Il diritto all’affettività e quel comunicato volgare dell’Uspp di Riccardo Polidoro* Il Dubbio, 5 novembre 2017 Nel leggere il comunicato dell’Uspp, dal titolo “Eiaculazione Penitenziaria. Al via i rapporti sessuali dei detenuti in carcere… ma fateci il piacere”, si ha l’immediata sensazione di trovarsi innanzi ad una c.d. “notizia spazzatura”, dunque falsa, per la volgarità del contenuto, che giunge al suo apice nelle conclusioni: “non più afflittività della pena, ma affettività del pene”. Il controllo sul sito ufficiale del sindacato ci conferma quello che, a dire il vero, temevamo : la notizia è vera ed il comunicato è firmato dalla segreteria nazionale. Quella che abbiamo letto, dunque, non è una “notizia spazzatura”, ma una spazzatura di notizia. Si possono avere opinioni diverse, ma vanno espresse con modalità civili, al fine non solo di contribuire al dibattito in corso, ma anche per non penalizzare la categoria che si rappresenta, in quanto il testo del comunicato fa precipitare la polizia penitenziaria nel buio di un linguaggio rozzo e scurrile, indegno di un Corpo che tanto da al Paese e che, in questi ultimi anni, ha trovato da parte della politica, un’ attenzione in passato sconosciuta. É il caso di ricordare, allora, al Sindacato che in Europa il diritto all’ affettività é già operativo in moltissimi Paesi e che, il nostro é in forte ritardo rispetto alla sua concreta applicazione, tenuto conto che in alcuna norma italiana è previsto il “divieto all’ affettività “ ed é stato necessario inserire tale diritto nella recente Legge Delega al Governo per “muovere le acque” da sempre stagnanti. In Germania, in Francia, in Spagna, in Olanda, in Svizzera, in Belgio, in Norvegia, in Svezia, pur sotto varie forme, sono autorizzate le visite affettive dei detenuti. Sui 47 Stati del Consiglio d’Europa, già 31 riconoscono tale diritto e gli effetti sono molto positivi, sia per la sicurezza interna degli istituti, sia per il reinserimento del detenuto che, nello scontare la pena, non è stato privato del rapporto umano e delle relazioni personali. La Polizia Penitenziaria invece di trincerarsi in una battaglia di retroguardia, potrebbe fornire un utile contributo sulle modalità operative degli incontri, che in una situazione precaria da un punto di vista strutturale e non solo, sono di complessa e difficile attuazione. Il Sindacato, invece, preferisce il facile consenso, anche strizzando l’occhio ad un’opinione pubblica sempre più propensa a “buttare la chiave”, perché vittima di una disinformazione che rappresenta il peccato originale e più grave dei nostri media, ma soprattutto della politica che lascia sconosciute ai cittadini le ragioni perché la nostra Costituzione dal 1948 e l’Ordinamento Penitenziario dal 1975, prevedono non solo la punizione del detenuto, ma anche le attività che possano consentire il suo reinserimento sociale. Tra queste, non ultima, il rapporto con la famiglia, dove mai alcuna esclusione - se non per ragioni motivate di sicurezza - vi è stata degli incontri intimi. Il Governo, investito di una delega precisa, ha la possibilità di equiparare il nostro Paese agli altri europei, riconoscendo il diritto all’affettività. Lo farà? Vedremo. Il comunicato dell’Uspp rappresenta il primo di una lunga serie di attacchi a tale diritto, che saremo costretti a leggere nelle prossime ore. Saranno giorni infiammati da una campagna elettorale dove l’affettività sarà ridotta al sesso, in slogan volgari e banali che ridicolizzeranno il nostro Paese, dinanzi ad un Europa che sui diritti civili ci continua a “bacchettare”. *Responsabile Osservatorio Carcere Ucpi, Componente Commissione per la Riforma dell’Ordinamento Penitenziario Nel Codice antimafia la confisca diventa preventiva di Daniele Piva Il Sole 24 Ore, 5 novembre 2017 La riforma del Codice antimafia (legge 161/2017, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale di ieri e in vigore dal 19 novembre) appare di vasta portata, spaziando anche al codice penale e di rito o alle disposizione di attuazione sino alla responsabilità amministrativa da reato degli enti e alla confisca allargata. Al di là delle modifiche in tema di procedimento di applicazione, impugnazione, tutela dei terzi ovvero amministrazione, gestione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati, quello che emerge è l’ennesima scommessa del legislatore sulle misure di prevenzione che ora assurgono ora a vero e proprio “sistema” intorno al quale far ruotare l’intero contrasto alla criminalità economica, anche al costo di assimilare fenomeni tra loro diversi, non senza incorrere in qualche contraddizione. In primo luogo c’è l’ampliamento dei destinatari dei provvedimenti agli indiziati del reato di assistenza agli associati, truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (per la quale viene anche innalzata la pena edittale), stalking e soprattutto di associazione a delinquere finalizzata alla commissione di numerosi reati contro la pubblica amministrazione, dapprima rientranti nel sistema solo nei casi di criminalità seriale o abituale eventualmente integranti fattispecie di pericolosità generica individuati dall’articolo 1 del Dlgs 159/2011, peraltro sottoposte al vaglio di legittimità costituzionale alla luce dei principi affermati dalla Cedu nella sentenza de Tommaso, le cui ricadute si sono già viste nella recente sentenza Paternò della Cassazione. In secondo luogo ci sono gli interventi diretti alle attività d’impresa: dall’estensione di diritto del sequestro e della confisca di quote sociali totalitarie a tutti i beni aziendali, all’introduzione della misura del controllo giudiziario dell’azienda destinata a trovare residua applicazione ogniqualvolta l’agevolazione dell’attività delle persone proposte o soggette a misure di prevenzione conseguente all’esercizio dell’attività aziendale risulti occasionale e sussistano circostanze di fatto da cui si possa desumere il pericolo concreto di infiltrazioni mafiose idonee a condizionare l’attività di impresa. Davvero singolare, inoltre, l’allineamento della disciplina della confisca di prevenzione per equivalente a quella sanzionatoria, per effetto dell’eliminazione del presupposto della finalità di dispersione e occultamento dei beni: da un lato, infatti, se ne esclude l’applicabilità in mancanza di una formale condanna in sede penale, dall’altro se ne amplia l’applicazione ante delictum in virtù di una dichiarata natura preventiva. Sul versante della tempistica, dirompente potrebbe infine rivelarsi l’introdotto vincolo di trattazione prioritaria dei procedimenti di prevenzione patrimoniale e di quelli nei quali vi siano beni sequestrati in funzione della confisca allargata, assimilata ormai a quella di prevenzione non più solo per ratio ma anche per disciplina, attesa l’estensione a tutti i reati individuati dall’articolo 51, comma 3-bis, del Codice di procedura penale, unitamente alla parificazione in tema di amministrazione, gestione e destinazione dei beni, tutela dei terzi e trasmissibilità a eredi o aventi causa, nonché la sua possibile applicazione, sia pur in forma solo diretta e non per equivalente, persino in assenza di formale condanna, da parte del giudice d’appello o della Corte di cassazione quando, dopo che sia stata pronunciata sentenza di condanna in uno dei gradi di giudizio, il reato venga dichiarato estinto per prescrizione o per amnistia. Anche qui in adesione al dictum della Cassazione nel caso Lucci ma sempre in precario equilibrio tra istanze di garanzia propugnate dalla Cedu e riserve espresse dalla Corte costituzionale (sentenza 49/2015). Un leitmotiv che invero percorre l’intera riforma ma che, in definitiva, il legislatore sembra aver risolto a favore dell’efficienza, in attesa di futuribili contrasti e possibili ennesimi “rimpalli” tra giurisprudenza interna e sovranazionale come quello cui si assiste oggi in tema di prescrizione nel caso Taricco. Quanto alla confisca allargata le modifiche chieste dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella saranno introdotte con un emendamento al decreto legge fiscale. Interdittive: decine di aziende uccise dal reato di parentela mafiosa di Simona Musco Il Dubbio, 5 novembre 2017 Il fenomeno delle interdittive è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione del 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. Solo dalla Prefettura di Reggio Calabria, negli ultimi 14 mesi, sono partite 130 interdittive. Quasi dieci ogni 30 giorni, tutte frutto della gestione del Prefetto Michele Di Bari, approdato nella città dello Stretto ad agosto 2016. Un numero enorme che conferma una tendenza crescente, soprattutto in Calabria, dove in poco più di cinque anni le aziende hanno depositato quasi 500 ricorsi nelle cancellerie dei tribunali amministrativi di Catanzaro e Reggio Calabria. Ma il fenomeno - i cui dai sono ancora incerti - è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione della materia nel 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. I numeri non sono ancora chiari, dato che gli archivi informatici dello Stato non hanno tutti i dati. E così succede che mentre dai siti dei tribunali amministrativi risulta un numero enorme di ricorsi (circa 2000 in cinque anni) e annullamenti (tra i 40 e i 90 l’anno), le cifre fornite dalla Dia, la Direzione investigativa antimafia, parlano di 31 annullamenti dal 2011 fino a maggio 2015. Numeri snelliti dal vuoto di informazioni dalle Prefetture di Napoli, Reggio Calabria e Vibo Valentia. La parte più corposa, dunque. La ratio dello strumento è chiara: “contrastare le forme più subdole di aggressione all’ordine pubblico economico, alla libera concorrenza ed al buon andamento della pubblica amministrazione”, sentenzia il Consiglio di Stato. Un provvedimento preventivo, che prescinde quindi dall’accertamento di singole responsabilità penali e anticipa la soglia di difesa. “Per questo - dice ancora il Consiglio di Stato - deve essere respinta l’idea che l’informativa debba avere un profilo probatorio di livello penalistico e debba essere agganciata a eventi concreti ed a responsabilità addebitabili”. Se c’è un sospetto, dunque, la Prefettura ha il potere e il dovere di tranciare i rapporti tra aziende private e pubblica amministrazione, attraverso tutta una serie di accertamenti ai quali non si può replicare fino a quando non diventano di pubblico dominio. Ovvero quando l’azienda colpita viene esclusa dai bandi pubblici e marchiata come infetta. Un’etichetta che, a volte, è giustificata da elementi tangibili e concreti, consentendo quindi di sfilare dalle mani dei clan l’appalto, ma altre decisamente meno. Tant’è che sono centinaia i ricorsi vinti, di una vittoria che però è solo parziale: sempre più spesso, infatti, chi si è visto colpire da un’interdittiva, pur vincendo il proprio ricorso, non riesce più a reinserirsi nel mondo del lavoro. Partiamo dal modus operandi: la Prefettura punta gran parte della sua decisione sui legami di parentela e su frequentazioni poco raccomandabili. Nulla o quasi, invece, si dice su fatti concreti che possano far temere effettivamente un condizionamento mafioso. Ed è proprio questo che fa crollare i provvedimenti davanti ai giudici amministrativi, per i quali non basta basarsi su rapporti commerciali e di parentela, “da soli insufficienti”, dice ancora il Consiglio di Stato. Occorrono perciò, aggiunge, “altri elementi indiziari a dimostrazione del “contagio”. E “non possono bastare i precedenti penali” riferiti “ad indagini in seguito archiviate e, in altra parte, a condanne molto risalenti nel tempo”, in quanto servono elementi “concreti e riferiti all’attualità”. Un’interpretazione confermata anche dalla Corte costituzionale, secondo cui è arbitrario “presumere che valutazioni comportamenti riferibili alla famiglia di appartenenza o a singoli membri della stessa diversi dall’interessato debbano essere automaticamente trasferiti all’interessato medesimo”. Ma è proprio questo il meccanismo che genera un circolo vizioso capace di far risucchiare una parte rilevante dell’economia dal vortice del sospetto. E le conseguenze non sono solo per le ditte: le interdittive, infatti, colpiscono aziende impegnate in appalti pubblici che così rimangono bloccati, cantieri aperti che si richiuderanno magari dopo anni. Dell’ambiguità dello strumento, lo scorso anno, aveva parlato il senatore Pd e membro della Commissione parlamentare antimafia Stefano Esposito, che al convegno “Warning on crime” all’Università di Torino aveva dichiarato che “lo strumento non funziona e nel 60% dei casi le interdittive vengono respinte” dai giudici amministrativi. Chiedendo dunque una riforma, che anche Rosy Bindi, poco prima, aveva annunciato, nel 2015. “Le interdittive antimafia sono uno strumento statico, mentre la lotta alla mafia ha bisogno di film”, ha spiegato. Un film che nel nuovo codice antimafia coincide col controllo giudiziario delle aziende sospette, i cui risultati sono ancora tutti da vedere. Intercettazioni, i cronisti rischiano tre anni di Liana Milella La Repubblica, 5 novembre 2017 Con la nuova legge si può contestare al giornalista la rivelazione di segreto. Allarme Fnsi: modificare il decreto. Fino a tre anni di carcere. È questo il primo frutto avvelenato del decreto sulle intercettazioni. Da sei mesi a tre anni per il giornalista che, facendo il suo lavoro, troverà e deciderà di pubblicare una registrazione considerata “irrilevante” dal pubblico ministero per il suo processo, ma rilevantissima invece per la notizia che contiene. Un documento con la classificazione di segretezza - come esplicitamente è scritto nel decreto del Guardasigilli Andrea Orlando - che però è stato temporaneamente escluso dal fascicolo processuale. Troppo facile quindi, per chi vuole incriminare il giornalista, non contestargli l’articolo 684 del codice penale, cioè “la pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale”, arresto fino a 30 giorni o ammenda da 51 a 258 euro, quindi oblabile. Visto che il documento è segreto e in quel momento è “fuori”, anche se temporaneamente, dal procedimento penale, si può contestare al giornalista, in concorso con il pubblico ufficiale che gli ha dato la notizia, l’articolo 326 del codice penale, “rivelazioni di segreti d’ufficio”. Un reato pesante, punito appunto con la reclusione da sei mesi a tre anni. Proprio nelle stesse ore in cui la Federazione nazionale della stampa chiede al governo “di rivedere la proposta sulle intercettazioni” e sollecita al Parlamento “radicali modifiche”, tra i magistrati e gli esperti di diritto dell’informazione serpeggia l’allarme sul rischio delle manette per i cronisti. Basta leggere il testo del decreto all’articolo 3 e seguire i passaggi. “Gli atti e i verbali relativi a comunicazioni e conversazioni non acquisite sono immediatamente restituiti al pm per la conservazione nell’archivio riservato e sono coperti da segreto”. E ancora: “Non sono coperti da segreto i verbali e le registrazioni acquisite al fascicolo processuale”. Quindi i nastri scartati dai magistrati e chiusi nella cassaforte ad alta sicurezza le cui chiavi e la cui responsabilità sono nelle mani del solo capo della procura, in questa fase non sono inseriti nel fascicolo processuale, nel quale invece figurano tutti gli altri atti e le registrazioni che hanno avuto il via libera del pm perché considerati utili e necessari per provare il reato. È ovvio che non si potranno più applicare le stesse regole se il cronista pubblica gli atti del procedimento penale, che contiene le carte sdoganate e ammesse dal pm, o se invece diffonde il materiale divenuto top secret ed escluso proprio per questa ragione dal fascicolo. Nel primo caso si continuerà a contestare l’articolo 684, la “pubblicazione arbitraria degli atti di un procedimento penale”, nel secondo scatterà la rivelazione di un segreto d’ufficio. Sia il premier Gentiloni che il Guardasigilli Orlando, presentando il decreto a palazzo Chigi, hanno insistito sul fatto che il diritto di cronaca “è salvo”. È vero che il decreto non interviene sulle pene per chi pubblica gli atti. Ma questo non deve stupire perché proprio il 326, la rivelazione di segreti d’ufficio in concorso con il pubblico ufficiale, è stata più volte utilizzata per colpire e intimidire i cronisti. E si trattava di atti sì segreti, ma che non erano stati espressamente esclusi dal fascicolo del processo e inseriti volontariamente in una sorta di limbo di segretezza. Proprio come avviene adesso con la nascita dell’archivio riservato che, dopo 180 giorni dalla piena entrata in vigore del decreto, giusto il tempo per le procure di organizzarsi, diventerà obbligatorio per ogni ufficio. È evidente allora che il mestiere del cronista si complica e diventa ancora più a rischio. Non solo, come scrive la Fnsi, ci sarà l’obbligo per le toghe di utilizzare “quando è necessario solo i brani essenziali delle intercettazioni” che spingerà nella zona grigia del segreto notizie che magari non hanno rilevanza penale, ma ne hanno dal punto di vista giornalistico. Ma per di più pubblicare quelle carte diventerà estremamente rischioso, con la prospettiva concreta di finire in cella per aver rivelato intercettazioni segrete che soprattutto la politica non vuole vedere sui giornali. “Rischi di falsità e distorsioni, la riforma delle intercettazioni è la fine del processo penale” di Liana Milella La Repubblica, 5 novembre 2017 L’avvocata ed ex deputata di An Giulia Bongiorno: “Come si decide quale ascolto è rilevante e quale no? Grande discrezionalità e controlli quasi impossibili. Chi ha scritto questa legge non è mai stato in tribunale, le conversazioni vanno valutate bene”. La nuova legge sulle intercettazioni? “Sarà l’estrema unzione del processo penale”. Giulia Bongiorno, avvocato penalista di grido ed ex deputata che bloccò la riforma degli ascolti firmata Berlusconi-Alfano, a Repubblica dice: “Chi ha scritto questa legge non è mai stato in tribunale “. Il Guardasigilli Orlando insiste, “questa non è una stretta “. Secondo lei? “Le leggi del ministro tradiscono sistematicamente gli obiettivi annunciati. Prima voleva combattere la violenza sulle donne e ha svuotato di significato lo stalking, adesso dice di voler evitare abusi nelle intercettazioni e offre strumenti per pubblicazioni fuorvianti e distorte”. Pure il centrodestra voleva imbavagliare: vizio di tutti i politici? “Non è possibile paragonare i testi perché Orlando non vieta al giornalista di pubblicare le notizie private, semplicemente evita sin dall’origine che esista la notizia. Ma le conseguenze saranno devastanti”. Cosa intende? “Se una conversazione trascritta è smentita da un’altra non trascritta, i giornalisti pubblicheranno quella trascritta. Ci saranno moltissime falsità in circolazione: una contaminazione sistematica della realtà”. Se sono rilevanti vanno trascritte, c’è questa garanzia. “Vi sarà un’enorme discrezionalità, ai limiti dell’arbitrio, nel decidere quali intercettazioni sono rilevanti e quali no. Escludo che i magistrati italiani, pochi e con enormi carichi di lavoro, riescano a fare i controlli che richiederebbe questa legge”. Intercettazioni non rilevanti e quindi non trascritte. Non si rischia il caos quando se ne dovrà ripescare una? “È una legge scritta da chi non è mai stato in tribunale e ignora anche l’insidia più ovvia di questo delicato strumento: l’ambiguità del linguaggio. Forse il ministro pensa che nelle conversazioni gli interlocutori si esprimono in modo limpido? Sa quante volte si parla di mozzarelle anziché di cocaina? E le mozzarelle saranno ritenute rilevanti o no? Per interpretare correttamente le conversazioni bisogna inquadrarle in un contesto e leggerne ogni parola”. Non sarà la polizia a decidere, sul momento, cos’è rilevante e cosa no determinando il destino dell’indagine? “Nutro immensa fiducia nelle forze dell’ordine, ma in questa maniera il rischio di parzialità nelle indagini è fisiologico”. Il pm Di Matteo citava il caso Fragalà per spiegare che un’intercettazione apparentemente inutile in realtà può essere determinante per la difesa. Lei ha un esempio da raccontarci? “Mentre scrivevano i brogliacci, gli agenti che intercettavano Sollecito hanno appuntato a margine commenti offensivi nei confronti dei suoi familiari. Le zie di Raffaele che conversavano tra loro sono state definite “vipere” e “stronze”. Non mi sentirei serena, nel dare questo potere così sconfinato”. I brogliacci della polizia scompaiono, sostituiti da “annotazioni”. Una sorta di sintesi non ben identificata. Chi garantirà che è vera? “I brogliacci erano essenziali per risalire a una conversazione che non compariva nell’ordinanza cautelare, erano dunque una bussola. Ora è come essere scaraventati in mare aperto senza strumentazione e senza alcun punto di riferimento”. I legali non avranno più copie di carta. Che conseguenze vede? “È inaccettabile il principio stesso della diffidenza nei confronti di tutti i legali. Comunque solo gli studi più strutturati avranno la possibilità di inviare i collaboratori in procura ad ascoltare ore e ore di intercettazione per appuntare quelle da ripescare”. Orlando sostiene che è una legge equilibrata. Alfano ha esultato con un “finalmente”: che tipo di compromesso è stato raggiunto? “Troppa discrezionalità a chi ascolta le conversazioni e scarsa possibilità di effettivi controlli da parte dei magistrati e degli avvocati rischiano di far diventare questa riforma, battezzata come soluzione ai mali della giustizia, l’estrema unzione al processo penale”. Bancarotta, estesa la non punibilità di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 5 novembre 2017 La misura è retroattiva e può far naufragare una parte dei processi in corso. Nella riforma è prevista la depenalizzazione per gli imprenditori che lanciano l’allarme sulla crisi. C’è un rischio penale nella riforma fallimentare. Ed è quello dell’impatto sui processi in corso. Che potrebbero essere investiti dall’estinzione per effetto dell’applicazione della nuova causa di non punibilità. E questo sul piano diretto. Su quello indiretto, invece, all’estinzione del giudizio si potrebbe arrivare per l’effetto prescrizione. L’allarme arriva dal seminario dei pubblici ministeri, dei giudici delegati e dell’esecuzione, organizzato da Cespec, che vede 250 magistrati di tutta Italia a confrontarsi a Venezia sui temi della crisi d’impresa. Tema delicato e di estrema attualità, visto che la fase della redazione del decreto legislativo è in un momento chiave: la commissione Rordorf/2 è in piena attività con l’obiettivo di chiudere i lavori entro il 10 gennaio, ma è diffusa la consapevolezza di dovere accelerare il più possibile i tempi con la fine della legislatura ormai alle porte. E un gruppo di lavoro della commissione è proprio dedicato al tema del rapporto con il penale fallimentare. Centrale nel progetto di riforma, e aspetto che forse più di altri lo caratterizza, è l’introduzione delle misure di allerta, con l’obiettivo, ormai condiviso, di permettere l’emersione tempestiva delle crisi d’impresa prima della deriva nell’insolvenza, ma anche con qualche effetto collaterale forse non previsto e di sicuro ora sgradito. Perché per favorire un imprenditore magari comprensibilmente ritroso a uscire allo scoperto rendendo manifesta la situazione di difficoltà la delega mette in campo anche una serie di incentivi di natura penale. Si prevede cioè, a favore dell’imprenditore che ha tempestivamente proposto domanda di composizione assistita della crisi o chiesto l’omologazione di un accordo di ristrutturazione del debito o, ancora, un piano di concordato preventivo o, infine, ricorso per l’apertura della procedura giudiziale, una causa di non punibilità per il reato di bancarotta semplice e per tutti gli altri reati previsti dalla legge fallimentare quando hanno provocato un danno di lieve entità. Ad arricchire il ventaglio di convenienza penale c’è la previsione di un’attenuante a effetto speciale per tutti gli altri delitti. Una previsione tutto sommato abbastanza chiara per un obiettivo altrettanto evidente. A complicare le cose, però, c’è l’efficacia retroattiva della disposizione che difficilmente potrà essere sterilizzata dal decreto legislativo. Dello “scudo” penale potrà essere chiesta l’applicazione anche nei giudizi in corso. In primo grado, in appello e, con problematiche tutte particolari, anche in Cassazione. Gli imputati potranno cioè chiedere gli venga applicato quanto previsto dalla delega, sostenendo di essersi comunque mossi per evitare il degenerare della crisi nelle modalità previste. A quel punto l’autorità giudiziaria dovrà fermare il procedimento per accertare la fondatezza della richiesta. Con la conseguenza di allungare i tempi per la sentenza e rischio prescrizione, tenuto per esempio conto dei termini non lunghissimi in caso di bancarotta semplice, e di dichiarare magari l’estinzione del reato per effetto dell’applicazione della causa di non punibilità. A venire inoltre probabilmente travolta sarebbe poi anche l’azione civile proposta in sede penale. Ci sono infatti pronunce, in sede di applicazione della nuova causa di non punibilità per tenuità del fatto, che ritengono impossibile decidere sulla domanda civile in assenza di una condanna. Pisa: carcere Don Bosco, nel futuro una sezione per i detenuti malati al 41bis di Danilo Renzullo Il Tirreno, 5 novembre 2017 Il cantiere del padiglione “carcere duro” è fermo da sei anni, possibile la ripartenza con una nuova ditta Intanto ieri il sottosegretario Ferri ha preso parte all’inaugurazione di una sala polivalente: “Dignità ai reclusi”. La sua funzione non è mai stata svelata, né chiarita, ma in futuro potrebbe ospitare i detenuti malati sottoposti al 41bis (carcere duro). Il cantiere allestito quasi un decennio fa all’interno del carcere Don Bosco per la realizzazione di un nuovo padiglione da sedici posti (all’occorrenza raddoppiabili) attende, però, da sei anni il ritorno degli operai, che hanno abbandonato il sito dopo il fallimento della ditta (un’impresa di Venezia) che si era aggiudicata i lavori. Da tempo, invece, si susseguono i sopralluoghi della commissione di collaudo per verificare gli interventi ultimati e al termine della procedura i lavori dovrebbero essere assegnati ad una nuova ditta. Non è escluso, invece, che gli operai facciano il loro ingresso nella struttura carceraria pisana per cercare di risanare le ferite strutturali inferte da anni di mancati interventi, a più riprese denunciate dalla direzione, dai sindacati e da varie forze politiche. “Stiamo pensando e valutando alcuni interventi di edilizia penitenziaria, soprattutto dal punto di vista impiantistico, per cercare di modernizzare questa struttura, una delle più avanzate per i servizi e le opportunità offerte”, annuncia il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri, intervenuto ieri mattina all’inaugurazione di una sala ricreativa. Un ampio spazio per attività sportive, ludiche e culturali (dotata di attrezzature ginniche, un biliardino, televisore e un tavolo da ping-pong), che potrà essere utilizzata dai detenuti del reparto penale, la cui realizzazione è stata portata avanti con il sostegno e le donazioni del Cif (Centro Italiano Femminile) Regionale Toscana: un’ala del secondo piano chiusa da sei anni trasformata in un luogo per attività educative e ricreative. “L’inaugurazione di questi locali rappresenta una testimonianza importante dell’impegno delle istituzioni e della società civile nell’attuare gli obiettivi previsti dalla riforma dell’ordinamento penitenziario che punta al reinserimento sociale dei detenuti e alla tutela della loro dignità” sottolinea Ferri anticipando anche alcuni temi al centro dei decreti attuativi per la riforma dell’ordinamento penitenziario che saranno approvati tra qualche settimana “con l’obiettivo - specifica - di assicurare la certezza della pena, ma umana e rieducativa”. Affettività (“ci saranno passi in avanti nel rapporto tra il detenuto e i familiari”), lavoro e formazione all’interno delle strutture carcerarie e permessi. “Quest’ultimi rappresentano un istituto molto importante in chiave di rieducazione e un atto di fiducia che deve essere ripagato dal detenuto - prosegue Ferri. Le carceri italiane sono sicure: a fronte di oltre 50.000 permessi annui, si verificano solo 6-7 episodi di evasione o di non rientro e comunque tutti i detenuti responsabili di questi episodi vengono ripresi in breve tempo”. Presenti alla cerimonia di inaugurazione anche il direttore del Don Bosco Fabio Prestopino (per il quale, entro l’anno, sarà probabilmente ufficializzato il trasferimento a Sollicciano), il comandante della polizia penitenziaria Vincenzo Pennetti, la presidente del Cif Maria Letizia Gaudenzi e un gruppo di una decina di detenuti che si è intrattenuto con il sottosegretario per discutere degli aspetti positivi e negativi della struttura pisana. Nessuno ha fatto riferimento al fenomeno del sovraffollamento. “Attualmente sono presenti 270 detenuti - specifica Prestopino: una situazione molto migliore rispetto a qualche tempo fa quando la struttura ha ospitato anche oltre 400 persone. L’inaugurazione della sala polivalente è un passo in avanti molto importante, mentre per la ristrutturazione della struttura ci sono tante idee, ma occorrerà capire se ci sono i progetti e le risorse necessarie per far fronte ai problemi strutturali”. Rossano Calabro (Cs): decesso in carcere, disposto esame autoptico informazionecomunicazione.it, 5 novembre 2017 Un detenuto di nazionalità rumena, il 64enne I. V., che si trovava ristretto nella Casa di Reclusione di Rossano, è deceduto nella serata di ieri. Non si esclude che la morte sia dovuta a cause naturali, ma il magistrato ha disposto l’esame autoptico per fare piena luce e stabilire con esattezza la causa del decesso. Napoli: carcere di Poggioreale, il pranzo è servito con alimenti certificati di Fabio Postiglione Corriere del Mezzogiorno, 5 novembre 2017 Cibo raffinato e “bilanciato”. Proteine e carboidrati in perfetto equilibrio così da non generare scompensi. Vitto con prodotti scelti con cura e che devono “obbligatoriamente rispettare i criteri di tipicità e territorialità”. Frutta e verdura di produzione biologica. Ortaggi rigorosamente freschi e di stagione in ogni giorno dell’anno. Pasta, riso e formaggi con certificazioni “Dop”, “Igp” e “Stg”. Il pane fresco, prodotto da forni che usano farine naturali, deve arrivare puntuale alla mensa a mezzogiorno, carne e pesce devono essere da produzioni certificate e bio-sostenibili. E come spuntino si dovranno servire due banane al giorno che però dovranno essere acquistate dai circuiti del commercio equo solidale. Benvenuti al carcere di Poggioreale. È questo infatti il menu “stellato” che è stato imposto dal disciplinare del bando di gara che il ministero della Giustizia ha stilato e chiuso pochissime settimane fa per il triennio 2018-2021, per la regione Campania ad un costo, che comprende il vitto per i quindici penitenziari regionali, di quasi trentacinque milioni di curo all’anno. Il disciplinare da “ristorante scelto” imposto dal Dap è stata una decisione che ha creato non solo imbarazzo tra le tante aziende che operano da decenni nel settore e che non hanno mai visto delle regole così stringenti, ma anche un vespaio di polemiche con ricorsi al Tar già pendenti. “Si precisa che frutta, verdure e ortaggi, legumi, cercali, pane e prodotti da forno, pasta, riso, farina, patate, polenta, pomodori e prodotti trasformati, formaggio, latte uht, yogurt, uova, olio extravergine devono provenire per almeno il 40% espresso in percentuale di peso sul totale, da produzione biologica in accordo con i regolamenti, per almeno il 20 per cento espresso in percentuale di peso sul totale, da sistemi di produzione integrata”, c’è scritto nel disciplinare al centro delle polemiche. Per quanto riguarda le uova, la quota non proveniente da allevamenti biologici, deve provenire da allevamenti all’aperto mentre i “prodotti ortofrutticoli devono essere stagionali, rispettando i calendari di stagionalità”. Per prodotti di stagione si intendono i prodotti coltivati in pieno campo. E non è finita qui. Ciò che ancora accende gli animi, questa volta tra gli agenti di polizia penitenziaria, è la quota del compenso che il ministero di Giustizia ha stabilito per l’anno 2018 per i detenuti che lavorano in carcere. Coloro che si occupano per esempio delle pulizie, dello smistamento della posta, prenderanno l’83 per cento in più rispetto allo scorso anno. Questo vuol dire che ognuno di loro guadagnerà fino a 1000 euro al mese con in più la tredicesima e la quattordicesima, quasi quanto percepisce un agente che lavora decine di ore al giorno, per esempio, in un supercarcere come quello di Secondigliano. “Dopo l’aumento della retribuzione del lavoro dei detenuti ulteriori fondi verranno stanziati per il loro vitto. Tutto questo risulta paradossale se si pensa che i contratti degli agenti penitenziari sono fermi da più di 9 anni. Chiediamo al governo maggior attenzione per la Polizia Penitenziaria in servizio nelle carceri, ultimo baluardo di un sistema in crisi da parecchio tempo con ataviche problematiche irrisolte ed una politica fallimentare del governo per quanto concerne gli operatori della sicurezza”, dice Ciro Auricchio, segretario regionale dell’associazione sindacale Uspp. Il volontario Antonio Mattone: “finalmente, finora il cibo era rancio” “Il cibo attualmente servito a Poggioreale? Chiamiamolo pure rancio. Io non lo mangerei di certo”. Antonio Mattone è volontario nelle carceri da oltre dieci anni, una esperienza sulla quale ha scritto anche un libro. “Questo bando introduce innovazioni importanti. Al momento - racconta - i detenuti più poveri mangiano dal cosiddetto carrello. Gli altri fanno la spesa a costi molto più sostenuti di quelli ordinari. L’addetto prende le ordinazioni cella per cella e compra gli ingredienti, se non vengono portati dai familiari, e i prezzi sono alti”. La cucina in carcere ruota intorno alla creatività. Si cuoce sul fornello a gas, ogni cella ha una bombola, e i più audaci hanno trovato anche il modo di infornare. “Sistemano gli sgabelli metallici sul fuoco - racconta Mattone - e poi ci mettono una coperta sopra. Così cucinano al forno. Pericoloso? Forse, ma l’incidenza di problemi è fortunatamente bassa negli anni”. Lecce: un laboratorio di filosofia per le detenute di Borgo San Nicola di Concita De Gregorio La Repubblica, 5 novembre 2017 “Francesca, Maria Grazia, Maria, Melany, Paola, Adriana, Maria sono detenute comuni del carcere di Borgo San Nicola di Lecce e nella loro vita non hanno mai partecipato a un laboratorio di filosofia. In realtà non conoscono nemmeno cosa sia la filosofia, ma ciò non è importante. All’inizio considerano il laboratorio un’alternativa alla cella, un modo come un altro per trascorrere quel maledetto tempo”. “Poi però, accettano di mettersi in gioco e provare a conoscersi meglio, o forse, di iniziare a conoscersi. Prima di questi incontri, non si erano mai parlate in questo modo. Tutto ciò che sapevano una dell’altra era il cognome di ciascuna, il numero della cella, il motivo della loro reclusione. Quali fossero i loro sentimenti, che cosa provassero, come immaginavano il futuro, erano domande che mai avevano sfiorato i loro pensieri diventati gelidi come quei corridoi da attraversare per arrivare alla stanza destinata al laboratorio”. “Da gennaio a maggio 2017, ogni martedì, per due ore, si sono raccontate e ascoltate, e tra lacrime e commozione hanno discusso di amore, amicizia, tempo e libertà. Si sono scambiate pensieri: hanno conosciuto quelli di Platone, sant’Agostino, Aristotele; hanno ricambiato donando i loro. Un vero “traffico di pensieri stupefacenti” grazie ai quali cominciare a sentirsi per la prima volta #liberedentro. Pensieri stupefacenti per la loro semplicità, per il loro essere frammenti di vita vissuta, schegge di desolazione. Pensieri stupefacenti che sono riusciti ad emergere nonostante la tanta rabbia accumulata negli anni, e la rassegnazione ad una vita non più degna di essere chiamata tale. Pensieri stupefacenti che sono diventati “urla esistenziali” di un genere, quello femminile, che ancora oggi ha bisogno di essere aiutato, sostenuto, difeso nel suo naturale tentativo di affermarsi in tutta la sua dignità”. “Sono libera dentro” è un progetto nato all’interno del carcere di Borgo San Nicola di Lecce e rappresenta la prosecuzione di un laboratorio di filosofia realizzato nel corso del 2017. Il laboratorio è stato indirizzato alle donne “detenute comuni” ristrette nell’istituto, e si è soffermato su quattro temi: amore, amicizia, tempo, libertà”. “Le detenute hanno letto alcuni testi filosofici che sono diventati punto di riferimento per una riflessione sulle loro vite. Il materiale raccolto in questi incontri è stato suddiviso in quattro parti corrispondenti alle quattro stagioni della vita: amore-primavera; estate-amicizia; tempo-autunno; inverno-libertà. Ne è nata una piccola edizione sotto forma di quaderno di esercizi destinato a tutte le donne che pur essendo libere, sono in realtà prigioniere della loro esistenza. La trovate qui”. “Ogni stagione occupa dieci pagine, a piè di pagina si trovano tre domande. Rispondere significherà riflettere sulla propria esistenza, i perché. Il quaderno di esercizi filosofici contiene inoltre al suo interno una cartolina con il destinatario già scritto: “Alle detenute del carcere di Borgo San Nicola.” Chiunque ne entrerà in possesso, potrà compilare quella cartolina rispondendo a scelta ad una delle domande e la potrà spedire, nel tentativo anche di costruire ponti di umanità e rompere i silenzi dell’anima”. Cagliari: Ipm Quartucciu, dai Rotaract libri per aiutare il reinserimento sociale di Giorgia Daga L’Unione Sarda, 5 novembre 2017 Uscire dall’isolamento e aiutare il reinserimento sociale. È questo lo scopo del progetto “Sulla scia delle ali della libertà”, portato avanti anche dai Club Rotaract sardi. Prevede la consegna dei libri raccolti durante l’anno, ai detenuti del carcere minorile di Quartucciu che avranno così la possibilità di immergersi nella lettura, arricchirsi culturalmente e immaginare di trovarsi già lontano, al di là di quelle sbarre. Saranno i presidenti uscenti dei Club Rotaract sardi Davide Rossetti, Roberta Mameli, Andrea Palmas e Simonetta Salis, martedì alle 15, a recarsi all’istituto penitenziale, per consegnare i libri. “Si tratta di un’iniziativa”, hanno dichiarato i quattro presidenti, “volta a stimolare l’intelligenza e la sensibilità culturale dei giovanissimi detenuti, in modo da agevolare il loro reinserimento nella società civile”. Il progetto nazionale “Sulla scia delle ali della libertà”, prendendo spunto dalla trama dell’omonimo film, si pone come obiettivo la realizzazione di biblioteche all’interno delle carceri. Pescara: carceri e volontariato, inaugurazione della mostra “Dall’amore nessuno fugge” metropolitanweb.it, 5 novembre 2017 Osservando la realtà carceraria da un’altra angolazione si vedono gli uomini e non le sbarre, l’umanità al posto del reato, le potenzialità future e non solo gli errori del passato. Hanno guardato così le carceri in Brasile quelli delle Apac. Un modello che nasce dalla gratuità, un esperimento che, secondo alcuni, era destinato a naufragare presto, incagliandosi nell’insidia di una fiducia mal riposta. L’esperienza delle Associazioni di Protezione e Assistenza ai Condannati che si sta vivendo in Brasile ed in altre 23 nazioni, in forme simili, propone infatti carceri senza sbarre né carcerieri, dove i recuperandi sono custodi di loro stessi e del loro processo di reinserimento. Questa la provocazione da cui nasce l’idea della mostra e di cui si parla nel convegno inaugurale “Dall’amore nessuno fugge” che si terrà a Pescara lunedì 6 novembre, ore 18.00, presso l’Auditorium Petruzzi in via delle Caserme 24. Per l’evento è stato richiesto l’accreditamento formativo all’Ordine degli avvocati d’Abruzzo. Al convegno interverranno Federica Chiavaroli, Sottosegretario alla Giustizia, Maria Rosaria Parruti, Presidente del Tribunale di Sorveglianza dell’Aquila, Franco Pettinelli, Direttore della Casa Circondariale di Pescara, Germano D’Aurelio, ‘Nduccio, ormai da tempo attivo con la sua associazione “Fratello Mio” a favore dei detenuti, Francesco Lo Piccolo, giornalista e presidente dell’associazione Voci di dentro che da dieci anni vede impegnati molti volontari nelle carceri ed un ex detenuto con la sua testimonianza. Molti e di grande rilevanza gli enti e le associazioni che sostengono la mostra, che sarà aperta a Pescara dal 6 al 16 novembre presso il Tribunale di Pescara. L’evento è patrocinato dal Ministero della Giustizia, dall’Ordine degli Avvocati di Pescara, dall’AVSI, dalla Comunità di Sant’Egidio, dalla Caritas Diocesana, dal Centro Culturale di Pescara, e ha tra i protagonisti le associazioni Voci di Dentro, Stella del Mare e Fratello Mio ed infine il Centro Servizi per il Volontariato di Pescara che ha promosso e sostenuto l’iniziativa mettendo in connessione le diverse realtà che animano la vita della comunità. Questo per continuare il percorso di lavoro, iniziato il 3 febbraio scorso che, mettendo al centro tutte le persone e le istituzioni del territorio su questioni che riguardano il vivere assieme come comunità partendo dal desiderio umano di relazione e di gratuità. Prato: “La grande fuga”, l’inaugurazione della mostra dedicata al teatro in carcere toscanatv.com, 5 novembre 2017 Domani alle 17.30 l’inaugurazione nella sala espositiva della Campolmi. Si intitola “La grande fuga”, la mostra sul teatro in carcere che sarà inaugurata lunedì alle 17.30 nella sala espositiva Campolmi, tra le antiche mura e l’ingresso al Museo del Tessuto. Organizzata dal Teatro Metropopolare che dal 2008 realizza spettacoli nella Casa circondariale La Dogaia di Prato, ora a capo del coordinamento Teatro in carcere Regione Toscana, l’esposizione è una finestra sul lavoro che viene compiuto quotidianamente dalle 12 compagnie teatrali attive in tutti i carceri toscani. Sarà visibile fino al 12 novembre dalle 15 alle 20 a ingresso libero. In occasione dell’inaugurazione, una testimonianza significativa sull’importanza di attività collaterali come quella teatrale per aiutare i detenuti a cambiare vita una volta scontata la propria pena, sarà data dall’attore Salvatore Striano, noto al grande pubblico per “Cesare deve morire” e “Gomorra”, ex detenuto. Gli uomini (a volte) cambiano: in un film le storie di chi vuole guarire dalla violenza di Luigi Gaetani L’Espresso, 5 novembre 2017 “Ma l’amore c’entra?”, racconta il percorso di tre persone aggressive che hanno scelto di chiedere aiuto. La regista Elisabetta Lodoli: “Gli abusi nella maggior parte dei casi non nascono dal disagio mentale, ma sono il frutto di una cultura sbagliata”. La violenza di genere è un fenomeno che in Italia ha milioni di vittime: le donne. Ma ci sono uomini anche prendono coscienza dei propri comportamenti e cercano di cambiare. Li racconta “Ma l’amore c’entra?”, il film che verrà proiettato in anteprima al Maxxi di Roma venerdì 3 novembre alle 21.30, nell’ambito della Festa del Cinema. La testimonianza di tre persone normali, diverse ma legate dal filo comune della violenza di genere, che hanno scelto di intraprendere un percorso terapeutico nel centro “Liberiamoci dalla Violenza” di Modena. “L’idea del film è quella di riflettere sui maltrattamenti sulle donne dando la parola agli uomini. A quelli che hanno cercato un aiuto per migliorare” spiega all’Espresso la regista del film Elisabetta Lodoli. “Per questo ho incontrato alcuni pazienti che avevano intrapreso un percorso di cura nel primo centro pubblico, gestito dal servizio sanitario dell’Emilia-Romagna, “di accompagnamento al cambiamento per gli uomini”. Un istituto a cui ci si può rivolgere gratuitamente e in forma anonima”. Le vicende dei protagonisti, che per ragioni di privacy non potevano essere riconoscibili, sono ricostruite grazie a un lavoro di interviste durato due anni. “Quello che mi interessava - dice la regista - non è tanto raccontare il percorso di trattamento, quanto parlare con queste persone delle loro esperienze sentimentali, di quello che provano all’interno delle loro relazioni affettive”. Uomini che non sono arrivati a commettere violenze gravi, ma i cui rapporti familiari sono stati pesantemente segnati. “Mi sono volutamente tenuta lontana dai fatti di sangue più gravi. Nel film racconto di uomini che avevano ancora qualcosa da perdere, che mantenevano un rapporto con la famiglia e con i figli. E quindi, spaventati dalle loro stesse azioni e spinti dalle proprie compagne, hanno deciso di chiedere aiuto”. Una riflessione sull’educazione sentimentale, sugli stereotipi di genere e sulla cultura patriarcale che ancora influenza la società e che è spesso la vera origine dei comportamenti violenti. “Quello che confermano anche gli psicologi - racconta Elisabetta Lodoli - è che questi sono uomini assolutamente normali, non sono mostri. Nella violenza possiamo riconoscerci tutti, la distanza tra noi e chi compie questi atti esiste, ma non è così abissale. La chiave per comprendere il fenomeno è quel sentimento che noi chiamiamo amore e che alcuni interpretano in maniera sbagliata. Perché la maggior parte degli uomini che commettono abusi lo fanno nei confronti delle proprie compagne, cioè delle persone che dicono di amare. Per questo abbiamo scelto il titolo “Ma l’amore c’entra?”. Una domanda a cui è facile rispondere: la violenza è molto spesso qualcosa che gli uomini hanno imparato in casa da bambini, figlia della fragilità e della frustrazione certo, ma soprattutto di una cultura maschile - e anche femminile - che interpreta in maniera sbagliata la relazione tra i sessi”. “10 lezioni sulla giustizia per cittadini curiosi e perplessi”. La giustizia spiegata a mia mamma di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 5 novembre 2017 Una mamma ultraottantenne che divora torrenziali trasmissioni tv sui più pruriginosi casi di cronaca e interpella regolarmente il figlio magistrato, per chiedergli conto di sentenze contraddittorie, inspiegabili, controverse. Nasce così “10 lezioni sulla giustizia per cittadini curiosi e perplessi” (Mondadori, pp. 135, € 17). Un libro di un giudice, Francesco Caringella, destinato non ai giudici e nemmeno ai politici, ma ai “consumatori” di giustizia, fisica e mediatica. Un libro di dubbi, di sofferenze, di enigmi insoluti, di vuoti. Un libro introspettivo, oltre la forma squisitamente saggistica. Ormai sono numerosi i giudici scrittori. Applauditi nei festival, corteggiati dai talk show. Caringella ha un passato da giudice ai tempi di Mani Pulite. Sua la firma sull’ordine internazionale di carcerazione nei confronti di Bettino Craxi, che impedì il ritorno in patria del leader socialista malato. Ora è presidente di sezione del Consiglio di Stato. Forse questo ruolo fuori dalla mischia convulsa dei delitti e delle pene gli consente una sincerità che ai giudici-superuomini non riesce. Eppure non danneggiano la categoria i giudici che mettono in piazza i loro limiti, la fallibilità, le angosce più intime di fronte allo sguardo supplichevole di un imputato, a un’invocazione di innocenza, a una colpevolezza incerta, a un pregiudizio che si tramuta in giudizio irrevocabile. Non sono meno coraggiose le toghe che riconoscono di non essere la forza purificatrice della società, i medici di tutte le malattie collettive, i supplenti di ogni altro potere claudicante. “Giudice Dio o giudice bocca della legge”, s’intitola l’ultimo capitolo. Fare il giudice è “un compito terribile”, non carichiamolo di responsabilità ulteriori e salvifiche. Ci piacciono i giudici riluttanti, prudenti senza essere codardi, consapevoli della “drammatica asimmetria del processo e dell’inevitabile violenza della legge”. Quelli che si introducono nelle vite delle persone come ospiti, con rigore ma pieni di premure e delicate attenzioni. Ogni 4 giorni viene ucciso un giornalista: e le vittime non ottengono mai giustizia di Federico Marconi L’Espresso, 5 novembre 2017 Nella Giornata mondiale contro l’impunità per i crimini contro i cronisti, l’organizzazione delle Nazioni Unite pubblica i primi dati del report globale sulla libertà d’espressione. Quella che emerge è una situazione drammatica, fatta di assassinii e impunità. Una giornata mondiale contro l’impunità per i crimini contro i giornalisti: è quella che, dal 2013, si celebra il 2 novembre. Istituita dalle Nazioni Unite quattro anni fa nel giorno dell’anniversario dell’uccisione di due giornalisti francesi, Ghislaine Dupont e Claude Verlon, ammazzati mentre lavoravano in Mali. Una battaglia, quella contro l’impunità, necessaria e urgente: i numeri parlano di una situazione a dir poco preoccupante. Come riporta uno studio dell’Unesco, negli ultimi undici anni 930 giornalisti sono stati uccisi mentre svolgevano il loro lavoro. Di questi, 102 sono stati freddati nel solo 2016. Una media impressionante: ogni quattro giorni un giornalista viene assassinato. A questa cifra si aggiunge il fatto che, in nove casi su dieci, chi commette la violenza rimane impunito. “L’impunità spesso porta a nuove uccisioni e ciò rappresenta un tremendo segnale di crisi dei sistemi giudiziari, dello Stato di diritto e della democrazia” afferma Frank La Rue, vicedirettore generale dell’Unesco per la Comunicazione e l’Informazione. Secondo quanto emerge dal World Trends in Freedom of Expression and Media Development: Global Report 2017/2018 pubblicato dall’organizzazione delle Nazioni Unite, la maggior parte degli uccisi nel 2016 (94%) erano giornalisti locali che pubblicavano notizie riguardanti il loro territorio. Metà degli assassinii (50%) è avvenuta in paesi dove non vi era conflitto armato. Nel 2015 tale percentuale era del 47%. Negli ultimi dieci anni è raddoppiata anche la percentuale di donne giornaliste uccise, che dal 5% del 2006 al 10% nel 2016. Le donne continuano ad essere destinatarie di attacchi specifici, tra i quali anche le molestie online. Su aggressioni e impunità, l’Italia non fa eccezione. Nel nostro paese solo l’1 per cento dei giornalisti minacciati ottiene giustizia. “L’impunità per chi ostacola il lavoro di un giornalista è quasi assoluta. Il 99% di chi prova a impedire - con minacce fisiche o avvertimenti o, ancora, con l’uso scellerato del ricorso alle vie legali - agli operatori dell’informazione di svolgere il proprio lavoro resta impunito” denuncia la Onlus Ossigeno per l’Informazione. Nei primi nove mesi del 2017, sono stati minacciati 256 giornalisti: quasi uno al giorno. Un numero comunque inferiore alla vera entità del problema: “Secondo le stime di Ossigeno, esposte nel Rapporto 2011, dietro ogni intimidazione documentata dall’Osservatorio almeno altre dieci restano ignote perché le vittime non hanno la forza di renderle pubbliche”. “In Italia sono troppi i giornalisti costretti a vivere sotto scorta, e un’altra legislatura rischia di concludersi senza che siano state varate norme atte a scoraggiare le querele e le cause civili contro la libera informazione” ha scritto la presidente della Camera Laura Boldrini in un comunicato letto il 23 ottobre 2017 in occasione del convegno al Senato “Giornalisti minacciati, colpevoli impuniti”. “Alle istituzioni spetta il compito di tutelare più efficacemente il prezioso lavoro di denuncia del giornalismo di inchiesta. Vale a livello europeo e internazionale, ma vale anche a livello nazionale”. In occasione della Giornata delle Nazioni Unite per porre fine all’impunità per i crimini contro gli operatori dei media, la Federazione internazionale dei giornalisti (Ifj) lancia la campagna #EndImpunity. Quest’anno durerà tre settimane giorni, dal 2 al 23 novembre. “La campagna 2017 si svolge in concomitanza con l’ottava commemorazione del massacro di Maguindanao, nelle Filippine, costato la vita a trentadue giornalisti” spiega la Ifj “chiediamo il rafforzamento del quadro giuridico internazionale e dei meccanismi nazionali di protezione per garantire una maggiore sicurezza agli operatori dei media”. La campagna dell’Ifj si concentra sui sette Paesi in cui è più alto il numero di violenze contro i giornalisti: Messico, Pakistan, Afghanistan, Iraq, Yemen, Somalia e Ucraina. Migliaia di migranti in arrivo, decine di morti di Adriana Pollice Il Manifesto, 5 novembre 2017 Il numero crescente di sbarchi e tragedie smentisce il ministero degli interni. E la guerra alle Ong impedisce soccorsi rapidi ed efficaci. Partono da Tunisia e Algeria ma anche dalla Libia, Stato fallito con cui Roma ha stretto accordi. Con il saluto d’onore degli ufficiali di bordo, ieri mattina sono sbarcate sul molo del porto di Reggio Calabria le salme di 5 donne e 3 uomini, tutti annegati. Erano sulla nave Diciotti della Guardia costiera e facevano parte del gruppo di migranti recuperati venerdì, in diverse operazioni, al largo delle coste libiche. Ce l’hanno fatta a salvarsi in 765, tra i quali 112 minori (63 non accompagnati). Dal gruppo erano già stati prelevati con l’elicottero 14 ustionati gravi per contatto con il carburante dello scafo su cui erano stipati, tre talassemici e una bambina con dolori al petto. Dopo le operazioni di rito, partiranno per i centri di accoglienza di undici regioni. Arrivano da 27 stati differenti, sparsi tra Asia e Africa, dal Pakistan al Nepal, dalla Somalia al Libano. Venerdì la nave militare spagnola Cantabria aveva incrociato al largo della Libia un gommone affondato con 64 sopravvissuti e 23 annegati. Ieri il papa, in un discorso alle università cattoliche, si è augurato per il futuro una classe dirigente aperta ad accogliere: “Vorrei invitare gli atenei a educare i propri studenti, alcuni dei quali saranno leader politici, imprenditori e artefici di cultura, a una lettura attenta del fenomeno migratorio in una prospettiva di giustizia, di corresponsabilità globale e di comunione nella diversità culturale”. Sono stati 2mila i migranti soccorsi nel Mediterraneo tra lunedì e venerdì. Il ministro degli interni Marco Minniti, lo scorso week end alla conferenza programmatica del Pd, aveva vantato i risultati della sua politica in tema di blocco degli sbarchi: “Gli arrivi in Italia sono diminuiti del 30% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso e ci sono stati 8.500 rimpatri volontari assistiti”. Gli accordi con la Libia (incluse le milizie attive sul territorio) prevedono il blocco delle partenze e il contenimento dei flussi nei centri di detenzione locali (in condizioni terribili), in cambio di mezzi navali, addestramento, sostegno economico. Evidentemente il meccanismo si è rotto. Questa settimana, infatti, la marina libica ha recuperato in diverse operazioni 900 migranti, tra questi anche sette cadaveri, al largo delle proprie coste ma le motovedette, invece di riportarli a terra, li hanno imbarcati su mezzi militari europei verso l’Italia. La politica messa in campo da Minniti con le Ong non ha certo migliorato le cose. Il numero di soccorritori è drasticamente diminuito rendendo le operazioni più insicure. Mercoledì la nave Aquarius di Sos Méditerranée ha dovuto sostenere quattro interventi in 18 ore, 588 naufraghi salvati: “Abbiamo soccorso un gommone con 108 persone a bordo e ci siamo preparati a soccorrere un secondo gommone. Prima che la nostra lancia arrivasse sulla scena, l’imbarcazione si è rotta e le persone hanno cominciato a saltare in acqua. Erano in molti in acqua. Abbiamo lanciato i mezzi di galleggiamento e stabilizzato la situazione. Anche se abbiamo fatto tutto quello che potevamo, non potremo mai essere sicuri che tutti siano stati salvati”, ha spiegato Madeleine Habib, coordinatrice delle operazioni Search and Rescue dell’Aquarius. Impossibile sigillare le frontiere italiane anche sui fianchi est e ovest. Venerdì nel crotonese è riuscito ad approdare un barcone con 48 migranti. A condurli sulle coste calabre, dietro il pagamento di 6mila dollari a testa, uno scafista russo, Timur Shirchenko, arrestato dalla polizia italiana. Ieri una motovedetta della guardia costiera siciliana ha intercettato una piccola barca con 23 persone a bordo: erano tutti algerini ed erano diretti in Sardegna. Tratti in salvo, sono stati trasportati nel porto di Calasetta, nel Sulcis. Ancora nel Sulcis, il giorno precedente, erano arrivati 38 algerini. Si tratta delle cosiddette barche fantasma, natanti di ridotte dimensioni che da Algeria e Tunisia arrivano indisturbati sulle spiagge di Sicilia e Sardegna portando piccoli gruppi. La marina tunisina ieri ha bloccato 12 connazionali su uno scafo in avaria al largo di Sfax. Ieri sono sbarcati nel porto di Taranto 324 migranti dalla fregata tedesca Mecklenburg. Stamattina a Salerno ne sono attesi 400, accanto ai superstiti ci saranno anche i cadaveri: 26 salme, tutte donne. Domani arriverà a Crotone la nave dell’Ong Proactiva Open Arms con 378 scampati al mare. Il tema migrazioni entra nella campagna elettorale per le regionali siciliane con Forza Italia, in vantaggio nei sondaggi, che attacca il Pd: “Il tappo libico è saltato - dice il parlamentare Gregorio Fontana, ci sono di nuovo i morti, gli sbarchi sono ripresi. Solo che vengono dirottati verso le coste pugliesi e calabresi per evitare che l’ennesimo fallimento dell’esecutivo vada a interferire con le elezioni siciliane. Il bluff governativo è venuto alla luce”. Migranti. In mille pezzi il “Codice Minniti” di Alessandro Dal Lago Il Manifesto, 5 novembre 2017 Morti a mare. Minniti aveva dichiarato che con il codice di comportamento imposto alle navi di soccorso e gli accordi con i libici, “si cominciava a vedere la luce in fondo al tunnel”. Quale luce e quale tunnel? La soluzione escogitata da Minniti l’Africano era semplice: scopare la questione dei migranti sotto il tappeto libico. Un naufragio in ottobre, quando le condizioni dl mare sono già pessime, 23 i morti recuperati. Probabilmente, molti di più i cadaveri scomparsi nelle vastità marine. 600 salvataggi in un solo giorno. Altri morti e centinaia di salvataggi sempre nel Canale di Sicilia negli ultimi tre giorni. Le cronache riportano questi dati con una certa impassibilità, come se si trattasse di normali conteggi amministrativi o di statistiche demografiche. Ma c’è qualcosa che non torna. Anzi, molto. Basta riandare allo scorso ferragosto alle parole del ministro degli interni Minniti, al culmine di una campagna condotta contro le Ong e alimentata da media e procure. Minniti aveva dichiarato che con il codice di comportamento imposto alle navi di soccorso e gli accordi con i libici, “si cominciava a vedere la luce in fondo al tunnel”. Quale luce e quale tunnel? La soluzione escogitata da Minniti l’Africano era semplice: scopare la questione dei migranti sotto il tappeto libico affinché le impaurite popolazioni italiche, soprattutto al nord, non avessero più preoccupazioni e anche - honni soit qui mal y pense (“guai a chi pensa male”) - per sottrarre voti a leghisti, berlusconiani e grillini, che sulla paura dei migranti stanno costruendo la loro fortuna elettorale. E come sistemare la faccenda? Finanziando il governicchio di al Serraj a Tripoli, che controlla poco più di un fazzoletto di terra in riva al mare, e i signori della guerra anti-Isis. Noi vi diamo soldi e armi e vendiamo sottocosto un po’ di vedette. Voi in cambio, ci fermate i migranti, cioè li internate nei vostri campi. E i migranti che, inevitabilmente, continueranno ad arrivare? Qui Minniti, coerentemente con la discrezione appresa occupandosi di servizi segreti, tace, gira la testa, glissa. Esattamente come hanno fatto tutti i suoi predecessori, primi ministri e dell’interno, da Amato in poi. Anche i sassi sanno che rispedendo i migranti in Libia se ne condanna una buona percentuale a morte, e gli altri alle torture, agli stupri e all’inedia. La Libia non è un paese “safe”, come esigono le ipocrite normative internazionali, ma un guazzabuglio di bande in cui tutti combattono contro tutti e l’Isis, sconfitto in Iraq e Siria, fa affluire i suoi uomini. E gli scontri armati tra le centinaia di milizie libiche, dati per “finiti” in realtà sono ripresi proprio in questi giorni. Gli interlocutori del “patto” di Minniti si combattono fra loro. Le denunce di Msf, Amnesty International ecc. sono incessanti. Persino l’Onu, solitamente cauta in materia, ha ammonito che con le limitazioni imposte alle navi delle Ong e gli accordi con la Libia i morti sarebbero aumentati, nel deserto e in mare. Silenzio delle istituzioni. L’evidente motto di Minniti, occhio non vede e cuore non sente, ha funzionato per un paio di mesi, con qualche protesta delle Ong e sparse sparatorie in mare dei libici, che hanno invaso le acque internazionali per proteggere i propri interessi nell’affare. Finché, in questi giorni, gommoni e barconi hanno ricominciato a fare la spola e i migranti annegano. Bisogna essere ciechi per non vedere che dai paesi sub-sahariani, con redditi annuali inferiori a quanto una media famiglia italiana spende in un mese in beni di prima necessità, centinaia di migliaia di migranti si metteranno in marcia verso il Marocco, la Libia, la Tunisia, l’Algeria, l’Egitto. Se vengono fermati a una frontiera, cercano di passare da un’altra parte, come farebbe ognuno di noi nei loro panni. Bisogna essere ipocriti fino all’oscenità per continuare a blaterare di un piano Marshall per l’Africa che nessuno metterà mai in cantiere. E bisogna essere trasparenti come funzionari dei servizi segreti per tacere che in Ciad, sud della Libia e Niger, per non parlare dell’Africa centro-occidentale, si combattono guerre con partecipazione occidentale (contro l’Isis, certo, ma soprattutto per il controllo delle materie prime e dell’influenza geopolitica). Così, chi si mette in marcia per non morire di fame o in qualche bombardamento, finirà, se sopravvive, in qualche campo libico o tenterà, come sempre, la sorte in un gommone. La luce infondo al tunnel vero, ministro Minniti? Così il mercato della droga ora è gestito dai colletti bianchi di Maria Elena Vincenzi L’Espresso, 5 novembre 2017 Il traffico di stupefacenti è sempre più gestito da broker in cravatta che lavorano per diversi clan nel mondo. E si limitano a gestire i diversi commerci e mettere in contatto le persone senza toccare neppure il “prodotto”. Il narcotraffico passa per le mani dei “broker”. Gli investigatori li chiamano così. Intermediari che riescono a fare incontrare domanda e offerta. Non c’è indagine in cui non si trovi almeno uno di loro. Personaggi chiave del mercato della cocaina che stanno cambiando il mondo del traffico di droga. Un tempo “uomini di clan”, oggi somigliano più a liberi professionisti che si muovono sul mercato e mettono a disposizione la loro rete di contatti e rapporti, il loro “know-how” manageriale. I colletti bianchi della polvere bianca. Indagini e processi raccontano sempre più spesso le storie di questi broker che lavorano per le mafie: Cosa nostra, camorra, criminalità organizzata pugliese e soprattutto ‘ndrangheta (ormai da quasi vent’anni sono i calabresi ad avere il monopolio nel nostro Paese del narcotraffico con particolare attenzione alle piazze di Roma e Milano). Personaggi che spesso vivono in Sudamerica dove acquistano personalmente la coca. Uomini che, nascosti da qualche attività di copertura nel terziario, hanno trascorso anni nei paesi latini, coordinando tutto. Trattando con i cartelli, gestendo i traffici per la loro organizzazione di riferimento ma, spesso, anche per altre: i clan che vogliono entrare nel business, chiedono aiuto ai “colleghi” e quell’aiuto sono i servizi dei broker. Che ovviamente, acquistando quantitativi maggiori, possono trattare sul prezzo. La cronaca racconta anche storie di intermediari che hanno come “clienti” clan antagonisti, uniti solo dagli interessi nel mercato degli stupefacenti. Tregue armate in nome del bene principale: il denaro. Perché anche per la droga valgono le regole del commercio: più acquisti e meno paghi. E allora tanto valeva unirsi e servirsi degli stessi broker. “Sono figure professionali non surrogabili perché non ce ne sono tantissimi, mentre di soldi ce ne sono in abbondanza. Per la criminalità organizzata di stampo mafioso perdere un carico non è un problema insormontabile: il denaro per poter fare un’altra importazione c’è sempre. Perdere l’intermediario, invece, mette in crisi l’intera filiera perché si perdono conoscenze che non sono replicabili, almeno non immediatamente”, spiega il procuratore aggiunto di Roma Michele Prestipino. Gran parte dei broker sono celebri nell’ambiente del narcotraffico. Personaggi spesso inseriti nelle liste dei latitanti più pericolosi, esattamente come i mafiosi che li finanziano. Il broker italiano più celebre è Roberto Pannunzi, detto Bebè. Nato a Roma ma presto entrato in affari con la ‘ndrangheta, Pannunzi era capace di trattare con i cartelli colombiani, in particolare quello di Medellin, da pari a pari. Furono proprio le autorità di Bogotà a definirlo “il Pablo Escobar italiano”. E visti gli affari che per anni ha fatto con le mafie, soprattutto con la ‘ndrangheta, alla fine è stato considerato affiliato ai clan, uno di loro. Pannunzi aveva fatto così tanti soldi in Colombia da comprarsi una nave per poter gestire meglio il trasporto. È stato arrestato dai carabinieri del Ros e dai finanzieri del Gico a settembre 2013 a Bogotà. Stessa sorte, pochi mesi prima, era toccata a Massimiliano Avesani, altro storico broker, noto con il nome di “Principe”, bloccato dalla squadra mobile di Roma a luglio 2013. A completare la triade dei grandi broker, Marco Torello Rollero, in arte “Lupo”, arrestato dal Gico di Roma ad agosto 2016: si nascondeva in Marocco. Da lì continuava a gestire il traffico, a studiare nuove rotte, a organizzare i carichi. Tre grandi (e non i soli), il cui arresto ha di fatto creato un vuoto che ora sarà probabilmente colmato. Possibile che, nei paesi produttori della cocaina, ci sia già qualche “delfino” all’opera che ancora sfugge alle forze dell’ordine. Sta di fatto che l’arresto degli intermediari storici ha modificato il mercato. E creato figure emergenti. Personaggi che si stanno dando da fare per prendere quel posto. I tempi sono cambiati. E i trafficanti si attrezzano: cambiano le rotte e le vie di ingresso, i controlli serrati sui loro scali di elezione, uno su tutti il porto di Gioia Tauro, li hanno costretti a costanti modifiche delle loro strategie. Cambiano i protagonisti (la globalizzazione ha immesso sul mercato anche tante organizzazioni criminali straniere che, però, lavorano sulla piazza italiana senza bisogno dell’intercessione delle nostre mafie) e le modalità. I carichi non sempre sono enormi: alcuni broker preferiscono quantità più piccole ma viaggi molto più frequenti. E cambiano anche le alleanze e gli equilibri su scala internazionale. Non è un caso che ad aprile la polizia abbia intercettato a Firenze un narcotrafficante messicano ricercato che aveva trovato rifugio nel nostro Paese, in Calabria, dove a proteggerlo nella sua fuga era la ‘ndrangheta. Lo hanno preso mentre era in gita in Toscana con alcuni amici. Il fatto che un narcotrafficante ricercato dagli americani decida di rifugiarsi in Calabria dà la misura della forza delle ‘ndrine. Tomas Jesus Yarrington Ruvalcaba, 60 anni, era latitante dal 2012, condannato a due ergastoli e ricercato in campo internazionale dagli Usa per associazione per delinquere, traffico internazionale di stupefacenti, riciclaggio, frode bancaria, evasione fiscale e false attestazioni in atti destinati alla pubblica autorità. Un colletto bianco che gestiva il narcotraffico. Esponente del Partito rivoluzionario istituzionale in Messico e dal 1999 al 2005 governatore dello Stato del Tamaulipas, per mesi ha vissuto in una villetta a Paola, nel cosentino. A partire dal 1998, avrebbe percepito cospicue tangenti dai narcotrafficanti messicani, riconducibili prevalentemente al noto “Cartello del Golfo”, agevolandoli, in cambio, nell’esportazione di ingenti quantitativi di cocaina e marijuana negli Stati Uniti d’America. Un professionista della droga. Come lo sono i broker, “agenti di commercio” che hanno come clienti le mafie interessate a investire nella droga. Esperti del traffico di stupefacenti che spesso la coca non l’hanno mai toccata (tra le maestranze hanno anche chi fa il “lavoro sporco” al posto loro), ma che hanno i contatti giusti per gestire la filiera. E che spesso, rispetto ai loro celebri e potentissimi predecessori, offrono anche servizi diversi. C’è chi si limita a fornire la coca, chi fa anche le spedizioni e chi, invece, si occupa dell’intero servizio. Lasciando che le mafie ci mettano solo il denaro per poi aspettare i profitti. I broker vengono pagati in “punti”, così li chiamano gli inquirenti, cioè in percentuale sul prezzo della droga. Anche se le ultime indagini svelano che, sempre più spesso, le retribuzioni vengono fatte in quantità di stupefacente che poi loro piazzano sul mercato. L’ultima operazione antidroga, coordinata dalla direzione distrettuale antimafia di Roma, ha messo in luce questo nuovo aspetto della professionalità dei broker. “Quando si parla di questi fenomeni non si possono mai fare valutazioni definitive. Certo è che, dalle nostre ultime operazioni, emerge un dato nuovo rispetto alla figura dei broker, quella di un professionista esterno che vende servizi”, spiega Prestipino. Il lavoro di guardia di Finanza e Polizia, con sequestro complessivo da 1.000 chili di cocaina, ha permesso di svelare il ruolo che aveva messo a disposizione del clan Alvaro di Sinopoli, in provincia di Reggio Calabria, tutto il suo know-how. Ovvero una rete di conoscenze che gli permetteva di acquistare la droga in Sudamerica, farla passare da Santo Domingo dove poteva contare su un alto ufficiale di polizia corrotto, e farla arrivare in Italia, che fosse per nave (“la lenta”) o per aereo (“la veloce”). Il tutto grazie a una serie di operatori corrotti anche in porti e aeroporti. Gli investigatori hanno fermato anche Michele Andolfo, detto il Gufo, in gioventù vicino ai Nar di Valerio Fioravanti e di Massimo Carminati. Ideali e amicizie abbandonate per farsi assumere a Malpensa come aeroportuale e abbracciare la ben più redditizia causa del narcotraffico. A coordinare tutto questo sistema che partiva dal Sudamerica e arrivava nella capitale, per gli inquirenti, è Mauro De Bernardis. Un professionista, un “outsourcer” che forniva un servizio a chi glielo pagava. Nessuna affiliazione, nessun rapporto fiduciario. Solo business. Cambia il mercato della coca, insomma. E “Roma non è una piazza qualunque, ma un privilegiato luogo di incontro in cui le mafie e la criminalità locale, anche straniera, trovano momenti di sintesi e reciproca soddisfazione. Le indagini sui broker, forse più complicate perché impongono la comprensione di diversi ambiti criminali, probabilmente più delle altre contribuiscono a contrastare le organizzazioni criminali, recidendo il vero punto nodale, l’anello in cui domanda e offerta di stupefacente si incontrano”, chiarisce il colonnello Gerardo Mastrodomenico, comandante del Gico della guardia di Finanza di Roma. I broker, anelli di congiunzione tra domanda e offerta. Centri nevralgici di un mercato che vale quanto una manovra finanziaria. I profili social “fake” sono un reato. Ecco come possono difendersi i legittimi proprietari di Marisa Marraffino Il Sole 24 Ore, 5 novembre 2017 L’ultimo in ordine di tempo è il caso di Fabrizio Frizzi, che ha denunciato la presenza di un profilo fake su Instagram, ma sono tante le vittime di questo reato, che ha ancora una grossa cifra oscura. Tecnicamente si chiama sostituzione di persona, è punito dall’art. 494 del codice penale con la reclusione fino ad un anno ed è procedibile d’ufficio. Il bene giuridico protetto dalla norma è la fede pubblica, ovvero - nel caso dei fake - la fiducia che gli utenti ripongono nelle identità altrui. Per questo motivo non occorre la querela della parte offesa, ma il procedimento può essere attivato anche da terze persone. Le finalità dell’autore - Entrando nel dettaglio, si tratta di un reato a dolo specifico. L’autore deve avere come obiettivo quello di recare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio, a prescindere dal fatto che questo venga poi concretamente raggiunto. A differenza del profitto, il vantaggio può essere anche soltanto morale. Per la Cassazione, a integrare il reato basta anche la finalità di soddisfare la propria vanità. Ottenere “like” o messaggi da ammiratori fingendosi un personaggio famoso integra pienamente l’elemento soggettivo previsto dalla norma (Così Corte di Cassazione, sentenza del 23 aprile 2014 n. 25774; tra le corti di merito si segnala il Tribunale di Trento, sentenza n. 369 del 29 aprile 2014). Si tratta di una interpretazione moderna che fa sì che il reato sia configurato praticamente tutte le volte in cui un utente crei un profilo fake. Nella prassi c’è una grossa cifra oscura di questo reato. Non tutti denunciano i fatti e soprattutto ci sono molti modi per rendere difficile, se non impossibile, l’identificazione degli autori. Si possono usare connessioni proxy, Tor, VPN (Virtual Private Network), IP dinamici o semplicemente scaricare software gratuiti che consentono di navigare con indirizzi IP stranieri. Spesso, poi, sono le stesse piattaforme a negare la collaborazione all’autorità procedente perché ad esempio nel paese in cui si trovano i propri server quel fatto non è previsto come reato. Ed è proprio Instagram uno dei social network che - sulla base dell’esperienza investigativa - risponde con meno frequenza alle richieste delle autorità italiane. La legge glielo consente, gli utenti ne approfittano. Cosa fare per avere giustizia - C’è però un ulteriore strumento azionabile dall’utente, che a volte può rivelarsi efficace: il ricorso al Garante per la protezione dei dati personali. Per attivarlo occorre conoscere alcune “regole” procedimentali fondamentali. Innanzitutto l’utente può inoltrare tramite raccomandata a/r una richiesta di accesso ai propri dati personali direttamente alla sede europea del social network - ad esempio per Facebook andrà spedita a Facebook Ireland Ltd e non all’indirizzo milanese. Nella richiesta l’utente dovrà chiedere copia di tutti i dati che lo riguardano, informazioni, fotografie, profili aperti a suo nome e di conseguenza la cancellazione e il blocco del falso account e dei dati illecitamente inseriti. Si tratta di un diritto dettato dall’art. 7 del D.lgs 196/2003 e rafforzato dal nuovo Regolamento UE 679/2016, direttamente applicabile dal prossimo 25 maggio. Se il social network non risponde o non cancella i dati, non bisogna scoraggiarsi perché sarà possibile presentare un ricorso al Garante per la protezione dei dati personali, il quale potrà ordinare al SN di non effettuare alcun ulteriore trattamento dei dati riferiti all’interessato e inseriti dal fake. Di solito il Garante per consentire l’acquisizione dei dati all’autorità giudiziaria che sta effettuando le indagini ordinerà al social network di conservare i dati soltanto al fine di collaborare alle indagini e per la durata strettamente necessaria. (Così, ad esempio, provvedimento Garante per la protezione dei dati personali dell’11 febbraio 2016 n. 56) Il Tpi: “Gli Usa in Afghanistan colpevoli di crimini di guerra” di Emanuele Giordana Il Manifesto, 5 novembre 2017 La Corte penale internazionale accusa la Cia: “Tortura, trattamento crudele, stupro”. Sotto tiro anche le responsabilità degli 007 di Kabul e per i talebani solo l’ala Haqqani. “La situazione nella Repubblica Islamica d’Afghanistan è stata assegnata a una Camera preliminare della Corte Penale Internazionale (Icc) dopo la mia decisione di chiedere l’autorizzazione ad avviare un’inchiesta sui reati che si suppone siano stati commessi in relazione al conflitto armato”. La dichiarazione della procuratrice capo del Tribunale penale internazionale Fatou Bensouda rimbalza nelle agenzie di stampa nella notte di venerdì, giorno della partenza di Trump per il suo viaggio in Asia, il più lungo - recita la velina della Casa Bianca - che un presidente americano abbia fatto nell’ultima quarto di secolo. Ma Trump non andrà in Afghanistan e del resto la tegola era attesa da circa un anno: da quando, a metà novembre 2016, la giurista del Gambia a capo della Corte dal 2012, aveva annunciato nel suo Rapporto preliminare di attività che il dito era puntato anche contro gli Stati Uniti per i quali c’erano “ragionevoli basi” per procedere contro soldati e agenti americani che in Afghanistan avrebbero commesso “torture” e altri “crimini di guerra”. Con loro, sotto la lente, polizia e 007 afghani e parte dei talebani. Ma adesso il passo è diventato formale e dunque esecutivo, con una richiesta di autorizzazione a procedere per le accuse di crimini di guerra in Afghanistan dopo l’invasione guidata dagli Usa 17 anni fa. L’indagine, col mandato alla procura di sentire testimoni, interrogare vittime, avere accesso a informazioni riservate (almeno in teoria anche perché né gli Usa né i talebani riconoscono l’autorità dell’Icc), riguarda le attività della Rete Haqqani (la componente più radicale del movimento talebano); la polizia e l’agenzia di intelligence di Kabul (Nds); militari e agenti americane. Il testo del rapporto preliminare diceva che l’indagine per crimini di guerra riguarda “tortura e relativi maltrattamenti da parte delle forze militari degli Stati Uniti schierate in Afghanistan e in centri di detenzione segreti gestiti dalla Cia, principalmente nel periodo 2003-2004, anche se presumibilmente sarebbero continuati, in alcuni casi, sino al 2014”, in sostanza fino al passaggio di consegne agli afghani dei prigionieri detenuti nella base Usa di Bagram. Se per i talebani (nella dichiarazione non si si specifica se l’indagine riguarderà altre ali del movimento diretto da mullah Akhundzada) le accuse di crimini di guerra non sono una novità, per Washington e Kabul la questione è seria, al netto della possibile collaborazione tra le due intelligence. Bensouda sostiene che durante gli interrogatori segreti, personale militare e agenti della Cia avrebbero fatto ricorso a tecniche ascrivibili a crimini di guerra: “Tortura, trattamento crudele, mortificazione della dignità personale, stupro”. Nello specifico si citavano i casi di 61 soldati che avrebbero praticato la tortura e altre violenze tra il maggio 2003 e il 31 dicembre 2004 e di membri della Cia che avrebbero sottoposto almeno 27 detenuti a torture, trattamenti crudeli, umiliazioni della dignità e/o violenza carnale, sia in Afghanistan sia in altri Paesi come Polonia, Romania e Lituania. Probabilmente, nell’anno intercorso tra il rapporto preliminare e la richiesta formale di indagine, la procura deve averne esaminati assai di più e comunque già un anno fa si chiariva che i crimini presunti “non sono stati abusi di pochi individui isolati (ma)… commessi nell’ambito di tecniche d’interrogatorio approvate, nel tentativo di estrarre informazioni dai detenuti… (con) una base ragionevole per credere che questi presunti crimini siano stati commessi a sostegno di una politica o di politiche volte a ottenere informazioni attraverso l’uso di tecniche di interrogatorio che coinvolgono metodi crudeli”. Quanto a polizia e intelligence afghani, la tortura sarebbe un fatto sistematico: tra il 35 e il 50% dei detenuti vi sarebbero stati sottoposti. Adesso la Procura deve convincere i giudici della Camera preliminare della fondatezza delle accuse. Poi toccherà ai magistrati dare l’ultimo via libera che, considerata l’ampiezza delle prove raccolte in un arco di tempo sufficiente a non correre rischi, pare scontata. Una volta terminato l’iter, toccherà allora alla procuratrice formulare le accuse e chiamare alla sbarra i responsabili. Sarà quello il momento più difficile ma sembra ormai solo questione di tempo. La storia dei cristiani in Siria e Iraq appare alla vigilia della fine di Andrea Riccardi Corriere della Sera, 5 novembre 2017 Ora comincerà la ricostruzione, ma nelle regioni sconvolte dal “califfato” un mondo di convivenza religiosa è stato distrutto e i traumi pesano. Raqqa e Mosul, occupate da Daesh nel 2014, sono state liberate. Le distruzioni sono immani. A Mosul, è stata atterrata la storica tomba di Giona, venerata da musulmani, ebrei e cristiani. Queste sono terre di convivenza tra religioni. Le tante vicende dolorose non hanno finora cancellato il carattere misto della regione (divisa cent’anni fa tra Siria e Iraq l’accordo Sykes-Picot). Talvolta le minoranze si sono rifugiate sulle montagne, come i cristiani assiri, resto dell’antica Chiesa d’Oriente giunta fino alla Cina nel primo millennio. Gli yazidi vivevano sulla montagna del Sinjar, dove li ha colti la brutale offensiva islamista: stragi, conversioni forzate all’islam, donne vendute al mercato. Nel 1915, durante i massacri degli armeni, gli yazidi del Sinjar li accolsero sulla montagna, difendendoli dai turchi. I primi ad andarsene dalla regione furono gli ebrei (120.000 in Iraq), ma ovunque radicati da ben più di due millenni. Fatti segno di attacchi antisemiti dagli anni Quaranta, hanno lasciato in massa queste terre con la nascita dello Stato d’Israele. Ora comincerà la ricostruzione in Siria e in Iraq. Non c’è solo la questione curda. Un mondo di convivenza è stato distrutto. I traumi pesano. I cristiani della piana di Ninive, regione irachena dov’erano tanti, lasciarono in 120.000 le case nella notte tra il 6 e il 7 agosto 2014. I pochi rimasti videro le loro case segnate dalle milizie islamiste con la “N” in arabo, per indicare “nazareni”, i cristiani. Manca la fiducia dei cristiani verso i musulmani, vicini con cui vivevano in un clima di tolleranza. Si ripropone la questione di un secolo fa: ci si può fidare dei musulmani? Non hanno alcuni di loro approfittato dei beni cristiani mentre altri hanno scelto l’islamismo? Nel 1918, dopo le stragi degli armeni, i cristiani proposero alla conferenza di Versailles uno Stato cristiano in Mesopotamia. Nessuno la sostenne. Passò invece l’idea di un Libano a leggera prevalenza cristiana. Il Novecento ha visto assiri, caldei (assiri cattolici), siriaci ortodossi e cattolici, greco-ortodossi e greco-cattolici, protestanti vivere abbastanza bene con i musulmani: dai mandati europei ai regimi laici del Baath. Oggi invece i cristiani, se possono, emigrano. Aleppo, in Siria, ha perso più di tre quarti della vasta comunità cristiana durante la guerra. In Kurdistan ci sono 150.000 rifugiati cristiani che esitano a tornare a Mosul e nella piana di Ninive, dopo la fine di Daesh. I curdi, che hanno chiesto perdono per le stragi del 1915, tengono a una presenza cristiana e hanno offerto una residenza al patriarca assiro. Gli assiri sono gli unici cristiani a combattere a fianco dei pesmergha curdi. Diverse sono state le strategie di sopravvivenza dei cristiani nella storia: mai hanno fatto un fronte unico, fatto positivo per il potere musulmano. Oggi è ancora così. I siriaci, cattolici e ortodossi, pensano più alla concentrazione dei cristiani nella piana di Ninive sotto protezione internazionale. Fu un’idea avanzata dagli americani, ma rifiutata dai caldei. Il loro patriarca, Sako, la considera una ghettizzazione. Tuttavia vivere a Bagdad è molto rischioso. I cristiani in Iraq sono calati da 1.300.000 prima dell’intervento Usa a 300.000, concentrati nel Nord. In Siria erano due milioni e si sono dimezzati. Di fronte alla crisi i leader cristiani hanno lanciato molti appelli. Il Vaticano ha assistito i cristiani, ma non c’è stata una visione e forse non era possibile. Recentemente, il premier Orbán ha ricevuto i patriarchi siriaci (cattolico e ortodosso), ha versato loro due milioni di dollari, identificando gli ungheresi con la sorte dei cristiani colpiti dai musulmani (a Budapest c’è un vicesegretario di Stato per la protezione dei cristiani perseguitati). Questi diventano un elemento nella legittimazione della politica nell’Est europeo. Il problema è che le terre sconvolte dal “califfato” non torneranno a essere il mosaico di cristiani, yazidi, mandei e antiche minoranze. Era un resto della storia, ma anche una realtà che spingeva l’islam a riconoscere l’altro e a praticare la tolleranza. La storia dei cristiani d’Oriente, durata due millenni (quasi uno e mezzo con l’islam) sembra alla vigilia della fine. Un cambio decisivo nell’ecologia umana del Medio Oriente. Ma anche una svolta nel cristianesimo, da sempre radicato nella terra delle sue origini. Il segretario di Stato vaticano, Parolin, ha chiesto un “piano Marshall” per ristabilire i cristiani nella regione. Questa crisi impone una maggiore connessione ecumenica e un urgente riunione dei primati cristiani per cercare soluzioni adeguate. Taiwan. Riconosciuto innocente e rilasciato dopo 15 anni nel braccio della morte di Riccardo Noury Corriere della Sera, 5 novembre 2017 Cheng Hsing-tse ha vinto la sua battaglia: giovedì scorso è tornato definitivamente in libertà, riconosciuto innocente dopo aver trascorso quasi 15 anni nel braccio della morte di Taiwan. Nel 2002, l’uomo era stato giudicato colpevole dell’uccisione di un poliziotto durante una sparatoria e condannato a morte. Nel giro di quattro anni, tutti gli appelli a disposizione contro la condanna erano stati respinti. L’anno scorso, inaspettatamente, l’Alta corte aveva disposto il rilascio su cauzione di Cheng Hsing-tse e la revisione del processo, sulla base di nuove prove emerse successivamente alla condanna. Prove che hanno finito per indicare un altro uomo come responsabile dell’uccisione del poliziotto. Annullando la condanna a morte, l’Alta corte ha anche avanzato l’ipotesi che Cheng Hsing-tse fosse stato torturato per costringerlo a dichiararsi colpevole. Taiwan mantiene la pena di morte per omicidio aggravato. L’ultima esecuzione ha avuto luogo nel 2014. Nei braccio della morte del paese si trovano ancora 43 condannati a morte.