“La riforma per dare certezze quando si violano i diritti umani” di Damiano Aliprandi Il Dubbio , 7 novembre 2017 Parla Rita Bernardini, giunta al 23esimo sciopero della fame insieme a Deborah Cianfanelli. Nonostante gli sforzi fatti dal governo, il sovraffollamento è in continuo aumento. Ogni mese si suicidano i reclusi nonostante il piano nazionale per la prevenzione del suicidio in carcere, sono ancora troppo pochi i ricorsi alla pena alternativa e, in generale, gli istituti penitenziari non rispettano pienamente il dettato costituzionale. Una via di uscita da questa situazione è la modifica all’Ordinamento penitenziario. Il governo, sulla base di precise linee guida dettate dal legislatore, è delegato a risistemarlo semplificando tra l’altro le procedure davanti al magistrato di sorveglianza, facilitando il ricorso alle misure alternative, eliminando automatismi e preclusioni all’accesso ai benefici penitenziari, incentivando la giustizia riparativa, incrementando il lavoro intramurario ed esterno, valorizzando il volontariato, riconoscendo il diritto all’affettività e gli altri diritti di rilevanza costituzionale e assicurando effettività alla funzione rieducativa della pena. Ma l’iter per l’approvazione rimane ancora lungo. L’unico movimento politico a chiedere al governo di andare avanti senza tentennamenti sulla riforma dell’ordinamento penitenziario attraverso la rapida attuazione dei decreti attuativi, è il Partito Radicale. E lo fa attraverso il Satyagraha, l’iniziativa non violenta che vede coinvolti migliaia di detenuti. Rita Bernardini, della presidenza del Partito Radicale, è giunta al 23esimo sciopero della fame. Lei, con la presidente del Comitato Radicale per la Giustizia “Pietro Calamandrei” Deborah Cianfanelli, assieme ai 11.000 detenuti che hanno aderito al Satyagraha, il 16 ottobre ha ripreso a oltranza lo sciopero della fame per chiedere al ministro Orlando di mantenere gli impegni sulla riforma dell’ordinamento penitenziario. Notizia della settimana scorsa è che i primi decreti attuativi sono stati inviati al garante nazionale dei detenuti Mauro Palma che li ha prontamente visionati e rimandati al ministro ponendo delle osservazioni. È una buona notizia che lascia ben sperare per la piena attuazione della riforma? Non mi pare che, almeno per ora, ci sia la consapevolezza da parte del governo che, a tirarla ancora per le lunghe, tutto rischi di saltare. Insomma, quella “prepotente urgenza” denunciata dall’ex Presidente della Repubblica nel 2011 e poi confermata - sotto la pressione nonviolenta di Marco Pannella - con il messaggio alle Camere del 2013, non è sentita come dovrebbe. A proposito, che fine ha fatto Napolitano? Da lungo tempo non dice più una parola sulle condizioni di detenzione e sul malfunzionamento della giustizia nel nostro Paese. Pensa forse che sia tutto risolto? La situazione delle carceri resta drammatica. Perché pensa che sia importante l’attuazione della riforma dell’ordinamento penitenziario? È un punto d’arrivo, oppure solo l’inizio? La situazione delle carceri continua ad essere drammatica. Noi lo sappiamo perché le celle le frequentiamo e dunque conosciamo in presa diretta la disperazione e l’isolamento che vive ogni giorno la comunità penitenziaria. La riforma dell’Ordinamento penitenziario, se fosse approvata dal governo secondo la delega ricevuta dal Parlamento, sarebbe un buon “nuovo inizio”. Un po’ come quando i sindacati strappano un contratto: da quel momento inizia la lotta per metterlo in atto. Per cominciare a ridurre il sovraffollamento, i decreti dovrebbero prevedere di aumentare i giorni della liberazione anticipata da un lato e, dall’altro, un maggiore accesso alle pene alternative al carcere che sempre pene sono, ma molto più efficaci ai fini di un vero reinserimento sociale del detenuto, senza ricadute nel reato. Eppure, c’è chi reputa pericolosi i decreti attuativi. Proprio il mese scorso, l’onorevole Vittorio Ferraresi del Movimento Cinque Stelle e membro della Commissione giustizia, durante l’intervista ai microfoni di Radio Radicale ha detto espressamente che le deleghe sono pericolosissime per la sicurezza e la legalità all’interno delle carceri. Gli sbandieratori della Costituzione dimostrano ogni giorno di più di non averla letta o, se l’hanno letta, di non averla compresa. Parlano di legalità e di certezza della pena ma non si pongono il problema della certezza del diritto anche nell’esecuzione penale quando questa viola i diritti umani. Ciò che mi angoscia, lo confesso, è che non considerano mai le conseguenze di ciò che dicono e fanno, probabilmente sottovalutando il fatto che le leggi e attuazioni liberticide delle stesse possono colpire anche loro. A proposito di forze politiche. Nel panorama politico, indubbiamente, il Partito Radicale è uno dei pochi, se non l’unico, che costantemente compie viste all’interno dei penitenziari, porta avanti denunce sul funzionamento della giustizia e in generale vigila sullo stato di diritto del nostro Paese. Un partito che non è esente però da critiche. Ad esempio c’è il Sappe, uno dei maggiori sindacati di polizia penitenziaria, che più volte prende posizioni contro voi del Partito Radicale. Eppure non dovrebbe appoggiarvi visto che la disumanità e degrado attuale delle carceri logora anche gli agenti penitenziari? Innanzitutto occorre distinguere i sindacati penitenziari dalla platea dei 35.000 agenti. Se la massa si è notevolmente evoluta negli ultimi anni, i dirigenti sindacali ai massimi livelli sono regrediti sempre di più verso posizioni securitarie e repressive. Il problema, a mio avviso, è uno solo: poiché da anni non svolgono più il ruolo istituzionale che gli è assegnato, che è quello di salvaguardare i diritti degli agenti (stipendi, qualità e quantità di lavoro), i capi sindacali stanno perdendo consensi nella base degli iscritti, stufa dei loro favoritismi, dei loro privilegi, delle loro chiacchiere senza costrutto, del loro seminare odio. Perché se c’è una cosa che la massa degli agenti sicuramente ha capito è che se i detenuti sono trattati come previsto dalla legge, il loro stesso lavoro ne guadagna in termini di qualità quotidiana. Il Partito Radicale ha una tradizione anticlericale, eppure dialogate perfino con la Chiesa. Recentemente, infatti, lei è stata invitata a tenere una conferenza sulla situazione carceraria italiana promossa dalla comunità monastica dei monaci e delle monache camaldolesi di Roma. La nonviolenza di Pannella ha profonde radici nella cultura cristiana. Di formazione crociana e quindi liberale, Pannella si è sempre riconosciuto in quel “perché non possiamo non dirci cristiani” del filosofo di Pescasseroli: un conto sono questi valori, un altro è il potere temporale della Chiesa che Marco e il suo Partito Radicale hanno sempre contrastato. Risale al 1979 la marcia contro lo sterminio per fame nel mondo da Porta Pia a Piazza San Pietro che fu accolta con gratitudine da Papa Wojtyla e con non poche smorfie di disappunto di una parte del popolo radicale. Sulle cose che contano, Marco ha dialogato sempre con tutti, privilegiando spesso le persone più lontane dai suoi principi e dalle sue idee. Però il Partito Radicale rischia di chiudere se non raggiunge, entro il mese di dicembre, i 3000 iscritti. A che punto siete, il rischio è davvero concreto? Siamo a 2.400 iscritti e quindi ne mancano “solo” 600. Il tempo a disposizione però è poco: 53 giorni. Il rischio è che cadiamo proprio mentre ce la stiamo per fare. E così sarà se non ci sarà un gesto di solidarietà e di vicinanza da parte di coloro che ci conoscono a dispetto dell’ostracismo e della censura dei grandi mezzi di informazione. La riforma sulle intercettazioni non ci trasformerà nella Turchia di Erdogan di Ermes Antonucci Il Foglio , 7 novembre 2017 “Intercettazioni, per i giornalisti spunta il carcere fino a tre anni”. È l’allarme lanciato con la solita enfasi da Repubblica domenica scorsa. Secondo la giornalista, Liana Milella, il paese deve fare i conti con “il primo frutto avvelenato” della riforma sulle intercettazioni varata dal governo: un vero e proprio bavaglio per i poveri cronisti, che non potrebbero pubblicare alcuna registrazione considerata irrilevante dai pubblici ministeri ma “rilevantissima invece per la notizia che contiene”. Pena un’incriminazione per rivelazione di segreto d’ufficio, in concorso con il pubblico ufficiale che ha fornito la notizia, un reato che prevede da sei mesi a tre anni di reclusione. L’articolo non lascia margini di dubbio al lettore: l’informazione italiana deve fare i conti con una stretta autoritaria sul modello Turchia di Erdogan, con tanto di manette per i giornalisti. Ma la situazione è proprio come raccontata da Repubblica? Non proprio. Intanto, la riforma sulle intercettazioni ancora non è effettiva: il decreto emanato dal governo dovrà passare dalle due commissioni Giustizia di Camera e Senato per ottenere i pareri e poi tornare in Consiglio dei ministri. Ma a parte questo, Repubblica sembra fare un gran baccano per nulla: i giornalisti italiani non devono fare i conti con nessun nuovo reato istituito dalla riforma sulle intercettazioni. In realtà, il decreto non fa altro che affidare al pm la responsabilità sulla riservatezza delle intercettazioni, raccolte durante le indagini, ritenute irrilevanti e inutilizzabili. Queste intercettazioni finiscono nell’archivio segreto del pm: è chiaro che chi lo viola, o ne istiga la violazione (come potrebbe avvenire nel caso dei giornalisti), incappa nel reato di violazione di segreto d’ufficio, già previsto dal codice penale (articolo 326). Un giornalista della Stampa, ad esempio, lo scorso luglio è stato indagato dalla procura di Torino per violazione di segreto d’ufficio per aver pubblicato un’intercettazione che inizialmente si pensava non fosse stata neanche trascritta, e dunque fosse segreta. Il caso, poi, è rientrato: si è scoperto che il pm titolare dell’indagine aveva autorizzato il rilascio del materiale su richiesta di un avvocato. Le intercettazioni, dunque, non erano più segrete, ma fino a quando si è pensato che lo fossero il giornalista è stato indagato per concorso in violazione di segreto d’ufficio. Nessuno scoop, quindi. Leggendo l’articolo, come se non bastasse, il lettore viene a scoprire che già esiste un reato che riguarda specificatamente l’attività giornalistica - quello di pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale (art. 684 c.p.) - e si rende conto paradossalmente che questo non viene mai applicato nei confronti dei giornalisti, che da sempre pubblicano atti coperti da segreto o di cui, pur non essendo segreti, è vietata la pubblicazione. In altre parole ci si lamenta di un presunto nuovo reato (che non è tale) pur facendo notare indirettamente che i giornalisti già violano sistematicamente un altro reato, già esistente, senza subirne le conseguenze. Ciò che stupisce più di tutto, però, è la visione assolutista che Repubblica sembra avere del diritto di cronaca, concepito come una sorta di diritto che domina su tutti gli altri diritti esistenti, in maniera totalitaria e illiberale. Una visione, peraltro, che finisce per danneggiare il buon andamento della giustizia, che pur si sostiene di voler difendere strenuamente con indignate campagne contro le riforme sulle intercettazioni. A quanto pare, non lo si fa per la buona giustizia, ma solo per la libertà di sputtanamento. La Corte europea dei diritti dell’uomo, lo scorso giugno, con due sentenze diverse ha confermato le condanne che erano state comminate in Francia e in Svizzera contro due giornalisti colpevoli di aver pubblicato atti giudiziari coperti da segreto di indagine, sottolineando che la pubblicazione di questo materiale, oltre a determinare una pericolosa colpevolizzazione delle persone coinvolte, comporta il rischio di influire pesantemente sull’andamento delle indagini. Secondo la Corte, la pubblicazione di atti coperti da segreto “danneggia il buon andamento della giustizia, il diritto dell’indagato ad avere un giusto processo e il diritto alla privacy dell’indagato, delle vittime e delle altre persone coinvolte”. Insomma, l’esercizio di uno solo dei tanti diritti esistenti nella società, quello di cronaca, in questi casi finisce per fare tabula rasa di tutti gli altri diritti. E questa sarebbe la campagna di civiltà di Repubblica? Intercettazioni. Verini (Pd): “non escludo modifiche alla legge, ma il bavaglio non c’è” di Liana Milella La Repubblica , 7 novembre 2017 Giornalisti in pericolo se pubblicano un’intercettazione penalmente irrilevante? “Il rischio non lo vedo, il decreto Orlando è equilibrato”. Modifiche in commissione? “Vediamo i suggerimenti”. Dice così Walter Verini, capogruppo del Pd in commissione Giustizia della Camera. Tre anni di carcere per un’intercettazione pubblicata. Non la preoccupa? “L’allarme è eccessivo perché cambia poco rispetto alla situazione attuale. Già oggi il giornalista può essere indagato in caso di violazione del segreto d’ufficio”. Due osservazioni. La prima: le intercettazioni espunte avranno una caratura di segretezza particolare tant’è che finiscono nell’armadio riservato. La seconda: nasce questo armadio con testi top secret. Le due cose messe insieme creano il rischio di pene più gravi. “C’è chi esegue le intercettazioni. Poi il pm decide quali sono irrilevanti. Quindi le prime che hanno rilevanza penale vengono allegate al fascicolo, a discrezione del pm, comprese quelle di contesto. Queste perderanno la segretezza, quindi potranno essere pubblicate. Se poi voglio scoprire aspetti di un uomo pubblico, un politico ad esempio, faccio giornalismo d’inchiesta e non aspetto le intercettazioni, e non guardo dal buco della serratura”. Crede davvero che il tipo di segretezza sulle intercettazioni irrilevanti sia giustificato? “Sì, perché non capisco perché debbano essere rese pubbliche. È il senso del resto delle circolari di Pignatone, Spataro, Colangelo. La delega in fondo attua quelle circolari. È giusto, altrimenti si rischia di cadere nel voyeurismo”. Quindi lei non avverte il rischio che scatti il segreto su carte importanti da far conoscere all’opinione pubblica, e che le incriminazioni dei giornalisti diventino più pesanti? “A me interessa che sia possibile pubblicare atti che abbiano un rilievo pubblico e penale, ma gli aspetti privati o intimi non devono uscire. Non c’è il bavaglio, la delega è equilibrata, ma tiene insieme il diritto alla privacy su questioni che non hanno rilevanza penale e il diritto all’informazione. Se Forza Italia parla di norma blanda e M5S grida “al lupo al lupo” vuol dire che un equilibrio è stato trovato”. Lei è proprio convinto che il bavaglio non c’è? “C’è solo una difesa necessaria della privacy. Sarebbe stato utile se la Fnsi si fosse seduta al tavolo con il ministro Orlando, ma per incomprensioni reciproche così non è andata. Mi convince quando la Fnsi dice che entro la fine della legislatura vanno approvate al Senato due norme importanti, sulla tutela del giornalista contro le querele temerarie e sulla diffamazione”. Le commissioni parlamentari potranno cambiare il testo? “Io non escludo niente. Ma vedo un testo equilibrato. Poi, come ha detto Gentiloni, in quella cornice che è accettabile, miglioramenti si possono fare, perché non è Vangelo. Se la Fnsi manderà osservazioni chirurgiche le esamineremo con disponibilità e attenzione”. Reato di stalking, oggi il Parlamento decide sull’estinguibilità con il risarcimento di Flavia Amabile La Stampa , 7 novembre 2017 Al voto l’emendamento per escluderlo dai reati estinguibili attraverso un risarcimento. La proposta Carfagna sostenuta dal Pd. Mille cinquecento euro in cambio della cancellazione del reato di stalking: da martedì c’è la possibilità di avere uno strumento per evitare che chi viene condannato apra il portafoglio e vada via come se nulla fosse. Dovrebbe essere votato in commissione Giustizia alla Camera un emendamento presentato da Mara Carfagna all’articolo 162 ter della legge di riforma penale in modo da escludere lo stalking dai reati estinguibili attraverso un risarcimento. L’emendamento accoglie le proteste che si erano levate in questi mesi e il Pd si dice favorevole a sostenere la modifica se effettivamente verrà discussa. “Abbiamo una proposta di legge incardinata in commissione Giustizia del Senato - spiega Francesca Puglisi, senatrice del Pd - Intendiamo chiedere al presidente del Senato di approvarlo in via deliberante in modo da evitare l’aula e ottenere il via libera in tempi rapidi ma non ne facciamo una questione di bandiera, quello che conta è riuscire a trovare una soluzione prima della fine della legislatura”. La questione era stata sollevata subito dopo l’approvazione della riforma da tre sindacaliste - Loredana Taddei, responsabile nazionale delle Politiche di Genere di Cgil, Liliana Ocmin, responsabile del coordinamento nazionale donne Cisl e da Alessandra Menelao, responsabile nazionale dei centri di ascolto della Uil. Ne era nato un acceso dibattito. Da un lato c’era chi chiedeva di intervenire per sanare il problema. Dall’altro c’era chi, come la presidente della Commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti, sosteneva che si trattava soltanto di “terrorismo psicologico” e che il risarcimento non avrebbe potuto cancellare il reato di stalking ma soltanto quelli a querela remissibile. Lo stesso ministro della Giustizia Andrea Orlando aveva sostenuto che si trattava di un “rischio molto remoto”. A ottobre, invece, per la prima volta si era presentata la possibilità di applicare la nuova norma proprio a un reato di stalking. Il colpevole aveva offerto 1500 euro per cancellare tutto. La vittima aveva rifiutato ma il tribunale aveva deciso che il risarcimento poteva bastare perché c’era stata una “condotta riparatoria” e il reato era scomparso. “Vogliamo evitare che accada di nuovo”, spiega Francesca Puglisi. L’emendamento presentato da Mara Carfagna rappresenta la prima possibilità concreta per riuscirci. Quando la difesa è (il)legittima di Antonino Condorelli Corriere del Veneto , 7 novembre 2017 Dal sito del Senato risulta “non ancora iniziato l’esame” del ddl recante le discusse modifiche in materia di legittima difesa, trasmesso dalla Camera il 4 maggio scorso, e tutto fa ragionevolmente prevedere che le proposte di riforma, già oggetto di contrastanti valutazioni politiche, saranno probabilmente affrontate solo nella prossima legislatura, anche se non si può certo escludere che esse tornino di estrema attualità proprio nel corso della ormai (di fatto) avviata campagna elettorale. La cronaca del resto è densa di continui riferimenti al tema, che rimane di estrema e scottante attualità, anche se con sovrapposizioni ed equivoci agevolati dalla sua indubbia complessità tecnica e politica. Tutti sappiamo come la sicurezza dei cittadini, minacciata da più parti e non sempre adeguatamente garantita dalle istituzioni, sembra stare, o dovrebbe stare, a cuore di coloro che ci governano o ambiscono di farlo. Alcune cose possono comunque essere sicuramente chiarite. Innanzitutto bisognerebbe che tutti avessero l’onestà intellettuale di sgombrare il campo da una pericolosa e irrealizzabile illusione: poiché si tratta di “giustificare fatti tipici di delitto contro la persona” (uccisioni, ferimenti etc.), non è possibile fare a meno della indagine penale che tale giustificazione deve necessariamente accertare, e nessuna legge potrà mai evitarlo. Ogni contraria affermazione è fuorviante, e strumentale ad uno sfruttamento demagogico delle dolorose vicende delle vittime, e non mira realmente a risolverne, né ad attenuarne, le sofferenze che certo, come in tanti altri casi, sarebbero in buona misura ridotte da una diversa rapidità ed efficienza del servizio Giustizia. Positivo, piuttosto, al riguardo il principio sancito dall’art.2 che pone a carico dello Stato il costo della difesa della “persona dichiarata non punibile” per essersi legittimamente difesa, anche se appare macroscopica e inaccettabile la discriminazione nei confronti di coloro che invece siano stati assolti per insussistenza o estraneità al fatto, e che dovrebbero continuare a sopportare i costi della loro difesa. Altro limite tecnicamente insuperabile, anche da parte dei più accesi, e non saprei quanto sempre consapevoli, sostenitori della “difesa sempre legittima”, è quello costituito dall’art.2 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, secondo cui la morte non può essere volontariamente inflitta ad alcuno (e quindi neanche agli aggressori). Quanto costa all’Italia la giustizia-lumaca di Fabio Bogo Affari & Finanza , 7 novembre 2017 Alla vigilia delle elezioni è scattata la tradizionale corsa al consenso. Si promette la cancellazione dell’allungamento dell’età pensionabile, si torna a rilanciare l’abolizione della tassa di successione, si ribadisce la necessità di abolire il fiscal compact, si insiste sul reddito di cittadinanza. Tutte misure, nelle motivazioni di chi le propone, capaci di imprimere una svolta all’economia. Nessuno però sembra occuparsi dei tempi della giustizia, amministrativa e civile, che rappresenta un peso non indifferente per la crescita del Paese. Nonostante sia intervenuta una riforma che aveva come scopo, con l’accorpamento delle sedi giudiziarie, proprio l’accorciamento dei tempi dei processi, la situazione è ancora sconfortante. Nel 2016 - secondo una recente analisi della Banca d’Italia - la durata media effettiva nei tribunali era di 1.100 giorni per il contenzioso ordinario e di 1.250 per quello commerciale, con differenze sensibili sul territorio che penalizzano ulteriormente il Sud, dove la durata dei processi è mediamente del 40 per cento superiore a quella del resto del Paese. In cifre, ecco la durata media dei procedimenti: 3 anni per il contenzioso ordinario; 3,4 per quello commerciale; 1,5 per lavoro e previdenza; 7,6 per i fallimenti; 4,2 per le esecuzioni immobiliari e sette mesi per quelle mobiliari. Numeri vieppiù impietosi se confrontati con quelli internazionali. Il rapporto Doing Business della Banca Mondiale, che analizza la tempistica della risoluzione delle dispute commerciali, vede infatti l’Italia al penultimo posto nella classifica Ocse: peggio di noi fa solo la Grecia. Anche qui parlano i numeri: 850 giorni per l’Italia, 409 in Germania, 367 in Portogallo, 335 per la Francia, 330 in Spagna. Questo macigno, secondo Bankitalia, inceppa gravemente il funzionamento dell’economia. Una giustizia efficiente rimuove infatti gli ostacoli all’ingresso di nuove imprese su mercato e migliora l’accesso al credito, permettendo a nuovi attori di affacciarsi sulla scena anziché perpetuare la presenza di quelli meno efficienti ma ritenuti più affidabili in quanto più anziani. Poi permette, nel campo del diritto fallimentare, di risolvere presto i contenziosi e aiutare un rapido reimpiego delle imprese in crisi. L’inefficienza della giustizia insomma ha un costo pesante. Non solo rallenta i tempi di consegna dei lavori pubblici e pesa sulle condizioni di finanziamento delle aziende, ma contribuisce al nanismo del sistema: la sola riduzione del 50 per cento della durata delle procedure civili accrescerebbe le dimensioni medie delle imprese manifatturiere di circa il 10 per cento. Alla faccia di tante altre ricette. Corte dei conti, i magistrati “litigano” sul rinvio della pensione del presidente di Gianni Trovati Il Sole 24 Ore , 7 novembre 2017 I magistrati della Corte dei conti bocciano l’idea di allungare la presenza in servizio dei vertici della Corte dei conti. Detta così, sembrerebbe la classica battaglia, comune un po’ a tutte le categorie, per fermare l’aumento delle soglie previdenziali innescato dalle varie riforme delle pensioni. Ma nella magistratura le cose sono un po’ più complicate. In Corte dei conti il problema riguarda due figure specifiche: il presidente, Arturo Martucci di Scarfizzi, e il Procuratore generale, Claudio Galtieri. Regole intricate - Da molti mesi sul filo dell’uscita per aver raggiunto i 70 anni di età che rappresentano il confine dell’attività nelle magistrature secondo la riforma del 2014. O, meglio, lo rappresenterebbero, perché la decisione assunta tre anni fa dal governo Renzi di abbassare da 75 a 70 anni il pensionamento dei magistrati ha prodotto più battaglie e proroghe che applicazioni effettive. Mentre sindacati e politica chiedono di non alzare l’età pensionabile, insomma, i magistrati spingono di solito in senso opposto. L’ultima deroga, arrivata l’anno scorso con il decreto legge 168/2016, ha concesso un anno di tempo supplementare ai “titolari di funzioni direttive” in Cassazione, Consiglio di Stato, Avvocatura e Corte dei conti. Anche Martucci di Scarfizzi e Galtieri, entrambi del 1947, sono saliti sul ponte lanciato dalla proroga, che però termina a fine anno. Il nuovo tentativo - Puntuale, allora, la macchina dei tentativi di rinvio si è rimessa in modo, e dopo alcuni tentativi a vuoto si è manifestata sotto forma di emendamenti al decreto fiscale ora in discussione al Senato. Ma l’associazione dei magistrati contabili non ci sta: l’idea di allungare la permanenza in sella dei vertici, scrive in un comunicato, “determinerebbe un palese e irragionevole disallineamento con le altre magistrature”, oltre a cancellare il principio per cui “l’età di pensionamento deve essere rigorosamente prefissata, senza repentini mutamenti che lascino a fattori esterni e variabili un’eventuale prosecuzione della carriera”. L’altro correttivo in discussione - La proroga su misura fa litigare i magistrati contabili, insomma, ma la prova ulteriore del fatto che in gioco non è un’esigenza di “riposo” si incontra nel giudizio su un altro emendamento che sarà discusso nei prossimi giorni: quello che chiede di alzare da 70 a 72 anni l’età di uscita per tutti. Sul punto, i magistrati contabili si dicono “non contrari”, a patto che le regole siano uguali per tutti e collegate a un ripensamento del massimale contributivo che penalizza la sorte previdenziale dei più giovani. Ma l’ipotesi di tornare indietro sull’età generale della pensione dei magistrati fa storcere il naso al ministero della Giustizia. La polizia locale può derogare alla privacy di Stefano Manzelli Italia Oggi , 7 novembre 2017 Anche la polizia municipale può agire in deroga al codice privacy limitatamente allo svolgimento di particolari attività di indagine. Oppure con l’impiego di sistemi di videosorveglianza. Ma senza entrare nel dettaglio del regolamento ministeriale in corso di approvazione e dedicato specificamente alle forze dell’ordine. Lo ha evidenziato il Consiglio di stato con il parere n. 1525/2017. L’art. 57 del codice privacy richiede l’adozione di un decreto ad hoc recante l’individuazione delle modalità di trattamento dei dati personali per finalità di polizia che ai sensi dell’art. 53 del codice risultano affrancati da numerose formalità. Il regolamento innanzitutto non riguarda i trattamenti effettuati per finalità amministrative. Ovvero per la maggior parte delle attività di polizia locale. L’art. 9 disciplina la possibilità per gli organi di polizia di acquisire dati collegandosi alle banche dati pubbliche e private estranee alle forze dell’ordine. È il caso dei varchi lettura targhe in dotazione alla polizia locale ad ai comuni. Sui tempi per la conservazione dei dati per finalità di polizia il dispositivo risulta molto flessibile, in conformità alle diverse esigenze investigative in atto. L’art. 12 dedicato alla comunicazione dei dati tra le forze di polizia esclude a priori dal collegamento la polizia locale, nonostante le diverse indicazioni contenute nella legge 48/2017, di conversione del dl 14/2017. E questo aspetto riverbera pesantemente per esempio nelle modalità di collegamento dei varchi lettura targhe di proprietà comunale con il ced nazionale dei veicoli rubati. Attenzione alla diffusione delle immagini personali. La bozza di regolamento lo consente solo se la persona ha espresso il proprio consenso o se è necessario per la salvaguardia della vita o dell’incolumità fisica ovvero se è giustificata da necessità di giustizia o di polizia. L’art. 22 tratta specificamente della videosorveglianza. L’utilizzo di questa tecnologia per finalità di polizia è scontato a condizione che non comporti una ingerenza ingiustificata nei diritti e nelle libertà fondamentali. La chance-rottamazione non aggira la confisca di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore , 7 novembre 2017 La possibilità di accesso alla rottamazione delle cartelle non blocca le misure di prevenzione, sia personali, sorveglianza speciale, sia reali, confisca. Non quando la pericolosità sociale emerge da altri fattori e non solo da un’elusione fiscale sia pure continuata. Anche con questi argomenti la Cassazione, Sesta sezione penale, sentenza 50437 depositata ieri, ha respinto il ricorso presentato da una coppia di imprenditori contro il decreto della Corte d’appello di Salerno. Quest’ultima aveva valorizzato le prove dell’intensa attività lavorativa dei due imprenditori, non dichiarata al Fisco e tale da dare luogo a una sottrazione sistematica di reddito all’amministrazione finanziaria; inoltre, la pericolosità sociale era stata dedotta da tutta una serie di precedenti, dalla ricettazione, all’associazione per delinquere finalizzata al falso e alla truffa, che emergeva dal casellario giudiziale. La difesa aveva sostenuto, tra l’altro, che i due imputati non avevano mai commesso reati tributari collegati all’evasione fiscale nello svolgimento dell’attività d’impresa, non avendo mai raggiunto la soglia di imposta evasa dopo la quale scatta la sanzione penale. Dalle cartelle esattoriali emesse, cioè, nei confronti dei due imprenditori, soci di una società a ristretta base societaria, invece, il, tetto di rilevanza penale non risultava mai superato e, anzi, il debito in questione rientrava senza difficoltà nell’ambito della definizione agevolata disciplinata dalla legge 225 del 2016 (rottamazione delle cartelle). Per la Cassazione, innanzitutto, la confisca di prevenzione non è contestabile perché applicata a fatti verificatisi anteriormente all’allargamento della misura dai reati di mafia ad altri delitti, quando riscontrata la sproporzione tra beni posseduti e attività economica. Il periodo espressione della pericolosità sociale e quello di acquisto dei beni oggetto della confisca, infatti, coincidono. L’evasione fiscale non può poi essere addotta come scusante, visto che la confisca punta proprio a sottrarre alla disponibilità dell’interessato tutti i beni frutto di attività illecite, senza distinguere se queste attività sono di natura mafiosa. Pertanto, nella lettura della Cassazione, “è stata ritenuta la sussistenza di indici di pericolosità consistenti in indizi di partecipazione a varie attività delittuose diverse dalla mera evasione fiscale e che quest’ultima è stata valutata dai giudici di merito quale possibile giustificazione della disponibilità di beni, escludendone sia l’astratta idoneità che, comunque, non ritenendola dimostrata in concreto”. Infondato è poi anche il motivo di ricorso basato sul presupposto che le misure di prevenzione siano state applicate solo per l’elusione fiscale continuata. È vero infatti che la Corte d’appello tiene conto soprattutto di questa condotta, ma questa non è l’unica ragione che fonda il giudizio di pericolosità sociale. “Quindi non ha alcuna funzione la differenziazione tra violazione fiscale costituente reato (in ragione della “quantità” della stessa) e violazione che tale non è nè rileva la possibilità di adesione a forme di condono fiscale”, come è il caso della rottamazione. Si tratta infatti di circostanze che la sentenza giudica irrilevanti per la pericolosità sociale, che è invece fondata su una pluralità di indici e neppure possono contare per la giustificazione della provenienza dei beni. Per i consulenti rischio auto-riciclaggio di Valerio Vallefuoco Il Sole 24 Ore , 7 novembre 2017 Il nuovo sistema sanzionatorio antiriciclaggio ridisegnato dal Dlgs 90/2017 potrebbe comportare la contestazione dei reati di riciclaggio e auto-riciclaggio anche nei confronti dei professionisti. Nella giurisprudenza venutasi via via a formare anche con la precedente disciplina, in particolare sugli intermediari finanziari, accade sempre più spesso che l’elemento soggettivo del reato di riciclaggio o di auto-riciclaggio può essere desunto dalla violazione qualificata e reiterata degli obblighi posti dalla normativa antiriciclaggio. Di recente la Cassazione ha applicato il principio secondo cui è configurabile il concorso nel reato di frode fiscale per coloro che, pur essendo estranei e non rivestendo cariche nella società emittente le fatture per operazioni inesistenti, abbiano in qualsivoglia modo partecipato a creare il meccanismo fraudolento che ha consentito alle utilizzatrici dei documenti il risparmio di imposta (III penale, sentenza 17418/2016). Pertanto il passaggio da concorso nel reato fiscale a concorso nel reato di auto-riciclaggio con reato tributario presupposto, se lo stesso professionista abbia omesso sistematicamente gli adempimenti antiriciclaggio e le relative segnalazioni di operazioni sospette, sarà possibile se non probabile. Su quest’ultimo passaggio: la violazione sistematica e frodatoria della normativa antiriciclaggio e la possibile contestazione di reato di auto-riciclaggio si potrebbe ipotizzare nel caso in cui il professionista agevoli o abbia agevolato il trasferimento di fondi provenienti da reati tributari o societari o finanziarie all’estero o dall’estero con operazioni di mascheramento su Paesi cosiddetti off shore ossia paradisi fiscali e societari. Furto di una bottiglia al supermarket, scatta la particolare tenuità di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore , 7 novembre 2017 Tribunale di Frosinone - Sezione 1 - Sentenza del 26 luglio 2017 n. 812 Non punibile per la particolare tenuità del fatto il furto di una bottiglia di whisky del costo di 5,49 euro perpetrato da due persone occultando la merce sotto il giubbotto al momento del passaggio alle casse del supermercato. Lo ha stabilito il Tribunale di Frosinone, sentenza del 26 luglio 2017 n. 812, fornendo alcune interessanti precisazioni sui casi in cui ricorre l’aggravante del mezzo fraudolento e quelli in cui il delitto possa ritenersi soltanto tentato. Dunque, gli imputati dovevano rispondere in concorso tra loro di furto con l’aggravante del mezzo fraudolento per aver pagato soltanto due bottiglie di birra nascondendo il superalcolico. La coppia, ricostruisce la decisione, non era stata fermata subito dopo il passaggio alla casse ma in un momento successivo, alla fermata dell’autobus, mentre stava già bevendo il whisky. Per cui, argomenta la decisione, deve escludersi che il reato possa essersi fermato allo “stadio” del tentativo. Sul punto infatti la Cassazione ha recentemente affermato (n. 14538/2017) che non può parlarsi di furto consumato quando la cosa mobile non sia uscita definitivamente dalla sfera di vigilanza del soggetto passivo. In precedenza, le Sezioni Unite (52117/2014), avevano già chiarito che non rileva il fatto “che i giudicabili, entrambi confessi, avevano prelevato dai banchi del supermercato tre flaconi di profumo, caffè e biscotti; avevano lacerato le confezioni, rimuovendo la placchette antitaccheggio; avevano occultato la refurtiva, calandola dentro una borsa e sotto gli indumenti; avevano, quindi, superato la cassa, senza pagare la merce nascosta, ma esibendo altro prodotto (regolarmente pagato); ed erano usciti dal centro commerciale”. Questo perché all’esterno del fabbricato l’addetto alla sicurezza, “il quale si era avveduto in precedenza della azione furtiva, era al fine intervenuto, promovendo l’intervento della polizia giudiziaria che aveva tratto in arresto i due imputati”. Infatti, prima il monitoraggio con le telecamere e poi il fermo tempestivo “impediscono la consumazione del delitto di furto che resta allo stadio del tentativo, non avendo l’agente conseguito, neppure momentaneamente, l’autonoma ed effettiva disponibilità della refurtiva, non ancora uscita dalla sfera di vigilanza del soggetto passivo”. Riguardo poi all’aggravante del mezzo fraudolento (art. 625, comma primo, n. 2 c.p.), prosegue la decisione, dopo un originario conflitto, prevale oggi la posizione che non considera l’occultamento sulla persona del bene sottratto come un mezzo fraudolento, cioè un accorgimento malizioso adottato dal “ladro” per sorprendere il soggetto passivo del furto, quanto piuttosto il mezzo più semplice per realizzare l’impossessamento e, quindi, la consumazione del reato. Per le Sezioni unite, infatti, “il mero occultamento sulla persona o nella borsa di merce esposta in un esercizio di vendita a self Service, trattandosi di banale, ordinario accorgimento non vulnera in modo apprezzabile le difese apprestate a difesa del bene” (n. 40354/13). Infine, il Tribunale ha ritenuto di poter applicare l’articolo 131 bis del codice penale che ha introdotto una causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità dell’offesa essendo emerso che la condotta degli imputati ha integrato il reato di furto, “come detto: consumato e non aggravato”, di merce avente valore “veramente irrisorio pari a circa Euro 6,00, con modalità non denotanti né gravità detrazione né capacità a delinquere dei colpevoli”. Ammissibile il concorso tra violenza privata e stalking. Selezione di massime Il Sole 24 Ore , 7 novembre 2017 Concorso di reati - Delitti contro la libertà individuale - Reato di violenza privata ex articolo 610 c.p.- Reato di atti persecutori ex articolo 612-bis c.p. - Ammissibilità. È ammissibile il concorso di reati tra violenza privata ed atti persecutori, trattandosi di fattispecie criminose che tutelano beni giuridici diversi. Infatti, l’articolo 610 c.p. protegge il procedimento di formazione e di attuazione della volontà personale, ovvero la libertà individuale intesa come libertà di autodeterminazione e di azione mentre l’articolo 612-bis c.p. è preordinato alla tutela della tranquillità psichica della persona che costituisce condizione essenziale per la libera formazione ed estrinsecazione della predetta volontà. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 30 ottobre 2017 n. 49683. Condominio - Atti persecutori - Violenza privata - Concorso di reati - Configurabilità. Non sussiste rapporto di specialità, ma concorso di reati, tra il delitto di atti persecutori ex articolo 612bis cod. pen. e quello di violenza privata di cui all’articolo 610 cod. pen. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 25 maggio 2011 n. 20895. Reati contro la persona - Delitti contro la libertà individuale - Violenza privata - Atti persecutori - Concorso con il reato di violenza privata - Ammissibilità - Ragioni. È configurabile il concorso tra il reato di violenza privata e quello di atti persecutori, trattandosi di reati che tutelano beni giuridici diversi, in quanto l’articolo 610 cod. pen. protegge il processo di formazione e di attuazione della volontà personale, ovvero la libertà individuale come libertà di autodeterminazione e di azione; mentre l’articolo 612 bis cod. pen. è preordinato alla tutela della tranquillità psichica - ed in definitiva della persona nel suo insieme - che costituisce condizione essenziale per la libera formazione ed estrinsecazione della predetta volontà. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 16 gennaio 2015 n. 2283. Atti persecutori - Stalking - Estremi - Violenza privata - Differenze - Fattispecie in tema di stalking “condominiale”. II reato di stalking configura una fattispecie speciale rispetto ai reati di minaccia e molestie, ma non rispetto al reato di violenza privata. La violenza privata, infatti, è finalizzata a costringere la persona offesa a fare, non fare, tollerare o omettere qualcosa, mentre lo stalking influisce sull’emotività della vittima; ne deriva che i due reati possono essere contestati in concorso tra loro. (Nel caso di specie il molestatore aveva l’abitudine di rincorrere, chiudere in ascensore e minacciare di morte ogni condoni ina incontrata nel palazzo). • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 25 maggio 2011 n. 20895. Friuli Venezia Giulia: al via piano regionale per la prevenzione dei suicidi in carcere ilfriuli.it , 7 novembre 2017 Anche il Friuli Venezia Giulia, con le sue cinque case circondariali, si trova a doversi confrontare con i problemi legati alla condizione carceraria. A questo scopo, la Giunta regionale ha adottato, su proposta dell’assessore alla Salute, Maria Sandra Telesca, il piano regionale per la prevenzione delle condotte suicidarie e dei gesti autolesivi in carcere e indicazioni per i piani locali. Il provvedimento, che non comporta spesa a carico del bilancio regionale, recepisce il piano nazionale per la prevenzione delle condotte suicidarie nel sistema penitenziario per adulti, approvato in sede di conferenza unificata Stato-Regioni lo scorso luglio. Dal piano regionale discenderà poi la definizione, o l’aggiornamento, dei piani operativi locali tra il singolo istituto penitenziario e la competente azienda sanitaria. Lo strumento regionale sostanzialmente persegue in primo luogo l’obiettivo di inquadrare dal punto di vista epidemiologico il fenomeno del suicidio e del gesto autolesivo nelle carceri del Friuli Venezia Giulia. In secondo luogo il piano definisce la sua architettura organizzativa per quanto riguarda il livello regionale e locale, individuando gli elementi essenziali dei Piani di prevenzione locale. Il piano regionale è stato sottoposto ad un processo di condivisione in sede di osservatorio permanente per la sanità penitenziaria e all’attenzione del gruppo risk manager degli enti del servizio sanitario regionale che non ha espresso pareri negativi. Per quel che riguarda la casistica dei fenomeni, nel 2016 in Friuli Venezia Giulia su un totale di 614 detenuti si sono registrati 124 atti di autolesionismo e 9 tentati suicidi. Il penitenziario con il più alto tasso di autolesionismo, sempre nel 2016, è stato quello di Udine (82 casi su 128 detenuti), mentre quello di Tolmezzo non ha registrato alcun episodio. Nel dettaglio, da un’analisi fatta sul periodo 2010-16, risulta che i tentativi di suicidio hanno riguardato tutti soggetti di sesso maschile, mentre l’età maggiormente rappresentata è quella giovanile, in particolare tra i 21 e i 24 anni. Sul fronte della provenienza geografica i detenuti provenienti dall’Africa e dall’Asia hanno tassi di tentato suicidio più alti rispetto agli europei e agli italiani. Da rilevare infine che, sempre nella fascia temporale 2010-16, si sono verificati 3 casi di suicidio nelle carceri del Friuli Venezia Giulia. Il documento regionale, fornendo indicazioni per i Piani locali in base alle indicazioni del piano nazionale, assegna alle aree operative che si trovano nelle componenti volontarie, professionali e detenute all’interno del carcere tre campi d’azione: sostegno, attenzione e decisione. In tale ambito gli elementi essenziali della strategia sono rappresentati dalla rilevazione del rischio (assenza di rete familiare, assenza di esperienze detentive, abitudini legate all’uso di sostanze stupefacenti), dal presidio delle situazioni potenzialmente stressanti (ingresso, colloqui con i familiari e corrispondenza con l’esterno), dal lavoro integrato e multidisciplinare (tra personale di area penitenziaria e sanitaria) e dalla gestione dei casi a rischio (alloggiamento e interventi sanitari). “Questo piano regionale - ha spiegato Telesca - è un lavoro importante, il quale fa parte del grande tema della sanità penitenziaria che abbiamo acquisito come Regione Friuli Venezia Giulia quattro anni fa e che si traduce in una maggior sorveglianza sanitaria in carcere non solo nella cura delle malattie ma anche nell’opera di prevenzione legata alle azioni di autolesionismo”. Lecce: un progetto di telemedicina e la salute dei detenuti viaggia in rete di Roberta Grima La Repubblica , 7 novembre 2017 Il progetto nella Casa circondariale di Lecce, struttura con 1200 detenuti, la più grande della Puglia. Arriva dal Sud il progetto di telemedicina nella casa circondariale di Lecce, struttura con 1200 detenuti, la più grande della Puglia, dove l’Asl ha avviato l’assistenza sanitaria telematica. L’idea, unica nel territorio pugliese, nasce da due problemi: quello della sicurezza pubblica e quello delle mancate assunzioni di personale. “Ricordo ancora l’anno scorso - spiega la direttrice dell’Asl salentina Silvana Melli - quando nell’ospedale leccese “Vito Fazzi”, un detenuto condannato all’ergastolo per omicidio, mentre veniva portato nel reparto di chirurgia endoscopica, riuscì a sfuggire al controllo degli agenti, sfilare dalla fondina di uno dei due la pistola, sparare e dileguarsi.” Alla luce di quell’episodio conclusosi dopo 63 lunghi giorni, con la cattura dell’evaso, il ferimento di due agenti e di un civile, la direzione strategica dell’azienda sanitaria, ha messo a punto un piano di sicurezza che tra le altre cose, prevede l’applicazione della telemedicina, per ridurre al massimo il trasporto dei detenuti dalla casa circondariale, all’ospedale. “Trasporti che oggi arrivano a 100/120 al massimo ogni bimestre, ma che sino a poco tempo fa - aggiunge la direttrice del carcere, dottoressa Rita Russo - viaggiavano sui 600 spostamenti ogni due mesi, con un personale ridotto dal 2005 ad oggi, da 140 agenti deputati al trasporto, a 88, con tutto quello che ne consegue in termini di rischi per la sicurezza pubblica.” Non mancano però soltanto gli agenti, in Puglia e nel Salento in particolare, “ormai non abbiamo più medici sufficienti per rispondere a tutte le richieste di assistenza, diagnosi e cura - spiega Rodolfo Rollo, direttore del distretto sanitario di Lecce, dal quale dipende il sistema sanitario carcerario. L’Europa ci sollecita ad affrontare la carenza di organico, avvalendoci proprio della telemedicina, sta cambiando il rapporto medico - paziente che non è più come siamo abituati a pensarlo, ma molto più veloce, immediato, spesso a distanza.” Così a Lecce, da qualche mese, è possibile inviare la lastra, eseguita in carcere dal tecnico, dalla casa circondariale al medico radiologo che si trova al poliambulatorio leccese, per ricevere un referto, che viene a sua volta spedita all’istituto penitenziario. Lo stesso accade per la branca cardiologica, per cui un elettrocardiogramma, così come l’ecocardiografia, possono viaggiare sulla rete per arrivare nell’archivio dell’ospedale di Lecce o nel reparto speciale ospedaliero, dedicato alla popolazione carceraria, dove un cardiologo può visionare gli esami per fare un secondo consulto medico, così come il cardiochirurgo, prima di decidere se eseguire l’eventuale intervento. Informazioni dinamiche quindi, che viaggiano sulla rete come gli esami di anatomia patologica, che dal carcere vengono spediti telematicamente al laboratorio dell’ospedale “Vito Fazzi”, così la richiesta di un farmaco, che viene ordinato telematicamente alla farmacia del distretto, abbattendo i tempi di spedizione da un mese a 48 ore. “Da quando è partita la telemedicina - spiega la dottoressa Russo - abbiamo notato non solo una riduzione drastica dei trasporti, ma anche delle richieste da parte dei detenuti stessi, di prestazioni mediche e assistenziali, vengono inoltre sottratti meno agenti per i trasporti”. Nella Casa circondariale non c’è la tradizionale infermeria, bensì un vero e proprio poliambulatorio, ricavato dai lavori di ristrutturazione, grazie alla manodopera dei detenuti, stipendiati con i fondi del carcere. I reclusi hanno quindi realizzato le docce in ogni cella, eliminando quelle comuni e costruendo le stanze di reclusione per i detenuti disabili. Un polo sanitario con una decina di ambienti ambulatoriali, oltre alle celle, apparecchiature diagnostiche, laboratorio analisi e personale medico, tecnico e infermieristico. Dalla cura dei denti, alla visita oculistica, urologica, allergologica, dalla visita ortopedica, a quella cardiologica, dermatologica, comprese le visite di chirurgia generale e vascolare, oltre agli screening per i tumori femminili. Presenti poi ogni giorno un infettivologo, uno pneumologo, la guardia medica e un infermiere. Tutti interagiscono in via telematica tra loro e con i colleghi del poliambulatorio e del nosocomio leccese. Fondamentale anche il servizio di salute mentale dedicato. “Spesso - sottolinea la dottoressa Russo - in carcere c’è anche chi non dovrebbe stare, come alcuni detenuti affetti da malattie o disturbi psichiatrici e che per questo andrebbero dislocati nelle Rems”, le residenze sanitarie riabilitative per la salute mentale di chi ha commesso dei reati. Una conquista della medicina psichiatrica, in sostituzione degli ospedali giudiziari (Opg) oramai dismessi. In Puglia però sono ancora poche le Rems, una a Carovigno, l’altra a Spinazzola, così nel carcere leccese, il più grande della Puglia, si sono attrezzati anche di un servizio dedicato per accogliere da tutto il territorio pugliese, pazienti psichiatrici che hanno commesso reati. “Mi sono autodenunciata alla procura - dice con un sorriso sarcastico la direttrice Russo - per sequestro di persona, vedendomi costretta a tenere recluse due persone destinate alle REMS, ma che sono finite in carcere per mancanza di posti disponibili. Per questo, a breve si attiverà un vero e proprio polo psichiatrico all’interno dell’istituto penitenziario leccese, con 200 posti letto” Entro poche settimane invece partirà, sempre all’interno del carcere, il servizio di fisioterapia, per la quale oggi il detenuto viene trasportato all’ospedale privato convenzionato di Tricase , a 50 chilometri da Lecce. “Per noi spiega la direttrice Russo - il trasporto in questi casi, è ogni volta un problema serio, perché a differenza di altre prestazioni mediche sanitarie, i cicli di fisioterapia, sono calendarizzati a monte, per cui il detenuto sa in anticipo quando dovrà uscire e questo potrebbe rappresentare un rischio per la sicurezza pubblica”. Tutti i servizi medici e assistenziali presenti nella casa circondariale, sono collegati in rete tra loro, si da creare una cartella clinica del detenuto informatizzata, con le informazioni sul suo stato di salute, che possono viaggiare sulla rete. La cartella clinica può quindi essere inviata e archiviata in ospedale se il detenuto dovesse essere ricoverato, oppure può accompagnare in ogni spostamento la persona, se viene per esempio trasferita in un altro istituto penitenziario. Una rete telematica, costata 18 mila euro cofinanziata al 50 per cento dall’Asl e dalla direzione del carcere, per pagare la realizzazione dell’impresa. “Il problema più grande - spiega l’ingegnere dell’Asl, Daniele Prete - è stato quello di mettere in comunicazione due enti completamente diversi per scopo, organizzazione ed esigenze: l’azienda sanitaria e il carcere. “In pochi mesi però - sostiene Prete - siamo riusciti a mettere insieme un gruppo di lavoro multidisciplinare: ingegneria clinica, ingegneria delle reti, i professionisti della sicurezza e della privacy, integrando da un lato la necessità di mantenere determinate regole di sicurezza, dall’altra l’urgenza sanitaria di dover comunicare una situazione per esempio di emergenza. La rete interna al carcere é stata ottimizzata e integrata a quella dell’Asl, per poi far viaggiare le informazioni da un ente all’altro su fibra ottica, con l’utilizzo della Rupar, la rete unitaria per la pubblica amministrazione (Rupar), con standard definiti dal ministero, garanti della tutela dei dati sulla privacy. Cagliari: carcere sempre più affollato, a Uta 622 detenuti per 561 posti castedduonline.it , 7 novembre 2017 “Le carceri sarde assomigliano sempre più a contenitori, utili per alleggerire altre strutture, non a luoghi per migliorare la qualità della detenzione e facilitare il recupero sociale” denuncia Maria Grazia Caligaris- “Gli ultimi dati del Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria delineano con numeri oggettivi condizioni di vita sempre più problematiche nelle Case Circondariali di Cagliari-Uta e Sassari-Bancali con un superamento del limite di capienza regolamentare preoccupante perché in costante aumento. Purtroppo, come spesso è stato fatto notare, i nuovi Istituti sorti nell’isola assomigliano sempre più a contenitori, utili per alleggerire altre strutture, non a luoghi per migliorare la qualità della detenzione e facilitare il recupero sociale”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente di “Socialismo Diritti Riforme” , commentando il resoconto mensile del Ministero della Giustizia che fotografa la situazione detentiva in Italia e nell’isola. “La Casa Circondariale di Cagliari-Uta, in particolare, registra al 31 ottobre 2017, 622 ristretti per 561 posti (28 donne - 130 stranieri), complessivamente + 110,7, con riferimento al numero regolamentare. Analogamente sono fuori quota le presenze a Sassari - Bancali 504 presenti per 454 posti (17 donne - 175 stranieri), +111% e a Oristano - Massama (275 per 265). Le altre realtà sono quelle di Lanusei (in cronica sofferenza con 42 ristretti per 33 posti) e Tempio - Nuchis (al limite con 167 detenuti per 168 posti regolamentari). Alghero sta completando il numero dei detenuti (123 per 156). “Appaiono invece inattendibili - sottolinea Caligaris - i numeri relativi a Badu ‘ e Carros. Secondo il Ministero infatti nella Casa Circondariale di Nuoro sono detenute 149 persone per 370 posti letto (17 stranieri - 4 donne). Forse però chi ha elaborato i dati ha dimenticato che una sezione di circa 140 posti /letto è inagibile, avendo necessità di un intervento di risanamento; un’altra di circa 90 posti non viene utilizzata. Una semplice sottrazione può chiarire meglio la realtà. Anche a Nuoro quindi c’è una situazione di difficoltà (con 140 posti effettivi), accentuata dal fatto che la Direttrice deve curare anche Sassari. Nelle tre Colonie, che dovrebbero essere lo strumento di riscatto sociale, i detenuti aumentano ma sono ancora troppo pochi. Risultano 203 per 393 posti a Mamone (155 stranieri 76,3%), 112 ad Arbus su 176 (83 stranieri 74,1%); 100 asili su 154 (53 stranieri)”. “Ancora irrisolta la questione dei Direttori e dei Vice negli Istituti sardi dove attualmente solo 5 sono in servizio. Insomma in Sardegna i tratti contraddittori si moltiplicano e non sembra che il Ministero della Giustizia e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria siano particolarmente generosi con l’isola . La realtà appare ben diversa da quella voluta dal Ministro Andrea Orlando di voler considerare la pena detentiva un’occasione di riscatto sociale. Le limitazioni alle attività che puntualmente si verificano, i divieti perfino all’uso della farina per cucinare in cella, le restrizioni negli acquisti dei prodotti alimentari sono provvedimenti - conclude la presidente di Sdr - che non sembra possano aiutare a rieducare i detenuti. Ma questa è una considerazione assolutamente personale”. Milano: “io picchiato nel carcere di San Vittore”, dieci agenti penitenziari indagati di Luigi Ferrarella Corriere della Sera , 7 novembre 2017 L’accusa di un detenuto. “Pestato per non farmi deporre al processo di Velletri contro le guardie che avevo denunciato”. “Non arrivi a Bologna, figurati se arrivi a Velletri…”. Il pestaggio di un detenuto a San Vittore sarebbe grave già in sé, figurarsi poi se davvero motivato da rappresaglia in un malinteso spirito di corpo e di colleganza: e cioè finalizzato a punire il recluso che nel 2011 nel carcere di Velletri aveva accusato alcuni agenti di fare la cresta sulle forniture alimentari, e addirittura a impedirgli lo scorso 25 maggio di andare in Tribunale a Velletri a testimoniare proprio in quel processo-bis. Eppure è questo il quadro che ieri a Milano hanno cercato di verificare la gip Chiara Valori e il pm Leonardo Lesti nell’”incidente probatorio” convocato per cristallizzare le accuse del 50enne tunisino Ismail Ltaief (in custodia cautelare a San Vittore per tentato omicidio di un egiziano in un boschetto della droga) a 10 agenti di polizia penitenziaria del carcere, ora indagati per le due ipotesi di “intralcio alla giustizia” e “lesioni”. Il detenuto - ex tossicodipendente in trattamento con metadone, autore di due tentativi di suicidio per le asserite vessazioni - ha confermato il proprio racconto, per il quale militerebbero il resoconto di suoi racconti fatto da una volontaria al pm; in una consulenza medico-legale (disposta dal pm) che, diversamente da una visita medica precedente, attribuisce quei segni di violenza a oggetti (ad esempio un tirapugni) incompatibili con gli oggetti presenti nelle celle; e in due testi oculari di uno dei due pestaggi, i compagni di cella che saranno ascoltati in incidente probatorio lunedì. Ieri Ltaief ha messo agli atti il riconoscimento di 7 dei 10 agenti (tutti ancora in servizio, anche se quasi tutti in altri penitenziari) da lui ricollegati ai due più gravi asseriti pestaggi del 27 marzo e 12 aprile 2017, uno in cella e uno invece in una scala senza telecamere; non ha riconosciuto un agente; e ne ha infine riconosciuti altri due ma senza collocarli in specifici episodi illegali. Dalla direttrice di San Vittore e dal comando della polizia penitenziaria dell’istituto è arrivata sinora una collaborazione piena e incondizionata alle indagini avviate dopo che la gip del tentato omicidio, Laura Marchiondelli, aveva trasmesso alla Procura le lettere ricevute dal detenuto. E del resto lo stesso detenuto, assistito dall’avvocato Alessandra Silvestri, ha voluto rimarcare che gli agenti che chiama in causa non sono affatto rappresentativi del corpo in servizio a San Vittore, esprimendo apprezzamento in particolare per la comandante della polizia penitenziaria e per una ispettrice, dalle quali ha detto di essersi sentito ascoltato e messo in sicurezza. Gli indagati (difesi dai legali D’Amelio, Pingitore, D’Agostino, Giambruno e Stefanizzi) respingono le accuse, le spiegano con il risentimento del detenuto per alcuni “rapporti” disciplinari, e ne additano contraddizioni. Cambio alla direzione del carcere, da Opera arriva Giacinto Siciliano Giacinto Siciliano, 51 anni, è pronto a ricoprire la poltrona di direttore del carcere di San Vittore. L’attuale numero uno di Opera, che da anni vive sotto scorta per le minacce ricevute da Totò Riina quando era detenuto nel penitenziario milanese, succede a Gloria Manzelli che andrà a ricoprire un importante incarico al Provveditorato lombardo. Siciliano è ritenuto uno dei dirigenti più “illuminati” dell’amministrazione penitenziaria, tanto che nei suoi quasi dieci anni a Opera ha permesso anche ai detenuti di alta sicurezza di uscire dal carcere per recitare in spettacoli teatrali. Al suo posto arriva Silvio Di Gregorio, già direttore del carcere di Parma. Salerno: il carcere di Sala Consilina non riaprirà più di Claudia Monaco ondanews.it , 7 novembre 2017 Il Consiglio di Stato boccia il ricorso del Comune: “una spesa anti economica e nociva per gli interessi generali”. Si chiude così la vicenda carcere di Via Gioberti dopo la sentenza di ieri sera che ha accolto, seppur in parte, l’appello presentato dal Ministero della Giustizia per ottenere la riforma della sentenza del Tar di Salerno che, nel 2016, aveva accolto il ricorso presentato dal Comune di Sala Consilina e annullato il decreto ministeriale del 27 ottobre 2015 che aveva disposto la soppressione della casa circondariale senza avvisare l’Ente. Il decreto ministeriale era stato annullato per una possibile violazione del principio fondamentale della territorialità dell’esecuzione penale oltre a non tenere conto del fatto che si trattasse dell’unico carcere anche nel circondario del Tribunale di Lagonegro. “La casa circondariale - sottolinea il Consiglio di Stato nella sentenza - non soddisfa esigenze di sicurezza allo Stato né ha dimensioni tali da consentirvi l’allocazione di un numero cospicuo di detenuti. La spesa per rimetterla in funzione in modo corretto sarebbe abnorme, e l’ordinario esercizio della stessa imporrebbe che vi fossero destinate risorse, personale e mezzi tali da rendere non solo anti economico, ma addirittura nocivo per gli interessi generali. Il penitenziario di Sala Consilina non è l’unico penitenziario limitrofo al Tribunale di Lagonegro in quanto il predetto Tribunale è servito dalla casa circondariale di Castrovillari che dista solo 75 chilometri”. Ravenna: al via un progetto per la deradicalizzazione islamica nelle carceri ravennatoday.it , 7 novembre 2017 L’obiettivo specifico è quello di dare vita a un programma di riabilitazione post detenzione che riguardi i detenuti segnalati come maggiormente “a rischio” di radicalizzazione islamica”. La Fondazione Nuovo Villaggio del Fanciullo ospita lunedì e martedì nella sede di Ponte Nuovo il meeting iniziale di un importante progetto europeo denominato “Fair - Fight Against Inmate Radicalization”, che associa dieci partner di nove nazioni europee (Italia, Slovenia, Olanda, Malta, Portogallo, Romania, Ungheria, Lituania, Finlandia), e di cui la fondazione stessa è ideatrice e lead partner. Il responsabile scientifico è il sociologo bresciano Claudio Renzetti. Il progetto, che avrà durata biennale ed è finanziato dal programma europeo “Justice” per un milione di euro, si propone di articolare interventi per la deradicalizzazione islamica all’interno delle carceri: tramite iniziative di formazione per operatori carcerari, e tramite apposite “interviste” ai detenuti segnalati come maggiormente “a rischio” di radicalizzazione islamica. Al termine, l’obiettivo specifico è quello di dare vita ad un programma di riabilitazione post detenzione che riguardi appunto questa tipologia di detenuti. In Italia, il progetto verrà portato avanti all’interno di tre istituti carcerari: quello di Forlì, quello di Bologna e quello torinese delle Vallette. “Siamo molto soddisfatti perché l’Unione Europea ha riconosciuto l’interesse della nostra proposta e l’ha inserita fra i progetti da finanziare - sottolinea Patrizio Lamonaca, direttore della Fondazione Nuovo Villaggio del Fanciullo e coordinatore di “Fair” - Con questo progetto, di cui è capofila, la Fondazione allarga la sua attività anche in ambito europeo, a dimostrazione di uno sforzo costante per crescere negli interventi di sostegno nei confronti di categorie svantaggiate di utenti”. Bologna: altri 10 posti per la “Messa alla prova” messi a disposizione dal Comune di Giulia Cella Bologna Sette , 7 novembre 2017 Aumentano da 20 a 30 i posti messi a disposizione dal Comune per svolgere lavori di pubblica utilità, nell’ambito della rinnovata Convenzione tra Comune e Tribunale di Bologna per dare applicazione all’istituto della “messa alla prova” introdotto nel 2014. Lo spiega in una nota il Garante comunale per le persone private della libertà personale Antonio Ianniello: “Si offre alle persone che sono indagate o imputate per una condotta con profilo di rilievo penale -in particolare nel caso in cui si proceda per reati che devono essere puniti con una pena non superiore a quattro anni di reclusione - la possibilità di usufruire, per una volta, della sospensione del procedimento con messa alla prova, prestando attività Lavorativa volontaria e gratuita a favore della collettività, effettuando percorsi di riparazione del danno e dell’offesa cagionata alla vittima, nonché, quando possibile, percorsi di mediazione fra autore del reato e vittima”. Poiché l’esito positivo del periodo di prova estingue il reato, le concrete possibilità di accedere ad un idoneo programma di trattamento risultano decisive “Il rinnovo della Convenzione - commenta Ianniello - dà conto di un’importante attenzione dimostrata dal Comune e di un’efficace collaborazione fra soggetti istituzionali”. Oltre all’istituzione per l’inclusione sociale e comunitaria “Don Paolo Serra Zanetti” e alla Protezione Civile - spiega infatti la nota del Garante - vengono oggi coinvolti anche “Area Cultura con Istituzione Musei e Istituzione Biblioteche Archivio Storico Comunale Canile e Gamie, nell’ambito dell’Area Benessere di Comunità, nonché il settore Ambiente”. Perugia: Università, al Dipartimento di Giurisprudenza prima laurea di un detenuto umbriaon.it , 7 novembre 2017 La tesi in diritto processuale penale è stata discussa da Franco Trovato dal carcere di Rebibbia, in videoconferenza con il dipartimento di Giurisprudenza. Franco Trovato, da circa 25 anni sottoposto al cosiddetto carcere duro (ex articolo 41-bis ordinamento penitenziario), si è laureato in videoconferenza dal carcere di Rebibbia di Roma, con una tesi in diritto processuale penale. È il primo detenuto laureato dal dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli studi di Perugia. La discussione - La tesi, che ha visto come relatrice la professoressa Mariangela Montagna, è stata discussa la scorsa settimana e ha avuto ad oggetto proprio il tema del regime carcerario differenziato, previsto dall’art. 41-bis e adottato nei riguardi dei soggetti detenuti per delitti valutati dal legislatore come particolarmente gravi. Nella tesi sono state analizzate le problematiche più scottanti e le attuali criticità. La commissione di laurea presieduta da Giovanni Marini, direttore del dipartimento di Giurisprudenza, era composta dai docenti Carlo Fiorio, Mariangela Montagna, Rossella Fonti, Vico Valentini, Stefano Anastasia, Serenella Pieroni, che sono fra i più impegnati nella tutela dei diritti delle persone ristrette nella libertà personale. Si è concluso con il conferimento della laurea il primo percorso di studi di un detenuto, peraltro sottoposto ad un regime carcerario differenziato, che ha visto il dipartimento di Giurisprudenza offrire un sostegno concreto all’istruzione dei detenuti, quale importante momento di risocializzazione previsto dall’ordinamento penitenziario. Opportunità Significativa, a tal riguardo, la presenza dei professori Carlo Fiorio, già Garante dei detenuti per la Regione Umbria, e Stefano Anastasia, attuale Garante delle persone private della libertà personale delle Regioni Umbria e Lazio, nonché degli altri docenti a vario titolo impegnati nel percorso di costante e continuo contatto tra il dipartimento di Giurisprudenza e le strutture carcerarie del territorio nel cui ambito è andato sviluppandosi dapprima lo Sportello per i diritti in carcere promosso dalle cattedre di procedura penale e sociologia del diritto e, successivamente, l’attuale clinica legale penitenziaria. Il tutto nell’intento di offrire, da un lato, agli studenti un’opportunità di didattica alternativa che sappia coniugare teoria e pratica, ed elaborare, altresì, un approccio sociale e collettivo al diritto; dall’altro lato, un aiuto alle persone ristrette in carcere nella loro libertà personale. Esonero delle tasse - Intanto, il rettore dell’Università di Perugia, Franco Moriconi, ha accolto la richiesta del Garante delle persone private della libertà della Regione Umbria, Stefano Anastasìa, per una totale esenzione dai costi di iscrizione dei detenuti. C’è tempo fino al 6 novembre per iscriversi all’Università di Perugia e, per la prima volta, le persone detenute nelle carceri umbre potranno farlo gratuitamente. Alba (Cn): “Cose recluse”, la mostra fotografica che racconta la vita in carcere di Francesca Pinaffo Gazzetta di Alba , 7 novembre 2017 Un progetto per raccontare la quotidianità di chi vive in carcere e per portare l’attenzione della collettività su una realtà spesso ignorata. È l’intento della mostra fotografica “Cose recluse”, che sarà inaugurata ad Alba ieri, lunedì 6 novembre, nella sede dell’associazione Alec di via Vittorio Emanuele, alle 18. Sarà visitabile fino al 26 novembre, dalle 17 alle 19 il martedì e il giovedì, e dalle 16 alle 19 il sabato e la domenica. L’iniziativa s’inserisce nell’ambito di “Vale la pena-Carcere, lavoro, dignità e persone”, il progetto nato sul territorio albese e promosso dalla compagnia di Iniziative sociali, dall’associazione di volontariato penitenziario Arcobaleno, dai garanti territoriali per i detenuti, dall’azienda sanitaria, dalla casa di reclusione Giuseppe Montalto, dall’ente Fiera, dal Mercato della terra, con il contributo della fondazione Crc e la collaborazione del Comune di Alba. L’esposizione “Cose recluse” racconta il carcere San Michele di Alessandria, attraverso un libro e un reportage fotografico, realizzati dal fotografo Daniele Robotti e dalla scrittrice Mariangela Ciceri. Commenta Alessandro Prandi, garante comunale albese: “Quest’edizione di Vale la pena intende mettere al centro della riflessione l’economia penitenziaria e il lavoro svolto dai detenuti fuori e dentro gli istituti, fondamentale per un vero reinserimento nella società. Per arrivare a un buon risultato, è necessario coinvolgere i soggetti istituzionali e i privati del territorio, a partire dal mondo delle imprese, oltre a scendere in campo con linee guida chiare e con le opportune risorse”. Modena: il progetto sperimentale “Ulisse” rivolto ai detenuti della Prima Sezione di Pasquale Acconciaioco bandieragialla.it , 7 novembre 2017 A soli 40 chilometri di distanza da Bologna, e più precisamente nella Casa Circondariale di Modena “Sant’Anna”, i detenuti respirano un’altra realtà. Da ottobre 2014, infatti, è attivo un progetto sperimentale “Ulisse” rivolto ai detenuti della Prima Sezione. Ha come obiettivo quello di dare un senso alla loro detenzione. Questo progetto, nato da un’idea della Dott.ssa Rosa Alba Casella, direttrice del carcere, ha aperto la “Sezione Ulisse”. Un’area dove una cinquantina di detenuti, selezionati fra coloro che hanno raggiunto un maggior grado di responsabilizzazione nel corso dell’espiazione della pena, trascorrono gran parte della giornata partecipando a vari corsi e attività ricreative e culturali, anziché stare tutti i giorni a non fare niente oppure a giocare, da mattina a sera, a carte. Nella “Sezione Ulisse” si trovano una piccola biblioteca, una sala di meditazione, la redazione di un giornale interno, anch’esso chiamato “Ulisse”, una saletta dove si gioca a carte e, spesso, si organizzano riunioni con la Direttrice e gli educatori. Nell’attesa che arrivino i volontari, ogni detenuto sceglie di impiegare il proprio tempo come vuole (leggere, studiare, giocare a biliardino, andare al campo…). L’anima indispensabile che tiene in vita questo progetto è rappresentata dalla presenza di educatori e volontari. Naturalmente, l’impegno dei volontari non è retribuito. A quanto pare, avendo “Ulisse” come compagno di viaggio è davvero possibile dare un valore ad ogni singola giornata. Chissà se “Ulisse” arriverà anche qui. Magari dobbiamo solo dargli il tempo di arrivare, di percorrere quei 40 chilometri che ci dividono! Sfogliando “Ristretti Orizzonti”, giornale della Casa di Reclusione di Padova, ho appreso che questo esperimento, unicum a livello regionale, sta rischiando di essere spazzato via per far posto a una sezione di Alta Sicurezza. Il Dap, infatti, vorrebbe che quell’aria fosse destinata ai detenuti del 41 bis. Lecce: “Giochi di luce e ombre”, venerdì in scena la pièce scritta con i detenuti Quotidiano di Puglia , 7 novembre 2017 Sbarcherà a Lecce lo spettacolo “Giochi di luce e ombre” scritto, diretto e interpretato da studenti dell’Università di Milano-Bicocca e persone detenute nella più grande casa di reclusione italiana con detenuti di criminalità organizzata: Opera (Milano). Venerdì alle 20.30, al teatro Paisiello, sarà messa in scena questa inedita esperienza formativa e sociale che sta facendo il giro d’Italia e che intende testimoniare - alla pari di numerosi progetti analoghi fioriti negli ultimi anni - i vantaggi che possono per il territorio che derivano dall’attivazione di percorsi virtuosi, che coinvolgono Università, Carcere e i luoghi in cui si trovano queste Istituzioni. L’esperienza nasce dall’incontro fra studenti dell’Università Bicocca e persone detenute di Opera, che insieme hanno scritto e sceneggiato nonché interpretato lo spettacolo teatrale “Giochi di luci e ombre”. Gli attori-non attori hanno voluto rappresentare il libro “Università@Carcere il divenire della coscienza: conflitto, mediazione, perdono” frutto della prima esperienza ad Opera nel 2013, promossa dal docente Alberto Giasanti, rivisitandolo sulla base dell’ultima edizione del corso svolta a marzo di quest’anno. Una collaborazione resa possibile dal protocollo d’intesa fra l’Università di Milano-Bicocca e il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria della Lombardia (Prap). “Esportare questa esperienza in tante altre università e in tante altre carceri significa proporre un modello sperimentale di mediazione e inclusione sociale - spiegano gli organizzatori - come occasione per rivedere modelli di intervento e gestione, in linea con il documento finale degli “Stati generali dell’esecuzione penale”, iniziativa del Ministro della Giustizia”. L’evento fa parte delle manifestazioni organizzate nell’ambito della Settimana della Sociologia negli Atenei italiani. Le studentesse dell’Università Bicocca e otto uomini detenuti nella casa di reclusione di Opera recitano insieme sul palcoscenico del Paisiello di Lecce, interpretando - semplicemente - sé stessi. Alla base della trama, infatti, ci sono una serie di scritti personali nei quali ogni attore si è esposto portando sul palco con molto coraggio le proprie storie di vita, mettendo in luce le proprie ombre. Dopo lo spettacolo, Maria Grazia De Donatis, psicanalista, e Fabio Tolledi, regista e direttore artistico del Teatro Astragali, dialogheranno con gli attori dello spettacolo. Intervengono alla manifestazione Giacinto Siciliano, direttore della Casa di Reclusione di Opera (Milano), Alberto Giasanti, sociologo del diritto (Università Bicocca, Milano). Modera Sarah Siciliano, sociologa della Comunicazione e direttore di LabCom, Laboratorio di Comunicazione ed Empowerment dei luoghi (Università del Salento). Roma: a Rebibbia proiettato il film dei detenuti africani dedicato al Papa di Gabriella Ceraso radiovaticana.va , 7 novembre 2017 In occasione del primo anniversario del Giubileo dei carcerati, presieduto il 6 novembre del 2016 da Papa Francesco nell’ambito del grande Giubileo della Misericordia, è stato proiettato a Rebibbia il docu-film “Bonne arrivée à la Maco, Papa François!”(“Benarrivato alla Maco, Papa Francesco!”). La pellicola, presentata già al Festival del cinema di Varsavia e poi il 25 ottobre in Vaticano, porta la firma del regista franco-polacco Janusz Mrozowski, è ambientata nella Casa di correzione e detenzione della capitale del Burkina Faso Ougadougou (Maco) e documenta come i detenuti e il personale carcerario accoglierebbero il Papa e il suo messaggio di misericordia, immergendo lo spettatore nella dura realtà del carcere. Nelle scene c’è il dramma della detenzione, del degrado, della solitudine di chi ha perduto tutto, ma c’è anche altro, grazie alla fede e all’incontro che i carcerati fanno con Gesù Cristo. “È proprio questa la situazione nel nostro Paese”, spiega mons. Kisito Ouedraogo della Segreteria di Stato, originario del Burkina Faso: nelle carceri c’è una “situazione difficile moralmente e materialmente”; c’è “sovraffollamento in alcuni casi, col dramma e il grido disperato di tanti”. Ma grazie al lavoro della Chiesa, specie dei cappellani, ma anche dei volontari e delle Ong, spiega ancora mons. Ouedraogo, ha un posto rilevante tutto il “magistero del Papa sulla misericordia, il perdono e la speranza”. Ad un anno dal Giubileo dei carcerati è tempo di bilanci. È quanto in questa occasione fa il cappellano del carcere di Rebibbia che ospita la proiezione del film del regista franco-polacco Janusz Mrozowski. Don Pier Sandro Spriano ricorda con emozione l’incontro col Papa nella Casa di detenzione romana, il Giovedì Santo del 2015, ma con altrettanta forza sottolinea quanto purtroppo nell’anno giubilare nulla sia cambiato a livello di struttura e di ambiente. “L’orizzonte di speranza non è cresciuto” dice don Spriano, “anzi nessuno più parla delle criticità carcerarie: i suicidi continuano, i numeri sono sempre in aumento e la droga che è la causa principale oggi di detenzione, sembra non essere più un problema”. Alla politica don Spriano chiede un “progetto chiaro sul carcere” e la “sicurezza di portarlo a termine”. Roma: “L’Aria”, al Teatro If va in scena la libertà della detenzione di Marco Aquilanti metropolitanmagazine.it , 7 novembre 2017 Lo spettacolo di Pierfrancesco Nacca e Giulia Paoletti dedicato alle vittime degli abusi di potere da parte dello stato. Un’ora sola per sentirsi liberi, per respirare aria pulita, un’ora sola per guardare il cielo. L’Aria è il pretesto per raccontare la storia di quattro detenuti: Nicola, Mario, Rosario e Carmine, rinchiusi in un istituto di detenzione del nostro paese. Raccontano pezzi della loro vita, quella vera, prima di essere reclusi, fino ad arrivare poi al momento della carcerazione. Cosa si nasconde dietro ai loro reati? Dietro quei volti scavati, dietro il loro taglio di capelli, dietro quelle tute acetate? Forse solo uomini, ed è questo che si vuole raccontare, storie di uomini, storie di abusi, di disagio e di sofferenza, tutto narrato sotto forma di intervista, con l’idea di ricreare una realtà a noi sconosciuta: usi, costumi, gerghi, consuetudini e gesti, pezzi ricuciti insieme, in un abito che possono indossare tutti. La situazione delle strutture carcerarie italiane è vergognosa e drammatica, il sovraffollamento e le precarie condizioni igieniche rendono la detenzione infernale, mettendo a dura prova il rispetto e la dignità umana che spesso viene calpestata. I reclusi sono stati puniti per gli errori commessi, molti sono colpevoli di reati efferati, hanno subito un processo e devono pagare con la privazione della libertà, questa è la legge nel nostro paese. La detenzione però non deve essere solo punitiva, deve avere l’obiettivo della rieducazione, il reinserimento nella società e le carceri dovrebbero accogliere dignitosamente gli uomini. In alcuni istituti di pena, sono stipati in pochi metri quadri, criminali incalliti e ladruncoli, stupratori e tossicodipendenti, detenuti in attesa di giudizio e immigrati clandestini e addirittura, negli spazi comuni, ovvero quelli che dovrebbero servire alla socializzazione, all’istruzione e allo svago, vengono aggiunti altri letti a castello. Capita anche che in carcere, si entri da vivi e si esca da morti, perché l’assistenza sanitaria è precaria, quasi inesistente, perché vivere dentro è insopportabile e si preferisce il suicidio alle sbarre; perché c’è sempre qualcuno che ha la responsabilità di assistere e difendere i diritti umani, che abusa del proprio potere, con l’uso spropositato della forza, della violenza ingiustificata, delle percosse, delle lesioni. Pochi i casi di cronaca giudiziaria risolti, tanti altri, ancora in cerca dei colpevoli, tra forze dell’ordine, medici e infermieri. Quelle strane morti, improvvise, sospette, quelle foto violacee di volti emaciati, di membra lacerate, gridano ancora giustizia: Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva, Michele Ferrulli. Venerdì 10, Sabato 11 Novembre alle ore 21.00 e Domenica 12 Novembre alle ore 18.00 andrà in scena al Teatro If di Roma “L’ Aria” di Pierfrancesco Nacca con la regia di Giulia Paoletti interpretato da Alessandro Calamunci Manitta, Andrea Colangelo, Pierfrancesco Nacca e Gabriele Sorrentino. Posti limitati, prenotazione obbligatoria. Info e prenotazioni: 342.6864372 o prenotazioni@teatroif.it Udine: “L’Aquilone”, nel carcere di Tolmezzo nasce un giornale studionord.news , 7 novembre 2017 Il Garante regionale per le persone private della libertà personale, Pino Roveredo, nel corso dell’attività 2017 ha inteso offrire a chi è sottoposto a restrizioni di libertà l’opportunità di trovare personali, positivi e dignitosi percorsi per il superamento della propria condizione. In tale ambito, per dare la possibilità di far arrivare anche all’esterno la voce dei carcerati, ha promosso la realizzazione di un giornale nella casa circondariale di Tolmezzo. La conferenza stampa di presentazione de “L’Aquilone” si terrà oggi, martedì 7 novembre alle 13.00, proprio presso il carcere di alta sicurezza di Tolmezzo, in via Paluzza 77. Gli obiettivi che si vogliono raggiungere con la creazione di questo giornale - spiega in una nota Roveredo - sono quelli di sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche della pena e del carcere, sulla difficile condizione del recluso, per abbattere il malessere del ailenzio, dando riconoscimento del diritto di raccontarsi e il rispetto di essere ascoltati, anche se appartenenti a diversità di ceti, pensieri e culture sociali. Nella pubblicazione, oltre ai problemi che interessano tutta la popolazione detenuta, sono riportate anche situazioni di disagio specifiche come quelle degli immigrati, dei tossicodipendenti, delle donne che hanno esigenze e sperimentano realtà diverse tra loro, ma dettate dal comune stato di detenzione. Per promuovere un dibattito, “L’Aquilone” potrà essere poi distribuito al mondo esterno e, se inserito nel circuito scolastico, potrebbe essere uno strumento utile per la prevenzione della devianza e per l’educazione alla legalità tra i giovani. La realizzazione del giornale - aggiunge Roveredo - è stata possibile grazie all’interessamento dell’assessore regionale a Lavoro, Formazione e Istruzione, Loredana Panariti, e alla disponibilità di Silvia Della Branca, direttrice della stessa casa circondariale di Tolmezzo. Salvarsi, salvando: dialogo con Pino Roveredo di Luana Targia socialnews.it , 7 novembre 2017 “Oggi se qualcuno mi dice che la vita si vive una volta sola, io posso raccontare che no, la puoi far girare anche due volte, sì, anche due volte”. Pino Roveredo nasce a Trieste nel 1954. Finisce in carcere da ragazzo, giusto il tempo necessario per capire che, da quel momento, la missione della sua vita sarebbe stata quella di lottare per il recupero dei detenuti e di restituire al carcere la funzione rieducativa che gli spetta. Ci ha raccontato che senza quell’esperienza, probabilmente, non avrebbe avuto la stessa rabbia e la stessa motivazione che oggi lo spingono a fare quello che fa. Gli ha fornito tutti gli strumenti per scegliere di non voltarsi dall’altra parte, e quando si è trovato davanti al bivio che la vita gli ha posto, un cambio rotta, ha scelto di conservare quelle emozioni e di farne qualcosa di utile per sé e per gli altri. Ha deciso che la soluzione sarebbe stata quella di “occuparsi dei detenuti in maniera anche egoista, occuparsi degli altri occupandomi di me stesso, salvarmi salvando”. Così comincia a scrivere, ad andare nelle carceri. Vince il Premio Campiello nel 2005, con il libro Mandami a dire, pubblicato da Bompiani. A settembre è uscito il suo nuovo libro Ferro batte ferro, che doveva essere un libro “tecnico”, fatto di percentuali, e che invece si è trasformato in un’autobiografia, un libro di cronaca del suo impegno in carcere come volontario, educatore, animatore. Ce lo presenta come “una cronaca di pelle, di cuore e di pazienza che mira ad abbattere i luoghi comuni che raccontano il carcere come un luogo in cui si sta in branda 24 ore, si mangia, si beve e si dorme.” Un posto simbolo di una prigionia priva di stimoli, piena di persone ridotte all’ombra di se stesse, esseri umani per cui assumersi le responsabilità delle proprie azioni sbagliate significa annullarsi, ergersi al più “duro”, impenetrabile. Annullare i sentimenti, le passioni, la volontà di rendersi conto, di capire, di pentirsi e di trarre qualcosa di buono dalla propria esperienza. Questo è quello che Pino Roveredo vuole insegnare. Dare un significato a quel lasso di tempo che altrimenti sarebbe sprecato. L’ultima iniziativa da lui promossa in questo senso è stata l’uscita di due giornali direttamente dalle carceri di Tolmezzo e Trieste, rispettivamente “L’aquilone” e “Via Nizza 26”, in cui i detenuti raccontano la loro vita in carcere, ma soprattutto cosa li ha portati lì. “Ed è importantissimo - sostiene Pino - per chi ha commesso reati anche molto grandi riuscire a trovare uno spazio dove raccontare finalmente anche il dolore procurato. È una terapia, occupazione del tempo, è dare importanza della propria persona quando si racconta”. L’anno scorso Pino ha organizzato una serie di incontri, sei in tutto, tra gli autori di reati minori e le loro vittime. In quell’occasione si è reso conto di quanto fosse fondamentale parlare del dolore, attraverso un confronto tra chi l’ha causato e chi ne è stato vittima, con conseguenze molto positive per entrambe le parti. La vittima ha smesso di avere paura e l’autore del reato ha avuto modo di riflettere sul serio sulle azioni sbagliate che ha commesso. Pino ha cercato di ricreare quel tipo di aperta confessione con se stessi con l’uscita dei due giornali, utilizzando questa iniziativa a scopo terapeutico e stimolando, dunque, i detenuti a parlare del dolore, il proprio e quello provocato. Parlare del dolore provocato è la parte più difficile, perché richiede lo sforzo di frugare dentro se stessi, scendere in profondità forse mai raggiunte completamente, e nel migliore dei casi, perdonarsi. Il perdono, così difficile da raggiungere ma tanto potente da permettere la rinascita di una persona, il secondo giro di vita. Funzione rieducativa e di recupero in carcere: in Italia si sta facendo abbastanza? E per far sì che il secondo giro di vita avvenga sul serio, bisogna agire e riflettere sulla funzione rieducativa e di recupero del carcere, fondamentalmente quasi dimenticata. Pino, infatti, ci racconta che il 72% dei detenuti torna delinquere una volta fuori. “Non ci sono progetti che li possano inserire nella società da cui spesso sono rifiutati anche dopo aver pagato un debito. Basterebbe applicare le leggi dell’ordinamento penitenziario che prevedono questi percorsi di rieducazione e riabilitazione.” Ma l’alto tasso di recidive parla chiaro: non si fa abbastanza, o quasi nulla, per indirizzare e offrire concrete opportunità a chi ha già pagato un debito con la società. E la politica non fa uno sforzo in tal senso perché “l’uso forcaiolo paga molto di più in periodo elettorale”, perciò non si ha l’interesse ad attuare procedure di recupero e di rieducazione carceraria. “Siamo stati presi di mira dalla Corte Europea con ammende e ammonizioni che sono diventate tantissime e si continua a non cambiare anche in maniera maldestra. Salvare un detenuto sarebbe un risparmio per la tasca, per l’anima e per la società visto che costa 150 euro al contribuente. Si continua a non capire, si vive in posti obsoleti e disumani e questo non fa onore al nostro Paese. Ma ci sono stati interventi importanti come quello di Papa Francesco, che denuncia le situazioni aberranti”. Eppure basterebbero pochi accorgimenti e iniziative davvero valide, come quella del carcere di Due Palazzi di Padova. Lì c’è una rinomata pasticceria, la Giotto, in cui lavorano più di 100 detenuti con una recidività pari allo 0,01%. “Basterebbe creare delle possibilità di lavoro all’interno del carcere o dell’istituto, dove si possono insegnare i mestieri facili che ti permettono di inserirti più facilmente nella società. Questo toglierebbe il nemico più feroce che è il niente da fare - ci racconta Pino - e darebbe sicuramente stimoli maggiori che creano una prospettiva di vita. Altrimenti escono, festeggiano il primo giorno e poi c’è della grande solitudine e il pensiero negativo che può portarli a reiterare. Un’altra salvezza è la cultura, che non è un fatto di contorno, ma è vitale ed essenziale. In alcuni istituti ci si laurea, si studia, si fa teatro, si scrive e sono agganci straordinari che gli permettono di occupare il tempo”. Perciò la chiave sta tutta lì, nella cultura del fare che porta a sognare e vivere ancora. “Attraverso la cultura uno si può esprimere e si può raccontare. In carcere vige la legge del duro, è difficile che un detenuto racconti le proprie fragilità perché passa come uno debole e fragile, e viene stritolato dalla cultura carceraria che spesso ci esibisce in cose che non si sentono. La cultura invece ti permette anche di fare qualche fuga”. E proprio grazie alla cultura Pino Roveredo si è salvato, durante la sua breve esperienza in carcere. L’hanno salvato due libri, Cronache di poveri amanti e, soprattutto, Se questo è un uomo. Di questo libro ricorda una storia in particolare, quella di un vecchio detenuto che ogni mattina si lavava in modo meticoloso con -20 gradi sotto zero, a cui davano del pazzo, ma era uno dei pochi che continuava a dare considerazione alla sua vita, uno dei pochi che si è salvato. Ci confida che “quello è stato uno degli indirizzi per cambiare vita”. L’ha regalato ai suoi figli, e lo rilegge una o due volte l’anno, per non dimenticare l’importanza di considerarsi un essere umano, di amarsi e cambiare strada se si sta percorrendo quella sbagliata. Migranti. La tolleranza sotto zero di Luigi Covatta Il Mattino , 7 novembre 2017 A Salerno, dunque, i migranti non li vogliono neanche morti. Questo almeno si direbbe leggendo gli insulti che hanno sommerso il sindaco Vincenzo Napoli, reo di avere reso omaggio alle salme di ventisei donne nigeriane sbarcate da una nave spagnola. Non importa che, almeno loro, non avrebbero “tolto casa e lavoro agli italiani” ed occuperanno solo lo spazio di una fossa in un cimitero. Né importa che a Salerno i migranti (quelli vivi) transitino soltanto per essere poi avviati ai centri di accoglienza. Non li vogliono neanche morti. È difficile, in questo caso, non cogliere i segni del razzismo e della xenofobia, lasciandosi alle spalle la sociologia spicciola del “disagio sociale” e del “bisogno di sicurezza”. A Salerno fino a due anni fa c’è stato un sindaco che si è meritato la fama di “sceriffo”, ed è improbabile che il suo successore non ne abbia diligentemente seguito le orme. E quanto al disagio sociale, non si può dire che lì sia più acuto che altrove. Del resto neanche il Papa, finora, è riuscito a scalfire questo atteggiamento culturale. Quando invitò le opere parrocchiali e religiose ad aprire i loro edifici all’accoglienza ci fu perfino un prete, in Liguria, che minacciò di bruciare piuttosto la chiesa e la canonica: né si ha notizia che la Cei si sia impegnata in qualche modo a dare seguito operativo all’appello di Francesco. Lasciamo stare la sociologia, quindi, e chiediamoci piuttosto in che Paese viviamo, e se non sia ora innanzitutto di reagire con la stessa durezza del cuore di chi ha insultato Vincenzo Napoli. All’epoca dei disastri delle “rotte balcaniche” Matteo Renzi disse che il bipolarismo più significativo è quello che distingue gli uomini dalle bestie: ed anche se adesso è in disgrazia, quella sua affermazione resta la premessa di ogni discorso sui flussi migratori e sulle loro conseguenze. Poi, certo, ci sono le politiche da adottare per tentare di governare un fenomeno che tutto è tranne che una “emergenza”: magari evitando di applaudire Minniti quando fa la faccia feroce e di ignorarlo invece quando chiede la rapida approvazione della legge sullo “ius soli”. Non c’è contraddizione, infatti. Non solo perché per intervenire efficacemente sulla sicurezza è meglio avere regole certe, invece di essere costretti a procedure barocche come sono quelle ora in vigore. Soprattutto perché bisogna sfidare apertamente l’opinione xenofoba: magari mettendo in discussione uno “ius sanguinis” al quale molti sono affezionati (forse inconsciamente) anche perché evoca qualcosa di simile alla difesa della razza. A queste condizioni si possono e si debbono infine denunciare -con la stessa durezza - le opacità che emergono nella gestione dell’accoglienza, come si è fatto su queste colonne. Anche chi lucra su un dramma come questo è responsabile del diffondersi della xenofobia, quando non ne è addirittura protagonista. Non si sa come definire altrimenti, infatti, chi tiene a frollare per anni nei centri d’ accoglienza tanti poveri disgraziati, salvo cederne alcuni ai caporali ed alcune ai boss della prostituzione. Ed anche per loro ci deve essere tolleranza zero. Migranti. Nessuna “invasione”: qualche barca parte, ma il dramma è in Libia di Pierfrancesco Curzi Il Fatto Quotidiano , 7 novembre 2017 Un’invasione di migranti in Italia? Lo dice chi soffia sul malcontento di una parte dell’opinione pubblica ma più dell’ideologia conta l’aritmetica. Nel primi dieci mesi del 2017, dato aggiornato a pochi giorni fa, sono sbarcati in Italia 111.397 migranti e richiedenti asilo; di questo passo si arriverà forse a 120 mila. Molti meno rispetto all’anno precedente quando si era toccato il record di 181.436. Nel 2014 la cifra si era fermata appena sopra le 170 mila unità, poi scese a 153 mila nel 2015. In Italia al momento sono 247 mila i richiedenti asilo e protezione umanitaria, lo 0,4% della popolazione, con la media Ue al 0,6% ma con Paesi molto avanti, vedi la Germania con 1,2 milioni (1,5%) e soprattutto la Svezia, 367mila (3,2%). Difficile pensare che, col peggioramento delle condizioni meteo, il numero complessivo sia destinato a crescere di molto. Se confrontiamo il dato massimo degli sbarchi con il numero di profughi presenti in alcuni Stati del Medio Oriente, ci accorgiamo di quanto il termine “invasione” sia esagerato. In Giordania, oltre a una popolazione di 6 milioni di abitanti ce ne sono altri 2 milioni arrivati dagli scenari di guerra della regione: Siria, Iraq, Yemen. Che dire del Li- bano, appena 4,5milioni e quasi 2,5 milioni di profughi? Il record spetta alla Turchia che, dopo aver incassato 6 miliardi di euro dall’Ue, ha sigillato i confini e accolto il grosso di siriani, ospitando oltre 3 milioni di persone nei 26 campi allestiti. Certo, tornando all’Italia, se il ministro dell’I nt er no , Marco Minniti, non avesse avviato il giro di “consultazioni” in Libia e Niger, per prendere accordi anche con soggetti poco raccomandabili, si sarebbe sfondata la soglia dei 200 mila arrivi. Problema risolto? Forse. Gli ultimi giorni, con una lieve ripresa degli arrivi rispetto ai mesi di agosto e settembre, specie dalla Libia, confermano una tesi incontrovertibile. Secondo alcune stime, sarebbero almeno 700 mila i profughi africani bloccati in Libia, dentro e fuori delle carceri dell’orrore. Poche migliaia, al contrario, quelli che sono tornati nei Paesi d’origine con i rimpatri assistiti voluti dall’Onu. Lo specchio di mare del Paese che fu di Gheddafi è pattugliato dalle autorità locali, ufficiali e ufficiose, ossia i capi tribù con cui anche l’Italia ha preso accordi facendo impegnative concessioni, ma controllare 350 chilometri di costa non è semplice. Specie se i due governi auto-riconosciuti, quello della Cirenaica con capitale Tobruk controllato dal generale Khalifa Haftar e l’opposto in Tripolitania guidato da Fayez al-Serraj, si fanno la guerra. Le coste tunisine si trovano a poche decine di miglia da Lampedusa e Pantelleria, meno di 20 ore di navigazione. Tra settembre e ottobre ne sono partiti oltre 4 mila, quasi il triplo rispetto ai primi otto mesi dell’anno. La nave con 764 migranti di 30 nazionalità diverse, è approdata sabato scorso a Reggio Calabria dopo aver raccolto gruppi di migranti a bordo di svariate “carrette” del Mediterraneo. Imbarcazioni che erano riuscite a sfuggire ai controlli delle autorità libiche ed egiziane. In Africa c’è una massa di disperati che spinge per arrivare in Europa. Chi si è illuso che problema fosse risolto ha sbagliato. Secondo stime prudenti, ci sarebbero almeno due milioni di profughi dell’Africa sub sahariana, disposti a tutto pur di superare le barriere poste dagli accordi bilaterali. Con la rotta principale momentaneamente congelata, quella libica, i flussi cerca- no di orientarsi altrove. A Occidente ci sono le due enclave spagnole in territorio marocchino di Ceuta e Melilla, letteralmente blindate, ma che quest’anno hanno visto un +91% di ingressi rispetto al 2016. Qualche falla c’è sempre e questo i profughi l’hanno capito. Si tratta, tuttavia, di numeri ancora bassi. L’Algeria ha fatto di peggio: oltre a contrastare la migrazione, concedendo poche migliaia di partenze, soprattutto verso la Sardegna, il governo del presidente Bouteflika, contro ogni diritto internazionale, continua a espellere migranti subsahariani con la forza. Per i migranti, raggiungere la Sicilia dall’Algeria è troppo rischioso, meglio puntare verso nord e il porto di Cagliari, piuttosto che le coste spagnole, super pattugliate. Passando a est, l’applicazione degli accordi con l’Unione europea ha spinto la Turchia a sigillare la sua frontiera con Grecia e Bulgaria. Il risultato? Circa 10 mila profughi bloccati da quasi due anni nelle isole greche di Lesbo, Kos e Samo, stremati e senza futuro. Migranti. “Un miliardo di rifugiati climatici entro il 2050” di Roberto Giovannini La Stampa , 7 novembre 2017 L’allarme al G7 Salute di Milano: i cambiamenti affliggono soprattutto i Paesi poveri. Il cambiamento climatico è già una realtà, purtroppo. Possiamo ancora - se ci daremo da fare molto velocemente - limitare i danni, ma gli effetti del riscaldamento globale sono già visibilissimi. Basti pensare, guardando a casa nostra, all’alternarsi di siccità e bombe d’acqua; lo vediamo - e lo vedremo sempre più spesso - nel boom dei fenomeni migratori legati al cambiamento climatico o ai suoi effetti. Flussi di centinaia di migliaia di persone, forse più, spinte a cercare un rifugio e un riparo da eventi meteorologici catastrofici. Lo attesta il documento con cui il ministero della Salute italiano ha preparato il G7 dei ministri della Salute che si è aperto ieri a Milano. Lo dicono anche molti studi e ricerche di recente pubblicazione, compreso il rapporto Lancet Countdown che parla di un miliardo di rifugiati climatici entro il 2050. Dunque, il buon senso suggerisce che il miglior modo di “aiutarli a casa loro” è ridurre le emissioni climalteranti, favorire adattamento e mitigazione degli effetti del climate change, e spingere sul pedale dello sviluppo sostenibile della parte più povera del mondo. Che, come è ovvio, è quella maggiormente esposta all’effetto di tifoni, siccità, alluvioni e quant’altro. Tra gennaio e settembre del 2017, si legge in un rapporto di Oxfam International, ben 15 milioni di persone hanno dovuto abbandonare le loro case per fuggire un evento meteo estremo: di questi, in 14 milioni provenivano da Paesi a basso reddito. Tra il 2008 e il 2016, in media, i rifugiati climatici sono stati 21,8 milioni l’anno. Tra i Paesi più colpiti il Bangladesh, l’India e il Nepal, che lo scorso agosto hanno subìto rovinose inondazioni, che hanno colpito 43 milioni di persone e prodotto oltre 1200 vittime. Ma anche le piccole isole del Pacifico, con i cicloni Pape e Winston del 2015, che nelle Isole Fiji hanno messo in fuga 55mila persone, e ridotto del 20% il prodotto interno lordo nazionale. Non sono solo Ong e ambientalisti a lanciare l’allarme per il pericolo di massicce migrazioni climatiche: ne parlano anche esponenti delle Forze armate degli Stati Uniti ed esperti di sicurezza globale, le cui considerazioni sono riportate nel recente rapporto di Environmental Justice Foundation. Lo studio afferma che il boom dei flussi migratori darà vita a forti tensioni politiche, sociali ed economiche. E riporta le parole del generale (da poco in pensione) Stephen A. Cheney, secondo cui “se l’Europa pensa di avere oggi un problema di migranti, immagini quel che succederà tra venti anni se il cambiamento climatico obbligherà le popolazioni del Sahel a scappare dalla desertificazione. Oggi il problema riguarda 1 o 2 milioni di rifugiati l’anno; se le cose andranno male, saranno 10 o 20 milioni coloro che cercheranno di attraversare il Mediterraneo”. Parole inquietanti. Anche perché secondo la ricerca anche la rovinosa guerra in Siria è stata spinta e “avvelenata” da una serie di fenomeni di siccità, che tra il 2006 e il 2011 hanno costretto 1,5 milioni di siriani ad abbandonare le campagne per migrare nelle sovraffollate città. Ancora più cupa - un miliardo di rifugiati climatici in giro per il pianeta entro il 2050 - è la previsione contenuta nell’annuale rapporto del “Lancet Countdown”, pubblicato sull’autorevole rivista scientifica. A parte gli effetti economici e sociali, lo studio sottolinea che ci saranno anche effetti sulla salute globale: per colpa delle ondate di calore, per l’inquinamento dell’aria, ma anche per la diffusione di malattie finora presenti solo nelle aree tropicali, come Chikungunya, febbri Westnile, Dengue, malaria e Zika. In Italia già ne sappiamo qualcosa. Ci sono alternative a questo futuro così inquietante? Certamente sì, dice la scienza. Intanto, appunto, combattendo il cambiamento climatico con una drastica e profonda decarbonizzazione dell’economia. Secondo, spendendo - soprattutto nei Paesi più poveri - in sviluppo e misure di adattamento e mitigazione. Terzo - se ne parlerà all’imminente Cop sul clima che sta per cominciare a Bonn, in Germania - ragionando su un sistema di protezione legale dei rifugiati climatici. E infine, creando un sistema generalizzato di protezione assicurativa dal rischio climatico. Una specie di polizza globale per permettere alle persone colpiti da catastrofi climatiche di non diventare migranti, e di poter ripartire col piede giusto. Infosfera. Sui social le foto dei figli solo con il consenso di entrambi i genitori di Elvira Serra Corriere della Sera , 7 novembre 2017 La sentenza del Tribunale di Mantova sul caso di due coniugi separati in cui il padre aveva proibito la pubblicazione delle immagini dei bambini. La donna dovrà rimuoverle. Niente più foto della recita di fine anno, del primo bagno al mare, della serata di Halloween o della mattina di Natale. Una madre e un padre, senza il reciproco consenso, non potranno più postare sui social network le immagini delle conquiste quotidiane della prole, neppure con il lodevole intento di mostrarle ai parenti lontani. Lo stabilisce la sentenza firmata dal giudice del Tribunale di Mantova Mauro Bernardi, che chiede a una mamma di rimuovere tutti gli scatti condivisi su Facebook dei due figlioletti di uno e tre anni e mezzo. La sentenza a tutela dei bambini - “L’inserimento di foto di minori sui social network costituisce comportamento potenzialmente pregiudizievole per essi”, recita il provvedimento. Il rischio maggiore è “la diffusione delle immagini fra un numero indeterminato di persone, conosciute e non, le quali possono essere malintenzionate”. C’è il pericolo che attraverso dei fotomontaggi, per esempio, i volti dei piccoli possano essere manipolati per diffondere materiale pedo-pornografico in Rete. Di qui la sentenza: va bene pubblicare gli scatti, purché entrambi i genitori siano d’accordo. I diritti ai quali non si pensa - Il caso era stato sollevato da un padre separato, che in realtà aveva chiesto la revisione dell’accordo sull’affido condiviso, compresa la residenza a casa della madre. Il giudice ha deciso, senza però modificare l’accordo sui figli. È entrato invece nel merito della tutela dell’immagine (articolo 10 del Codice civile), della tutela della riservatezza dei dati personali (decreto legislativo 196 del 2013), dei diritti dell’infanzia (Convenzione di New York). Una sfilza di diritti sui quali pochi genitori oggi davvero si interrogano. Il nuovo Regolamento europeo - “Quando apro un social network e vedo mamme e papà con i propri figli minorenni penso sempre che sia un atto di profonda ignoranza. Ancora non ci rendiamo conto di cosa significhi lanciare le immagini nell’infosfera”, fa notare Carlo Blengino, penalista che si occupa spesso di diritto delle nuove tecnologie, copyright e data protection. La sentenza di Mantova, per lui, è inappuntabile sul piano giuridico: “Tiene conto pure del Gdpr, il nuovo Regolamento europeo in materia di protezione dei dati personali che entrerà in vigore nel 2018 in tutti i Paesi della Ue, il quale prevede un canale di tutela preferenziale del minore rispetto all’adulto”. Ma è incontestabile anche per il buon senso che l’ha ispirata: “Bisogna saper distinguere tra un momento privato e un momento pubblico meraviglioso, come può essere un concerto dei bambini con Uto Ughi”. Il caso austriaco - Senza dimenticare, infine, una variabile: il bimbo prima o poi compirà 18 anni. E potrà rivalersi sui genitori poco riservati. Come in Austria, dove una ragazza ha denunciato i suoi. Germania. G20 di Amburgo: inizia il processo a Fabio Vettorel, l’unico ancora in carcere di Beppe Caccia Il Manifesto , 7 novembre 2017 Sul caso dello studente di Feltre è intervenuta anche Amnesty International che ha severamente criticato, come contrario alle stesse raccomandazioni del Consiglio d’Europa, l’uso della detenzione preventiva. Entra questa mattina nel vivo, nell’aula dell’Amtsgericht di Altona, il processo a Fabio Vettorel, proprio nel giorno in cui si compie il quarto mese di carcerazione per il diciannovenne studente di Feltre (Belluno). Fabio rimane l’unico italiano ancora detenuto ad Amburgo per la partecipazione alle giornate di protesta del luglio scorso contro il vertice del G20. La sua condizione è tanto più paradossale, considerato il fatto che si tratta del più giovane tra gli attivisti arrestati in quell’occasione, addirittura giudicato come “minorenne” secondo il diritto penale tedesco. Lo studente è imputato di reati di modesta entità, quali il “disturbo alla quiete pubblica”, il “tentativo di causare danni mediante mezzi pericolosi” (lancio di oggetti) e la “resistenza a pubblico ufficiale”. Maggiorenni con simili imputazioni sono stati condannati con la condizionale e subito rilasciati. Da questo punto di vista la sua detenzione preventiva ha assunto il carattere di una vendetta punitiva e, per molti aspetti, di un trattamento discriminatorio. Il processo, dopo un primo tentativo di ricusare il magistrato giudicante che già aveva negato il rilascio di Vettorel, inizierà oggi con la testimonianza di sei poliziotti presenti al suo arresto. Secondo la sua avvocata, Gabriele Heinecke, finora le autorità tedesche non sono riuscite a produrre alcuna prova specifica sul coinvolgimento del giovane nelle “azioni criminali” di cui è accusato. Fabio starebbe pagando la semplice presenza a Rondenbarg, là dove la polizia ha caricato senza giustificazione un gruppo di manifestanti che si stava dirigendo ai blocchi intorno alla “zona rossa” del Summit. Sul caso è intervenuta anche Amnesty International che ha severamente criticato, come contrario alle stesse raccomandazioni del Consiglio d’Europa, l’uso della detenzione preventiva, ritenuta “non strettamente necessaria” di fronte all’assenza del rischio di fuga e alle caratteristiche personali dell’imputato, a cominciare dalla giovane età. Per questo Amnesty ha chiesto, fin dall’ottobre scorso, il “rilascio di Fabio Vettorel in attesa del processo” e, quanto meno, di valutare l’applicazione di misure alternative al carcere nei suoi confronti, così come per gli altri detenuti del G20. Domenica pomeriggio, nel quadro della campagna UnitedWeStand, oltre duecento persone hanno dato vita ad Amburgo a un rumoroso presidio davanti al carcere di Billwerder. Al termine centinaia di palloncini, rossi e neri, sono volati in aria oltre le mura della prigione. Un benaugurante messaggio di libertà, in attesa che il castello delle accuse crolli e che anche l’incubo di Fabio, insieme agli altri ancora ostaggi dei “Venti Grandi”, finisca. Stati Uniti. Finché avere il carro armato in garage resterà un diritto di Fabrizio Tonello Il Manifesto , 7 novembre 2017 Congresso corrotto e prigioniero delle lobby delle armi. La paralisi del sistema politico americano sulla questione delle armi. Congresso corrotto e prigioniero dei finanziamenti delle lobby. Siamo alle statistiche: quello di domenica a Sutherland Springs è stato il peggiore massacro di civili nella storia del Texas, o ci furono più vittime nel 1966, quando all’università del Texas ad Austin un cecchino salì su una terrazza e iniziò a sparare sugli studenti, facendo 15 morti e 31 feriti? E nella categoria “sparatorie in chiesa”, la strage di domenica è più o meno grave di quella di Charleston, in South Carolina, nel 2015? E ancora: quello di due giorni fa è il peggiore omicidio di massa del 2017, o ci furono più vittime un mese fa a Las Vegas, nell’attacco terroristico contro i giovani che assistevano a un concerto? Le risposte sono semplici: con 26 morti accertati quello di domenica è stato il peggior attentato nella storia del Texas e il peggiore avvenuto in una chiesa, benché abbia fatto meno vittime di quante ce ne siano state a Las Vegas lo scorso 1 ottobre (58). I media americani sembrano specializzarsi in questa macabra contabilità, che assomiglia più alle statistiche del baseball che a un dibattito sul problema della violenza negli Stati Uniti. Poche cose mostrano la paralisi del sistema politico americano, l’incapacità di decidere, quanto la questione delle armi. Un Congresso corrotto e prigioniero dei finanziamenti delle lobby rifiuta da decenni di prendere misure concrete per arrestare la circolazione di armi da guerra, un presidente-clown attribuisce le stragi dei suprematisti bianchi alla “malattia mentale” mentre parla di “male assoluto” quando il fondamentalismo islamico è coinvolto come nel caso di New York, pochi giorni fa. Una Corte suprema a maggioranza repubblicana porta la pesantissima responsabilità di aver sostanzialmente cancellato ogni significativa limitazione al possesso di armi da fuoco da parte dei privati con una sentenza del 2008 (District of Columbia v. Heller) che dava una lettura estensiva (e storicamente infondata) del II° emendamento della Costituzione, che garantisce ai cittadini il diritto di tenere armi, in quanto necessarie per il servizio nella milizia civica. Oggi la milizia non esiste più, ma per la Corte il diritto di tenere un carro armato in garage deve essere tutelato. Anche nei fatti di domenica lo strumento è stata un’arma da guerra, un fucile semiautomatico Ruger del tipo in dotazione all’esercito americano. L’assassino, del resto, è un ex militare: si era arruolato nell’aviazione ma nel 2012 era stato mandato davanti alla Corte marziale per aver usato violenza nei confronti di moglie e figlio: dopo 12 mesi di prigione militare era stato congedato con disonore. La chiesa dove Kelley si è messo a sparare non era una congregazione afroamericana (come quella di Charleston, colpita da Dylan Roof nel 2015 “per provocare una guerra razziale”) e non sono emerse affiliazioni politiche significative da parte dell’assassino. Siamo quindi di fronte alla nuova “normalità” americana: stragi nelle grandi città e nelle piccole comunità (Sutherland Springs ha appena 400 abitanti), stragi politicamente motivate e stragi senza ragione, assassini che sono studenti, ex militari, o perfino pensionati benestanti come Stephen Paddock, che il 1° ottobre scorso ha freddamente aperto il fuoco sul pubblico di un concerto, facendo 58 morti e circa 500 feriti. Lo spettacolo di una società che sembra in preda a una guerra civile strisciante, ma senza fronti definiti, dove rimane solo una violenza incomprensibile, dove alla mortale associazione tra virilità e porto delle armi si aggiunge una disponibilità di strumenti di morte che non ha eguali nel mondo industrializzato. Gli Stati Uniti hanno più armi in circolazione tra i privati di tutti gli altri paesi industrializzati messi insieme ed è in Texas, in Arizona, in Florida che i cartelli della droga messicani vanno a rifornirsi di pistole, fucili e munizioni. Stati Uniti. La stampa resta libera, ma Trump ha reso la verità irrilevante di Massimo Gaggi Corriere della Sera , 7 novembre 2017 L’avvocato Abrams: le fake news limitano la capacità di giudizio della gente. “È paradossale. I media esercitano la loro libertà con un vigore mai visto prima alla ricerca della verità dei fatti, eppure perdono peso e credibilità: nonostante le minacce, Donald Trump non ha varato leggi liberticide, ma con le sue continue campagne denigratorie a base di tweet rende la verità irrilevante”. Floyd Abrams sorride mestamente nella penombra pomeridiana del suo studio di Pine Street nella sede di Cahill, lo studio legale della quale è consigliere generale e per la quale lavora da 54 anni. Monumento vivente della difesa della libertà di stampa in America da quando, nel 1971, difese il New York Times per la pubblicazione dei Pentagon Papers sulla guerra in Vietnam, il celebre avvocato del Primo Emendamento della Costituzione, quello che in America garantisce un illimitato diritto al free speech, nella sua vita professionale ha visto di tutto. Ma non avrebbe mai immaginato che alla Casa Bianca potesse arrivare un presidente che istituzionalizza le fake news. Cominciamo dalla libertà di stampa. Anni fa lei si disse preoccupato per l’atteggiamento di Obama che faceva ricorso con una certa frequenza all’Espionage Act, una legge del 1917, contro i giornalisti che raccolgono informazioni sensibili nel governo e le sue agenzie. Con Trump va ancora peggio o è solo rumore di fondo? “Obama ha fatto cose sbagliate, ma nulla in confronto a Trump che minaccia di continuo la stampa. Minacce immediate, come quella di arrestare i giornalisti che esagerano, o di lungo termine, come quando ipotizza di togliere alla Nbc la licenza per le trasmissioni perché, secondo lui, dà informazioni non accurate. Intendiamoci: non può succedere. Dovrebbero cambiare le leggi, la giurisprudenza e il modo di operare della Fcc, l’authority di controllo. Nel lungo periodo, però, le cose potrebbero cambiare, se muteranno gli umori dei parlamentari e dell’opinione pubblica. Ma non ora. Tanto più che sul piano giudiziario i suoi furiosi tweet sono un autogol”. In che senso, scusi? “Chiunque, nei media, dovesse subire un intervento liberticida del governo, potrebbe chiedere protezione alla magistratura sostenendo che il presidente è prevenuto e vuole punire la stampa. E probabilmente la spunterebbe: dovrebbe solo allegare i tweet nei quali Trump definisce le reti televisive Usa “nemici del popolo” o sostiene che bisogna obbligarle a dire la verità. Dal punto di vista strettamente legale quei messaggi diffusi sui social network sono un vero boomerang. Vale anche per le esternazioni del presidente in altri campi come il terrorismo. Non mi stupirei se la condanna che verrà inflitta all’attentatore della pista ciclabile del Lower West Side fosse impugnata con successo dai suoi difensori sostenendo che il presidente, che ha invocato la pena di morte, ha esercitato pressioni indebite condizionando l’indipendenza del suo ministero della Giustizia: una lesione del diritto di ogni imputato a un giusto processo”. Allora cosa teme? “Per ora sul piano giuridico la libertà di stampa è pienamente garantita e in questo anno è stata esercitata con straordinaria energia. Ma la continua campagna denigratoria del presidente nei confronti dei media ha un micidiale effetto cumulativo su una vasta parte dell’opinione pubblica; o, almeno, su quella minoranza significativa che crede in lui, ormai convinta che la stampa non va creduta per definizione. Non solo aizza i cittadini contro i giornalisti, ma diffonde indifferenza per la nozione di verità. Una manovra tutta extralegale”. Il polverone delle fake news non ha, quindi, rilevanza giuridica. “Non ha un impatto diretto sulla libertà di chi fa informazione, ma avvelena e alimenta il cinismo dell’opinione pubblica. Riduce il ruolo dei media. E poi tenta anche di ridurre il diritto e la capacità della gente di farsi le sue idee, come con l’attacco ai giocatori di football che si inginocchiano quando viene intonato l’inno”. Un attacco al free speech? È per questo che ha appena pubblicato un nuovo libro, “The Soul of the First Amendment”, a difesa di questo baluardo della Costituzione? “L’ho pubblicato da poco, ma l’ho scritto tra 2015 e 2016, pensando ad altre minacce contro la libertà d’espressione. Quando Trump attacca con violenza o il suo vice Pence se ne va per protesta da uno stadio dove i giocatori si inginocchiano, c’è un tentativo di limitare la capacità di giudizio della gente. Ma va ricordato che gli atleti non sono protetti dal Primo Emendamento: una norma che si applica solo agli abusi di potere dei governi. Mentre i privati possono limitare la libertà d’espressione all’interno delle loro organizzazioni. La Costituzione può essere invocata solo se il vertice politico esercita pressioni indebite per limitare la libertà: proprio quello che stanno facendo Trump e Pence”. Solo responsabilità di Trump per il caos comunicativo? E le reti sociali megafono di falsi, onnipotenti e non regolamentate, a differenza degli altri media? “La bilancia del potere nei media è cambiata radicalmente. Facebook, Google e Twitter non sono attori statali, quindi non sono soggetti al Primo Emendamento: se vogliono, possono controllare i loro flussi informativi. Molti ormai si informano solo su Facebook che ha un potere sterminato. Mi aspetto che prima o poi sia regolato. Ma non è facile”. Ci sono reti che cancellano gli account di soggetti russi che seminano fake news per gettare l’America nel caos. Ma li puniscono perché hanno dato false identità, non per il contenuto di questi messaggi. Corretto? “Le società di Internet devono decidere cosa pubblicare e cosa censurare? Io credo di no, se non ci sono violazioni di norme fondamentali”. Libertario fino in fondo, lei lo è anche nel chiedere che Assange e Snowden non vengano puniti. Ne è ancora convinto davanti a Wikileaks usata dal Cremlino? Lei è un liberal che rischia di essere odiato dai liberal. “Sì, lo credo ancora. Non mi piace ciò che hanno fatto, ma punirli creerebbe un vulnus della libertà: un grave precedente. Mi odieranno, lo so. Mi odiano già per il mio appoggio a Citizens United (la sentenza che ha consentito ai gruppi economici di fare campagne politiche senza limiti, ndr): mi rassegnerò anche a questo”. Libia. Al festival dei fumetti di Tripoli irrompe la polizia: arresti per blasfemia di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera , 7 novembre 2017 È finito con l’irruzione della polizia il Comic Con, il festival dedicato ai fumetti a Tripoli, in Libia. I membri delle Forze speciali di deterrenza (Sdf) hanno fatto irruzione nell’edificio dove molte persone erano vestite come personaggi di cartoon americani o giapponesi. Decine di persone sono state arrestate con l’accusa di “promuovere l’indecenza e la violenza”. “Questo tipo di festival importato dall’estero sfrutta la debolezza della fede religiosa e il fascino per le culture straniere. È necessario affrontare e combattere questo fenomeno distruttivo, che promuove la diffusione della pornografia e condiziona le menti degli adolescenti, motivandoli a uccidere”, ha scritto sulla sua pagina Facebook la “Forza Speciale Deterrente”, una polizia islamista armata che lavora per il governo nazionale. La missione di sostegno delle Nazioni Unite in Libia (Unsmil) ha chiesto il rilascio immediato degli organizzatori e dei partecipanti del festival di Tripoli. “Siamo turbati dalle notizie di arresti degli organizzatori e dei partecipanti al Comic-Con. Unsmil chiede l’immediata liberazione delle persone ancora in arresto. La libertà di espressione e di riunione pacifica sono diritti umani fondamentali” ha scritto Unsmil su Facebook. Niger. La guerra al traffico migranti provoca disoccupazione. Spingerà verso la jihad? di Tommaso Carboni La Stampa , 7 novembre 2017 Nuovo rapporto Onu: in Africa, non è la religione ma la precarietà economica ad alimentare il terrorismo. Ad Agadez, una città di case d’argilla e fango nel centro del Niger, i giovani hanno fatto molti lavori. Sono stati minatori nelle cave d’uranio, soldati nelle milizie di Gheddafi, e guide turistiche per le esplorazioni del deserto. Tra il 2007 e il 2010, si sono uniti alla rivolta Tuareg contro Naimey, la capitale nigerina; per poi riconvertirsi al trasporto di persone. Un’attività praticata da sempre in quella zona, ma che si è intensificata dopo la caduta di Gheddafi. In poco tempo, Agadez è diventata il principale snodo nel Sahel di migranti in arrivo dall’Africa occidentale. A maggio del 2016, al picco delle partenze, in 72.000 hanno attraversato il deserto a bordo di fuoristrada diretti verso la Libia. Oggi Agadez è una città fantasma rispetto all’anno scorso. La stretta sui traffici chiesta al governo nigerino dall’Unione Europea ha raggiunto il suo scopo. Centinaia di trafficanti arrestati e altrettanti veicoli sequestrati. Risultato: le partenze dalla città verso la Libia sono crollate. Ma c’è un rovescio della medaglia. Il traffico di migranti era il perno su cui si reggeva l’economia di gran parte della comunità. La sua riduzione, che tra l’altro ha coinciso con la chiusura di una miniera d’oro nei pressi di Agadez, ha lasciato centinaia, forse migliaia di giovani senza lavoro. Giovani che sanno usare le armi e conoscono il deserto. “Per il momento abbiamo pazienza”, ha detto uno di loro, intervistato per un reportage uscito sulla London Review of Books. “Ma prima o poi la perderemo”. I funzionari locali, molti dei quali ex-leader della rivolta Tuareg, condividono la stessa rabbia e frustrazione. “Tutti questi giovani: sono un esercito e ci stanno a sentire”, spiega Mohamed Anacko, presidente del Consiglio regionale di Agadez. “Gli abbiamo detto di non reagire in modo violento. Tra l’altro, sono loro che ci avvertono se c’è pericolo di radicalizzazione islamica nella zona. Ma se l’Unione Europea non ci aiuta a creare rapidamente un’alternativa, la gioventù potrebbe imboccare la strada della violenza”. È ciò che ha confermato a Foreign Affairs un uomo di etnia Tuareg che da quindici anni trasporta migranti nel deserto. “Che cosa dovrei fare? Diventare un terrorista? Forse sì, forse andrò in Libia ad arruolarmi nell’Isis. Tanto sono loro quelli che pagano di più”. E sfidando i controlli, c’è chi continua a partire verso la Libia. Lo fa lungo rotte più periferiche e pericolose, al confine tra Niger e Algeria, le stesse usate da trafficanti di armi e droga, e da gruppi jihadisti come Aqim (al Qaeda nel Maghreb islamico).”Temiamo che entrino in contatto con criminali o terroristi”, avverte Azaoua Mahaman, esperto di Niger dell’Organizzazione Mondiale per le Migrazioni (Oim). “Un migrante (o un trafficante) in difficoltà e senza soldi può accettare proposte di ogni tipo”. E riguardo alla diffusione di reti criminali e jiadiste nella regione, Arije Antinori, esperto EU di terrorismo e coordinatore di Cri.Me Lab “Sapienza” Università di Roma, spiega come queste abbiano saputo adattarsi condividendo le medesime rotte, attraverso le quali “muovono qualsiasi prodotto criminale”, dalla cocaina in arrivo dal Sud America ai migranti bloccati nel collo di bottiglia nigerino. Che la regione attorno ad Agadez possa diventare una terra di reclutamento per i terroristi sembra una preoccupazione legittima; confermata oltretutto da una recente indagine delle Nazioni Unite sull’estremismo in Africa, secondo cui è il disagio economico più che la religione a spingere i giovani alla jihad violenta. Lo studio dell’ONU, basato su interviste a 495 jihadisti, sostiene che gran parte delle reclute di organizzazioni terroristiche proviene da aree impoverite e marginali, dove lo stato è essente o, in alternativa, viene percepito come autoritario e corrotto. Ad Agadez, l’opinione diffusa sembra esattamente questa: che il governo centrale abbia fatto gli interessi propri e dell’Europa a scapito della popolazione locale. Seguendo i diktat di Bruxelles, ossia bloccare le migrazioni verso il Nord Africa, il governo del Niger ha ottenuto prestigio a livello internazionale e la promessa di aiuti per centinaia di milioni di euro. Di questi, 190 sono già stati allocati attraverso il Fondo fiduciario europeo per l’Africa. Il problema, secondo quanto emerge da un’indagine dell’Ngo Global Health Advocates, è che gran parte dei fondi è andata a finanziare attività di sicurezza e gestione delle migrazioni, piuttosto che progetti a sostegno dell’economia. Ad Agadez, denunciano i 15 sindaci della regione, non è stato fatto nulla per offrire alternative al business dei migranti. “Questi ragazzi si sono fidati di noi e hanno smesso di trasportare persone in Libia. Si aspettavano alternative, come promesso dall’Europa, ma ancora non abbiamo visto niente”, si legga in un comunicato diffuso lo scorso aprile. I sindaci inseriscono poi una critica radicale al metodo della cooperazione allo sviluppo europea. “Le agenzie europee gestiscono i loro progetti senza coinvolgerci. Si comportano come se non esistessimo. I Paesi che fanno partnership con le nostre autorità devono capire che non si può fermare il traffico di migranti se non si coinvolge la gioventù locale, se non coinvolgono noi”.