ‘Ndrangheta, manca il denaro contante. Solo ogni tanto, quasi per caso, le procure sono riuscite a individuare i depositi bancari dell’uno o dell’altro singolo cassiere. Per esempio, tra i napoletani, un tal Ciro Giordano, di professione usuraio, con cassaforte nell’auto (per le consegne quotidiane) e conto corrente in Svizzera. O la famiglia Potenza, che i soldi li aveva nascosti sotto la carta da parati del salotti. O ancora la famiglia Passarelli, che per lungo tempo ha fatto girare i soldi dei Casalesi. Ma, tutto sommato, è poca cosa rispetto agli oltre 150 miliardi di euro incassati ogni anno dalle tre grandi organizzazioni criminali. Eppure mogli, amanti, figli e nipoti dei boss detenuti continuano a spendere: pagando in contanti o con carte di credito, come tutti. Ma dove sono quei denari? In quali banche o materassi? Perché una cosa è certa: salvo rarissime eccezioni (i cinquecentomila euro che la compagna di Francesco Bidognetti prese dal doppiofondo del piano di cottura della cucina) di cartamoneta nei verbali di sequestro non c’è mai traccia. Direte: ma abbiamo confiscato case, ville, aziende, supermercati, negozi di abbigliamento, agenzie di viaggio, imprese di costruzione, camion. Verissimo, ma sono beni che non servono per acquistare pane e latte, per andare in vacanza all’estero, per pagare le sfarzose cerimonie di matrimonio e di battesimo. Io sto cercando la via dei soldi e non la trovo. La via dei fiduciari che conservano il denaro per conto delle famiglie e che ogni tanto li fanno emergere per questo o quell’investimento. Cerco notai e commercialisti, direttori di banca e grandi usurai che operano all’ombra di dubbie società finanziarie specializzate in prestiti al consumo e money transfer. Ci sono ma mai nessuno li ha cercati in maniera sistematica, con l’obiettivo cioè di andare a colmare un vuoto nel grande puzzle delle collusioni. Il cruccio mi perseguita dalla scomparsa di Antonio Bardellino, a maggio del 1988, quasi trent’anni fa. Era uno dei capi di Nuova Famiglia, era affiliato a Cosa Nostra, possedeva centinaia di case disseminate tra Caserta, Napoli, Formia, oltre a quelle - imprendibili - nei Caraibi e in Brasile. Non una è stata trovata. Aveva un capitale stimato in decine di miliardi di lire. Non un centesimo è stato recuperato. Qualcuno li aveva in mano e li ha usati quando è stato certo che il boss non sarebbe tornato mai più. Diciamo un anno dopo. Qualcuno che è diventato ricchissimo senza fare nulla, reimpiegando sul mercato denaro e patrimonio immobiliare e così inquinando alla radice l’economia di parte della Campania e del Lazio. Il cruccio si è rafforzato anni dopo, nel 2006, quando al fratello dell’ultimo capo dei Casalesi, Michele Zagaria, fu sequestrata la più fantastica carta di credito mai circolata nel mondo occidentale: capacità di spesa illimitata ma nessun conto corrente di riferimento. Una riserva di denaro praticamente inesauribile agganciata a un deposito nascosto. Il promoter che gestiva i conti di Pasquale Zagaria fu indagato, rinviato a giudizio, assolto. Mai sospeso da Consob, mai licenziato. Senza aver neppure chiarito il mistero. Quante carte di credito collegate a conti fantasma circolano in Italia e in Europa? Quante cassette di sicurezza nascondono il tesoro delle mafie (150 miliardi di euro, secondo una stima recente del procuratore di Milano, Francesco Greco)? E quanti professionisti sono impegnati ancora oggi nel lavoro di occultamento della ricchezza liquida, quella di cui i collaboratori di giustizia non parlano? *Giornalista, senatrice e componente della Commissione Parlamentare Antimafia Corruzione e rassegnazione di Massimiliano Boschi Corriere del Trentino, 8 novembre 2017 Piercamillo Davigo, uno dei magistrati simbolo dell’inchiesta Mani Pulite, sarà domani al teatro Cristallo di Bolzano (ore 20.30) per un incontro, moderato da Pasquale Profiti, sostituto procurato della Repubblica del Tribunale di Trento, sulle “insidie della corruzione”. A 25 anni di distanza dall’inchiesta giudiziaria che contribuì in maniera decisiva alla fine della Prima Repubblica, Davigo è stato nominato presidente della II° Sezione penale presso la Corte di Cassazione mentre tra i cittadini italiani la rassegnazione sembra aver preso il posto dell’indignazione. Che questa sia qualcosa in più di una semplice impressione, lo testimonia lo stesso Davigo: “È una sensazione che ho anche io. Non ho sondaggi da presentare, ma quando partecipo a dibattiti e incontri, rilevo come i cittadini ritengano, o temano, che non ci sia soluzione”. Corruzione, illegalità... forse si potrebbe partire dalla delimitazione del contesto. “Bene, esistono tre tipi di corruzione: quella amministrativa decentrata, fatta di tanti episodi di modesto ammontare economico (molti funzionari rubano ma ciascuno di essi ruba poco), quella accentrata che riguarda funzionari vicini ai centri di potere decisionali che ricevono poche tangenti di importo elevatissimo e quella tipica dei Paesi in via di sviluppo, definita State Capture (la cattura dello Stato). Bene, l’Italia è passata dalla corruzione accentrata a quella decentrata, ma questo non ha diminuito il suo carattere sistemico. Perché vorrei ricordare che il corrotto non smette dopo la prima volta. Si è, quindi, creato un ambiente favorevole alla corruzione con aspetti particolarmente preoccupanti e pervasivi, tali da costringere quelli per bene ad andarsene”. Ovvero, un sistema basato sulla corruzione attira i corrotti e espelle gli onesti? “Sì, i comportamenti devianti su larga scala coinvolgono via via sempre più persone attraverso una sorta di effetto calamita. Se chi si comporta male ha successo, finisce per attrarre anche gli altri verso questi comportamenti. Vale per la corruzione, per altri illeciti e per l’evasione fiscale”. Per questo c’è chi punta molto sull’educazione e l’istruzione, compreso il suo ormai ex collega Gherardo Colombo. Ma nel libro che avete scritto insieme “La tua giustizia non è la mia” (Longanesi), lei sostiene che “La scuola italiana è una delle peggiori fucine di illegalità che esistano in questo paese”. Conferma? “Sì, ma lo diceva Beniamino Andreatta che sosteneva che la scuola creava pessimi studenti abituati a coalizzarsi contro i professori, studenti che, in prospettiva futura, saranno pessimi cittadini. Ma questo è frutto di regole sbagliate non della cattiveria delle persone. Ci sono regole che aiutano a comportarsi bene e altre a comportarsi male. Credo che valga la pena ricordare come la scuola statunitense sia molto diversa. Utilizza pratiche che agli italiani risultano sbalorditive”. Prego... “Durante una mia visita negli Usa avevo mostrato stupore per il fatto che i compiti da svolgere a casa fossero legati al tempo. Mettevano il contaminuti e svolgevano gli esercizi per quel tempo stabilito fino al punto in cui arrivavano. Un sistema molto diverso dal nostro che prevede il coinvolgimento dei parenti fino al quindicesimo grado per riuscire a terminarli. Di fronte alla mia incredulità mi sono state spiegate tre importanti differenze tra i due sistemi scolastici. Il loro titolo di studio non ha valore legale, conta il contenuto, non la forma. È un sistema molto competitivo, per cui nessuno permette al vicino di banco di copiare, terzo, il più significativo, gli esami più importanti non sono all’uscita da un ciclo di studi ma in entrata. Quindi è del tutto inutile provare a ingannare i professori lungo l’anno di studi. È un po’ la differenza che esiste tra il medico fiscale e il medico curante, al medico fiscale può essere conveniente raccontargli una bugia, non al medico curante”. Ma tornando alla politica in Italia l’elettorato non sembra particolarmente attento all’onestà di chi vota. Non sembra amare i buoni medici curanti. “Sì, lo pensa anche Gherardo Colombo, ma nel farlo si dimentica che gli elettori scelgono tra i candidati. Ma chi seleziona questi ultimi? Ai tempi di Mani Pulite con i soldi delle tangenti si compravano le tessere per ottenere la maggioranza. Il rimedio, quindi, non sta solo in una diversa educazione, ma servono regole che non consentano queste pratiche”. Sì, ma le regole, le leggi, vengono varate dal Parlamento... “Vero, ma prima o poi, anche lì, qualcuno capirà che i cittadini sono furiosi”. Il Tar boccia gara per pasti in carcere a prezzi irrisori di Guglielmo Saporito Il Sole 24 Ore, 8 novembre 2017 Tar Piemonte, ordinanza 30 ottobre 2017 numero 474. Va sospesa la gara, bandita dal Ministero della Giustizia, per l'approvvigionamento delle derrate alimentari e confezionamento pasti di alcuni istituti penitenziari del Piemonte, perché la diaria giornaliera indicata a base d'asta non garantisce un'offerta di qualità, competitiva e remunerativa. Questo è l'orientamento del Tar Torino, espresso nell' ordinanza 30 ottobre 2017 n. 474, che riguarda le case circondariali di Alessandria, Novara ed Alba cioè su gare per un totale di oltre 4 milioni e mezzo di Euro. Con un'articolata motivazione, il Tar dubita dell'adeguatezza della diaria individuata quale base d'asta, perché il Ministero avrebbe utilizzato tabelle di una società di servizi che opera nel settore della ristorazione e di un'azienda pubblica di Viareggio, traendone spunti per analizzare i costi di un Casa circondariale: tuttavia, secondo il Tar, per le esigenze di una casa circondariale sono diverse da quelle di mense scolastiche e residenze sanitarie assistite. Oltretutto, osservano i giudici, si sono applicate erroneamente le percentuali minimi di alimenti di produzione biologica (40%) e quelle (20%) provenienti da sistemi di produzione integrata, nonché IGP, DOP e STG (specialità tradizionali garantite). Scendendo nel dettaglio, secondo il Tar la previsione di costo di una prima colazione (€ 0,24) è irrisoria ed inspiegabilmente la stessa per ogni casa circondariale; a ciò va aggiunta anche l'impossibilità di possibilità di ricarico (e quindi di ricavare utile dalla rivendita delle derrate alimentari), con una complessiva censura dell'appalto. Poiché poi la diaria posta a base d'asta è risultata inadeguata, ne è risultata contaminata anche l'offerta tecnica, spostando la gara da offerta economicamente più vantaggiosa ad offerta sulla base del prezzo più basso. Tutto ciò, insieme alla mancanza di uno studio specifico finalizzato ad individuare il costo delle derrate alimentari, esclude che l'importo a base d'asta possa garantire un'offerta di qualità, competitiva e remunerativa. Il provvedimento cautelare del Tar Piemonte, sospendendo la gara, si occupa anche degli effetti di tale provvedimento urgente: si chiarisce infatti che la sospensione di una procedura a rischio di annullamento, se le offerte non sono ancora aperte, corrisponde ad un interesse generale. Sullo stesso tema, si è spesso anche il Tar Veneto, per la casa circondariale di Padova: con ordinanza 432/2017, i giudici hanno respinto l'istanza cautelare di un'impresa concorrente ritenendo, tra l'altro, che l'offerta da formulare non appariva antieconomica in quanto il valore percentuale previsto dai criteri ambientali minimi (criteri fissati con decreto per l'acquisto di prodotti e servizi nei settori della ristorazione collettiva) è riferito a macro-categorie e non a singoli alimenti, e quindi è caratterizzata da profili di flessibilità rispetto ad un servizio nel quale il costo del lavoro incide in modo limitato; inoltre, la stima della base d'asta risulta effettuata prevedendo un servizio di sopravvitto, che consente il ricavo di utili ulteriori, che allontanano la tesi dell'anti-economicità di un'eventuale offerta. Tra le due ordinanze, del Veneto e del Piemonte, sorge quindi un contrasto, che permane anche se le gare sono autonome in quanto riguardano le esigenze di specifiche case circondariali. L'ordinanza del Tar Piemonte, peraltro, risulta ben più documentata rispetto a quella del Veneto, anche perché emessa all'indomani di una precedente ordinanza istruttoria (Tar Torino, 361 / 2017). Rimane quindi aperto il problema delle gare di approvvigionamento di derrate alimentari per il confezionamento dei pasti nelle case circondariali, quantomeno fino al prossimo febbraio, data entro la quale sarà emessa la sentenza definitiva del Tar piemontese. Prescrizione ampia sui recidivi di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 8 novembre 2017 Effetto recidiva sulla prescrizione. Sia sul termine base sia sul limite previsto in caso di interruzione. Lo puntualizza la Corte di cassazione, con la sentenza n. 50619 della Terza sezione penale depositata ieri, per effetto della quale il termine di prescrizione per il reato di falsa fatturazione, commesso dal recidivo è stato fissato in 16 anni e 8 mesi. Limite che è frutto dell’applicazione concorrente dell’articolo 157, comma 2, e 161, comma 2 del Codice penale. Per la Cassazione così non è violato il principio del ne bis in idem, anche se sul punto esiste un orientamento diverso, Per la sentenza la recidiva reiterata, come circostanza aggravante ad effetto speciale incide sia sul calcolo del termine di prescrizione ordinario del reato, e, in presenza di atti interruttivi, anche sul calcolo del termine massimo. Effetto che era stato invece contestato dalla difesa che aveva negato l’applicazione congiunta delle due norme che hanno il medesimo effetto di dilatazione dei termini. La Cassazione ricorda che il principio del ne bis in idem non deve essere considerato allargabile anche alle ipotesi in cui il legislatore non lo ha espressamente previsto. Lettura sulla quale alla fine non dissente neanche la Corte costituzionale, che (sentenza n. 200 del 2016), pur privilegiando nell’individuazione dello stesso fatto una concezione di carattere più storico che legale, ha tuttavia messo in evidenza come di fatto identico si può parlare solo quando esiste coincidenza assoluta tra condotta-evento-nesso causale. Nella fattispecie della prescrizione, l’articolo 157 disciplina la fisiologica durata parametrandola alla durata massima della detenzione prevista per i singoli reati, con la previsione del secondo comma che inviata a non tenere conto né dell’effetto delle aggravanti né di quello delle attenuanti, con l’eccezione di quelle aggravanti che determinano una pena diversa da quella ordinaria e di quelle a effetto speciale. Invece l’articolo 161 - avverte la Cassazione - non disciplina a ben vedere la durata della prescrizione, quanto piuttosto gli effetti per questa degli atti interruttivi. Così, se il reato è stato commesso da un soggetto recidivo, l’interesse pubblico coerente con l’allarme sociale provocato da chi ha già dimostrato propensione a delinquere conduce a un’estensione del termine di prescrizione sino ai due terzi del limite fisiologico. Ordine d’indagine europeo anche per i reati tributari di Jean-Paule Castagno Il Sole 24 Ore, 8 novembre 2017 Il decreto legislativo n. 108 del 21 giugno 2017 ha introdotto, in attuazione della direttiva 2014/41/EU, l’ordine di indagine europeo (Oei): un nuovo strumento per l’acquisizione transnazionale degli atti investigativi e delle prove che permette il loro trasferimento attraverso un titolo giudiziale unico e unificato nello spazio europeo mediante la diretta ed immediata corrispondenza tra le autorità competenti dei diversi Stati, senza alcun intervento di filtro “politico”. L’Oei - già implementato in dodici Stati membri tra i quali Olanda, Francia, Gran Bretagna e Spagna - sostituisce il vecchio sistema delle rogatorie che resterà, invece, in vigore nei rapporti fra l’Italia e gli Stati dell’Unione che non hanno aderito alla direttiva (ossia Danimarca e Irlanda) nonché nei rapporti fra l’Italia e gli Stati che non appartengono all'Unione (come Islanda e Norvegia). Attraverso l’Oei, l’autorità giudiziaria di uno Stato membro può richiedere all’autorità giudiziaria di un altro Stato membro di procedere ad ogni atto investigativo funzionale all’acquisizione di una prova (perquisizioni e sequestri, intercettazioni, ascolto di persone sia esse testimoni sia esse accusati, acquisizioni di informazioni presso banche ed istituti finanziari, ecc.) in relazione a reati per i quali ormai si è giunti ad una armonizzazione a livello europeo (associazione per delinquere, traffico illecito di stupefacenti, corruzione, riciclaggio, criminalità informatica, criminalità ambientale, truffa, estorsione) o quando la fattispecie per cui si procede è punita in entrambi gli Stati coinvolti. Sul punto novità di rilievo è la possibilità di richiedere l’Oei anche in procedimenti per reati tributari, generalmente esclusi dal campo della cooperazione transnazionale. Il decreto distingue tra l’ipotesi dell’ordine di indagine emesso dall’autorità italiana (procedura attiva) da quella in cui esso sia stato emesso, invece, dall’autorità straniera (procedura passiva). Nel primo caso viene disciplinata la sola fase di emissione posto che la sua esecuzione avverrà secondo le regole e modalità dell’ordinamento dello Stato straniero di esecuzione: in merito alla validità degli atti di indagine eseguiti all’estero, nel silenzio del decreto, è l’articolo 14 della direttiva a stabilire che lo Stato di emissione debba garantire tutele analoghe a quelle riconosciute per gli atti di indagine eseguiti nel territorio nazionale. Nel secondo caso, invece, a fronte di un ordine emesso dall’autorità straniera, viene disciplinata la sola fase di esecuzione prevedendo che l’autorità giudiziaria possa rifiutarsi di riconoscere un determinato Oei in un numero particolarmente limitato di casi, quali, ad esempio, la presenza di vizi formali della richiesta o il rischio che l’esecuzione dell’atto investigativo possa ledere i diritti fondamentali dei soggetti coinvolti. Il difensore conserva un ruolo fondamentale in entrambe le fasi. Con riferimento alla procedura attiva ha un potere di iniziativa, potendo richiedere all’autorità giudiziaria l’emissione di un Oei e può avanzare riesame contro l’Oei emesso dall’autorità italiana avente ad oggetto il sequestro a fini di prova, in una fase precedente rispetto al riconoscimento da parte dell’autorità straniera. Con riferimento alla procedura passiva il difensore ha diritto di assistere all’esecuzione dell’atto e ad esserne informato nei tempi previsti dalla normativa interna entro cinque giorni dalla notifica del decreto di riconoscimento di un Oei proveniente dall’estero, può avanzare opposizione al giudice competente e, nel caso di sequestro a fini di prova, proporre ricorso per Cassazione contro la decisione di quest'ultimo. Accise da versare anche sui prodotti oggetto di furto di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 8 novembre 2017 Corte di cassazione - Sentenza 26419/2017. È legittima la richiesta di accise anche sui prodotti rubati: il furto, infatti, provoca la perdita del possesso da parte del contribuente, ma non impedisce l'immissione nel circuito commerciale. A fornire questo chiarimento è la Corte di cassazione con l'ordinanza n. 26419 depositata ieri. L'agenzia delle Dogane richiedeva il pagamento dell'accisa ad una società depositaria autorizzata di alcole. La contribuente chiedeva di sgravare parzialmente la richiesta poiché una parte del prodotto era stata rubata. L'Ufficio negava la riduzione della pretesa e la società impugnava il provvedimento dinanzi al giudice tributario. Entrambi i gradi di merito confermavano le ragioni della contribuente e l'Agenzia proponeva ricorso in cassazione avverso la sentenza della Ctr. In particolare, l'amministrazione lamentava un'errata applicazione della norma poiché il collegio regionale aveva ritenuto estinta l'obbligazione tributaria nel presupposto dell'equiparazione del caso fortuito al furto ad opera di terzi della merce custodita dal depositario. La Suprema corte ha ritenuto fondato il ricorso. Secondo quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità, in materia di accise, il furto del prodotto di per sé non esime, ai sensi dell'articolo 4, comma del 1 Dlgs 504/95, dal pagamento dell'imposta. La norma prevede che in caso di perdita irrimediabile o distruzione totale di prodotti che si trovano in regime sospensivo, è concesso l'abbuono della relativa imposta qualora il soggetto obbligato provi, in un modo ritenuto soddisfacente dall'amministrazione finanziaria, che la perdita o la distruzione dei prodotti è avvenuta per caso fortuito o per forza maggiore. L'ipotesi che consente l'esenzione, la cui prova è a carico del contribuente, è circoscritta solo alla dispersione o distruzione del prodotto, poiché ne risulta comunque impedita l'immissione nel consumo. La sottrazione da parte di ignoti, invece, determina soltanto lo spossessamento del contribuente, ma non impedisce l'ingresso nel circuito commerciale del prodotto. Da qui l'accoglimento del ricorso e la conferma della debenza del tributo. La Corte Ue “confina” le norme antiabuso interne di Marco Piazza e Alessandro Savorana Il Sole 24 Ore, 8 novembre 2017 Secondo la sentenza della Corte Ue sul caso Eqiom (causa C-6/16, si veda il Sole 24 Ore dell’8 settembre e del 5 ottobre 2017) “per verificare se un’operazione persegue un obiettivo di frode e di abuso, le autorità nazionali non possono limitarsi ad applicare criteri predeterminati, ma devono procedere, caso per caso, a un esame complessivo dell’operazione”. La pronuncia riguarda la normativa francese sulla disciplina madre-figlia, che nega l’esenzione della ritenuta di dividendi corrisposti dalla società figlia francese alla società madre Ue quando questa sia posseduta da una società residente fuori della Ue, a meno che la società madre “non comprovi che la catena di partecipazioni non abbia come fine quello di trarre vantaggio dall’esenzione”. Insomma, una norma di portata anti-abuso con inversione della prova a carico del contribuente. La questione non è nuova perché gli Stati membri giustificano le limitazioni all’esercizio delle libertà fondamentali con l’esigenza di contrastare l’elusione dell’imposta nazionale. Nel caso Eqiom, la Corte ha censurato la legge francese per violazione del principio di proporzionalità ribadendo l’illegittimità di una norma che istituisce una “presunzione generale di frode e di abuso” e pregiudica l’obiettivo di evitare la doppia imposizione degli utili distribuiti da una società figlia alla società madre. Il principio, dunque, non è di pretendere che gli Stati membri rendano più puntuali i presupposti delle norme antielusive, ma di imporre agli organi dell’amministrazione finanziaria di individuare caso per caso gli elementi a base della presunzione di abuso-elusione avviando un contraddittorio endo-procedimentale. Anche se i presupposti delle norme antiabuso fossero specifici, si tratterebbe comunque di “presunzioni generali”. È dunque sempre necessario un esame delle circostanze del caso e qualora sussista un fondato principio di sospetto, il contribuente potrà superare l’eccezione dell’abuso dimostrando l’esistenza di motivi diversi da quelli meramente fiscali a giustificazione della scelta fatta. Infatti, il divieto di abuso-elusione non è applicabile se la struttura in questione può avere anche una spiegazione diversa dal conseguimento del vantaggio fiscale. La questione ci porta al comma 6 dell’articolo 10-bis della legge 212/2000 (Statuto del contribuente), secondo il quale “l’abuso del diritto è accertato con apposito atto, preceduto, a pena di nullità, dalla notifica al contribuente di una richiesta di chiarimenti da fornire entro il termine di sessanta giorni, in cui sono indicati i motivi per i quali si ritiene configurabile un abuso del diritto”. Questo precetto sembra rimanere “confinato”, ai soli casi interni. In sostanza vi è un’asimmetria tra la disposizione di garanzia e le norme del Tuir che si attengono a operazioni-strutture transnazionali all’interno della Ue: fra tutte, quelle in tema di estero-vestizione, Cfc e sulla tassazione dei dividendi “provenienti” da Paesi a fiscalità privilegiata. Il perché di questo disallineamento non è dato sapere. È difficile immaginare però che, dopo la sentenza Eqiom, possano coesistere norme antielusive di serie A e di serie B. Stando alla Corte, la procedura di cui all’articolo 10-bis, comma 6, dello Statuto dovrebbe essere applicata in ogni caso in cui sia contestato l’abuso del diritto, senza che siano ammesse presunzioni fondate su criteri generali predeterminati. Piemonte: il Garante regionale “reinserimento lavorativo dei detenuti, siamo indietro” cr.piemonte.it, 8 novembre 2017 Impiego dei detenuti per le attività lavorative: in Piemonte alcuni esempi virtuosi, ma c’è ancora molta strada da fare. “Degli oltre 4mila detenuti rinchiusi nei tredici istituti di pena piemontesi solo 1.050, secondo le statistiche ufficiali, lavorano alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. Si tratta, nella quasi totalità dei casi, d’impieghi legati a lavoretti di economia domestica che non hanno nulla a che fare con i tempi, la qualità, le richieste e i risultati di un lavoro vero”. Con questa considerazione il garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Bruno Mellano ha aperto la conferenza stampa sul reinserimento lavorativo dei detenuti che si è svolta martedì 7 novembre a Palazzo Lascaris. Un’occasione per fare il punto sulla situazione piemontese e far conoscere quanto realizzato dal Consorzio sociale Giotto di Padova, presieduto dal leader nazionale in percorsi innovativi di reinserimento lavorativo e sociale di detenuti Nicola Boscoletto. “Il Consorzio - ha sottolineato Boscoletto - in ventisette anni ha dato vita a numerosi progetti, importanti per numeri e qualità d’intervento e dà oggi lavoro e stipendio a oltre 150 detenuti. Grazie a chi ci ha dato fiducia, oggi nel carcere di Padova i carcerati gestiscono il call center per le prenotazioni degli ospedali di Padova, producono biciclette, borse, panettoni e servizi di catering esterno”. Consapevoli che il costo sociale del carcere sta sia nella recidiva, ovvero nel mancato recupero del detenuto, sia nelle somme spese per una detenzione che rischia di essere fine a se stessa, Paola Lassandro della Cooperativa Arcobaleno, Gianluca Boggia della Cooperativa Extraliberi, referente per il progetto Freedhome, e Piero Parente della Cooperativa LiberaMensa hanno illustrato i progetti in atto per coinvolgere dal punto di vista sociale e lavorativo i ristretti. “Se le esperienze piemontesi, importanti ma ancora circoscritte nei numeri, ci offrono uno stimolo per riflettere - ha concluso Mellano - quella di Padova ci fa misurare il numero dei risultati e ci fa intravedere una possibile via da percorrere”. All’incontro sono intervenuti, tra gli altri, i consiglieri regionali Gian Paolo Andrissi, Andrea Appiano, Valentina Caputo e Francesca Frediani. Salerno: il Garante regionale “celle strapiene e sanità a rischio nel carcere di Fuorni” di Sara Botte ottopagine.it, 8 novembre 2017 Tappa nel salernitano per il Garante regionale dei diritti dei detenuti. Un viaggio nelle carceri campane per vedere e testimoniare le reali condizioni dei detenuti. È questa l'idea che sta portando avanti il Garante dei diritti dei detenuti Samuele Ciambriello. Dopo gli istituti penitenziari di Poggioreale, Secondigliano e Sant’Angelo dei Lombardi, questa mattina Ciambriello è stato ad Eboli e a Fuorni. “A queste persone è giusto togliere la libertà ma non la dignità”, precisa il garante. Un percorso che vuole fare emergere l'allarmante condizione nella quale si trovano queste persone, donne e uomini, ammassati in celle quasi sempre troppo piccole e che lamentano una condizione di abbandono. “A Fuorni c'è un sovraffollamento, mancano le figure intermedie, è previsto un direttore e due vice, i due vice non ci sono, è previsto un comandante e quattro commissari, non ci sono. Fortunatamente ci sono sette educatori, mancano almeno una settantina di agenti di polizia penitenziaria, tutto questo incide con il rapporto all'interno delle sezioni. Bisognerebbe investire di più - continua Ciambriello, facendo venire da fuori anche più specialisti della sanità. Inoltre il vitto per le detenute arriva sempre dopo diverso tempo, per motivi logistici. Le donne non riescono mai ad avere un pasto dignitoso e caldo”. Il garante ha illustrato poi degli accorgimenti per migliorare le condizioni di vita dei carcerati. “Si potrebbero aprire in alcune sezioni le celle per consentire ai detenuti di socializzare e non restare sempre in una cella tre metri per tre, in sei o sette, 22 ore al giorno. A Fuorni ci sono 150 detenuti in più rispetto alla capienza. Come garante ho messo in campo due proposte concrete: attrezzature ludiche e per bambini, uno spazio verde per i familiari che aspettano di vedere i propri congiunti, che sia misura d'uomo. Infine la possibilità di sostenere con una assistente sociale, un avvocato, un mediatore culturale i detenuti più poveri o disagiati sia di Fuorni che di Eboli” conclude Ciambriello. Ascoli: il Garante regionale “nove detenuti in una cella, è emergenza in carcere” Corriere Adriatico, 8 novembre 2017 “Una situazione senza dubbio problematica che necessità di interventi immediati per ripristinare condizioni di normale vivibilità per i detenuti”. Questo il commento del Garante regionale dei diritti, Andrea Nobili, al termine del sopralluogo nel carcere di Marino del Tronto ad Ascoli, previsto nell’ambito della costante azione di monitoraggio messa in atto dalla stessa Autorità di garanzia. Tra le maggiori anomalie riscontrate l’affollamento e le condizioni delle camere di pernottamento che in alcuni casi arrivano ad ospitare nove detenuti con tre file di brande a castello. “A ciò si aggiunge - evidenzia il Garante - la mancanza di un adeguato arredo in grado di soddisfare le esigenze minime di convivenza, il razionamento dell’acqua calda e l’imposizione della chiusura delle stesse camere, che va ad ostacolare la socializzazione e una reale vivibilità nell’istituto penitenziario”. Brescia: esecuzioni penali, arrivano i rinforzi di Thomas Bendinelli Corriere della Sera, 8 novembre 2017 Un piccolo sospiro di sollievo per l’ufficio esecuzione penale esterna (Uepe) di Brescia, da tempo sotto organico e con carichi di lavoro crescenti. È questo quanto se ne ricava dalla risposta che ieri il sottosegretario al ministero della Giustizia Gennaro Migliore ha dato all’interrogazione fatta dal deputato pd Alfredo Bazoli. Le difficoltà dell’ufficio si trascinano da tempo ma sono aumentate in particolare negli ultimi anni, da quando alcuni provvedimenti legislativi hanno ampliato le maglie delle misure alternative al carcere, in particolare la cosiddetta messa alla prova. “Misure positive, sia chiaro - spiega Alfredo Bazoli - che ci avvicinano alle migliori esperienze europee, ma gli uffici dell’Uepe sono sovraccarichi di lavoro e urgono risorse e personale”. Diciassette dipendenti, 5mila casi gestiti dall’inizio dell’anno (quasi il triplo rispetto al 2014). La scorsa estate la situazione era a rischio esplosione, con tanto di dichiarazione dello stato di agitazione da parte dei sindacati di categoria. L’interrogazione fatta da Bazoli è il frutto di quella protesta. Migliore ha ricordato che quest’anno sono stati stanziati 190 mila euro per la sede bresciana e l’avvio di una collaborazione con otto assistenti sociali. Oltre a tale attività è stata anche ridefinita la pianta organica dell’ufficio, con un addetto in più (assistente giuridico pedagogico). Oltre a questo il Ministero ha inoltre avviato le procedure concorsuali per l’assunzione di 60 persone. Nella risposta Bazoli vede il bicchiere mezzo pieno: “Sono molto soddisfatto, certo non è sufficiente ma sicuramente è qualche passo nella giusta direzione”. Il bicchiere sicuramente meno pieno lo vedono invece i sindacati: “Stiamo parlando - afferma Francesca Baruffaldi, segretaria della Fp Cgil a Brescia: di carenze di organico nell’ordine delle dieci persone”. Che le misure alternative servano è indubbio. Bazoli cita un dato: per chi sta in carcere la recidiva è del 70%, per chi usufruisce di misure alternative crolla a meno del 20 per cento. “Negli altri Paesi europei il rapporto carcerati misure alternative è di uno a uno - ricorda Bazoli: noi eravamo di tre carcerati a uno, in pochi anni siamo scesi a 1,3 a uno”. Bene, ma servono più risorse. Vibo Valentia: l’azienda Callipo rinnova progetto con il carcere, sette i detenuti assunti Adnkronos, 8 novembre 2017 Dopo il successo e le soddisfazioni arrivate con l’avvio del progetto lo scorso anno, l’azienda Giacinto Callipo Conserve Alimentari rinnova per il secondo anno la collaborazione con il Penitenziario di Vibo Valentia. Sette nuovi detenuti sono stati assunti per due mesi dall’azienda con il compito di preparare, all’interno del carcere, 10.000 confezioni regalo, contenenti un assortimento dei prodotti Callipo che saranno in vendita per le prossime festività natalizie. I detenuti-lavoratori sono stati formati in Carcere attraverso un periodo di training con il personale Callipo con l’obiettivo di trasferire loro le tecniche di confezionamento, ma anche i valori e le linee guida a cui tutti i lavoratori dell’azienda devono attenersi. “Crediamo molto in questo progetto di formazione e lavoro con i detenuti; lo scorso anno è stato accolto con tanto impegno ed entusiasmo e pertanto non potevamo che replicare la collaborazione con il Penitenziario di Vibo Valentia. Vogliamo trasmettere un messaggio di speranza e di fiducia in un futuro migliore per i detenuti in un’ottica di reinserimento sociale per dare loro una seconda possibilità. Ci auguriamo che questo possa diventare una catena virtuosa con il contribuito di altre aziende del territorio che come noi credono nella collaborazione sociale”, ha dichiarato l’amministratore unico e Cavaliere del Lavoro, Filippo Callipo. “Come Casa Circondariale siamo impegnati nel costruire opportunità di reinserimento sociale per tutti i detenuti. Cerchiamo, infatti, non solo di stimolare riflessioni sul loro passato ma di trasmettere positive progettualità per il futuro, la speranza per il futuro è fondamentale per chi si trova ristretto qui. La collaborazione con Callipo si conferma come una grande opportunità per i 7 detenuti assunti e sono sicuro che, come già successo lo scorso anno, anche loro sapranno capitalizzare al meglio questo periodo di lavoro e di formazione. Callipo è un esempio virtuoso, non solo in Calabria ma a livello nazionale, l’augurio è che questo progetto possa ampliarsi attraverso ulteriori collaborazioni con altre aziende del territorio”, ha commentato Antonio Galati, direttore del Penitenziario di Vibo Valentia. Callipo ha conferito alla società Openjobmetis la gestione delle assunzioni per conto dell’azienda. “Siamo molto orgogliosi di essere partner di Giacinto Callipo Conserve Alimentari in un progetto che, non solo mira a valorizzare le competenze di persone che meritano senz’altro un’occasione di riscatto sociale, ma che consente ancora una volta a noi di agire per fare dell’inserimento nel mercato del lavoro un’occasione per dare senso e dignità alle persone”, ha spiegato Rosario Rasizza, amministratore delegato dell’agenzia per il lavoro Openjobmetis Spa. “Tutto ciò contribuisce anche a consolidare il ruolo dell’agenzia per il lavoro come tramite per il progresso della nostra società e a trovare un modo ulteriore, specie in un territorio dove la disoccupazione rappresenta un problema di dimensioni enormi, per far comprendere a tutti coloro che oggi cercano un impiego quanta possibilità di reinventarsi possa esserci contando su alleati competenti ed entusiasti”, ha concluso. Tolmezzo (Ud): “L'Aquilone”, il primo periodico da una Sezione di Alta Sicurezza imagazine.it, 8 novembre 2017 Realizzato dei detenuti della Casa Circondariale di Tolmezzo. Il Garante Pino Roveredo presenterà il progetto nelle scuole, promuovendo il tema della legalità. Giornali, laboratori di scrittura, trasmissioni radio o tv: sono oltre una quarantina le realtà che in Italia danno voce ai penitenziari. Con il progetto L'Aquilone però, per la prima volta in Italia, un periodico nasce da una sezione di Alta Sicurezza. Ideato e organizzato dalla cooperativa sociale La Collina, in collaborazione con il Garante per le persone private della libertà personale della Regione Friuli Venezia Giulia e la casa circondariale di Tolmezzo, attraverso il contributo della Regione, nel corso dei mesi si è sviluppata una vera e propria redazione all'interno della struttura di Tolmezzo che, settimanalmente, si incontra, discute e scrive su argomenti differenti. Nasce così L'Aquilone: non uno dei soliti “giornalini” che raccolgono poesie, pensieri e lamenti, ma un giornale che racconta gli stati d'animo provati e procurati, dando margine anche alla critica sulla condizione carceraria. Pino Roveredo, Garante per le persone private della libertà personale della Regione Friuli Venezia Giulia, sottolinea come sia “vitale ed essenziale la cultura all'interno degli Istituti Penitenziari, cultura intesa come il sapere scolastico, il teatro e il giornale. Un giornale che prova ad abbattere molti luoghi comuni che descrivono il carcere con la comodità delle 24 ore in branda, ignorando gli aspetti disumani che vi girano dentro. A Tolmezzo ci sono persone condannate all'ergastolo, che trovano un motivo di sopravvivenza e riflessione anche raccontandosi con la scrittura”. Fabio Inzerillo, presidente della cooperativa sociale La Collina, evidenzia come sia “normale per noi tentare di dar voce a chi vive condizioni di marginalità, lo facciamo attraverso l’inserimento lavorativo, attraverso Radio Fragola, emittente comunitaria di cui siamo proprietari, attraverso i molti progetti che facciamo all’interno delle scuole e quindi abbiamo colto ben volentieri questa sfida di far nascere una redazione giornalistica all’interno del Carcere di Tolmezzo. Visto il primo numero de “L’Aquilone”, posiamo dire che questa sfida è stata vinta.” Sensibilizzare l'opinione pubblica sulla pena e sul carcere, informare sulle difficili condizioni di reclusione del detenuto, andando così ad abbattere il malessere del silenzio, dando il giusto riconoscimento al diritto di raccontarsi e di essere ascoltati. Uno stimolo per superare l'isolamento ed il “niente da fare” che spesso nelle realtà carcerarie diventa motivo di un indirizzo sbagliato e a senso unico. Un momento di riflessione per raccontare il modo di trascorrere il tempo, di come sono lunghe le attese, ma anche di ripensare ai propri vissuti, attraverso una personale riflessione sul proprio passato. Il passaggio successivo sarà quello di presentare il giornale all’interno di alcuni Istituti scolastici regionali, dove assieme a Pino Roveredo sarà occasione per parlare di legalità, comportamenti a rischio e carcere. Pisa: Premio letterario “Casalini” dedicato ai detenuti, oggi cerimonia al Don Bosco costaovest.info, 8 novembre 2017 Si terrà oggi, mercoledì 8 novembre, la cerimonia del Premio letterario Casalini, intitolato ad Emanuele Casalini, dedicato ai detenuti. Quest’anno si svolgerà al carcere Don Bosco di Pisa. Ogni edizione annuale si tiene in una casa di reclusione diversa. Nel 2016 la premiazione si svolse al carcere di Asti. Emanuele Casalini (nella foto) fu insegnante e preside al liceo classico di Piombino e docente volontario di scrittura e letteratura al carcere di Porto Azzurro, dove fu anche animatore del periodico “La Grande Promessa”, prima rivista carceraria sorta in Italia. Il Premio letterario Casalini è stato fondato nel 2002, poco dopo la scomparsa del professore, dalla San Vincenzo dè Paoli e dall’Unitre di Porto Azzurro che lo stesso Casalini aveva contribuito a fondare. Oggi il Premio letterario è promosso dall’Unitre di Porto Azzurro e dall’Unitre di Volterra, dalle case di reclusione di Porto Azzurro e di Volterra, dal Salone internazionale del Libro di Torino e dai Presìdi del Libri del Piemonte. La giuria è presieduta da Ernesto Ferrero, già direttore del Salone torinese. La Regione Toscana patrocina l’iniziativa. Un contributo del presidente Enrico Rossi è presente nel volume “L’altra libertà”, stampato a cura della Regione, che contiene le poesie ed i racconti scritti dai reclusi premiati o segnalati. L’assessore regionale Cristina Grieco e la vicepresidente Monica Barni hanno seguito da vicino lo sviluppo del Premio letterario Casalini. Alla cerimonia di premiazione, domani alle 13,30 al Don Bosco di Pisa, assieme ai detenuti, interverranno la vedova Lucia Casalini, il presidente della giuria Ernesto Ferrero, i giurati Fabio Canessa e Pablo Gorini. In rappresentanza della Regione ci sarà il dirigente Luca Lischi. Il direttore del carcere Fabio Prestopino farà gli onori di casa. Scopo del premio, fin dalla sua origine, è fornire nuovi incentivi ed inedite occasioni di riabilitazione ed elaborazione delle proprie esperienze e dei propri vissuti a chi si trova a vivere l’esperienza della reclusione. Taranto: progetto “L’altra città”, sperimentare un giorno da detenuto di Alessandra Cannetiello pugliapress.org, 8 novembre 2017 La Casa Circondariale “Carmelo Magli” di Taranto, ospita attualmente 550 detenuti a fronte di una struttura con una capienza regolamentare di 306. Il personale preposto alla sorveglianza è invece di 114 unità. Sovraffollamento, carenza di personale sanitario e di sicurezza. Assenza di personale specializzato nel trattamento dei detenuti tossicodipendenti e con patologie psichiatriche (234 i soggetti tossicodipendenti). Lo standard di sanità penitenziaria è dunque insufficiente e, soprattutto, non adeguato alle peculiarità delle problematiche sanitarie della popolazione penitenziaria. Sono queste alcune delle principali criticità del carcere. Il progetto prende forma e nasce dunque dalla volontà di avvicinare i cittadini alla realtà vissuta dai detenuti, con tutte le riflessioni che conseguono dalla simulazione che il fruitore dell’opera/carcere sperimenta durante il percorso. “Faccio momentaneamente rinuncia alla mia libertà, con la sola certezza che la stessa mi sarà resa a conclusione del percorso da intraprendere, senza la garanzia però, che la libertà di cui precedentemente in possesso potrà dirsi la stessa”. Questa è la premessa che ogni visitatore/attore, nel percorso individuale e solitario (con la sola guida e direzione degli agenti di Polizia Penitenziaria istruiti ad hoc per drammatizzare e aumentare il pathos della visita) accetta come conditio sine qua non, del proprio “pellegrinaggio” laico all’interno della Casa Circondariale “Carmelo Magli” di Taranto. “L’altra città. Un percorso partecipativo e interattivo nella realtà carceraria italiana” è un progetto artistico - ora alla sua seconda edizione - che non ha precedenti in Italia. Curato dal teorico e critico d’arte Achille Bonito Oliva e da Giovanni Lamarca - illuminato comandante del reparto di Polizia Penitenziaria di Taranto - e realizzato con la partecipazione dei detenuti, del personale in servizio e in pensione (Anppe), degli artisti, esperti e scrittori, tra i quali Giulio De Mitri, artista e docente; Roberto Lacarbonara, giornalista e critico; Anna Paola Lacatena, sociologa e scrittrice; Giovanni Guarino, attore e animatore e Salvatore Montesardo, ex dirigente scolastico e volontario nel Carcere “C. Magli” di Taranto. Progetto diventato concreto grazie al contributo dall’Associazione “Noi e Voi”, operante da anni all’interno della Casa Circondariale di Taranto. Il carcere assume le sembianze di un’opera artistica, per mezzo di una installazione site specific realizzata nella sezione femminile e creata dalle 20 detenute. Attraverso questa installazione, il singolo fruitore dell’esperienza, non più come spettatore - quindi come altro dall’opera - ma come essenziale meccanismo di attivazione dell’opera stessa, per mezzo della propria esperienza reale, vivida, ma calata in una enfatizzazione artistica fatta di simulacri simbolici che danno potenza al messaggio dell’opera, vivrà tutte le fasi della detenzione, spogliandosi della propria libertà e vestendosi - per tutta la durata del percorso - del fardello del detenuto. L’opera, realizzata nelle quattro celle che compongono l’esperienza, contestualizzate in una dimensione di surreale e amplificata che non ha come fine appagare il voyeurismo nella vita del detenuto - per questa ragione gli ambienti delle celle sono realizzati con una estremizzazione artistica - ma di eliminare definitivamente le barriere con la realtà del carcere. Per scoprirne dunque l’umanità e cogliere la gamma di emozioni, gli aspetti psicologici e spirituali che caratterizzano il percorso di cambiamento che ogni detenuto compie durante la propria esperienza in carcere. Per aumentare la comprensione e l’efficacia di questa esperienza, il fruitore compie il percorso singolarmente. La partecipazione attiva degli agenti di Polizia Penitenziaria, che sono i soli che possono interagire e che si vedranno per tutta la durata del percorso, agevolano l’immedesimazione nella realtà artefatta. Una tenda nera nasconde il corridoio. Una volta scostata - sempre seguendo l’agente - si svela agli occhi un tappeto di plastica lungo una quindicina di metri, fatto delle foto di familiari dei detenuti. Tappeto che non può non essere calpestato se si vuole raggiungere l’ufficio matricola, che servirà al riconoscimento come detenuti e darà l’avvio alla simulazione. Sul soffitto, appese a lunghi fili che letteralmente toccano il viso, tante foto (sono più di 100) di alcuni dei detenuti - sono 550 attualmente nel Carcere di Taranto - che hanno scelto di mostrarsi all’altra città. Si è faccia a faccia con le loro foto. Guardarle. Necessariamente guardarle, per avanzare. Il percorso si compone della registrazione nell’ufficio matricola e foto segnaletica e presa delle impronte digitali. Gli agenti fanno camminare lungo una linea gialla e, di volta in volta, si viene chiusi in ognuna delle 4 celle: Cella nuovi arrivi, Cella ordinaria,Cella di isolamento e Cella dimittendi. La prima, la cella nuovi arrivi, è quella che segna appunto l’arrivo del detenuto. L’agente chiude la porta. Il rumore della chiave nella serratura e i suoi passi sono l’unico suono udibile nel silenzio del corridoio. Un letto, la luce che entra dalla finestrella, qualche bicchiere di plastica e il bagno. Le pareti trasudano di scritte delle detenute. Pensieri a chi arriverà lì dopo di loro. Scritte di rimorso, di assenze, di turbamenti, di voglia di riscatto: “Non farti travolgere dall’oscurità, ma segui la luce della speranza”, una delle tante frasi che riempiono le pareti. Il rumore della chiave dona libertà momentanea. Stando sempre dietro la linea gialla si segue l’agente e subito si entra in un’altra cella: la cella ordinaria. La porta si richiude. La tv è accesa, il letto già allestito. Il testo del codice penitenziario e del codice penale, sul tavolino - questo è lo spazio in cui il detenuto vivrà stabilmente, durante il quale dovrà affrontare il processo - un posacenere ricavato da pacchetti di sigarette, bottiglie tagliate diventa una zuccheriera. Le pareti tappezzate da estratti di sentenze, ordinanze cautelari, modulistica interna. Qualche minuto ancora e si verrà condotti in quella che sicuramente rappresenta il momento oscuro nella vita di un detenuto: la cella di isolamento. Pareti dipinte di nero, una luce fioca, giallognola. L’estremizzazione artistica dell’esperienza di isolamento, rende la suggestione così reale da far vacillare il fruitore, che pur ne conosce la finzione. È palpabile la sofferenza della pena di isolamento. Qui i detenuti scontano la grave sanzione disciplinare dell’esclusione dalle attività di vita comune, per un tempo massimo di 15 giorni. Sono passati 3 minuti. La chiave gira nella serratura e si riguadagna la libertà momentanea. Si giunge così alla quarta e ultima cella: cella dimittendi. Una luce a led blu illumina la stanza, pareti decorate da farfalle di carta e farfalle, ancora farfalle, pendono dal soffitto. Tante rose. Tutte create dalle detenute, ad occupare il letto e i ripiani. E infine una clessidra, che l’agente prima di chiudere la cella capovolge, per far scorrer in giù la sabbia. È il tempo che sta per finire. Quel tempo che separa dalla libertà, da quella libertà che per il detenuto non è più concettuale e lontana, ma realtà che si fa concreta. La cella dimittendi è l’ultima fase di detenzione in carcere. Un percorso di metamorfosi che, in progressione, attraverso il lavoro di rieducazione e, con le attività messe in atto dalla struttura penitenziaria, gli restituisce la sua dignità e lo prepara per il reinserimento nella società civile. La cella dimittendi sancisce la libertà del visitatore/attore, che come ultimo step torna nell’ufficio matricola per ritirare il “foglio di primo ingresso” e ripercorre, con nuova consapevolezza, il tappeto di documenti e la selva di volti dei detenuti. Riacquisita la libertà, persa per qualche ora, come scrive nel catalogo che racconta il processo creativo e il progetto “L’altra città” la sociologa Anna Paola Lacatena: “Guardo verso l’alto. Il cielo. Lo stesso che le donne detenute non potranno che guardare a frammenti. Sono bellissimi i colori del tramonto. Si chiarificano in me le motivazioni di quel sollievo”. Torino: le detenute scrivono ad Almo Nature “aiutateci a salvare i gatti del carcere” quotidiano.net, 8 novembre 2017 Come già accaduto nel 2014 Almo Nature scende in campo per i mici de Le Vallette di Torino. La colonia viene seguita anche dalle carcerate che hanno chiesto aiuto e hanno ottenuto 9.000 pasti solidali. A distanza di tre anni una storia di amore per gli animali si ripete (era il 2014 quando, per la prima volta, le detenute delle carceri de Le Vallette di Torino chiesero aiuto per salvare 30 gatti che vivevano nelle case circondariali di Lorusso e Cotugno). A farsi portavoce dell’emergenza cibo, per una colonia felina di 300 gatti censita dal Comune di Torino, ancora una volta sono le donne detenute con una lettera indirizzata a Pier Giovanni Capellino, Fondatore e Presidente di Almo Nature, azienda che produce cibo per cani e gatti. “Mi rivolgo a lei - si legge nella missiva - perché sono in una situazione disperata, sono detenuta presso la casa circondariale di Torino e mi occupo come volontaria della colonia felina che vive nella parte esterna del carcere, colonia censita dal comune e che ormai ha raggiunto la cifra di circa 250 - 300 esemplari. L’Enpa entra per le sterilizzazioni ma non riesce a monitorare la situazione. Io con altre mie compagne raccogliamo gli avanzi di cibo della sezione ma non sono sufficienti a garantire loro la pappa…La prego di darmi una risposta nella speranza che non sia negativa”. Almo Nature, attraverso l’Enpa di Torino, dona così 9.000 pasti solidali, tra cibo umido e secco, ai gatti della colonia felina delle carceri delle Vallette di Torino. “Pensiamo e agiamo dal punto di vista degli animali - spiega Pier Giovanni Capellino - per questo abbiamo creato l’azione Love Food che ogni anno mette a disposizione 1 milione di pasti per aiutare strutture e associazioni di soccorso e accoglienza per animali in pericolo. Azioni solidali partite dall’Italia, per poi estendersi anche a Francia e Germania e che in futuro arriveranno anche in altri paesi europei. Love Food rientra nel progetto A Pet Is For Life, un impegno concreto volto a ridurre drasticamente l’abbandono di animali: non vogliamo lavorare solo sull’emergenza ma provare ad essere attori di un cambiamento che passi dall’emergenza alla soluzione. È anche per questo che recentemente abbiamo lanciato AdoptMe, per offrire un mese di pappa gratuita, tramite i canili e gattili aderenti, a chi adotta consapevolmente un animale. Desideriamo e speriamo così di far crescere una comunità che ponga al centro il rispetto per l’animale, qualunque esso sia”. L’azione di Almo Nature a Torino rientra infatti in un progetto molto più ampio a sostegno degli animali e della natura. Gli azionisti di Almo Nature hanno scelto di donare il 100% delle azioni della società Almo Nature spa, e delle sue filiali, ad una Fondazione che avrà come unica finalità partecipare alla salvaguardia della biodiversità e trasformare Almo Nature in un’azienda capitalista il cui dividendo annuale apparterrà al 100% ai valori difesi dalla Fondazione, anziché ad uno scopo privato. Con questa donazione, gli animali e la natura diventeranno i veri proprietari di Almo Nature. La storia tra le donne del carcere e i gatti ha inizio grazie al progetto di Pet Therapy. I benefici che le persone traggono dalla presenza degli animali sono molteplici: aumenta la comunicatività grazie al linguaggio non verbale, lo stress e l’ansia diminuiscono, c’è una maggior costanza nel movimento e nelle attività cognitive e anche un maggior stimolo mentale. Tutto ciò aiuta l’autostima e la socialità. Bologna: “Mozart14”, musicoterapia e songwriting con i ragazzi dell'Ipm del Pratello siae.it, 8 novembre 2017 All’arguto Leporello, il servo di Don Giovanni, ruba il nome il progetto di “Mozart14” sostenuto da Siae e dedicato alle iniziative musicali avviate in ambito sociale ed educativo da Claudio Abbado, ora portate avanti da Alessandra Abbado, figlia del grande direttore d’orchestra. L’esperienza maturata con il Coro Papageno nella Casa Circondariale “Dozza” ha portato Mozart14, a sviluppare un’attività di musicoterapia e songwriting con i ragazzi dell’Istituto Penale Minorile di Bologna: Leporello offre infatti ai detenuti fra i 14 e i 24 anni uno strumento per tradurre prima in testi e poi in canzoni un vissuto complesso e difficile da elaborare. Presentato questa mattina insieme con le attività dell’associazione, Leporello si affianca agli altri laboratori di musicoterapia e di canto corale (Tamino, Coro Papageno, Coro Cherubino) che portano l’esperienza musicale tra i degenti dei reparti pediatrici, di bambini e adolescenti con disabilità fisiche e cognitive, di detenuti e detenute, dei ragazzi reclusi nel carcere minorile. “La musica è un linguaggio universale, che supera barriere fisiche e geografiche. Ha l'enorme potere di arrivare dritta al cuore delle persone, confortarle e aiutarle ad esprimere se stesse - ha detto Alessandra Abbado. La musica fatta insieme, insieme a colui che ci ascolta, a colui che suona o canta al nostro fianco, ha un immenso potere terapeutico, che è proprio ciò che Mozart14 vuole sostenere. Con la musicoterapia e il canto corale vogliamo aiutare chi lotta con un disagio interiore, sia adulto, ragazzo o bambino, sia nelle carceri che in pediatria, in quanto la musica permette di elaborare il disagio causato dal sentirsi recluso o dal ritrovarsi in un reparto d’ospedale; è in grado di ridurre gli stati di ansia; di alleviare la percezione del dolore; placa il pianto del prematuro, facilita la creazione di una relazione emotiva tra il neonato in incubatrice e i genitori. Per questo chiediamo sostegno, per continuare a mantenere vivo lo spirito con cui Mozart14 conduce con entusiasmo la propria attività”. Dal 2017 Ezio Bosso è testimone e ambasciatore internazionale del messaggio “la musica ti cambia la vita”, che ispira ed è il filo conduttore di tutte le attività dell’associazione. Radio Carcere: il carcere di Poggioreale, dove si dorme per terra e il degrado è regola Ristretti Orizzonti, 8 novembre 2017 La registrazione dell'ultima puntata di Radio Carcere, il programma condotto da Riccardo Arena per Radio Radicale. “Poggioreale, un carcere realizzato più di cento anni fa e che ospita oltre 2.100 detenuti. Ma l'emergenza carceri non era stata superata?”. Link: http://www.radioradicale.it/scheda/524364/radio-carcere-il-carcere-di-poggioreale-dove-si-dorme-per-terra-e-dove-il-degrado-e Montalbano e Camilleri contro la violenza sulle donne di Silvia Fumarola La Repubblica, 8 novembre 2017 In occasione della Giornata mondiale contro i femminicidi, il 25 novembre, da mercoledì 8 Rai1 replica quattro episodi in cui Luca Zingaretti indaga su donne uccise. Lo scrittore introduce le puntate con un appassionato appello sul rispetto delle donne e della loro libertà. “Se un uomo maltratta una donna, questo non è amore”: anche Luca Zingaretti, nel 2016, aveva partecipato alla campagna della Polizia di Stato contro i femminicidi, invitando a denunciare. Nei panni del commissario Montalbano ha indagato spesso in casi in cui le vittime erano donne. In occasione della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, il 25 novembre, Rai1 ripropone dall'8 novembre le repliche di quattro episodi del commissario Montalbano legati da questa emergenza. A introdurre la collana Montalbano e il grido delle donne, è lo scrittore Andrea Camilleri che nel suo intervento pacato ma forte nei contenuti, sottolinea come “il problema da qualche anno nel nostro paese si va facendo sempre più gravoso fino a diventare insopportabile”. “Questo tipo di violenza che spesso e volentieri arriva all’omicidio - magari effettuato nei modi più crudeli e più barbari - ha una caratteristica: nella maggior parte dei casi viene compiuto da fidanzati ex fidanzati, mariti, ex mariti. Viene fuori un desolante quadro di arretratezza dei nostri costumi, di sconsolante angustia mentale”. “In Italia - continua l’autore di Montalbano - una gran quantità di maschi, di qualsiasi classe sociale, considerare la donna oggetto di sua proprietà in eterno, come se non dovesse avere mai più la libertà… Questa concezione è il modo più degradante e più abietto di considerare la persona umana. Il rifiuto alla sottomissione non ha che un verdetto possibile: la morte, l’annullamento totale dell’esistenza di una donna che osato opporsi. Potremo vantarci della ripresa economica, della disoccupazione diminuita, di tanti passi avanti ma fino a quando non raggiungeremo questo concetto di parità assoluta tra uomo e donna noi faremo dei falsi passi in avanti”. Gli episodi. Nella prima puntata l'8, Una voce di notte (2013), Montalbano indaga sull'omicidio della fidanzata di Giovanni Strangio, figlio del presidente della provincia di Montelusa; dovrà indagare districandosi tra le pressioni dei politici coinvolti. Il 15 andrà in onda Le ali della sfinge (2008), in cui viene uccisa una ragazza dell'est: il volto è devastato da uno sparo ma un tatuaggio sulla spalla sinistra aiuta la polizia a identificare la donna. Un segno particolare con cui sono marchiate tante altre giovani. Il 22 sarà la volta di La caccia al tesoro (2011), in cui il commissario insieme a Mimì Augello (Cesare Bocci) e Fazio (Peppino Mazzotta) in un'operazione a casa di due anziani barricati a casa, armati, scopre una bambola gonfiabile, deturpata. Sfida un pericoloso maniaco che inizialmente simulerà, con altre bambole gonfiabili, l'assassinio di alcune donne. Nell'ultima replica, il 29 novembre, Gatto e cardellino (2002), vedremo il commissario alle prese con uno scippatore di vecchiette. Nel frattempo Augello è in licenza matrimoniale e al suo posto arriva Barbara Bellini (Mariacristina Marocco), amica di infanzia del protagonista. Serie dei record. Il ritorno di Montalbano legato a un tema importante come quello della violenza sulle donne - mentre da settimane col caso Weinstein si moltiplicano le denunce per molestie - è un'operazione intelligente ma anche una boccata di ossigeno per Rai1, in crisi di ascolti. Montalbano anche in replica fa numeri da record e il pubblico apprezza, pure se conosce a memoria i gialli di Camilleri. Sicuro di sé, anarchico ma servitore dello Stato, perché sempre alla ricerca della giustizia, Montalbano ci consola. Il perché del successo lo ha spiegato bene Zingaretti: “Andrea Camilleri è un signore che ha un mondo interiore sedimentato in novant'anni di vita. Ha creato un personaggio che ha il baricentro dentro di sé. Non corre dietro l'effimero: gli bastano un po' di soldi per vivere, la sua casa, la donna che ama, meglio se un po' lontana. Desidera quello che ha: questo ha un effetto deflagrante sul pubblico”. Prodotta da Palomar e Rai Fiction, diretta da Alberto Sironi, quella che vede protagonista il commissario di Vigata è la serie dei record: il 6 marzo scorso Come voleva la prassi ha raccolto 11.3 milioni di spettatori con il 44,1 per cento di share, il miglior risultato di una fiction negli ultimi quindici anni. Un dato che ha fatto superare alla saga di Camilleri la soglia del miliardo di spettatori, sommando gli ascolti di tutte le puntate nei 18 anni di storia della collana. I nuovi episodi. Per vedere le due nuove avventure del commissario più amato della tv bisognerà aspettare la primavera Il primo episodio è tratto da La giostra degli scambi e nell'altro si fondono le novelle Amore e La prova generale. La giostra degli scambi, che ha tra gli interpreti anche Sebastiano Lo Monaco, racconta una serie di strani e inquietanti scambi di persone. Nel cast dell'altro film tv figurano, tra gli altri, Fabrizio Bentivoglio e Serena Iansiti. Il giallo intreccia la misteriosa scomparsa di una giovane donna e la malsana ossessione di due anziani per la morte. Terrorismo. La lista nera dalla Tunisia: ecco i jihadisti arrivati in Italia Il Messaggero, 8 novembre 2017 Nell’ultimo mese decine di integralisti salafiti hanno raggiunto il nostro Paese Un 25enne inserito nell’elenco è stato già rimpatriato. L’allerta dell’Antiterrorismo. La segnalazione è arrivata dalla Tunisia alcune settimane fa e finora è stata trattata con un certo riserbo: nell’ultimo mese, dal paese che ha dato il maggior contributo pro-capite alla battaglia jihadista sono partite alcune centinaia di persone dirette verso le coste italiane. E di queste, alcune decine sarebbero integralisti almeno potenzialmente pericolosi. Ieri, uno dei nomi inseriti nell’elenco, Abdelhak Ben Makhlouf Aouini è stato rintracciato a Milano e rimpatriato con un aereo partito da Palermo e diretto a Tunisi. È un uomo di venticinque anni, non ha precedenti specifici nel nostro paese, ma l’Antiterrorismo l’ha inserito nell’elenco delle persone pericolose da fermare immediatamente inviato a tutte le pattuglie territoriali, sulla base proprio delle informative arrivate dalla Tunisia. Nel suo muoversi attraverso l’Italia, Aouni ha sicuramente compiuto qualche ingenuità, postando su Facebook alcune foto di se stesso a Milano, sempre in luoghi molto riconoscibili. Proprio sulla base di una di quelle foto, lo scorso 25 ottobre, una volante l’ha fermato ed è stato immediatamente spostato nel centro rimpatri di Torino e quindi in Sicilia. Ma al di là del rimpatrio di Aouni, il 91esimo nel corso del 2017 firmato dal ministro dell’Interno Marco Minniti (dal 1 gennaio 2015 sono stati 223), a mettere gli apparati di sicurezza in allerta è l’elenco arrivato dalla Tunisia. Lo spostamento di alcuni radicalizzati verso il nostro paese via mare, e potenzialmente, attraverso la penisola, anche in altre zone d’Europa, sarebbe legato all’indulto proclamato dal presidente Beji Caid Essebsi. Una decisione che circa un mese fa aveva suscitato dichiarazioni preoccu- pate tanto dalla leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, quanto da alcuni esponenti leghisti. In Tunisia, come in altri paesi mediorientali, rilasciare alcuni detenuti in occasione di eventi particolarmente rilevanti (Essebsi l’ha fatto in occasione dei sessant’anni della repubblica tunisina) è una pratica piuttosto comune e infatti, anche se circa 1.500 hanno ottenuto uno sconto di pena, i rilasciati sono circa 400. Droghe. Avere ragione quaranta anni prima di Giancarlo Arnao Il Manifesto, 8 novembre 2017 Giancarlo Arnao, lo studioso e il militante antiproibizionista, è scomparso il 14 novembre del 2000. Ripresentiamo alcuni brani della sua prefazione al volume “Eroina oggi” di Stampa Alternativa, a cura di Pierluigi Cornacchia. Il testo, dell’agosto 1979, presenta riflessioni straordinariamente lungimiranti, specie pensando agli sviluppi odierni di legalizzazione della cannabis in molti stati Usa. “Se proviamo a chiedere a cento persone un parere su problemi angosciosi e scottanti per ciascuno come la crisi energetica, lo sviluppo economico, la corsa agli armamenti, i rischi nucleari, ecc., non è difficile prevedere che non vi saranno cento risposte: molti si dichiareranno incompetenti e preferiranno delegare ai “tecnici” giudizi e soluzioni. Sulla droga avremo invece cento risposte: tutti si ritengono in grado di dare un parere, sia pure sbrigativo o semplicistico; nessuno riconosce onestamente di non poter giudicare. Ciò non è dovuto certo solo alla presunzione e alla superficialità, ma anche e soprattutto ad un massiccio condizionamento culturale, per cui esprimere un parere sulla droga è un vero e proprio “obbligo morale”, basato sul postulato che “la droga” (senza aggettivi né specificazioni) è sempre e comunque la quinta essenza del “male”. All’interno di questo che potremmo definire “postulato etico”, coesistono posizioni apparentemente contraddittorie, grossolane o sofisticate, autoritarie o progressiste, di destra o di sinistra: per intenderci, da chi sostiene che gli spacciatori vanno fucilati e i “drogati” messi tutti in galera in regime di “tacchino freddo”, a chi propone sofisticate strutture e tecniche di disintossicazione, naturalmente non coatta (dandosi per scontato che tutti i tossico-dipendenti vogliono disintossicarsi). Posizioni diverse, accomunate da una tendenza di fondo: quella di ergersi virtuosamente in una “lotta alla droga” intesa come contrapposizione fra Male e Bene, anziché considerare la subalternità del dato farmacologico rispetto alla realtà e relatività della condizione umana di chi della droga fa uso. Il “postulato etico” non è dominante solo a livello di “uomo della strada” ma anche nelle istituzioni, nella cultura, negli operatori specializzati (medici, psichiatri), fino ai livelli supremi della Organizzazione Mondiale della Sanità, i cui pregiudizi hanno a tal punto oscurato ogni parvenza di dignità scientifica da definire “narcotici” sostanze come gli allucinogeni, i derivati della coca e la cannabis. Io credo che su questo punto essenziale non si è abbastanza riflettuto. Le storture e le magagne della bistrattata legge 685 (…) rientrano nello spirito e nella lettera della Convenzione Unica dell’Onu del 1961, che costituisce una sorta di legge-quadro supernazionale. Una legislazione che è così intimamente legata ad una interpretazione “esorcistica” di un fenomeno da prescrivere tassativamente sanzioni penali per i consumatori di droga, da non preoccuparsi che tali prescrizioni abbiano portato alcuni Paesi ad emettere regolarmente sentenze mostruose (ricordo un giovane umbro recentemente condannato a 30 anni di galera in Turchia per il possesso di 100 o 200 anni di hashish). Una legislazione iniqua, imbecille e razzista che decreta nel 1974 l’inizio del proibizionismo della cannabis nel Nepal (dove tale sostanza è stata usata tradizionalmente da millenni), ignorando (o ben sapendo?) che ciò significa incentivare l’uso e abuso di alcol, e dimenticando che giusto un anno prima, nel 1973, il possesso della marijuana è stato decriminalizzato nello stato dell’Oregon. Una legislazione talmente screditata da accettare senza batter ciglio che un altro stato Usa, l’Alaska, legalizzi a tutti gli effetti la produzione e il possesso di marijuana nel 1975”. Le “mie prigioni” di un giornalista in Turchia di Vito Punzi Libero, 8 novembre 2017 Giornalista turco attualmente in esilio in Germania, dove ha fondato il portale d’informazione turco-tedesco “Özgürüz”, Can Dündar (Ankara 1961), quand’era direttore del quotidiano Cumhuriyet, con sede a Istanbul, nel 2015 si era reso protagonista della diffusione pubblica di un video mostrante un tir dei servizi segreti turchi diretto in Siria con un carico d’armi pesanti nascosto sotto casse di medicinali e destinato probabilmente a al-Qaida e all’Isis. Dündar fu arrestato e incarcerato insieme al collega Erdem Gül con l’accusa di spionaggio e divulgazione di segreti di Stato. Dopo tre mesi di reclusione, di cui quaranta giorni in isolamento, chiuso in una cella di venticinque metri, è stato rilasciato il 26 febbraio 2016 in seguito al pronunciamento della Corte costituzionale. Il libro che “Nutrimenti” ha appena pubblicato (“Arrestati”, trad. di G. Ansaldo, p. 264, € 17,00) è il racconto in prima persona che il giornalista ha scritto per ricostruire l’intera vicenda, fino alla scarcerazione. Un libro scritto di certo col sano intento di ricordare al mondo quanta strada debba fare ancora la Turchia, in particolare il regime dell’attuale presidente Erdogan, sul terreno della libertà d’espressione e d’informazione (dunque anche di stampa). Dündar è uomo colto, cita Kafka, Orwell, Stefan Zweig e importanti scrittori turchi, il tutto con l’intento di sottolineare la dimensione epica, perfino eroica, di quanto subito per il coraggio impugnato a difesa della libertà di denuncia rispetto alle menzogne e al doppio gioco del potere politico. Va bene tutto: le foto a corredo del libro (anche quella, un tantino ridicola per la verità, del giornalista che esce di casa col cane…), le venti pagine con il disegno dei passi in forma di parole all’interno del cortile del carcere... ma avremmo preferito non sapere la serietà con la quale Dündar crede nell’astrologia, che i Gemelli sono il suo “segno dominante”. Falsi bilanci in Grecia: il potere della menzogna supera la verità di Federico Fubini Corriere della Sera, 8 novembre 2017 Il tribunale civile di Atene non si limita a sancire l’umiliazione pubblica dell’uomo che fece trasparenza sullo stato del Paese. Va un passo più in là: gli proibisce di dire il vero, e in fondo è esattamente questo l’aspetto più attuale. La democrazia nasce ad Atene due millenni e mezzo fa, ma più di recente emerge da lì anche una lezione sinistra sull’impotenza della verità nella sfera pubblica. Il protagonista di questa vicenda è Andreas Georgiou, l’ex capo dell’ufficio statistico greco già condannato da un tribunale ellenico per una colpa imperdonabile: aver corretto i falsi nel bilancio greco, portando alla luce il deficit che sarebbe costato il fallimento del Paese. Di recente Georgiou ha subito una nuova condanna da un tribunale di Atene: “diffamazione semplice”, per aver affermato una verità che lede l’onore di qualcuno. Il ricorrente era Nikos Stroblos, l’uomo che prima della crisi guidava la divisione nella quale erano stati falsificati i bilanci. Messo sotto accusa per aver riportato alla luce la realtà, Georgiou si era chiesto pubblicamente perché nessuno invece persegua in giustizia gli autori dei falsi. Questo gli è costato l’ultima condanna: lo statistico onesto dovrà versare 10 mila euro a Stroblos, il suo avversario, e pubblicare a proprie spese su un grande quotidiano ellenico la sentenza che decreta la propria sconfitta. Se rifiuta e resiste, per ogni giorno di ritardo avrà una multa di duecento euro. In sostanza il tribunale civile di Atene non si limita a sancire l’umiliazione pubblica dell’uomo che fece trasparenza sullo stato del Paese. Va un passo più in là: gli proibisce di dire il vero, e in fondo è esattamente questo l’aspetto più attuale. Se infatti l’inizio della crisi greca sembra di una vita fa - dati i trascorsi da allora - la sua coda giudiziaria rimanda al grande disordine che domina la vita pubblica in molte altre democrazie oggi. Prima delle presidenziali di un anno fa, 146 milioni di americani avevano letto su Facebook fake news, falsità traversite da verità prodotte ad arte da un laboratorio russo. Deliberatamente falsa era anche la notizia dello stupro di una sedicenne in Germania ad opera di rifugiati afgani. Mai come oggi la menzogna consapevole ed epidemica diventa uno strumento di potere nella società aperta, e contro di essa. La Grecia ha inventato la democrazia nel quinto secolo avanti Cristo e aperto la crisi dell’euro sette anni fa. Meglio non prendere alla leggera i segnali che vengono da lì. L’Onu: “Il governo birmano protegga il suo popolo” di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 8 novembre 2017 Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha “espresso allarme per il rapido deterioramento della situazione umanitaria in Birmania e per il numero crescente di rifugiati e sfollati”. In una dichiarazione letta dall’ambasciatore Sebastiano Cardi, rappresentante permanente dell’Italia al Palazzo di Vetro, presidente di turno del Cds, i Quindici hanno sottolineato la preoccupazione per le notizie di gravi violazioni dei diritti umani nello stato del Rakhine, in particolare contro membri della minoranza Rohingya, riaffermando la “primaria responsabilità del governo birmano di proteggere il suo popolo”. I Quindici hanno anche chiesto al governo di assicurare che non ci siano più eccessi di violenza da parte delle forze militari nel Rakhine. I membri del Consiglio hanno plaudito agli sforzi del Bangladesh, insieme all’Onu, per l’assistenza fornita ai profughi, chiedendo al governo birmano di lavorare con quello bengalese per permettere il ritorno volontario dei rifugiati alle proprie case con sicurezza e dignità. Hanno anche ribadito la condanna delle violenze nel Rakhine del 25 agosto scorso, e dell’attacco da parte dei Rohingya alle forze di sicurezza birmane.