Perché a Padova serve un Garante delle persone detenute Il Mattino di Padova, 6 novembre 2017 Le associazioni, le cooperative e quei pezzi di società che ogni giorno entrano in carcere per rendere la vita detentiva più umana e più vicina, per quel che possibile, alla vita vera, come ci invitano a fare le Regole penitenziarie europee, chiedono con forza che anche a Padova il Comune istituisca il Garante delle persone private della libertà personale, una figura che già esiste in molti Comuni e Regioni, “con funzioni di prevenzione di maltrattamenti o condizioni detentive non dignitose”, e la cui istituzione rappresenta un atto di civiltà. La civiltà di capire che la pena consiste nella perdita della libertà, ma non degli altri diritti, ed è importante che una persona detenuta sia tutelata proprio perché le Istituzioni devono costituire, per chi ha violato le regole commettendo reati, un esempio di rispetto delle leggi e di correttezza, e devono far funzionare gli strumenti per controllare il loro stesso operato. Il Garante è la figura giusta per farlo. Per le persone detenute chiedere il rispetto dei diritti non è una forma di arroganza Il Garante delle persone private della libertà? In tempi come questi ce ne sarebbe davvero bisogno. È di pochi giorni fa la condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo che ha sanzionato ancora una volta il nostro Paese e lo ha fatto condannando l’Italia, perciò gli italiani, a pagare milioni di euro di risarcimento a quei liberi cittadini i quali in quei giorni del 2001, durante lo svolgimento del G8 di Genova, mentre dormivano nella scuola A. Diaz, venivano nottetempo massacrati da esponenti delle forze dell’ordine presenti sul luogo. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha definito quei feroci pestaggi e il successivo trattamento riservato alle persone nella scuola di polizia di Bolzaneto come un atto di tortura inaudita. Sebbene alcuni mesi fa il Parlamento italiano abbia varato una legge che introduce il reato di tortura nel Codice penale, si tratta di una legge molto debole, tanto che, stando a chi se ne intende, non darebbe neppure gli strumenti per far condannare, appunto, i colpevoli dei tragici fatti avvenuti durante il G8. A Bolzaneto così come nei luoghi di privazione della libertà le persone spesso vivono una situazione di insicurezza e di precarietà, ecco perché sarebbe davvero preziosa la figura di un Garante per le persone private della libertà. Ci sono tanti altri motivi, tuttavia, per augurarci che presto anche la civile Padova abbia una figura che tuteli finalmente le persone detenute che, seppure mantengano dei diritti, non sempre riescono a vederseli riconosciuti. Quando si parla di diritti per noi condannati non si capisce bene cosa si scatena, sembra, infatti, che rivendicare i diritti appaia come una forma di arroganza che difficilmente viene accettata. Credo che il Garante sia una figura che opportunamente verrebbe a creare gli equilibri necessari in un ambiente come la galera, luogo di ineliminabili conflitti. Ci tengo a sottolineare che la Casa di Reclusione di Padova non è luogo di preoccupazione per la garanzia dei diritti, ci sono carceri ben peggiori sotto questo aspetto, tuttavia, è sempre bene non dimenticare che le dinamiche delle prigioni italiane sono davvero delle variabili imprevedibili. Da sempre dove ci sono persone private della libertà esistono abusi, o se non sono tali gli assomigliano molto, ad esempio: in carcere non esistono i sindacati che tutelano le persone detenute che svolgono attività lavorativa per l’amministrazione penitenziaria o per cooperative o ditte esterne. I diritti negati i lavoratori detenuti se li vedono spesso garantire dopo anni di battaglie, quando escono dal carcere. È di pochi mesi fa l’innalzamento delle retribuzioni dei detenuti che lavorano per conto dell’amministrazione penitenziaria, che non venivano adeguate al costo della vita da più di vent’anni. Infatti, chi controlla il controllore? C’è bisogno di garanzie, c’è bisogno del rispetto dei diritti di tutti. Perciò sarebbe importante che questa Giunta Comunale agevoli la nomina di una figura di Garante anche per noi. Io ne ho solo indicato alcuni, ma sono tanti i problemi per la cui soluzione serve una figura di garanzia. Bruno Turci Un Garante aiuta la società a guardare con occhi più responsabili chi è privato della libertà Il garante dei detenuti è una figura importante anche per gli istituti di pena padovani, perché può risolvere molte questioni pratiche ascoltando l’utente ristretto e tutelando i suoi diritti. Per esempio in molti casi di trasferimento del detenuto, che il più delle volte avvengono quando il detenuto non lo vorrebbe, come capita spesso a noi che siamo rinchiusi in sezioni di Alta Sicurezza, e invece non avvengono quando il detenuto stesso lo richiede per essere avvicinato alla famiglia, ma anche in situazioni difficili per quel che riguarda la salute della persona, che se si ammala in carcere ha bisogno di tanta attenzione, e soprattutto di essere creduta. Un garante poi può contribuire a snellire le modalità per l’ingresso dei familiari ai colloqui, rendere più civile la loro attesa e ascoltare le loro testimonianze, il racconto dei loro disagi. Ma avere una figura come il garante significa anche per la società guardare con occhi diversi e più responsabili chi è privato della libertà, perché il carcere è più pericoloso se rimane un luogo isolato dal contesto sociale. Garantire una maggiore sicurezza sia al detenuto che rimane per anni ed anni rinchiuso, sia agli operatoti penitenziari, ma anche a quella società che alla fine della pena dovrà riaccogliere chi esce dal carcere, è giusto e importante, e il garante serve anche a questo, a tutelare le persone che non sono in grado di farlo da sole, perché private della libertà, là dove ci possono essere delle mancanze, anche non volute, o delle violazioni della legge. Oggi il detenuto è spesso privo di difese proprio perché manca quella figura che può ascoltare e dare sostegno a chi deve scontare una pena, e incontra delle difficoltà a cui a volte la sola amministrazione penitenziaria non è in grado di far fronte, situazioni pesanti come quella dei malati, degli invalidi che vivono spesso abbandonati nelle sezioni e soffrono più degli altri per il sovraffollamento, che sta tornando prepotentemente nelle carceri. Quello del garante è un servizio che sicuramente migliorerebbe la vita detentiva, perché oggi la vita dentro ad un carcere è molto differente da quella di chi passa le sue giornate fuori, e non si tratta solo della privazione della libertà, ma della perdita di altri diritti, che invece dovrebbero essere tutelati. Il garante deve avere quella funzione di fare emergere quegli aspetti del carcere che permettano una responsabilizzazione e un avanzamento, senza nessuna regressione, della vita del detenuto, che a sua volta deve apprendere quanto sia importante sapere non solo cosa gli spetta, ma anche quali sono le sue responsabilità e come la sua detenzione possa essere un momento di confronto e di crescita. Credo che sia chiaro poi che bisogna lavorare anche sulla funzione che può avere un garante dei detenuti in un carcere che vive in condizioni di sovraffollamento, perché questo significa non solo che le persone stanno male, ma anche e soprattutto che gli operatori sono insufficienti e non sono nelle condizioni di seguire con attenzione le persone e di garantire loro una carcerazione che non sia dannosa, e che non si trasformi in una scuola di criminalità. Il garante è quella figura che può conoscere ogni aspetto della vita detentiva, e nella miseria della prigionia cercare di eliminare tutto quello che opprime e soffoca inutilmente le giornate delle persone detenute e di smussare quei conflitti, che rischiano di far uscire le persone peggiori. Ma per questo c’è bisogno che le istituzioni, e anche il volontariato e le cooperative, si confrontino e lavorino insieme, si siedano intorno ad un tavolo e discutano delle situazioni difficili che sono presenti anche nelle sezioni del carcere di Padova, e questo lavoro può essere proprio il Garante a promuoverlo. Giovanni Zito “A scuola di libertà 2017”, confronto tra carcere e scuola di Maurizio Mazzi* orizzontescuola.it, 6 novembre 2017 La Conferenza Nazionale Volontariato e Giustizia, cui aderiscono 8 Enti nazionali e 19 Conferenze Regionali, in rappresentanza di circa 8.000 volontari, di cui molti operano da tempo in progetti che mettono in relazione il carcere e la scuola; anche quest’anno, a partire dal 15 novembre, ha indetto la V° Campagna “A scuola di libertà 2017” dedicata a iniziative, pensate per far incontrare e confrontare il Carcere e la Scuola. Queste campagne, prevalentemente sostenute da volontari, hanno coinvolto, in un crescendo continuo di anno in anno, 15.000 studenti, 690 classi, 185 scuole e 1.000 volontari impegnati nell’organizzazione delle attività proposte. Le scuole, i docenti e gli studenti che volessero partecipare alle iniziative promosse a partire dalla seconda metà del mese di novembre possono contattare Maurizio Mazzi, tel 347.0064001, maurizio.mazzi@libero.it. Le scuole che lo richiedono potranno avere a disposizione gratuitamente i materiali prodotti per la campagna (giornali dvd e manifesti), il tema di base di quest’anno è “Tra passione e indifferenza: Passioni che ti svuotano la vita, passioni che te la riempiono”. Si approfondiranno anche temi come i comportamenti a rischio, la voglia di trasgressione, come si arriva a commettere reati, e poi le pene, il carcere per adulti e il carcere minorile, la vita detentiva. Tutti i materiali di approfondimento e di stimolo al dibattito sono comunque anche visibili ed utilizzabili direttamente in internet sul sito http://www.volontariatogiustizia.it. *Presidente Conferenza Regionale Volontariato Giustizia del Veneto Il coraggio dei testimoni di giustizia cerca una legge di Roberto Galullo Il Sole 24 Ore, 6 novembre 2017 Chissà se quel pugno di persone - 80 testimoni di giustizia alla fine del 2013, ultimo dato distinto, seguito nel tempo da statistiche che li registrano insieme ai collaboratori - avrebbe mai pensato di entrare nel cuore di Papa Francesco. Nel messaggio rivolto alla Commissione parlamentare che il 19 settembre per la prima volta è stata ricevuta in udienza speciale al Vaticano, il pontefice è stato chiarissimo: “Non si può dimenticare che la lotta alle mafie passa attraverso la tutela e la valorizzazione dei testimoni di giustizia, persone che si espongono a gravi rischi scegliendo di denunciare le violenze di cui sono state testimoni. Va trovata una via che permetta a una persona pulita, di uscirne senza subire vendette e ritorsioni”. Parole ancora più significative se si pensa che sono state pronunciate a poche ore dal 27 anniversario dall’assassinio del giudice Rosario Livatino, ucciso il 21 settembre 1990 mentre percorreva la statale 640 di Porto Empedocle diretto al Tribunale di Agrigento. Proprio Papa Francesco nel corso di un’altra storica udienza al Consiglio superiore della magistratura il 17 giugno 2014, aveva invitato i giudici a essere di “integra moralità per l’intera società”, citando due modelli a cui ispirarsi: Vittorio Bachelet e lo stesso Livatino, definito “testimone esemplare, giudice leale alle istituzioni, aperto al dialogo, fermo e coraggioso nel difendere la giustizia e la dignità della persona umana”. Due figure diverse di testimoni - l’una sostiene, mentre l’altra amministra - ma entrambe al servizio della Giustizia. Una via va trovata anche perché la legge è ferma al 2001, quando venne modificata la precedente disciplina del 1991. Sono passati 16 anni dall’ultimo intervento ma nel frattempo il mondo è cambiato e la necessità di salvaguardare i testimoni di giustizia - che a differenza dei collaboratori o pentiti che dir si voglia, non hanno nulla a che fare con contesti criminali e anzi spesso ne sono vittime - è aumentata. Sta di fatto che la proposta di legge A.C. 3500, presentata il 16 dicembre 2015 (prima firmataria Rosy Bindi) che vorrebbe introdurre una normativa speciale riservata ai soli testimoni, giace in Parlamento. Molte le novità che si vorrebbero introdurre: la definizione del testimone di giustizia, ancorata a parametri più stringenti; la personalizzazione e gradualità delle misure (è data preferenza nell’adozione di misure di tutela nella località di origine rispetto al trasferimento in località protetta, adottato col programma di protezione); la possibilità per il testimone di godere di misure di sostegno economico anche nel luogo di residenza, in presenza di riduzione della capacità di reddito (attualmente garantite dal solo programma di protezione); l’introduzione di misure a salvaguardia dell’impresa del testimone; l’istituzione di una figura, il referente del testimone di giustizia, che garantisca a questi un riferimento certo nei rapporti con le istituzioni, assicurando una piena assistenza al testimone per tutte le sue necessità; l’introduzione di un termine di durata massima delle misure. Avviso Pubblico, Arci, Acli, Centro studi Pio La Torre, Cgil, Cisl, Uil, Legambiente, Lega Coop, Libera e Sos Impresa hanno inviato un appello al presidente del Senato Pietro Grasso e ai senatori di tutte le forze politiche affinché approvino il testo della riforma nel più breve tempo possibile, senza apporvi alcuna modifica. L’importanza della nuova disciplina è sottolineata dal testimone Rocco Mangiardi. “Non si contano ormai più le volte che erroneamente, o ancor peggio, per incompetenza - dichiara Mangiardi al Sole 24 Ore del lunedì - mi sono sentito tacciare per collaboratore di giustizia. Tutte le volte che questo avviene, per chi come me non proviene da nessuna cosca mafiosa ma bensì da una scelta di campo netta e precisa, è un vero pugno allo stomaco. Fosse per me, preferirei essere chiamato più semplicemente per quello che in realtà mi sento da sempre essere: cittadino responsabile. Tuttavia, la nuova proposta di legge, se finalmente - come spero - venisse approvata, rappresenterebbe un vero spartiacque contribuendo a portare molta chiarezza”. La violenza sulle donne e i tempi dello Stato di Ludovico Arte La Repubblica, 6 novembre 2017 In questo periodo non si fa altro che raccontare di episodi di violenza sulle donne. E non si fa altro che leggere parole di scandalo, di allarme, di solidarietà. Parole, appunto. Belle. Straordinarie. Ma parole. Cosa avviene però, nei fatti, quando una donna subisce violenza? Provo a raccontarne uno, di fatto, che conosco. Con la riservatezza necessaria. Succede che una donna viene picchiata dal marito. Per l’ennesima volta. E, stanca, decide di scappare di casa. Succede che va dai carabinieri e fa denuncia. Le dicono che però adesso bisogna aspettare che la giustizia faccia il proprio corso. Lei esce dalla caserma e non sa dove andare. Non ha nessuno. Ma succede che trova una privata cittadina che decide di accoglierla in casa. E che si mette a telefonare a tutti. Istituzioni, associazioni. Ma è il fine settimana. “Vedremo, faremo”, le rispondono. Ma nessuna risposta concreta. La privata cittadina accudisce la signora e la bambina, che rimangono con lei. Domenica va dai carabinieri e batte i pugni sul tavolo. “Dov’è lo Stato? Io sono felice di aiutare questa signora, ma quanto tempo si va avanti così? Va trovata una soluzione. Con urgenza”. Succede che i carabinieri si attaccano al telefono e trovano la disponibilità di una struttura di accoglienza. Dove la donna va con la bambina. Ma in questa storia c’è un altro figlio, adolescente. Che viene lasciato con il padre. Succede che passano i giorni. E succede… che non succede niente. Nessuno trova una soluzione. La mamma rimane nascosta nella struttura. La bambina non va a scuola per timore che il padre vada a prenderla e, senza un provvedimento del giudice, le maestre dovrebbero consentirgli di portarla via. I carabinieri attendono un provvedimento del giudice. Le assistenti sociali attendono un provvedimento del giudice. Le maestre attendono un provvedimento del giudice. La mamma attende un provvedimento del giudice. E il giudice non si sa che cosa attenda. Ci si aspetterebbe che sia una questione di giorni. Invece fanno capire che potrebbero passare molte settimane, anche alcuni mesi. Nel frattempo i servizi sociali non attivano un servizio psicologico. E non incontrano mai il ragazzo adolescente. Il padre va tutti i giorni alla scuola elementare in cerca della figlia. Che, naturalmente, non trova. Dopo due settimane decide di andare dai carabinieri per denunciare la moglie per sottrazione di minore. Così ora abbiamo una moglie che ha denunciato il marito e un marito che ha denunciato la moglie. La moglie sta fuori casa, “prigioniera” di una struttura, con una figlia piccola che non va a scuola e con un figlio adolescente che non vede più. Il marito violento sta invece a casa sua, con un figlio adolescente esposto ai suoi umori. Sul futuro nessuna certezza. Tutto questo succede nel 2017 nella civile Firenze. Dove a volte i tempi dello Stato non tengono conto dei tempi delle persone. Dove le donne che denunciano una violenza non trovano un’istituzione che se ne prende veramente cura, accompagnandole e sostenendole nel loro percorso. E dove privati cittadini devono sopperire alla mancanza delle istituzioni mettendo a rischio la propria incolumità. È troppo chiedere di spendere le proprie energie a produrre atti concreti di aiuto, finché si è in tempo, piuttosto che esprimere parole di circostanza o versare lacrime di coccodrillo quando è troppo tardi? Intercettazioni: carcere fino a 3 anni per chi pubblica conversazioni da archiviare Il Fatto Quotidiano, 6 novembre 2017 Il Guardasigilli aveva assicurato che il provvedimento non intaccava la libertà di stampa, ma così come rivela la Repubblica sarà applicabile la norma che prevede il carcere per la rivelazione del segreto d’ufficio. Sindacato e ordine: “Pesanti ripercussioni sul diritto di cronaca e sul diritto dei cittadini ad essere informati”. “Il provvedimento che abbiamo approvato in via preliminare non restringe la possibilità dei magistrati di utilizzare le intercettazioni, non interviene sulla libertà di stampa e sul diritto di cronaca, interviene solo su come vengono selezionate le intercettazioni”. Parola del ministro della Giustizia Andrea Orlando. Solo tre giorni fa. Oggi la Repubblica invece scrive perché i cronisti rischiano fino a tre anni di carcere nel caso di pubblicazione delle intercettazioni, che considerate irrilevanti, finiscono nell’archivio a disposizione delle parti. All’articolo 3 del decreto al comma 5 dell’articolo 268-quater spunta la trappola: “Gli atti e i verbali relativi a comunicazioni e conversazioni non acquisite sono immediatamente restituiti al pubblico ministero per la conservazione nell’archivio riservato … sono coperti da segreto”. Eccola la parolina magica: “segreto” per conversazioni irrilevanti penalmente, ma che invece possono essere di pubblico interesse. L’eventuale pubblicazione di queste intercettazioni potrà essere perseguita con il reato di rivelazione di segreto d’ufficio in concorso con il pubblico ufficiale già usato per intimidire i cronisti. Anche perché come fanno notare da giorni sindacato e ordine dei giornalisti è assente il diritto a pubblicare ogni notizia rilevante. Il decreto presenta anche altri ostacoli alla libertà di stampa: “Le critiche sollevate da magistrati, avvocati, giuristi e associazioni dei giornalisti dovrebbero indurre il governo a rivedere la proposta sulle intercettazioni e il Parlamento a sollecitare radicali modifiche - scrivono in una nota Federazione nazionale della Stampa italiana e Ordine dei giornalisti - Sulla cosiddetta essenzialità rischia di innescarsi un grave conflitto con pesanti ripercussioni sullo stesso diritto di cronaca e sul diritto dei cittadini ad essere informati su questioni essenziali come la conoscenza di vicende di mafia, corruzione e malaffare”. Nel testo, fanno notare, “non casualmente, manca per l’ennesima volta il riconoscimento del diritto di pubblicare ogni notizia che abbia il requisito del pubblico interesse e della rilevanza sociale, a prescindere dalla rilevanza penale, così come stabilito in diverse occasioni dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Il governo finge di ignorare che non tutto ciò ha rilevanza per l’opinione pubblica deve avere necessariamente rilevanza penale”. Per questo, aggiungono Fnsi e Odg, “va salvaguardato il diritto dei giornalisti di pubblicare le notizie, anche se coperte da segreto o senza alcuna rilevanza penale, che possano contribuire a rendere l’opinione pubblica informata”. Per questa ragione, “oltre a sollecitare le opportune modifiche, Federazione nazionale della stampa italiana e Ordine dei giornalisti saranno al fianco dei colleghi che dovessero essere denunciati, o subire qualsiasi forma di censura, per aver deciso di rispettare gli obblighi deontologici ed il dovere di informare. La nostra critica al testo approvato dal governo è ulteriormente rafforzata dall’assenza di una qualsiasi iniziativa tesa a contrastare le cosiddette querele bavaglio, diventate il vero strumento di aggressione e minaccia contro i cronisti che tentano di illuminare i territori occupati da mafie e malaffare”. Di fronte a questo quadro, prosegue la nota, “la Federazione nazionale della Stampa italiana e l’Ordine nazionale dei giornalisti promuoveranno riunioni congiunte degli esecutivi, predisponendo un calendario di iniziative che coinvolgeranno tutte le strutture regionali e nazionali. Non è più possibile accettare che si trovino tempi e maggioranze in Parlamento quando si tratta di dare una stretta sulle intercettazioni e non si trovi mai la volontà politica per cancellare il carcere per i giornalisti e per dare una stretta a chi insidia il diritto di cronaca e l’articolo 21 della Costituzione”. Le sezioni dei tribunali specializzate per l’immigrazione partono già in affanno di Valentina Maglione Il Sole 24 Ore, 6 novembre 2017 Sono appena partite ma già danno segnali di affanno. Tanto che da quasi tutte le sezioni specializzate per l’immigrazione - istituite dal 17 agosto scorso dal decreto Minniti per razionalizzare e velocizzare l’esame dei ricorsi dei richiedenti asilo - arriva l’indicazione che sarà “molto difficile” rispettare il termine di quattro mesi fissato dal decreto per arrivare alla decisione. A mettere a rischio il raggiungimento degli obiettivi indicati dal legislatore sono la carenza di risorse (la riforma è a costo zero: i tribunali hanno dovuto creare le sezioni contando sui magistrati e sul personale amministrativo già a disposizione), le difficoltà operative e il flusso dei ricorsi, aumentati negli ultimi anni insieme con gli sbarchi. I tempi - Nel 2016 la durata media del procedimento è stata di 278 giorni (dati Csm). Nel 2017 la situazione è peggiorata. Secondo il ministero della Giustizia la decisione dei Tribunali ha richiesto in media 361 giorni, con punte di oltre 500 giorni a Roma e Potenza. D’altronde, nel 2016, i ricorsi contro i “no” alle domande di asilo delle commissioni territoriali hanno superato quota 46mila; e quest’anno, al 30 agosto, erano già 28.137. Ad appesantire il lavoro dei giudici c’è poi l’arretrato. Alcuni tribunali, come quello di Milano, hanno scelto di non gravare le sezioni con le pendenze: “Ho deciso di far nascere la sezione pulita - spiega il presidente, Roberto Bichi - per farla funzionare bene e rispettare l’indicazione di dare priorità ai ricorsi in materia di immigrazione”. Ma la maggioranza dei tribunali ha scelto di assegnare tutto o parte dell’arretrato alla sezione immigrazione. A Roma, il presidente del tribunale Francesco Monastero ha deciso che parte dell’arretrato venga trattato dalla Sezione immigrazione poiché di competenza dei magistrati che ne sono entrati a far parte. “Cercheremo di ridurre al massimo i tempi e di centrare l’obiettivo dei 4 mesi ma prima dobbiamo ridurre l’arretrato”, dice Monastero. I nodi - Gli strumenti-chiave messi in campo dalla riforma per accelerare i tempi i sono due: l’eliminazione dell’appello e la possibilità, per i tribunali, di saltare l’udienza e basare la decisione sulla videoregistrazione dell’audizione del migrante in commissione. Meno garanzie, quindi, per ridurre i tempi. Ma per ora la videoregistrazione rischia di rimanere sulla carta. “La maggior parte delle commissioni non ha gli impianti di videoregistrazione - dice Domenico de Facendis, presidente del tribunale di Bari - e i tribunali non hanno gli impianti per leggerli. Eliminare l’udienza permetterebbe di accelerare l’iter ma non succederà”. Conferma l’impasse il presidente della sezione del tribunale di Reggio Calabria, Giuseppe Campagna: “Sensibilizzerò i colleghi a evitare l’udienza ma l’assenza delle videoregistrazioni è un problema. Forse potremmo definire con le prefetture i chiarimenti da chiedere durante le audizioni delle Commissioni”. Meno netto Arturo Picciotto, presidente della sezione del tribunale di Trieste: “Dall’audizione i giudici possono trarre elementi per la decisione ma la visione di un colloquio videoregistrato di qualche ora rischia di non far risparmiare tempo”. I progetti - Il lavoro delle sezioni specializzate dovrebbe accrescere l’uniformità delle pronunce. Fondamentale è conoscere la situazione dei Paesi di provenienza dei richiedenti asilo: grazie a un protocollo d’intesa fra Csm e ministero dell’Interno, i magistrati possono utilizzare le informazioni sui Paesi elaborate dalla Commissione nazionale per il diritto di asilo. Una buona prassi arriva dal tribunale di Catania, presieduto da Francesco Mannino, che ha ottenuto la menzione speciale del Consiglio d’Europa per il progetto “Migrantes”: un mix di soluzioni tecnologiche e organizzative per migliorare la collaborazione tra commissioni e tribunale che ha dimezzato i tempi di esame. Diritto dell’immigrazione, come cambia il lavoro dell’avvocato di Marco Noci Il Sole 24 Ore, 6 novembre 2017 L’avvocato che si occupa di immigrazione si muove tra quasi tutti i rami del diritto (dal penale all’amministrativo, dal diritto di famiglia a quello internazionale ed europeo) e ha interlocutori diversi: non sono solo gli stranieri, ma anche le associazioni, i sindacati. I compiti di un legale vanno dalla consulenza al processo. Proprio sul fronte giurisdizionale, negli ultimi anni il numero dei procedimenti civili che riguardano i migranti è esponenzialmente aumentato, facendo vacillare il già precario equilibrio su cui si reggono tribunali e corti d’appello. Il decreto Minniti - Per tentare di decongestionare le aule civili il decreto legge Minniti (13/2017) ha istituito, dal 17 agosto scorso, nei 26 tribunali delle città sedi di corte d’appello, le nuove sezioni specializzare in materia di immigrazione e protezione internazionale. Si tratta di strutture che gli uffici hanno dovuto creare senza poter contare su risorse aggiuntive (in termini di magistrati e di personale amministrativo) e che sono competenti a decidere tutti i procedimenti connessi all’immigrazione, dal mancato riconoscimento del diritto di soggiorno in Italia ai cittadini Ue all’accertamento dello stato di cittadinanza; il numero più consistente delle procedure riguarda però i ricorsi contro i provvedimenti di diniego della protezione internazionale emessi dalle commissioni territoriali del ministero dell’Interno. Le novità - Da metà agosto, quindi, per i legali che assistono i migranti sono cambiati i punti di riferimento in tribunale. Ma non solo: anche le regole procedurali e le possibilità di impugnare la decisione del tribunale sono state riviste. Intanto, attenzione ai tempi: il ricorso contro i provvedimenti delle commissioni territoriali deve essere presentato - a pena di inammissibilità - entro 30 giorni dalla notificazione del provvedimento (o 60 giorni se il ricorrente risiede all’estero). Il decreto Minniti, inoltre, prevede esplicitamente che la sospensione dei termini processuali nel periodo feriale (dall’1 al 31 agosto) non operi per i procedimenti in materia di riconoscimento della protezione internazionale: vale a dire che gli avvocati dovranno badare a rispettare i termini per i ricorsi anche nel mese di agosto. Quanto alla procedura, mentre i “vecchi” ricorsi sono decisi dal giudice monocratico con rito sommario di cognizione, quelli presentati da metà agosto in poi seguono il rito camerale, a contraddittorio scritto e a udienza eventuale. È quindi necessario che tutti gli elementi di fatto e diritto siano esplicitati in modo esaustivo nel ricorso, avendo bene a mente le scadenze per l’introduzione della causa nonché per il deposito dell’eventuale memoria di replica (entro 20 giorni dalla scadenza del termine per la costituzione dell’amministrazione). Altra importante novità del decreto è l’eliminazione del grado di appello: contro le decisioni dei tribunali si potrà solo ricorrere per Cassazione. Gran parte della partita si gioca quindi di fronte al tribunale. Il compenso - Un lavoro delicato, di cui si occupano quasi esclusivamente gli avvocati retribuiti dallo Stato, se il cliente si trova nelle condizioni reddituali per essere ammesso al “gratuito patrocinio”. L’onorario e le spese che spettano al difensore sono liquidate dal giudice con il decreto di pagamento e sono calcolati in base ai “parametri” previsti dalla legge (il decreto ministeriale 55/2014), tenuto conto della natura dell’impegno professionale e dell’incidenza degli atti assunti rispetto alla posizione processuale della parte. Il difensore non può percepire alcun altro compenso se non quello liquidato dal giudice. Statisticamente, l’importo liquidato si aggira sui mille euro, oltre agli oneri di legge, e i tempi di pagamento non superano, a secondo della disponibilità dei fondi, i due anni dalla conclusione del processo. Stupefacenti: la condotta di coltivazione costituisce di per sé reato di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 6 novembre 2017 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 21 settembre 2017 n. 43465. È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 73 del Dpr 9 ottobre 1990 n. 309 sollevata in riferimento agli articoli 3, 13, 25, comma 2, e 27, comma 1, della Costituzione, sul rilievo del fatto che la condotta di coltivazione costituisce di per sé reato, a prescindere dalla finalità cui è preordinata, giacché, laddove fosse provata la finalità di uso esclusivamente personale della condotta di coltivazione, non vi potrebbe essere alcun pericolo di diffusione della sostanza e dunque alcuna offesa al bene protetto. Lo ha ribadito la Cassazione penale con la sentenza n. 43465 del 21 settembre scorso. Le pronunce della Corte costituzionale - La questione, infatti, è già stata respinta dalla Corte costituzionale (sentenza n. 360 del 1995; ordinanza n. 109 del 2016), la quale ha osservato come, nel caso della coltivazione, manchi il nesso di immediatezza con l’uso personale e ciò giustifichi un atteggiamento di maggiore rigore, rientrando nella discrezionalità del legislatore anche la scelta di non agevolare comportamenti propedeutici all’approvvigionamento di sostanze stupefacenti. L’attività produttiva - A ciò dovendosi aggiungere il rilievo che, nel caso della coltivazione, non è apprezzabile ex ante, con sufficiente grado di certezza, la quantità di prodotto ricavabile dal ciclo della coltivazione, sicché anche la previsione circa il quantitativo di sostanza stupefacente alla fine estraibile dalle piante coltivate e la corretta valutazione della destinazione della sostanza stessa a uso personale risultano maggiormente ipotetiche e meno affidabili e ciò ridonda in maggiore pericolosità della condotta. Infine, vale l’ulteriore rilievo che l’attività produttiva è destinata ad accrescere indiscriminatamente i quantitativi coltivabili e quindi ha una maggiore potenzialità diffusiva delle sostanze stupefacenti estraibili. Diffamazione su Internet: il ricorso si presenta nel Paese della vittima di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 6 novembre 2017 Corte di giustizia Ue - sentenza 17 ottobre 2017 C-194-16. L’azione di risarcimento del danno e la richiesta di rimozione di commenti da un sito internet può essere avviata da una società dinanzi al giudice dello Stato Ue nel quale si trova il centro dei propri interessi. Lo ha stabilito la Corte di giustizia dell’Unione europea con la sentenza depositata il 17 ottobre nella causa C-194/16. Il caso - È stata la Corte suprema estone a rivolgersi agli euro-giudici per alcuni chiarimenti sul regolamento n. 1215/2012 sulla competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale. Al centro del procedimento nazionale una controversia tra una società di diritto estone e una sua dipendente e un’associazione professionale svedese dei datori di lavoro del settore commerciale. Quest’ultima aveva pubblicato sul proprio sito una sorta di lista nera includendo la società estone tra quelle responsabili di truffe e aveva aperto un forum nel quale erano comparsi commenti offensivi e appelli alla violenza contro l’azienda e i suoi dipendenti. La società estone aveva chiesto a quella svedese di rimuovere i commenti e le informazioni errate, ma aveva ottenuto un secco no. Di qui l’azione dinanzi ai giudici estoni, con il tribunale di primo grado e la Corte di appello che avevano dichiarato il ricorso irricevibile non ritenendo di avere la giurisdizione. La Corte suprema ha chiamato in aiuto i giudici Ue sull’interpretazione dell’articolo 7, punto 2 del regolamento n. 1215, in base al quale, in materia di illeciti civili dolosi o colposi, la parte lesa può presentare ricorso dinanzi all’autorità giurisdizionale del luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto o può avvenire. I giudici Ue - Prima di tutto, la Corte Ue ha chiarito che l’articolo 7, che include le competenze speciali in materia di giurisdizione, va interpretato autonomamente, senza rinvio alle diverse nozioni fornite negli ordinamenti nazionali. Sul punto, grazie anche a precedenti interventi della stessa Corte, è stato specificato che il luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto o può avvenire è quello in cui il danno si è concretizzato o quello del fatto generatore del danno. Nel caso di specie, l’evento generatore era in Svezia, ma il danno si è verificato anche sul territorio estone, centro degli interessi della vittima in quanto luogo in cui l’azienda “esercita la parte essenziale della sua attività economica”, anche se la sede statutaria è altrove. Proprio nello Stato in cui vi è il centro degli interessi della vittima i giudici si trovano nella posizione migliore per accertare le conseguenze del messaggio diffamatorio sulla reputazione della persona lesa e l’impatto effettivo della pubblicazione su internet. Senza dimenticare che è così salvaguardato il principio della certezza del diritto, perché anche il convenuto può prevedere “ragionevolmente dinanzi a quale giudice può essere citato”. La Corte ha poi tenuto a precisare che il criterio di giurisdizione indicato vale sia per i danni materiali sia per quelli immateriali. Non solo. Gli euro-giudici hanno stabilito che la domanda di rettifica e di rimozione dei dati “è una e indivisibile” e può essere proposta unicamente dinanzi al giudice competente secondo i criteri specificati, senza possibilità, così, di avviare diverse azioni dinanzi ai giudici dei diversi Stati membri nel cui territorio le informazioni sono accessibili via web. Il filtro del Pm sui reati societari e su quelli professionali di Giovanbattista Tona Il Sole 24 Ore, 6 novembre 2017 Indagare è sempre necessario, iscrivere persone nel registro degli indagati non sempre lo è. Tanto più se il presunto fatto illecito sia rappresentato da atti amministrativi, atti di società o complesse prestazioni professionali. Questa in sintesi la direttiva del Procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, ai suoi sostituti, emessa il 2 ottobre scorso. Più che sfatare il mito dell’atto dovuto o ripensare in via di prassi il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, il documento vuole arginare il rischio che l’iscrizione nel registro degli indagati sia un “atto subìto” persino dal pubblico ministero, il quale, se opera in maniera burocratica e senza assumersi la responsabilità di un primo adeguato controllo, può diventare il mero esecutore delle indicazioni fornite negli esposti dei cittadini e nelle comunicazioni della polizia giudiziaria. Il filtro del Pm - Ecco perché il Pm deve verificare se a carico di un soggetto vi siano specifici elementi indizianti della commissione di un fatto astrattamente qualificabile come reato. Pignatone abbandona lo sguardo corto di chi ritiene rilevanti per gli uffici solo gli effetti processuali dei propri atti e la loro formale regolarità; e sottolinea che, al di là della sua astratta funzione di garanzia, la condizione di indagato produce “effetti pregiudizievoli non indifferenti sia sotto il profilo professionale (in particolare per i pubblici dipendenti, ma non solo), sia in termini di reputazione”; con l’afflizione aggiuntiva che può derivare dall’indebita o impropria diffusione della notizia dell’iscrizione nel registro degli indagati. Quest’ultima costituisce quindi un atto di garanzia, ma comporta un costo significativo per colui nel cui astratto interesse viene effettuata e potrebbe essere sollecitata per ragioni strumentali estranee alle dinamiche processuali. E tra i costi non citati dal Procuratore vi sono anche quelli di difesa tecnica, per le iniziative che si possono rendere necessarie dopo avere ricevuto un avviso di garanzia. Si chiede quindi al Pm di garantire un ponderato esercizio del potere, previsto dall’articolo 335 del Codice di procedura penale, di iscrivere nel registro una persona alla quale si attribuisce un fatto illecito. Tra gli ambiti nei quali questa valutazione viene ritenuta necessaria vi è quello dei reati societari e dei reati commessi dai professionisti nell’esercizio delle loro funzioni. I reati societari - Per i reati societari, la circolare evidenzia che, se la società o l’ente non hanno una struttura elementare o minimale, non è agevole individuare la condotta umana che sta alla base degli atti decisivi ai fini dell’addebito penale. Né può in maniera automatica rilevare la posizione di uno o più soggetti nell’organigramma, perché potrebbe non essere specificamente indiziante il ruolo apicale di un soggetto (amministratore delegato di una società o esponente di vertice di una struttura amministrativa); anche in questi casi occorre prima verificare l’esistenza di deleghe, la natura e la consistenza dell’attività che ha condotto all’adozione dell’atto e altro ancora. La stessa prudenza va usata quando non sono ancora chiaramente individuate le condotte che hanno concorso a causare l’evento dell’illecito. Per esemplificare Pignatone ricorre alle ipotesi di colpa medica, dove, per “malintesi fini di garanzia”, dopo la denuncia dell’omicidio colposo di un paziente vengono iscritti numerosi operatori sanitari, per consentire loro di partecipare all’autopsia, che è atto irripetibile. Ma, sino a quando non vi siano indizi specifici a carico di un singolo operatore, non vi sono i presupposti per avvertirlo. E quindi nemmeno per allarmarlo e indurlo a cercarsi un avvocato. Reggio Emilia: “il carcere, non solo luogo di detenzione ma centro di servizi” Gazzetta di Reggio, 6 novembre 2017 “È necessaria una visione nuova del carcere non come semplice luogo di detenzione ma come centro erogatore di servizi: custodia, cura della malattia fisica e mentale, educazione, formazione, percorsi di integrazione e risocializzazione. Complice il disinteresse della politica, la collettività tende invece a rimuovere questa realtà, ignorando il fatto che tra la sicurezza fuori e le condizioni dei detenuti dietro le sbarre esiste una stretta connessione. Le enormi carenze che ci sono derivano anche da questa scarsa consapevolezza”. La senatrice Maria Mussini, vicepresidente del Gruppo misto, interviene di nuovo sulle carceri dopo l’allarme sollevato dai Radicali in visita alla struttura de La Pulce, un tema di cui la senatrice si è occupata fin dall’inizio del suo mandato parlamentare, a cui ha rivolto numerosi interventi in sede legislativa - tra cui l’interrogazione di due settimane fa alla Giustizia per sapere anche quanti agenti penitenziari, tra gli 887 previsti in tutta Italia di nuova assunzione, saranno destinati a Reggio - e che l’ha portata a confrontarsi con la dirigente del Dipartimento Giustizia Minorile ed Esecuzione Penale Esterna, il Provveditore reggente delle carceri dell’Emilia-Romagna, il Garante regionale dei detenuti. Bari: se la prescrizione è in due anni il fascicolo viene accantonato di Mara Chiarelli La Repubblica, 6 novembre 2017 Otto giudici monocratici, centinaia di cause al giorno, due cancellieri che vanno da un’aula all’altra. Udienze che terminano in serata e, per le notifiche, un carabinieri e un poliziotto. Totale: personale in affanno, rinvii a distanza di anni, processi in prescrizione. Scoppia il tribunale di Bari, per carenza di mezzi e persone. E lì dove, per i due amministrativi è vietato ammalarsi (l’altro rimarrebbe da solo), prova a mettere una pezza la presidente della prima sezione penale, Rossella Calia Di Pinto. E lo fa richiamando i giudici monocratici al rispetto di un protocollo firmato oltre un anno fa da avvocati e magistrati. Regole condivise che puntano a trovare una soluzione. Come quella che, nel tentativo di salvare procedimenti considerati prioritari, manda nel girone delle cause finite, tutti quelli che si prescrivono nel giro di un paio d’anni. La norma, che la presidente richiama nella circolare inviata anche al presidente dell’altra sezione, Marco Guida, al presidente del tribunale, a quello della sezione gip, al procuratore e ai dirigenti di cancelleria, è un ennesimo tentativo di ridare fiato ad una situazione emergenziale e difficilmente risolvibile. Ed è così che Rossella Calia Di Pinto invita i giudici a rispettare il numero di processi da istruire e definire (massimo 20) e di quelli di prima comparizione (massimo 40, a meno che non ci siano detenuti). Praticamente la metà rispetto a quelli che, ogni giorno, sono costretti a trattare allo scopo di smaltire la richiesta di giustizia. Ma, avverte la presidente, “onde evitare che il rispetto del protocollo determini rinvii a lungo termine di tutti indiscriminatamente i processi - si legge nell’ordine di servizio - ciascun giudice dovrà prendere in considerazione i termini di prescrizione del reato e rinviare a data posteriore alla prescrizione quei processi che si prescrivano, per i delitti in 24 mesi, e per le contravvenzioni nei 18 mesi successivi”. Come dire: se son già in odore di prescrizione (considerando anche la successiva fase di appello), inutile perdere tempo prezioso. La materia che trattano i giudici monocratici è molto vasta, e va dall’omicidio e lesioni colpose (per colpa medica), alla contraffazione, al furto, alla truffa (nella categoria dei delitti), fino alle violazioni ambientali e agli abusi edilizi (le contravvenzioni). Un ventaglio di situazioni che riguardano buona parte della vita quotidiana e, dunque, di interesse pubblico. Nell’ordine di servizio la presidente di sezione richiama anche al rispetto degli orari di udienza, allo scopo di tutelare i due unici cancellieri, costretti a turni di lavoro sfibranti: “Il personale di cancelleria non può essere obbligato a lavorare per più di nove ore al giorno e a fare più di tre ore di straordinario – ricorda. Pur apprezzando l’encomiabile spirito di servizio e lo straordinario impegno profuso dai colleghi e dal personale amministrativo, invito tutti i giudici della sezione, togati e onorari, ad attenersi alle regole condivise”. E cioè: “Le udienze tendenzialmente non dovranno avere termine oltre le 17, salvo eccezionali esigenze che in nessun caso possono identificarsi nell’emissione di sentenze con motivazione contestuale”. Tentativi, espedienti pratici per supplire ad una carenza di personale della quale da tempo è stato informato il ministero, e sulla quale è intervenuto anche il presidente del tribunale, Domenico De Facendis, in occasione della visita barese del vice presidente del Consiglio superiore della magistratura, Giovanni Legnini. Ma, finora, senza alcun risultato. Reggio Calabria: la famiglia chiede chiarezza sulla morte del detenuto Roberto Jerinò ciavula.it, 6 novembre 2017 Riceviamo e pubblichiamo dalla famiglia di Roberto Jerinò, detenuto per reati di mafia presso il carcere di Arghillà a Reggio Calabria, sentitosi male nella sua cella il 12 dicembre 2014 e poi morto presso l’Ospedale Riuniti il successivo 23 dicembre. La famiglia di Roberto Jerinò, a distanza di quasi tre anni dalla morte del proprio congiunto, non ha ancora avuto risposte. Il decesso è avvenuto, in data 23.12.2014 presso l’Ospedale Riuniti di Reggio Calabria, in circostanze non ancora note. Il difensore di fiducia dei familiari del Jerinò, l’Avvocato penalista Maria Tassone, ha posto in essere una serie di attività che puntano a chiarire alcune zone d’ombra del caso. In particolare, è stato nominato, quale consulente tecnico di parte, il Prof. Peppino Pugliese, Specialista in Cardiochirurgia e malattie dell’apparato cardiovascolare, il quale ha analizzato la corposa documentazione medica in atti, fornendo la sua ricostruzione in merito al decesso del Jerinò. L’Avvocato Tassone ha depositato, proprio nei giorni scorsi, presso l’ufficio del Dott. Calamita, Sostituto Procuratore incaricato per lo svolgimento delle indagini fin dalle prime fasi della vicenda, la suddetta consulenza medico-legale di parte a firma del Prof. Pugliese. In quest’ottica, i familiari hanno piena fiducia nell’operato della Magistratura, certi che verranno compiuti tutti gli accertamenti necessari ad individuare eventuali responsabilità relative al decesso del proprio congiunto. Roberto Jerinò Sulla vicenda è stata, inoltre, presentata un’interrogazione parlamentare già nel novembre 2015. Anche sotto tale aspetto la famiglia Jerinò ha cercato di trovare conforto, atteso che accertare la verità sulle condizioni in cui versava il proprio familiare e chiarire se vi siano responsabilità nella morte di una persona affidata alla custodia dello Stato è un punto fermo ed imprescindibile perché uno Stato di diritto e democratico possa definirsi tale. L’avvocato dei familiari sottolinea come: “Faremo tutto quanto sarà necessario per far luce sulla vicenda. Sono stata incaricata dai familiari del Jerinò solo da pochi mesi. Fin dall’inizio del mio intervento ho posto in essere una serie di attività necessari per stabilire le cause che hanno portato al decesso del Jerinò. Che, si ricorda, al momento del suo ingresso in carcere non risultava affetto da alcuna patologia che potesse far presagire un evento così funesto. Ho, quindi, innanzitutto deciso di avvalermi di un consulente medico specializzato in malattie cardiovascolari, docente presso l’Università di Bologna, il quale ha avuto il compito di approfondire il profilo tecnico-scientifico, rilevando quegli aspetti che finora, a mio parere, erano stati tralasciati. Ora bisognerà attendere i tempi necessari affinché anche l’ufficio di Procura si possa pronunciare circa le questioni sollevate”. Anche i familiari esprimono ancora una volta il proprio dolore: “Quello che ci fa più male è il fatto che Roberto Jerinò era un padre di famiglia che aveva tre figli. Né la moglie né i suoi figli e né i suoi nipoti potranno più rivederlo. Questo ci spinge a lottare per chiarire alcuni aspetti oscuri di questa vicenda che ha toccato nel profondo tutti noi. È giusto che tutti quelli che gli sono stati accanto in vita abbiano delle risposte. Avevamo già sofferto molto quando è stato portato in carcere, ma non ci saremmo mai aspettati di perderlo in un modo così tragico”. Catania: per l’iscrizione all’università i detenuti non dovranno pagare alcuna tassa di Alessia Lo Monaco liveuniversity.it, 6 novembre 2017 L’università apre le porte ad alcuni detenuti che avranno l’opportunità di iscriversi a dei corsi di studio senza pagare alcuna tassa d’iscrizione. Da oggi ci sarà la possibilità per tutti i detenuti delle carceri di poter iscriversi gratuitamente all’università senza pagare alcuna tassa d’iscrizione: è la novità dell’Ateneo di Perugia che dà questa possibilità a tutti i detenuti delle carceri umbre. Il rettore dell’Università, Franco Moriconi, ha infatti accolto la richiesta del Garante delle persone private della libertà della Regione Umbria, Stefano Anastasìa, per incentivare la formazione dei detenuti senza pagare neanche un euro. Era già in vigore da qualche anno una parziale esenzione prevista dal regolamento che ora verrà quindi ulteriormente ampliata per incentivare i percorsi di studio tra i detenuti. Ciò che ha spinto lo stesso Anastasìa a chiedere il provvedimento, è stata l’idea secondo cui lo studio universitario rappresenterebbe una straordinaria opportunità formativa, motivazionale e di approfondimento che, come ha spiegato lo stesso all’Ansa “costituisce un elemento essenziale nella concretizzazione della finalità rieducativa della pena prevista dalla Costituzione”. Da quest’anno quindi tutti i detenuti umbri, indipendentemente dalla propria condizione economica e familiare, potranno iscriversi presso l’ateneo perugino entro il 6 novembre, completamente esenti dal pagamento di tasse. Lecce: dalla filosofia nel carcere nasce un libro per le scuole Quotidiano di Puglia, 6 novembre 2017 Oggi nella Casa circondariale di Lecce e mercoledì nella libreria Feltrinelli la presentazione del volume nato da un laboratorio curato da Ada Fiore. Da un laboratorio di filosofia per le detenute in carcere a un libro destinato a diventare testo di studio nelle scuole salentine. È il progetto “Sono libera dentro”, nato all’interno della casa circondariale leccese di Borgo San Nicola come prosecuzione del laboratorio di filosofia curato nei mesi passati da Ada Fiore, responsabile scientifica di Industria filosofica, e indirizzato alle donne “detenute comuni” ristrette nell’istituto. Quattro i temi affrontati: amore, amicizia, tempo, libertà. Le detenute hanno letto alcuni testi filosofici che sono diventati punto di riferimento per una riflessione sulle loro vite, sulle loro storie e drammi personali. Il materiale raccolto in questi incontri è stato suddiviso in quattro parti (quattro argomenti corrispondenti alle quattro stagioni della vita: amore-primavera; estate-amicizia; tempo-autunno; inverno-libertà) e proposto in un agevole volumetto sotto forma di eserciziario, destinato a tutte le donne che pur essendo libere, sono in realtà prigioniere della loro esistenza. Oggi pomeriggio il libro di Ada Fiore sarà presentato in carcere alla presenza delle istituzioni e di tutte le detenute; mercoledì alle 18.30 invece sarà presentato alla città in un incontro che si svolgerà nella libreria Feltrinelli di Lecce. Nel volume ogni stagione occupa dieci pagine, in ognuna delle quali è possibile leggere una frase della detenuta accompagnata da un pensiero d’autore. A piè di pagina si trovano, invece, tre domande, strettamente legate al contenuto descritto e ispirate al racconto delle esperienze di ciascuna. Rispondere a quelle domande significherà riflettere sulla propria esistenza, perché i pensieri delle detenute, le loro riflessioni, le loro domande, sono diventate uno strumento per avviare un cammino verso una maggiore consapevolezza di sé. “Da gennaio a maggio, ogni martedì per due ore, Francesca, Maria Grazia, Maria, Melany, Paola, Adriana, Maria, detenute comuni del carcere di Borgo San Nicola, si sono raccontate e ascoltate, e tra lacrime e commozione hanno discusso di amore, amicizia, tempo e libertà. Si sono scambiati pensieri: hanno conosciuto quelli di Platone, sant’Agostino, Aristotele; hanno ricambiato donando a tutti noi i loro - racconta Ada Fiore - un vero “traffico di pensieri stupefacenti” che sono riusciti a emergere nonostante la tanta rabbia accumulata negli anni, e la rassegnazione a una vita non più degna di essere chiamata tale. Pensieri stupefacenti che sono diventati “urla esistenziali” di un genere, quello femminile, che ancora oggi ha bisogno di essere aiutato, sostenuto, difeso nel suo naturale tentativo di affermarsi in tutta la sua dignità”. Questi pensieri saranno ora utilizzati dagli studenti di vari istituti della provincia di Lecce e costituiranno materiale di approfondimento all’interno di un percorso laboratoriale che si avvierà oggi all’interno del carcere. Ai laboratori di lunedì, insieme ai ragazzi, parteciperanno alcune detenute comuni e alcune dell’alta sicurezza. I lavori saranno guidati dall’equipe della cooperativa San Francesco di Ugento e dagli studenti del Liceo Capece di Maglie che del progetto è la scuola capofila. I laboratori continueranno poi all’interno delle singole scuole. L’eserciziario, inoltre, contiene una cartolina con il destinatario già scritto: “Alle detenute del carcere di Borgo San Nicola”. Chiunque ne entrerà in possesso, potrà compilarla rispondendo a una delle domande e spedirla, nel tentativo di costruire “ponti di umanità” e “rompere i silenzi dell’anima”. Siena: con Emilio Solfrizzi il teatro nel carcere di Santo Spirito sienanews.it, 6 novembre 2017 Si è alzato ieri il sipario del piccolo teatro della Casa circondariale di Santo Spirito. L’inizio è di quelli col botto: ad aprire la stagione 2017/2018 è nientepopodimeno che Emilio Solfrizzi. L’attore di cinema e teatro, di mai celate origini pugliesi, ha ritagliato un po’ del suo prezioso tempo per concedersi, senza una regia e senza un copione prestabilito, ai detenuti di Siena. Tra una prova e l’altra del suo Molière (che ha debuttato al teatro dei Rinnovati proprio nei giorni scorsi) è riuscito dedicare quasi un’ora e mezza ai ragazzi del carcere, che hanno vissuto un’altra esperienza di teatro nudo, di confronto diretto, a stretto contatto con uno dei più poliedrici attori del panorama italiano. Eh si perché l’apertura dell’incontro è di quelle che non ti aspetti. Solfrizzi, prendendo spunto da recenti fatti di cronaca “calcistica” (chiamiamola così), racconta la sua esperienza nel ruolo del padre di Anna Frank. Parla con vera partecipazione della storia del diario più famoso dell’olocausto, delle pagine strappate dai genitori perché rivelatrici di aspetti troppo intimi della piccola Anna, della vergogna per le legge razziali e, soprattutto, per la mancanza di indignazione contro quelle leggi da parte di un’Italia disorientata e complice. Spiega il dietro le quinte di quel film (Mi ricordo Anna Frank) girato nella “Cinecittà” di Budapest e tutti i retroscena e gli escamotage della produzione e del regista per rendere la pellicola più realistica possibile agli occhi del pubblico. I presenti ascoltano l’attore in uno stato di precario equilibrio tra vivo interesse e umano sconcerto. Continua a parlare di cinema e questa volta il tono è amareggiato per la situazione di degrado in cui da anni ristagna quello nazionale, lontano dagli anni d’oro dei vari Fellini, Rossellini, etc. e sempre più difficilmente esportabile in realtà diverse dalla nostra. Allora meglio il teatro (realtà tenuta viva anche nel piccolo carcere grazie a un piccolo gruppo di volontari), vero banco di prova per un attore. Niente intermediari o filtri. Niente regia o fotografia che adulteri la performance. Niente attesa per il feedback sulla recitazione. Contatto diretto e immediato con il pubblico. E contatto diretto e immediato è stato anche ieri pomeriggio. Più che diretto, intimo. Solfrizzi ha raccontato, ha spiegato e scherzato (con frecciatine nel suo immancabile barese) con una platea diversa dal solito. Anche se- ha tenuto a precisare- non era la sua prima esperienza in un istituto penitenziario. Qualche anno fa era andato a leggere delle facezie di papa Giovanni Paolo II (si avete capito bene!) a Rebibbia. In carcere insomma già c’era stato. Ma è recidivo. E alla prima occasione ci è cascato di nuovo. Come spesso accade in queste circostanze, il tempo è volato via in fretta e l’attore era atteso dalla prova del pomeriggio, fondamentale per uno spettacolo alla sua seconda rappresentazione. Così, dopo quasi un’ora e mezza a completa disposizione degli ospiti di Santo Spirito, saluta veloce e scende dal palco per guadagnare l’uscita dove ad attenderlo, puntuale, c’è un taxi. Il sentito applauso dei presenti è quasi una violenza per un grande attore (e un grande uomo) che in punta di piedi era entrato e in punta di piedi (come un ladro, potremmo dire) stava andando nuovamente via. Non era una pièce teatrale, un monologo. Non stava recitando. Era semplicemente se stesso, naturale e spontaneo come solo un barese sa essere. Prima di andarsene ha detto: “Ci sono vip che, una volta conosciuti di persona, lontani dai loro personaggi e dalle loro maschere, risultano irriconoscibili agli occhi dei loro fans”. Il Solfrizzi di questo pomeriggio anche dal vivo - vi posso assicurare - è stato divertente, interessante, profondo e umano. La tortura tra prevenzioni, sanzioni e legge “incerta” di Angela Caporale vociglobali.it, 6 novembre 2017 La Convenzione Onu contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti compirà 33 anni il prossimo 10 dicembre, ma non si può considerare una tutela acquisita. Al contrario, sono molti ancora i Paesi dove la tortura viene impiegata contro oppositori politici, detenuti o semplici cittadini, come denuncia il rapporto annuale di Amnesty International che punta il dito, in particolare, contro Turchia, Iran, Russia, Israele ed Egitto. Sono 27, in totale, i Paesi che non hanno né firmato né ratificato la convenzione e dove, di conseguenza, non vi è alcuno strumento internazionale che faccia riferimento a questo tipo di diritto che mira alla garanzia della vita e della dignità umana. L’Italia non è tra questi, poiché ha ratificato la Convenzione Onu nel 1989, tuttavia è stato necessario attendere 28 anni affinché il reato di tortura entrasse effettivamente nell’ordinamento italiano con la legge 110/2017, approvata da entrambi i rami del Parlamento nel luglio di quest’anno. Una data storica per chi, da anni, si batte affinché il divieto di perpetrare la tortura così come qualsiasi altro trattamento crudele, inumano o degradante venisse finalmente riconosciuto anche ai cittadini italiani. Un percorso irto di ostacoli e segnato da episodi dolorosi come la “Macelleria messicana” della scuola Diaz durante il G8 di Genova del 2001, come i fatti sono stati più volte descritti durante gli interrogatori sia dall’allora vicequestore Michelangelo Fournier che dal pubblico ministero Enrico Zucca. Una vicenda che è costata all’Italia una pesante condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo emessa nel 2015 che non lascia spazio a dubbi: quello fu un caso di tortura. Più di recente si è aggiunta una nuova condanna della Cedu che ha ritenuto l’Italia responsabile anche dei fatti della caserma Bolzaneto, sempre durante il G8 genovese, dove vennero rinchiuse per 3 giorni interi più di 200 persone sottoposte ad abusi fisici e psicologici. Le motivazioni si ripetono: l’Italia viene condannata per le azioni dei poliziotti e per non aver condotto un’indagine efficace. I casi, tuttavia, non finiscono qui: la morte di Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi, per fare solo due esempi, hanno scosso profondamente l’opinione pubblica che si è unita alla battaglia dei familiari perché fosse garantita almeno una forma di giustizia. E proprio di questo lungo percorso e delle ombre che ancora aleggiano sull’efficacia della nuova legge si discuterà a Napoli martedì 7 novembre all’interno dell’ex Opg occupato “Je sò pazzo” in occasione del IX Festival del Cinema dei Diritti Umani di cui Voci Globali è media partner. All’incontro dal titolo “La tortura tra prevenzione e sanzioni” prenderanno parte Ilaria Cucchi, sorella di Stefano ucciso nel 2009 mentre era in stato di custodia cautelare, i docenti dell’Università di Salerno, Giso Amendola e Francesco Schiaffo, e il portavoce di Amnesty International Italia, Riccardo Noury. Proprio a Noury, impegnato nella battaglia per il rispetto del divieto di tortura in Italia e nel mondo, chiediamo quali sono i punti più critici che la nuova legge ha introdotto nell’ordinamento italiano. “Dopo 30 anni di attesa, ci aspettavamo un testo migliore poiché l’impressione è che questa legge sia stata pensata più per escludere che per includere”, spiega il portavoce della Ong a Voci Globali. In particolare, evidenzia che su due aspetti vi sia l’impressione che l’Italia si discosti, almeno parzialmente, dalla Convenzione delle Nazioni Unite: la definizione di “tortura psicologica” che si prevede vada verificata e dimostrata attraverso analisi e verifiche che possono risultare molto invasive per la vittima, e il fatto che il reato di tortura venga definito come “comune” con l’aggravante se operato da pubblico ufficiale, quando la tortura per se è definita proprio come un reato specifico di chi indossa una divisa. “In generale - spiega Noury - l’impressione è che il legislatore italiano si sia attenuto ad una definizione vecchia per cui la tortura è tutto ciò che lascia un segno tangibile, mentre ignora le pratiche più diffuse oggi come l’imposizione di posizioni stressanti, le minacce a sé e alla propria famiglia, l’isolamento prolungato, l’esposizione ad ambienti privi di luce o troppo luminosi, temperature molto fredde o molto calde e altre forme di tortura psicologica.” Queste azioni, in Italia, sembrano configurarsi come reati di serie B, meno rilevanti rispetto agli atti che lasciano dei segni sul corpo; una definizione che sembra scorporare quella data dal diritto internazionale che vieta ogni tipo di tortura e atto crudele, disumano e degradante in ogni forma. Il superamento del tabù dell’inserimento della parola “tortura” nel Codice Penale italiano è però, secondo il portavoce di Amnesty International Italia, una buona notizia “soprattutto - aggiunge - se consideriamo tutte le pressioni e le resistenze che ci sono state anche contro una legge così. Il rimpianto è che, se anche questo testo non pienamente soddisfacente fosse stato in vigore già da anni, avrebbe avuto una funzione preventiva, oltre che punitiva, in più.” Infatti, dal punto di vista giurisdizionale la legge che introduce il reato di tortura non è retroattiva, ma questo elemento può dare maggior visibilità e legittimità alle battaglie di chi ha denunciato in passato casi di tortura ed è ancora in cerca di giustizia. L’azione di Amnesty International, infatti, non si ferma. “In primo luogo infatti - spiega Noury - vogliamo agire per migliorare questa legge ed emendarla, quando ci saranno le condizioni parlamentari per farlo. Poi, continua l’impegno a tenere d’occhio tutti i processi in corso e che seguiranno, con l’auspicio che ci sia finalmente giustizia anche nei casi in cui non potrà essere pronunciata la parola tortura, in modo che ci siano sanzioni equivalenti alla gravità del reato commesso” e far sì che un diritto fondamentale non resti solamente sulla carta. Migranti. Salvare le vite dalla diplomazia di Roberto Saviano La Repubblica, 6 novembre 2017 I 26 cadaveri di donne che sono arrivati ieri a Salerno sulla nave militare spagnola Cantabria carica di migranti dimostrano che la strategia del governo per il controllo dell’immigrazione non funziona. Questi 26 corpi si aggiungono alle 8 salme arrivate due giorni fa nel porto di Reggio Calabria (tra di loro, 5 erano donne) insieme a un altro sbarco di migranti. Nel giro di due giorni, quindi, sono arrivate in Italia 31 donne morte mentre tentavano di attraversare il Mediterraneo per raggiungere l’Europa. I blocchi del ministro Minniti non solo hanno significato per l’Italia un accordo con la Guardia costiera libica (tra i cui capi vi sono trafficanti secondo la denuncia delle Nazioni Unite), ma non hanno fermato nemmeno gli sbarchi. Basta ripercorrere a ritroso le ultime ore per rendersene conto. Ieri è sbarcata a Salerno una nave con 375 migranti (259 maschi, anche bambini, e 116 donne, di cui 9 in avanzato stato di gravidanza) oltre a 26 cadaveri di donne di nazionalità presumibilmente nigeriana, morte durante la traversata su un gommone, tra violenze e abusi, vittime due volte perché più deboli degli uomini. Due giorni fa a Reggio Calabria è sbarcata una nave della Guardia costiera con a bordo 764 migranti (555 uomini, 97 donne, 112 minori) e 8 cadaveri (5 donne e 3 uomini). I migranti provengono da Pakistan, Somalia, Eritrea, Nigeria, Sudan, Libia, Bangladesh, Ciad, Guinea, Algeria, Egitto, Mali, Costa d’Avorio, Nepal, Marocco, Ghana, Camerun, Kenya, Niger, Senegal, Sierra Leone, Etiopia, Sri Lanka, Yemen, Siria, Giordania e Libano. Venerdì 3 novembre la nave Aquarius di Msf ha scaricato a Vibo Marina quasi 600 migranti provenienti da Africa sub-sahariana” Eritrea e Somalia (tra cui 111 donne di cui 15 incinte e 90 minori non accompagnati di cui 20 presentano segni evidenti di maltrattamenti subiti durante la prigionia nelle carceri libiche). Nella notte tra giovedì e venerdì è arrivata a Seminara, in provincia di Reggio Calabria, un’imbarcazione con a bordo 44 migranti iraniani, siriani e iracheni ( tra cui 9 donne e 13 bambini). E oggi a Crotone è previsto l’arrivo della nave Open Arms con 378 profughi. Sono solo i numeri degli ultimissimi giorni. E solo quelli di cui si ha contezza, perché i migranti sono arrivati a sbarcare. Chissà quanti altri avranno perso la vita nel Mediterraneo senza che nessuno se ne accorgesse. Negli ultimi mesi ci hanno fatto credere che la campagna anti-Ong fosse servita a porre fine all’emergenza immigrazione. Hanno colpito le Ong come fossero loro responsabili dell’immigrazione clandestina, mentre le Ong erano solo responsabili di salvare vite umane. Si tenteranno sempre nuove rotte, nuove tratte, nuovi modi per raggiungere questa fortunata sponda del Mediterraneo ( nella notte tra giovedì e venerdì un barcone di migranti partito dalle coste turche è naufraga to nell’Egeo, al largo dell’isola greca di Kalimnos e almeno una donna è annegata e diverse altre persone risultano disperse. Il barcone era partito dalle coste turche) e l’assenza di importanti Ong nel Mediterraneo inevitabilmente porterà a nuovi morti. Farli arrivare in Europa cadaveri o bloccarli nei lager libici non può essere la civile soluzione italiana ed europea al problema dei migranti. Non sono credente, non potrei mai accontentarmi dell’ipocrita consolazione della giustizia divina per la tragedia umanitaria dei migranti morti in mare, torturati in Libia e in Turchia. Sulle morti in mare e sulle torture ai confini dell’Europa, da cittadini europei se vogliamo che questa definizione abbia ancora un senso, dobbiamo chiedere conto a coloro che siedono nei palazzi dei governi dell’Unione, devono rispondere della grave violazione dei principi fondamentali che l’Europa si è data. Non sono parole astratte, ma principi di umanità. Gli illustri colpevoli, che hanno stretto accordi con i torturatori, vanno giudicati ora, non aspettiamo che a fare giustizia per gli orrori di oggi sia il tempo. Ne va dell’Europa e delle sue ragioni fondative, perché oggi tra i responsabili di quelle morti, di quelle torture c’è il bieco opportunismo di Bruxelles. La mia è una cali to action ai giuristi di buona volontà: dobbiamo far comprendere ai governi europei che nessuno può sacrificare vite umane in nome della propaganda elettorale rimanendo impunito. L’ambigua lotteria dei migranti di Gianandrea Gaiani Il Mattino, 6 novembre 2017 La ripresa degli sbarchi di immigrati clandestini ha riaperto gli interrogativi circa l’efficacia delle misure adottate da Roma in accordo con il governo del premier libico riconosciuto, Fayez al-Sarraj, per contenere o “governare” i flussi dalla nostra ex colonia. Rispetto al 2016 i migranti illegali sbarcati nei primi 10 mesi di quest’anno sono stati 111.397 contro 159.427, cioè il 30,1% in meno mentre se si valuta solo il mese di ottobre il calo è stato addirittura del 78% rispetto allo stesso mese dell’anno scorso con 5.984 persone sbarcate contro le 27.384. Una diminuzione che raggiungerebbe addirittura il 93% se guardassimo solo ai flussi provenienti dalla Libia a cui si affiancano da un paio di mesi le sempre più trafficate rotte tunisina e algerina dirette rispettivamente in Sicilia e Sardegna che il mese scorso hanno portato in Italia oltre 4mila dei quasi 6mila immigrati illegali arrivati in Italia. Rotte alternative e “sbarchi fantasma” che preoccupano anche per l’afflusso di criminali e jihadisti confermato dalle stesse autorità di Tunisi. La ripresa di massicci flussi dalla Libia nei primi giorni di novembre dimostra il tentativo dei trafficanti di eludere gli accordi italo-libici. Parte dei flussi sembrano essersi infatti spostati dalle coste comprese tra Tripoli e il confine tunisino a quella tra la capitale e Misurata, area in parte presidiate dalle milizie islamiste di Khalifa Ghwell, legato ai Fratelli Musulmani e rivale di al-Sarraj in Tripolitania. Le partenze dalle coste della Tripolitania Occidentale puntano inoltre a non farsi intercettare dalla Guardia Costiera libica addestrata, equipaggiata e finanziata dalla Ue ma soprattutto dall’Italia. A mantenere vivi i traffici di esseri umani contribuisce soprattutto l’ambiguità dell’Italia nel “governare” i flussi. Le iniziative di Minniti e le attività della Guardia costiera libica, che riporta a Tripoli i migranti illegali intercettati in mare, ha dimostrato che la “rotta libica” può essere chiusa in tempi rapidissimi se venisse mantenuta un’iniziativa coerente. Oggi invece i migranti illegali diretti in Italia si sottopongono a una vera e propria lotteria. Se vengono intercettati dalle motovedette libiche, che negli ultimi mesi hanno bloccato e riportato a terra oltre 15mila persone, vengono condotti in centri di detenzione o in campi gestiti dall’Unhcr in attesa che l’Organizzazione internazionale delle migrazioni li rimpatri nei Paesi di origine come sta avvenendo con il decollo regolare voli dall’aeroporto di Mitiga (Tripoli). Se invece i clandestini riescono a superare il tratto di mare che rappresenta la zona d’intervento libica per la ricerca e soccorso, vengono soccorsi dalle navi militari italiane o europee, oppure da quelle delle Ong, che li portano in Italia. Qui potranno quasi certamente chiedere asilo o far perdere le proprie tracce nella certezza quasi totale di non venire effettivamente espulsi ma di ricevere al massimo quell’invito a lasciare la Penisola entro sette giorni che viene puntualmente disatteso. Secondo logica e coerenza lo stop dell’Italia ai flussi clandestini dovrebbe essere totale e quindi anche i migranti soccorsi in mare dalle navi nazionali e Ue dovrebbero venire riconsegnati alle autorità libiche bloccando l’accesso ai porti italiani a navi straniere, militari e delle Ong, che intendano sbarcavi clandestini. Non si comprende infatti perché Roma addestri e finanzi governo e Guardia costiera di Tripoli affinché blocchino i flussi quando sono le stesse navi italiane e Ue a incentivare i traffici (e le morti in mare) continuando a portare clandestini in Italia. Un’incongruenza che ridicolizza l’annunciata “svolta” di Roma sui flussi illegali evidenziando un’ambiguità che sembra trovare una spiegazione solo negli interessi elettorali. Dopo aver invano chiesto ai partner europei di condividere il fardello delle ondate di immigrati illegali che affluivano in Europa, il governo italiano ha varato le misure di contenimento che hanno ridotto i flussi di quasi un terzo rispetto al 2016 ma solo dopo la pesante sconfitta subita alle elezioni amministrative parziali di giugno. L’accoglienza di oltre 650mila immigrati clandestini in quattro anni sembra aver creato un profondo solco tra le forze dell’attuale maggioranza di governo e il loro elettorato, a conferma del peso strategico del problema migratorio. Un solco che le iniziative firmate Minniti puntano a colmare prima delle elezioni politiche mostrando risultati tangibili ma senza fermare definitivamente (come sarebbe agevole fare con i respingimenti in mare in cooperazione coni libici) quei flussi che consentono da anni stanziamenti pubblici miliardari a favore delle lobby del soccorso e dell’accoglienza. Organismi strettamente legati alla politica, specie al centro-sinistra, che l’anno scorso hanno potuto contare su finanziamenti per 3,4 miliardi di euro per l’accoglienza dei migranti mentre quest’anno ne erano previsti 4,6 per 200 mila immigrati illegali previsti in arrivo. Una vera e propria “industria dell’immigrato illegale” che muove un numero considerevole di voti e riceve finanziamenti pubblici maggiori rispetto ad emergenze ben più inevitabili e stringenti di quella delle migrazioni: si consideri ad esempio che nella legge di stabilità 2017 è stato assegnato solo un miliardo alle opere di riassesto idrogeologico della Penisola. Il governo italiano sembra avere quindi la doppia e antitetica esigenza di rallentare i flussi ma senza interromperli per accontentare le diverse anime del suo elettorato. Un’interpretazione forse maliziosa ma da un lato non sembrano essercene altre per spiegare l’ambiguità di Roma e dall’altro risulta credibile tenendo conto che le navi militari (italiane, tedesche e spagnole) e delle Ong negli ultimi tre giorni hanno sbarcato oltre 2mila migranti a Salerno, Vibo Valentia, Reggio Calabria, Crotone e Taranto. Da sempre quasi tutti i migranti illegali soccorsi in mare di fronte a Libia e Tunisia vengono fatti approdare nei porti siciliani, risparmiati in queste ore dagli sbarchi, guarda caso in concomitanza col voto regionale. Migranti. I trafficanti tornano al business “in 20mila pronti a imbarcarsi” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 6 novembre 2017 LE motovedette libiche corrono avanti e indietro lungo la costa ma il dispositivo di ricerca e soccorso fa acqua da tutte le parti. La flotta delle ong si è dimezzata, le navi militari dell’operazione Sophia pattugliano lontano dal limite delle acque territoriali libiche e, soprattutto, i trafficanti di uomini hanno rimodulato il loro business: non più “lanci multipli” di barchini e gommoni sgonfi dalle spiagge di Sabratha, Zuara e Zawyah, ma partenze diversificate da molti porti su un tratto di costa lungo 350 chilometri, fino a Misurata, Al-Kums, Garabulli, Sirte dove il controllo dei guardiacoste è inesistente e i gommoni, adesso più grandi, con carichi di 100 e più persone, riescono a “bucare” i pattugliamenti con la consapevolezza di dover di nuovo affrontare un viaggio lungo e rischioso verso le coste italiane. I numeri degli arrivi di questa settimana in Italia (più di 2.500) sommati a quelli della Guardia costiera libica (che ha riportato indietro altre 2.000 persone) confermano le previsioni contenute nell’ultimo rapporto di Frontex che annunciava la ripresa degli sbarchi a causa di “inquietudine sociale, insicurezza e prospettive future incerte”. Ma soprattutto i numeri, che per la prima volta da luglio, in questa settimana, hanno fatto registrare un segno positivo sugli sbarchi in Italia rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, rivelano che la tenuta del patto siglato tra il ministro dell’Interno Marco Minniti e il governo di Al Sarraj (che ha portato a un meno 30 per cento il saldo degli arrivi dalla rotta libica)è decisamente a rischio. La diga costruita da Al Sarraj con l’aiuto delle milizie di Al Dabbashi sta cedendo sotto i colpi dell’offensiva militare su Sabratha di Operations Room collegata al colonnello Haftar ed è sempre più evidente che gli interlocutori con i quali il Viminale aveva stretto il patto sono oggi assai più deboli di qualche mese fa. Nel caos e nell’instabilità di una Sabratha devastata dalla fame e dalle bombe, come spesso accade in Libia, i “ladri” trasformatisi in “guardie” avrebbero ricominciato a fare i “ladri”. In altre parole, quegli stessi trafficanti che, dopo gli accordi tra Minniti e Al Sarraj, avevano trovato più “conveniente” schierarsi con il governo per fermare il flusso delle partenze, avrebbero cominciato a spostare migliaia di persone ad est di Tripoli, in una zona più sicura e meno controllata, da dove rilanciare il business. Secondo fonti della nostra intelligence ci sarebbero almeno ventimila persone pronte ad imbarcarsi per affrontare la traversata verso l’Italia tornata ad essere improvvisamente più lunga e dunque più rischiosa e - a quanto sembra - anche più costosa tra tariffe in rialzo e centinaia di rapimenti per strada di migranti costretti a chiedere altri soldi alle famiglie nei paesi d’origine. Lo confermano le prime testimonianze dei migranti sbarcati in queste ore in Italia, tra i quali tornano a contarsi molte famiglie siriane con bambini al seguito e, per la prima volta, diverse decine di libici, anche loro in fuga dagli scontri, dalla fame e dalle violenze che stanno devastando le loro città. Stefano Argenziano, coordinatore dei progetti di migrazione di Medici senza frontiere, la vede nera. “C’è da attendersi un autunno di naufragi importanti. Purtroppo è l’inevitabile conseguenza della soluzione destabilizzante trovata dal governo italiano nel tentativo di arginare i flussi. Era evidente sin dall’inizio che non poteva risolvere la situazione, che a breve termine avrebbe prodotto ulteriori rischi per chi intraprende la traversata e aumentato la fragilità di chi è bloccato in Libia. Adesso il tempo è ancora relativamente buono, ma da qui a dicembre c’è da temere il peggio”. L’ultimo report dalla Libia di Unhcr racconta di 18.000 migranti prigionieri scoperti a Sabratha in diversi centri di detenzione e ora registrati nel campo di Dahman dove l’arrivo di venti camion di aiuti umanitari ha alleviato solo minimamente le condizioni di bambini, donne e uomini segnati da mesi di atroci violenze e letteralmente affamati. Per 918 di loro, i più fragili, Unhcr è riuscita ad ottenere la liberazione. Ma altri 6.000 migranti, tra cui moltissimi donne e bambini, sono ancora detenuti nei centri controllati dai trafficanti. E ogni notte, colonne di mezzi scortati da miliziani armati fino ai denti, trasporterebbero le persone in “connection house” nel Nord est del paese, nuova roccaforte delle organizzazioni di trafficanti che starebbero ampliando il loro business organizzando anche le partenze dei libici (oltre 100.000 gli sfollati interni che vivono in condizioni drammatiche nell’area attorno a Bengasi dove Iom e Unhcr hanno intrapreso una nuova missione). La situazione, nella zona di Sabratha, è fuori controllo dunque ormai da più di un mese. Allora perché la ripresa in grande stile delle partenze in questi ultimi giorni? Che il nuovo allarme possa suonare come un elemento di pressione sul governo italiano alla vigilia di un appuntamento rilevante nel panorama politico italiano come le elezioni siciliane è più di un sospetto. E non è un caso che, nell’indicare i porti di sbarco dei 2.500 migranti approdati in Italia in questi giorni, il Viminale abbia accuratamente escluso quelli dell’Isola. Egitto. Caso Regeni, l’ira del Cairo per le critiche sui diritti umani di Enrico Franceschini La Repubblica, 6 novembre 2017 Dura risposta egiziana alle critiche per la detenzione dell’avvocato consulente per il caso del ricercatore italiano. Qualcosa potrebbe muoversi sullo sfondo del caso Regeni: l’Occidente attacca l’Egitto sui diritti umani e l’Egitto risponde duramente. Ufficialmente la morte del ricercatore italiano c’entra soltanto in modo indiretto nel comunicato di protesta presentato due giorni fa da Gran Bretagna, Italia, Germania, Olanda e Canada per la detenzione dell’avvocato Ibrahim Metwally, attivista del movimento delle famiglie degli scomparsi e consulente “informale” della famiglia Regeni, arrestato il 13 settembre all’aeroporto del Cairo in partenza per Ginevra, caso sollevato allora da Repubblica. La nota congiunta in cui si esprime “profonda preoccupazione” per la prigionia dell’avvocato è stata presa male dalle autorità egiziane. Ieri il viceministro degli Esteri Ihab Nasr ha convocato gli ambasciatori dei 5 paesi per condannare come “false” le affermazioni del comunicato, esprimendo “forte indignazione” per un gesto definito “un’inaccettabile ingerenza negli affari egiziani”. Il viceministro Nasr invita i 5 diplomatici a “rispettare le procedure giudiziarie dell’Egitto e non privare lo stato della facoltà di portare dinanzi alla legge un individuo colpito da diverse accuse”, respingendo “ogni illazione sulla situazione delle Ong in Egitto e su episodi di tortura nelle prigioni egiziane” e rammaricandosi che l’intervento sia arrivato da paesi che “chiedono il rispetto della sovranità e della separazione dei poteri”. Una reazione spropositata, che sembra indicare nervosismo nel governo del presidente Al Sisi, forse preoccupato dalla possibilità che l’Europa - assieme al Canada - si muova in modo unitario sulla questione dei diritti umani in Egitto e in particolare sul caso Regeni. In una recente intervista a Repubblica, il ministro degli Esteri italiano Angelino Alfano aveva indicato un impegno del suo collega britannico Boris Johnson in tal senso e il comunicato dei giorni scorsi potrebbe esserne un sintomo, così come l’apparente maggiore disponibilità della tutor di Giulio all’università di Cambridge a collaborare con la magistratura italiana. Il nome di Metwally è stato spesso associato all’assassinio di Giulio Regeni. L’avvocato veniva citato in passato come consulente legale della famiglia del ricercatore al Cairo, anche se dopo l’arresto il suo legale Ezzat Ghoneim ha precisato che il ruolo di Metwally nel caso Regeni è stato solo “informale e indiretto”, in quanto incaricato dal direttore dell’Ong Ecfr di seguire il dossier della vicenda, “senza avere contatti diretti con i familiari”. Ma è verosimile che esista un legame fra la morte di Giulio e l’arresto dell’avvocato. E quando gli europei parlano con una sola voce, l’Egitto non li ignora. Catalogna. La resa di Puigdemont e ministri: libero ma non potrà lasciare il Belgio Il Mattino, 6 novembre 2017 Alle 9,17 di ieri nel commissariato federale di Rue Royal, nella capitale belga. Sono poi stati trasferiti in Procura, sempre a mani libere, “perché non rappresentavano un pericolo per i poliziotti che li accompagnavano” né c’era rischio di fuga, ha dettagliato il magistrato Dejemeppe. Puigdemont ed ex consellers sono stati interrogati, alla presenza di interpreti in olandese, la lingua da loro scelta per il procedimento giudiziario. Sarà, poi, la Chambre du Conseil, un tribunale di primo grado, a pronunciarsi entro 15 giorni sull’estradizione alla Spagna. Utilizzando come argomento che Madrid non rispetta i diritti fondamentali e non garantisce agli imputati un processo giusto, Paul Bekaert, il legale dell’ex president, potrebbe evitarla o rinviarla fino a 3 mesi. Dal suo rocambolesco atterraggio a Bruxelles, mentre 9 membri del suo governo cessato per la dichiarazione unilaterale d’indipendenza entravano in carcere a Madrid, Puigdemont ha due obiettivi: portare il conflitto catalano nel cuore d’Europa e fare campagna elettorale, a mille chilometri di distanza, per le regionali convocate dal governo spagnolo per il 21 dicembre. Ieri è stato il ministro belga degli interni, Jan Jambon, nazionalista fiammingo e membro del secessionista N-VA, a rompere le consegne del primo ministro belga Carles Michel, per chiedere all’Europa di intervenire, perché “Madrid è andata troppo lontano” nella risposta alla sfida indipendentista: “Esiste la legge spagnola, ma anche il diritto internazionale e la Convenzione europea dei diritti umani che sono al di sopra della legge di uno Stato membro. La comunità deve vigilare”, ha tuonato. L’ex primo ministro belga, Elio di Rupo, socialista francofono, ha bollato come “franchista e autoritaria” l’iniziativa legale e giudiziaria con la quale il governo di Rajoy ha risposto all’”abuso di posizione” del presidente della Generalitat. E l’ex commissaria di Giustizia europea, Viviane Reding, considera “incomprensibile che Rajoy abbia fatto marcire per anni la crisi catalana”. Intanto Puigdemont ha lanciato un’Opa sul fronte indipendentista, proponendosi per il 21 dicembre a capo di una lista unitaria, “che raggruppi tutte le sensibilità per la Catalogna, per la libertà dei prigionieri politici e per la repubblica”. Una candidatura unitaria, con i ministri detenuti in prima linea, per la quale preme il suo partito, il PdeCat, in caduta libera nei sondaggi. Stando all’ultimo pubblicato da La Vanguardia, i repubblicani di Erc vincerebbero con il 29%. Ma il blocco secessionista - Erc, PdeCat e Cup - resterebbe al di sotto della maggioranza assoluta del Parlament, con 66 seggi, meno dei 68 necessari per governare la camera catalana. In voti, il 46% - l’1,8% in meno delle elezioni del 2015 - a fronte del 44% del blocco unionista, Ciudadanos, Psc e Pp. Catalunya en Comú della sindaca Ada Colau e Podemos avrebbe le chiavi del futuro governo regionale. E ieri ha fatto sapere che correrà da sola.