Orlando: “Intercettazioni? Nessuna stretta, una riforma attesa da 20 anni” di Giulia Merlo Il Dubbio, 4 novembre 2017 Il ministro difende la nuova legge: “in dibattimento arriveranno solo quelle davvero rilevanti”. “Non ci sarà una stretta sulle intercettazioni ma sulla modalità attraverso la quale vengono selezionate, al dibattimento andranno solo quelle essenziali”, assicura il ministro della Giustizia Andrea Orlando, all’indomani del via libera al decreto legislativo in Consiglio dei Ministri. Il dl intercettazioni - “la prima riforma dopo vent’anni”, come piace ricordare al Guardasigilli - prevede infatti che “gli ascolti che non hanno rilevanza penale dovranno essere custoditi fino alla fine del processo e poi eliminati”, perché “il parametro è perseguire il reato, mentre quelle ininfluenti devono restare fuori”. A Repubblica Tv il ministro si è trovato però a rispondere soprattutto dell’accusa del candidato premier 5 Stelle, Luigi Di Maio, di aver prodotto una legge “berlusconiana”. “Niente affatto, nessun accordo Pd- Forza Italia: lo dimostra il fatto che il partito di Berlusconi ha detto che quello sulle intercettazioni è un provvedimento inutile”. Critiche al testo sono arrivate anche da Nino Di Matteo, ex pm di Palermo e ora alla Procura nazionale antimafia, secondo il quale la riforma “rischia di far perdere importanti elementi di prova e di compromettere anche il diritto alla difesa”, perché “mettere solo i brani essenziali nei provvedimenti della magistrature è una regola inutile, e alla fine potenzialmente pericolosa”. Insomma, secondo il magistrato il tentativo di privilegiare il diritto alla riservatezza rischia di “compromettere valori altrettanto se non più importanti, come il diritto all’informazione, le esigenze investigative e il diritto di difesa”. La paura di Di Matteo è quella di un “depotenziamento” degli strumenti d’indagine e che la polizia giudiziaria diventi “il vero dominus” nella gestione delle trascrizioni. Paura, questa, liquidata dal ministro in modo esplicito: “Non esiste una riduzione della possibilità di fare intercettazioni, la stretta è su quelle da utilizzare, perché d’ora in poi potranno essere usate solo quelle strettamente necessarie. Le altre finiscono in un Archivio su cui è responsabile il capo della Procura”. Del resto la linea di Via Arenula è quella di riequilibrare la tutela dei principi costituzionalmente garantiti: “la Costituzione autorizza l’intercettazione non per fare l’analisi morale degli indagati, ma per accertare i reati”, non si stanca di ripetere il Guardasigilli. Affrontando il tema delle intercettazioni, di rito è stata la domanda sulle inchieste che negli ultimi tempi hanno riempito le cronache, proprio a partire dalla pubblicazione sui giornali degli ascolti: Mafia Capitale e il caso Consip. Il ministro non si è sbilanciato nel contestare l’attività della magistratura, precisando come “molte intercettazioni sono utili, anche se non sono la pistola fumante e non contengono la confessione”, e per farlo cita proprio le conversazioni tra Buzzi e Carminati (“l’intercettazione di Buzzi che dice a Carminati quelle cose serve a dimostrare la sua attività”) e anche quelle tra Matteo Renzi e il padre (“La gran parte delle intercettazioni sono funzionali all’accertamento del reato. Uno che invita l’indagato a dire la verità serve, perché fa capire l’atteggiamento”). Secondo il ministro, invece, “altra cosa sono le conversazioni private, e penso all’inchiesta su Ricucci” (di Stefano Ricucci, uno dei “furbetti del quartierino” finito sotto inchiesta per la scalata di Antonveneta, vennero pubblicati gli sms personali che gli inviava la compagna Anna Falchi). Orlando risponde anche alle critiche di Anm, con il presidente Eugenio Albamonte che dalle pagine del Corsera criticava la stretta sull’uso dei Trojan, i virus spia che “infettano” i dispositivi elettronici: “Si torna sempre più indietro: il pm deve indicare i luoghi in cui intercetterà, ma come si fa a sapere prima dove andrà l’indagato con il cellulare?”. Il ministro ha spiegato le ragioni della riduzione del loro utilizzo ai reati di mafia e terrorismo e la loro stretta disciplina con il fatto che “un criterio andava individuato perché non sono intercettazioni ambientali qualsiasi, ma una sorta di Grande Fratello permanente, un sistema con una potenza tremenda”, ma si dice certo che non ci sia alcun rischio di una loro sostanziale inutilizzabilità. Dal punto di vista dell’iter approvativo del dl, ora che il Cdm lo ha varato manca ancora solo il parere non vincolante delle commissioni parlamentari: poi il Governo potrà concludere l’esercizio della sua delega parlamentare, dando il definitivo placet al testo, che diventerà legge. La disciplina intercettazioni complica la vita alla difesa di Caterina Malavenda Il Sole 24 Ore, 4 novembre 2017 Per valutare portata, limiti e difetti del decreto legislativo intercettazioni bisogna aspettare il testo definitivo. Giovedì il Consiglio dei ministri ha approvato, in prima lettura il Dlgs che ora sarà sottoposto al parere del Parlamento. Se è vero, come la relazione conferma, che lo scopo principale del legislatore era garantire la segretezza delle comunicazioni, non vi è dubbio che lo abbia raggiunto: sia con la creazione dell’archivio riservato del Pubblico ministero sia con l’introduzione di una “procedura bifasica”, che disciplina ex novo il deposito degli atti sulle le intercettazioni e la selezione del materiale raccolto, ma a quale prezzo questi obiettivi siano stati centrati è troppo presto per dirlo. Già ora, però, sembra che quello più alto debbano pagarlo i difensori degli indagati, costretti a districarsi fra numerose difficoltà, e gli estensori di provvedimenti cautelari e in-formative, da redigere col bilancino e modiche quantità di conversazioni. Le norme sulla selezione delle comunicazioni intercettate sembrano pensate per complicare la vita alla difesa: la ricerca della privacy a tutti i costi ha inciso non solo sulla chiarezza ma anche e soprattutto sul principio generale, secondo cui tutti gli atti che l’indagato ha diritto a conoscere non sono più segreti, anche se le indagini sono in corso. E l’indagato conosce gli atti anche quando è il suo avvocato a prenderne visione, facendone copia, se può. Anche se, secondo il decreto, non sempre potrà. Sostenere che alcuni di questi atti rimangono segreti, anche dopo che l’avvocato li ha esaminati, è forzatura non trascurabile. Infatti, tutti i verbali e le registrazioni e ogni atto a esse relativo, conservati nell’archivio riservato, anche se il difensore ne conosce il contenuto, sono segreti, a eccezione di quelli acquisiti al fascicolo delle indagini. Non viene chiarito se esista un obbligo conseguente, per il difensore, di tenere segreti al suo assistito tutti gli atti, che non entreranno a farne parte, anche se è difficile ipotizzare che legga ed ascolti tutto, per selezionare ciò che serve, senza parlarne con il suo assistito. E, se lo fa, quegli atti dovrebbero perdere la loro segretezza, se non fosse per la norma che stabilisce il contrario, senza individuare, però, alcuna condotta penalmente sanzionata. Si è inteso forse introdurre un obbligo al silenzio per il difensore passibile, in caso contrario, di incriminazione per rivelazione di segreti inerenti a un procedimento penale? Nessun dubbio, invece, pare esserci sul reato che commetterebbe il pubblico ufficiale che rendesse noto il contenuto di quell’archivio, violando il suo segreto d’ufficio. Eppure anche qui, qualche dubbio sorge, ove ciò non accadesse parlando con i giornalisti (il vero incubo degli estensori della legge delega) ma redigendo atti processuali. Il decreto vieta la trascrizione, anche sommaria, di comunicazioni irrilevanti per le indagini, in atti di cui, prima o poi, avranno conoscenza le parti e il giudice, per impedire che vengano pubblicate. Inoltre, inibisce la riproduzione di brani non essenziali delle conversazioni intercettate nelle richieste di misure cautelari, nelle relative ordinanze e persino nelle informative, per la stessa ragione. La violazione di tale divieto, conseguente all’errore più o meno colpevole del redattore dell’atto, e la propalazione, dunque, di conversazioni destinate a rimanere segrete in quell’archivio non potranno che comportare responsabilità penali, oltre che disciplinari per l’estensore. Parti processuali diverse, contrapposte per ruolo e funzioni, si trovano accomunate dalle incertezze e dai rischi, che derivano da una legge che appare in più parti superflua. Dettata dall’esigenza di arginare la diffusione, con andamento carsico, di intercettazioni nella più parte dei casi non più segrete, ma soprattutto tutte di evidente interesse pubblico. Di Matteo: “sulle intercettazioni svolta pericolosa per chi indaga e per le difese” di Liana Milella La Repubblica, 4 novembre 2017 Il pm anti-mafia: “Ci sono già le condizioni per punire gli abusi, il provvedimento rischia di far perdere elementi di prova e di favorire solo chi può permettersi i migliori avvocati”. UN imbuto. Molte intercettazioni saranno registrate, ma assai poche, solo quelle “essenziali e necessarie”, finiranno in bottiglia. Cioè nei provvedimenti dei giudici. Tantissime, probabilmente la maggior parte, non saranno neppure trascritte. Niente bottiglia, neppure per loro. Con un’immagine si può sintetizzare così la riforma di Andrea Orlando sulle intercettazioni. Agognata da vent’anni. Ora realizzata. La riforma delle intercettazioni? “Rischia di far perdere importanti elementi di prova e di compromettere anche il diritto alla difesa”. Solo i brani “essenziali” nelle misure dei giudici? “Una regola inutile, e alla fine potenzialmente pericolosa”. Parla Nino Di Matteo, il pm antimafia per anni a Palermo e adesso alla procura nazionale Antimafia. Ha letto il decreto? Che ne pensa? “Sì, ho letto il testo che mi ha suscitato alcune perplessità. Si è detto che la riforma doveva contemperare esigenze di natura diverse. A mio parere, nel tentativo di privilegiare il diritto alla riservatezza, si rischia di compromettere valori in gioco altrettanto, se non più importanti. Mi riferisco non solo al diritto all’informazione, ma ancora più concretamente alle esigenze investigative da una parte, e alla concreta e immediata efficacia del diritto di difesa dall’altra”. Un momento, Gentiloni e Orlando assicurano che non sono stati introdotti limiti alla possibilità di intercettare dei pm. Lei che limiti vede? “Ritengo che la riforma possa comportare un depotenziamento investigativo notevole con la dispersione definitiva di elementi di prova, anche decisivi. È stata vietata la trascrizione, anche sommaria, delle conversazioni che nell’immediatezza dell’ascolto appaiono irrilevanti. È una norma che non tiene in nessun conto un dato di esperienza assolutamente comune per tutti gli operatori del diritto, la rilevanza di una conversazione, sia in senso accusatorio che difensivo, può manifestarsi anche a distanza di molto tempo dalla registrazione “. Per esempio? “Potrei fare decine di esempi noti. Ne faccio uno solo: a Palermo, nel processo per l’omicidio dell’avvocato Fragalà, ucciso a colpi di bastone dai suoi aggressori, gli inquirenti a distanza di molti mesi dal delitto, monitorarono tutte le conversazioni che, in altre indagini e da forze di polizia diverse, erano state registrate il giorno dell’aggressione. Da una di queste, apparentemente del tutto irrilevante in quel momento, venne fuori il riferimento a un soggetto che doveva consegnare a un altro “un coso di legno”. Quella intercettazione venne considerata decisiva per individuare gli autori dell’omicidio”. La materia è tecnica ed è complessa. Il decreto vuole eliminare le registrazioni non rilevanti ai fini della prova. Ma dà la possibilità di recuperarle in seguito. Perché è comunque critico? “Quella intercettazione, con le nuove regole, non sarebbe mai stata trascritta, neppure per estrema sintesi, poiché il decreto vieta anche la trascrizione sommaria, precludendo di fatto l’efficacia di qualsiasi controllo successivo del pm e con il rischio concreto di dispersione definitiva di una prova acquisita legittimamente, ma di fatto scomparsa”. Oggi con i brogliacci della polizia giudiziaria, le trascrizioni sintetiche dei contenuti delle conversazioni, la ricerca è possibile. Domani come si farà a trovare un testo come quello che lei ha descritto? “Diventerebbe concretamente impossibile perché le nuove norme precisano che la polizia giudiziaria debba indicare nel verbale delle operazioni soltanto la data, l’ora e il dispositivo di registrazione, quindi senza nessun minimo accenno ai contenuti della conversazione”. Da tempo la politica chiedeva una stretta sulle intercettazioni per via delle conversazioni finite sui giornali. Gentiloni parla di “abusi”. La riforma impone nei provvedimenti solo conversazioni “necessarie” a fini di prova. “Personalmente trovo sbagliato inserire in un testo di legge un concetto così ovvio che la normale professionalità di ogni magistrato già garantisce. Temo che l’aggettivo “essenziale” finirà col creare disorientamento e diversità di interpretazioni, che potrebbero perfino indurre il giudice, in un’ottica di eccessiva prudenza, a non inserire parti apparentemente non essenziali, ma concretamente utili a comprendere il contesto nel quale determinate espressioni vengono utilizzate”. Ritiene che ci siano stati abusi? Come le telefonate dei politici pubblicate, ma non rilevanti ai fini di prova? “Non so se il premier si riferisse ad abusi dei magistrati o dei giornalisti, ma rimango convinto che, in ogni caso, già le regole in vigore sarebbero sufficienti a individuare e punire entrambe le ipotesi”. Orlando dice che la libertà di stampa è intatta, ma il risultato è che di intercettazioni ce ne saranno di meno. Vantaggio o svantaggio? “Non credo che ci saranno meno intercettazioni, ma temo che lo strumento di indagine venga di fatto depotenziato, che la polizia giudiziaria che ascolta diventi sostanzialmente il vero dominus nello stabilire quali conversazioni debbano essere trascritte e quali “di fatto” nascoste e che venga compresso il sacrosanto diritto di difesa di indagati e imputati. Penso, ad esempio, alla nuova norma che stabilisce che il difensore può solo esaminare e non ottenere copia dei verbali delle conversazioni intercettate. È vero che può chiedere l’audio, ma già immagino la difficoltà di preparare con urgenza un ricorso al tribunale del riesame dovendo ascoltare ore e ore di intercettazione, senza poter usare la copia cartacea della trascrizione”. Un regalo per gli avvocati ricchi... “... E una possibile e ulteriore compressione del diritto di difesa per chi non ha adeguati mezzi economici per difendersi”. I trojan horse, i software spia, si potranno utilizzare con dei paletti. Sono eccessivi? “Giudico molto positivamente l’aver fissato regole per utilizzarli per i reati di mafia e terrorismo. Personalmente avrei esteso in toto quella disciplina anche ai reati di corruzione e a quelli più gravi contro la pubblica amministrazione, senza i distinguo che invece il decreto prevede”. “Personalmente” dice lei. Ma che farebbe se, come raccontano le indiscrezioni, dovesse diventare il candidato di M5S per dirigere il ministero della Giustizia? “Io non rispondo. Fin qui ho parlato da tecnico, preoccupato di possibili conseguenze negative sull’efficacia dello strumento più importante in mano a magistrati e avvocati per scoprire la verità”. Mattarella concede la grazia all’unico condannato in carcere per il terremoto a L’Aquila di Claudio Del Frate Corriere della Sera, 4 novembre 2017 Era il preside del convitto studentesco crollato in seguito al sisma: sotto le macerie morirono tre ragazzi. Era stato condannato a 4 anni: ora stava scontando la pena ai servizi sociali. Era l’unico condannato in via definitiva per il terremoto dell’Aquila a essere finito in carcere; ora stava scontando la condanna tramite l’affidamento ai servizi sociali ma per Livio Bearzi, 60 anni, preside del convitto per studenti crollato il 9 aprile del 2009, è arrivata la grazia del presidente della repubblica Sergio Mattarella. Il dirigente era stato condannato a quattro anni : il crollo del convitto di cui era responsabile aveva provocato la morte dei tre studenti che vi alloggiavano. A Bearzi erano stati contestati la mancata ristrutturazione dell’immobile e la mancanza di un piano di sicurezza Già ai servizi sociali - La grazia gli consentirà a breve di rientrare a scuola poiché è stata cancellata anche la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici. Bearzi aveva già ottenuto dal Tribunale di Sorveglianza di Trieste (l’uomo è di origini friulane) l’affidamento in prova ai servizi sociali. Affidamento in prova che sta tuttora svolgendo con attività di volontariato presso un consorzio che si occupa di accoglienza ai profughi. La misura, confermata nell’aprile 2016 dal Tribunale di Trieste, gli era stata concessa in via provvisoria dal Magistrato di Sorveglianza di Udine il 23 dicembre 2015. All’epoca il provvedimento gli aveva consentito di uscire dal carcere, in cui era rinchiuso dal 10 novembre 2015 in seguito all’ordine di carcerazione emesso dalla Procura generale della Corte d’Appello de L’Aquila. Il boss non può essere diffamato, prevale la dignità della persona di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 4 novembre 2017 Neppure un boss della mafia pluriomicida può essere definito un escremento. La Cassazione, (sentenza 50187) ha accolto il ricorso del Pm contro l’assoluzione del giornalista Gaspare Giacalone che, nell’annunciare sul suo blog la morte di Mariano Agate - capo mandamento di Mazara, condannato all’ergastolo per la strage di Capaci - aveva affermato che la sua morte toglieva dalla Sicilia un gran pezzo di m... Il giornalista, querelato per diffamazione dai figli e dalla vedova del boss era stato assolto da Tribunale di Trapani con la formula perché il fatto non costituisce reato. Per il giudice l’espressione rientrava nel diritto di critica e doveva essere considerata “uno strumento retorico in grado di provocare nel lettore un senso di straniamento che lo interroga sulla validità delle prospettive tradizionali, e ciò allo scopo di sollecitarlo ad una nuova consapevolezza sulla necessità di sradicare ogni ambiguità nella scelta tra contrapposti (seppure artatamente confondibili) sistemi valoriali”. Il Pubblico ministero, supportato dai familiari di Agate, aveva fatto ricorso immediato in Cassazione. E la Suprema corte nega la scriminante del diritto di critica, spostando l’attenzione sulla valenza sociale delle parole al di là delle intenzioni. Sono quindi obiettivamente lesive dell’onore le frasi con le quali si “disumanizza” la vittima assimilandola a cose, animali o concetti comunemente ritenuti ripugnanti, osceni, disgustosi, quali appunto un escremento. Né il fine può giustificare i mezzi. Lo scopo dall’autore di aggredire l’ambiguità del sistema di controvalori mafioso, non rende accettabile la lesione di un valore fondamentale di qualunque persona, anche dell’ autore di delitti efferati. Ed è il rispetto dell’essere umano e dei suoi diritti che fa la differenza tra lo Stato e cosa nostra. I giudici sottolineano la superiorità dell’ordinamento statale, fondato sulla centralità della protezione dell’individuo, rispetto ad organizzazioni criminali “che invece si nutrono del sostanziale disprezzo di chi non risponde alle proprie finalità, quale che sia il modo in cui esse possano autorappresentarsi per cercare di conquistare consenso sociale”. Considerazioni che non possono essere messe in discussione dalla frase, pronunciata da Peppino Impastato, che aveva definito Cosa Nostra “una montagna di escrementi”, per sottolineare la devastante capacità delle associazioni mafiose di intaccare le strutture portanti della società civile. Per i giudici l’argomento elude il problema centrale della riflessione: la frase cambia significato se riferita al singolo associato, perché viola la dignità riconosciuta ad ogni essere umano anche a chi appartiene ad un’associazione sanguinaria e nefasta, o addirittura la capeggia, “perché il fondamento costituzionale del nostro sistema penale postula la rieducabilità anche del peggior criminale”. E non può tollerare “neanche come artifizio retorico la sua reificazione”. Ora per il blogger ci sarà un nuovo processo in Corte d’Appello ma intanto incassa una solidarietà piuttosto trasversale: dal Pd ai 5 stelle, c’è sconcerto per le motivazioni di piazza Cavour. Napoli: a Secondigliano un Centro di ascolto per le famiglie dei detenuti linkabile.it, 4 novembre 2017 Il nuovo Centro di ascolto per le famiglie dei detenuti di Secondigliano diventa realtà. Nata per rispondere a diverse esigenze, la struttura, che sorgerà accanto alla Casa Circondariale napoletana, sarà inaugurata oggi, 4 novembre, alle ore 11.00. Al taglio del nastro saranno presenti, tra gli altri, don Raffaele Grimaldi, Ispettore Generale dei Cappellani, Don Enzo Cozzolino, Direttore della Caritas di Napoli,Gaetano de Donato, Governatore del Distretto Rotary International 2100, a.r. 2016/2017, Francesco Nania, Tesoriere del Distretto Rotary International 2100, a.r. 2016/2017,Samuele Ciambriello, Garante Regione Campania dei detenuti,Orazio Vitiello, Vice presidente dell’Associazione “La Carità genera carità” - Onlus, ed il Cappellano del Carcere di Secondigliano, don Giovanni Russo, alcuni membri della Direzione del Carcere e tutti i volontari della Caritas. Nella nuova struttura, realizzata grazie alla generosità del Rotary e dell’Associazione “La Carità genera carità”, opereranno figure professionali specializzate nell’assistenza alle famiglie di chi vive la dura realtà del carcere. Ulteriore spazio di incontro per la formazione degli stessi assistenti volontari, il nuovo centro di ascolto offrirà assistenza materiale alle famiglie dei detenuti, risponderà alle loro domande, le accompagnerà nei percorsi di mediazione familiare, fungerà da deposito di abbigliamento e di kit per l’igiene personale, o di altro materiale utile ai detenuti. Soprattutto, offrirà sostegno morale alle famiglie in attesa di colloquio con i propri familiari in carcere, fornendo anche informazioni utili. Milano: Procura minorile e Camera penale “all’Ipm Beccaria condizioni allarmanti” comune.milano.it, 4 novembre 2017 “Apprendiamo dalla stampa che nella relazione 2017 della Procura per i minorenni sullo stato della giustizia minorile milanese, si fa espresso riferimento alle condizioni di detenzione presso l’Istituto penale minorile Beccaria e si segnala che l’Istituto “necessita di seri e profondi, oltre che tempestivi interventi di ristrutturazione, in quanto la situazione attuale determina un serio rallentamento nell’opera rieducativa dei detenuti minorenni”. È da diversi mesi che si susseguono le segnalazioni sulle condizioni allarmanti del Beccaria legate a plurimi aspetti, da quelli relativi allo stato di salute dei detenuti, alle condizioni igienico-sanitarie della struttura (addirittura con una vera e propria infestazione di topi), alla mancanza di personale nel suo complesso. Ma quello che più preoccupa è certamente il grave stato di degrado delle strutture dell’Istituto”, si legge in una nota del consiglio direttivo della Camera penale milanese. “La Camera penale di Milano ha già denunciato tale situazione - si prosegue - chiedendo un pronto intervento di tutte le istituzioni interessate e la immediata apertura del nuovo padiglione dell’Istituto, richieste che, visto l’allarme lanciato dall’ufficio della Procura minorile milanese, non possiamo che reiterare, sperando che almeno questa volta trovino adeguato riscontro”. Trento: dal carcere escono zafferano ed erbe di qualità di Daniele Biella Vita, 4 novembre 2017 Sono i prodotti del progetto Galeorto, promosso dalla cooperativa sociale La Sfera in collaborazione con la direzione carceraria. Novemila metri quadrati a orto che stanno conquistando i mercati locali e la filiera dell’equosolidale. Quanti sanno cos’è Galeorto? Potrebbe sembrare il nome azzeccato per un protagonista di un fumetto sul mondo delle galere, ma invece è una splendida realtà di coltivazione all’interno della Casa circondariale Spini di Gardolo (Trento). L’orto, sorto a cavallo tra il 2014 e il 2015 proprio nei mesi seguenti al trasferimento delle struttura carceraria in un moderno edificio - posto nella zona industriale di cui porta il nome, alle porte di Trento - può usufruire di 9mila metri quadrati di terreno dentro le mura carcerarie e ha visto la luce grazie alla collaborazione tra la direzione della Casa circondariale e la cooperativa sociale La Sfera, attiva da anni sul territorio. “Zafferano, erbe medicinali, ma anche cavoli che diventano crauti per il mercato della filiera equosolidale. Sono questi i prodotti principali”, spiega a Vita.it Bruna Penasa, presidente della coop La Sfera, la cui sede è proprio nelle vicinanze del carcere. “È stato la novità della vicinanza dopo il trasferimento il primo elemento da cui è scaturito il progetto: per una realtà sociale come la nostra, essere a meno di 600 metri da una struttura in cui si possono proporre diverse attività per il reinserimento delle persone è un’occasione da non perdere”. Il progetto di agricoltura sociale, a cui oggi collaborano 14 detenuti e che nel tempo ha già dato un primo riscontro nel mondo esterno - “un ex detenuto ha trovato subito lavoro nel settore ortofrutticolo dopo l’esperienza con Galeorto” - non era il primo contatto tra il carcere e la cooperativa: “aderiamo al Consorzio Consolida, che da tempo entra nel carcere con altri enti consorziati per svolgere diverse attività tra cui molte di tipo educativo come teatro, sport, corsi di lingua e formazione di vario tipo”, racconta Penasa. Lo stesso carcere ha aperto le porte al Des, Distretto di economia solidale di Trento, di cui Consolida fa parte. “Tutto questo si può fare perché c’è una direzione carceraria molto attenta”, aggiunge la presidente di La Sfera. Sui 250 detenuti presenti, almeno 150 di loro partecipano a percorsi educativi e 50 svolgono mansioni lavorative. Perché un orto in carcere? “Perché l’importante è proporre più attività possibili per abbattere la recidiva, e il terreno disponibile nel nuovo spazio è stato un vero colpo di fortuna”. Recidiva che senza opportunità educative, di formazione o lavoro inframurario si attesta al 68% a livello nazionale (il fenomeno delle cosiddette “porte girevoli”), mentre con tali opportunità si abbatte al 19%. La coop aveva già attive esperienze di inserimento lavorativo nel settore delle facility, ovvero custodia, facchinaggio, fattorinaggio e cura del verde, ma la produzione orticola è una novità data proprio dal nuovo ambiente. Ma a chi vengono venduti i prodotti dell’orto? “Per ora nei mercati locali, agli aderenti agli enti del Terzo settore locale e nel circuito Altromercato”, spiega Penasa. Lo zafferano, il prodotto di punta, “è entrato nella sua terza annualità e d’ora in avanti ha raggiunto la qualità giusta per stare sul mercato”. Una birra artigianale, Zafferana, è nata ad hoc grazie alla collaborazione tra La Sfera e l’agro-birrificio Argenteum. “Ora la sfida è ‘uscirè dal carcere, per esempio trovando spazi esterni coltivabili a orto su cui permettere di lavorare detenuti in Articolo 21, ovvero in esecuzione penale esterna”, indica la presidente della cooperativa sociale. La strada potrebbe essere in discesa, visti i primi risultati e un diffuso riconoscimento da parte della cittadinanza: “i prodotti piacciono sia come qualità sia perché valorizzano la produzione locale”. L’impressione è che del marchio Galeorto si sentirà parlare sempre più spesso. Trani (Bat): un “Campo dei Miracoli” nel carcere di Paola Russo teleradiopadrepio.it, 4 novembre 2017 Arriva dalla città di Trani ed è una storia che ha il sapore, gli odori e i colori della Puglia. Ma con un valore in più, un ingrediente che, anche se messo in grandi quantità, non guasta mai: la speranza. Nella Casa circondariale di Trani, all’interno del laboratorio della cooperativa sociale “Campo dei Miracoli”, alcuni detenuti preparano e confezionano dei taralli davvero speciali, prodotti con ingredienti di prima qualità. “La cooperativa Campo dei Miracoli è nata a Gravina di Puglia nel 1999. Dal 2003 ha cominciato la sua attività all’interno del carcere di Trani, mentre la produzione di taralli è iniziata nel 2007 - ha spiegato Salvatore Loglisci, presidente della cooperativa - nel laboratorio lavorano quattro detenuti per circa 4 ore al giorno, ad aiutare questi dipendenti c’è un esperto esterno che quotidianamente si reca nell’istituto e soprintende la produzione”. “Sono quasi 3 anni che lavoro in questo laboratorio - ha raccontato Michele - è un’esperienza molto bella. Ringrazio la cooperativa per questa opportunità, ho una bambina piccola da mantenere e quindi un posto di lavoro è importante”. La produzione avviene in due fasi: la realizzazione del tarallo, e quindi la preparazione dell’impasto e la cottura, avvengono al mattino, mentre nel pomeriggio i taralli vengono imbustati, e le singole confezioni sistemate all’interno dei cartoni. “Il lavoro diventa un supporto per la detenzione del detenuto - ha spiegato Angela Anna Bruna Piarulli direttrice casa circondariale di Trani - in quanto gli permette sia di poter trascorrere gran parte della giornata fuori dalla cella, sia di acquisire competenze e abilità da poter utilizzare all’esterno dal carcere”. “Sono persone adulte con delle responsabilità nei confronti del coniuge e dei figli, - ha detto Elisabetta Pellegrini, responsabile dell’area pedagogica del carcere di Trani - e con il dovere di mantenere la propria famiglia. Abituarsi ad avere un lavoro o riabituarsi ai ritmi che scandiscono una comune giornata lavorativa è un fatto importantissimo”. Per i detenuti che lavorano nel carcere di Trani il lavoro è motivo di orgoglio, è riscoprirsi uomini con una dignità e con il coraggio e la voglia di rimettersi in discussione. “Quando sono qui nel laboratorio mi sento più tranquillo, vedo la famiglia più serena - ha raccontato Giuseppe - mi sveglio al mattino più volenteroso. Non ho mai mancato un solo giorno di lavoro. È un grande aiuto non stare in cella 24 ore su 24”. “Ogni lavoro comporta il rispetto delle regole dell’attività lavorativa - ha detto la Pellegrini - così come avviene all’esterno. Abituarsi al rispetto delle regole significa già aver raggiunto il 90% di una reintegrazione socio-lavorativa futura”. Qual è la forza della Cooperativa “Campo dei Miracoli”? “Proprio perché non siamo un tarallificio - ha risposto Salvatore Loglisci - abbiamo fatto una scelta di campo importante: non solo il prodotto deve essere buono, ma deve avere alla base un valore sociale: e dunque essere realizzato da persone che si trovano in uno stato di svantaggio. Questa è la nostra forza”. Napoli: progetto Riselda, detenuto inventa una macchina che traccia i rifiuti di Benedetta della Rovere La Repubblica, 4 novembre 2017 L’uomo ha ideato un cassonetto colorato, elegante e intelligente, che pesa, smista e registra i rifiuti. Fernando Gomes Da Silva è brasiliano, è cresciuto in una favela di San Paolo vicina a una discarica. E anche per questo è sensibile al tema dello spreco del cibo. Dopo il suo arrivo in Italia, la vita lo ha portato su percorsi accidentati ed è finito in carcere, prima a Sollicciano, alle porte di Firenze e adesso a Bollate, istituto modello a Milano. Quando i volontari dell’associazione Fernando proviene da una favela di San Paolo, è cresciuto in una discarica e si può dire che i rifiuti sono sempre stati il suo pensiero costante. Quando i volontari dell’associazione Zone Onlus Francesco Pomicino e Carlotta Carbonai, ingegnere lui, architetto lei, cominciano a parlare con Fernando nasce l’idea di creare un cassonetto ‘intelligentè che pesa, smista e registra i rifiuti. E premia chi si impegna e differenzia meglio. Fernando lo ha chiamato Riselda, come la madre. Basta poco e attorno a lui si è raccolto un team composto oltre che da Francesco e Carlotta anche da Marco De Michele alla direzione tecnica, dal Flavio Farroni, ingegnere e consulente delal Ferrari e Giovanni Tallini, designer, che ridefinisce le linee del prototipo. Insieme sono riusciti a tradurre in realtà il sogno di trasformare la spazzatura in materiale che possa avere una seconda vita. Dopo prove, lavori, esperimenti e una collaborazione con l’università Federico II di Napoli, è nato un cassonetto innovativo. La struttura è elegante e colorata. È pensata per essere posizionata all’aperto, in condomini, scuole, ospedali e alberghi. A chi lo utilizza viene consegnata una smart card, da inserire prima di selezionare il tipo di rifiuto da gettare. Riselda, poi, stampa un’etichetta con un codice a barre che viene messa sui sacchetti e li pesa. I dati vengono subito comunicati alla società che si occupa della raccolta e in tempo reale i cittadini ottengono ‘bonus’ - uno sconto sulla Tari, fondi da destinare a onlus o altri premi - corrispondenti all’impegno profuso. Il rifiuto, nell’idea di Fermando e dei suoi soci, acquista un valore reale e stimola le persone a non inquinare e a partecipare anche alla vita sociale del territorio. Un meccanismo che ha dato i suoi frutti anche all’interno della casa circondariale di Bollate. Fernando egli altri detenuti del gruppo “Keep the Planet Green” hanno introdotto Riselda all’interno del carcere. Il successo è stato immediato. In 18 mesi di lavoro e con il contributo attivo di Amsa e Novamont, che hanno fornito i materiali, il tasso di raccolta differenziata ha raggiunto il 91% (anche se le stime di Amsa sono più prudenti e si attestano intorno all’80%). Un risultato record, se si pensa che a Milano la percentuale si aggira intorno al 54%. Anche in questo caso, per convincere i detenuti a collaborare e a sobbarcarsi un compito che molti cittadini liberi preferiscono tralasciare, si è deciso di utilizzare i premi. Chi esegue correttamente la divisione dei rifiuti, può ottenere una telefonata o un colloquio in più al mese. Nel frattempo, un imprenditore toscano si è fatto avanti per realizzare Riselda in serie e Publiambiente, che gestisce la raccolta dei rifiuti di Pistoia ed Empoli, ha proposto di calibrarlo in versione condominiale e potrebbe sperimentarlo. Mentre sono già arrivati premi e menzioni speciali a concorsi nazionali, di Legambiente, dell’Università di Camerino, e dell’Ordine nazionale degli ingegneri. Dentro la tempesta, il carcere in teatro di Giancarlo Capozzoli huffingtonpost.it, 4 novembre 2017 “Dentro la Tempesta” è il titolo dello spettacolo in scena in un nuovo piccolo teatro del centro storico di Roma. Già questa sarebbe una buona notizia. Un teatro che apre in un momento di crisi economica e culturale. Cinema e teatri stanno chiudendo continuamente a causa di problemi economici. Inoltre la gente non va più così tanto a teatro. La gestione di una sala e l’organizzazione di una messa in scena ha ancora dei costi difficilmente gestibili, è evidente. A questa crisi strutturale va aggiunta anche quella che per me, è la produzione culturale, vera e propria. Ma il discorso si fa più spigoloso e arduo. La domanda da farsi essenzialmente è perché la gente non va a teatro. Spesso s’intende il teatro come qualcosa difficile da comprendere. Sembra usare un linguaggio che in pochi possono comprendere. Il punto è che secondo me il linguaggio del teatro è o potrebbe essere semplice: deve stimolare quel riflettere, quel pensare che altre produzioni artistiche non garantiscono oltremodo. Su questa incomprensione di fondo si base a mio avviso il problema della produzione teatrale e culturale. Uso il termine produzione non a caso, come qualcosa che debba essere venduto. Ma la questione è anche un’altra. Sembra quasi che si producano spettacoli che poi, successivamente, qualche specialista, qualche addetto ai lavori, può e deve poter spiegare ai più, al pubblico appunto, utilizzando un linguaggio altrettanto ostico. Ma è tutta apparenza. Ci si parla addosso. Ho scritto che sembra che si producano spettacoli che poi qualcuno deve poter spiegare al pubblico. Ma il pubblico è l’unico giudice in questione, almeno se vogliamo leggere con attenzione le parole scritte da uno dei più grandi registi contemporanei, Peter Brook. Il merito di questo (piccolo nuovo) Teatro Off/Off è aver tentato l’impresa dunque. L’altro determinante merito della direzione è aver deciso di inaugurare questa prima stagione con lo spettacolo “Dentro la Tempesta, il carcere in teatro”. Uno spettacolo particolare, a partire dal suo interprete principale, Salvatore Striano, detto Sasà. Sasà è uno degli attori detenuti che assieme ad altri “colleghi”, ha vinto l’orso d’oro al Festival del cinema di Berlino, qualche anno fa, con il film dei fratelli Taviani, “Cesare deve morire”, sul Giulio Cesare di Shakespeare. Ha recitato anche in altri film, ricordo una bella interpretazione di un camorrista, nel film di Garrone, Gomorra. Era un camorrista, un delinquente. Era se stesso, praticamente. La parte del cattivo gli era venuta bene, in effetti. Il titolo “Dentro la tempesta”, è un rimando a quello che è diventato negli anni il suo pezzo forte, il suo cavallo di battaglia, la tempesta di Shakespeare appunto. Ma è solo un accenno. È il percorso che lo ha portato alla tempesta a essere messo in scena, e la tempesta che lui, in quanto detenuto, è stato costretto ad affrontare durante il periodo di detenzione. Ariel, lo spiritello protagonista dell’opera del poeta a un certo punto compare in scena, interpretato magnificamente da Sasà/Salvatore con tutta l’arte teatrale e con tutta l’esperienza di vita che ha accumulato in questi anni. Questo apparire di Ariel ci getta addosso tutta la bravura del suo attore in scena. “Dentro la tempesta” è invece l’incontro dell’ uomo, del detenuto Sasà con il teatro e con il teatro all’interno di un istituto di pena. È il racconto di un incontro così determinante proprio a partire dal resoconto quotidiano feroce e sofferto, di una vita passata dietro le sbarre di un carcere. É frustrante questa messa in scena. Non è affatto semplice. É soffocante. Claustrofobica come le celle scenografate in scena, con le sbarre. Dentro la tempesta, è portare letteralmente il carcere in teatro. E per questo è più spaesante ancora. Del teatro in carcere come attività risocializzante, anche e soprattutto per chi è rinchiuso, e quanto sia determinante in termini di recupero reintegro e ripensamento e cura di sè, sempre poco si dice, ma qualcosa (sempre troppo poco e comunque troppo male) si fa. Del carcere e delle condizioni inumane della detenzione, si dice sempre troppo poco. Il merito principale di questa messa in scena allora è proprio restituirci questo “oltre il muro”. Senza filtri, senza semplificazioni, in tutta la sua drammatica realtà. È proprio la quotidianità di questi uomini a essere drammatica. Ho sempre immaginato che l’assenza di prospettiva, di tempo, di futuro rappresentasse maggiormente la situazione drammatica di questo vissuto detenuto, recluso. Ciò che emerge da quest’opera è, oltre al tempo, lo spazio. Sasà ci restituisce questa sua esperienza personale così da favorire al tempo stesso anche una riflessione critica che si deve e si può accogliere in termini di rieducazione. L’ art. 17 della Costituzione sancisce che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. La disumanità del luogo e la spersonalizzazione della legge, assieme a tutto il resto, sembrano allora solo una pena aggiuntiva. Lo spazio è determinato da celle vicine. I due attori (i due detenuti?) si parlano attraverso le sbarre. Si scambiano confidenze e doni, in un clima di reciproca diffidenza all’inizio e sincera amicizia poi. Ognuno cerca di non perdere la propria identità, in un luogo preposto alla spersonalizzazione. Ognuno di loro cerca di rendere proprio questo spazio squallido. Un calendario con le immagini di donne nude, o un poster della propria squadra preferita, alle ante degli armadietti. Poco altro. Lo spazio è angusto e i gesti sono semplici, minimi, monotoni. E si ripetono meccanicamente quasi. Accendere-spegnere una sigaretta. Mettere-levare le scarpe. Guardare-Non guardarsi allo specchio (per chi farsi belli?). Vestirsi-svestirsi. Questo spettacolo ci restituisce questo scenario, senza senso. Come personaggi di un testo di Samuel Beckett citato, forse, non a caso. E inoltre fa venire allo scoperto tutto lo squallore di questo mondo dimenticato. Lo porta alla luce. Porta in teatro questo chiacchierare. Che diventa discussione profonda. Porta a riflettere sulla alienazione di chi, detenuto, è costretto a subire l’assenza di sessualità, l’assenza di familiarità, di sentirsi a casa, l’assenza di famiglie lontane. L’assenza di luce. In questa penombra umana, i rumori che sopraggiungono da una voce registrata, quasi metallica, sono la perfetta colonna sonora, come in un film ben riuscito dell’orrore. L’ orrore però qui è reale, concreto. Passi cadenzati dei secondini che si avvicinano/allontanano, chiavi pesanti che rimbombano del silenzio della notte in serrature arrugginite di ferro, urla di altri, da altri letti lerci, di notte, o urla per altri suicidi, l’ennesimo (chi sarà il prossimo sembri chiederti e sembra che ti stia chiedendo), in un crescendo di angosce e paure, reali, non artefatte. Il martellante rumorio che sale e cresce dentro la testa, nell’insonnia di altre notti umide e insonni, sempre uguali. Sempre lo stesso. E la terapia di gocce che ti sedano per non farti pensare, fino a dormire un lungo sonno, tutti giorni, tutto il giorno. E ancora urla e dispersione e furore rabbioso di un animale in gabbia che non può, non ha il permesso, di visitare i suoi morti recenti. Dentro la tempesta è il resoconto di un uomo che è sopravvissuto alla tempesta che è la detenzione. È il racconto di uno che ha affrontato questa tempesta della vita. Ma è anche il racconto che si fa tutt’uno con il testo di Shakespeare. Il teatro e l’incontro con il teatro è il punto di partenza e di arrivo di questa avventura, di questo viaggio. Di questa rinascita. Rinascita e ripensamento reali e concreti. L’attore sta recitando il detenuto che rinasce tramite il teatro è il detenuto stesso: il ciclo è compiuto. La magia è avvenuta. Prospero nell’opera del poeta può liberare lo spirito Ariel. L’uomo può tentare di nascere a nuova vita. Questo spettacolo racconta anche del confronto a cui si è costretti con i personaggi del testo, e del confronto con la semplicità e la profondità delle parole del poeta, e della fantasia evocativa dell’ isola di Prospero. Questo spettacolo racconta anche della paura, delle paure altre prima di andare in scena, e dell’entusiasmo per i primi sentiti applausi, e della voglia di ricominciare e riprendere di nuovo, da dove si è interrotti. Racconta dello sguardo nuovo di chi ha voglia di replicare per essere applaudito, dello sguardo nuovo di ha voglia di aspettare ora, e voglia di continuare per rimettersi in gioco, in discussione continuamente. Nel profondo. Questo spettacolo è il racconto della trasformazione profonda di quest’uomo. A partire dal suo linguaggio, che ha acquisito la consapevolezza e la profondità del lettore attento. Questo spettacolo è strano. Ci stranisce fino a soffocarci. Come è soffocante lo spazio scenico (e reale) delimitato dalle sbarre. Ma è liberatorio perché ci mette di fronte a tutta la libertà di cui il teatro, un certo teatro, è capace. “Un amore bandito”, lo spettacolo dei detenuti di Rebibbia a Pistoia di Francesco Lauria reportcult.it, 4 novembre 2017 La compagnia “Stabile Assai” è il più antico gruppo teatrale italiano che opera nelle carceri. Martedì 7 novembre alle ore 21 sarà a Pistoia, al teatro Manzoni, nell’ambito delle iniziative di Pistoia capitale italiana della cultura. Lo spettacolo che verrà rappresentato: “Un amore bandito” narra la storia d’amore tra Michelina Di Cesare e Franceschino Guerra, due giovani briganti, morti a soli 24 anni, con particolare riferimento alle loro ultime ore. Attraverso i loro ricordi viene ripercorsa la storia dell’Italia postunitaria. L’allestimento è realizzato in collaborazione con il Ceis di Pistoia, il Centro di Solidarietà presieduto da Franco Burchietti. La storia del brigantaggio è rievocata con attenzione al ruolo delle donne, ai sentimenti di odio e compassione, al ruolo della Chiesa, alla complessità di un mondo in cui sono state commesse atrocità raccontate con l’occhio triste di un capitano piemontese. “Un amore bandito” racconta la voglia di vivere di uomini e donne della Lucania, della Campania e di tutto il Sud, attraverso uno spettacolo che la compagnia “Stabile Assai” definisce come una “riduzione in chiave di drammaturgia penitenziaria”. L’evento nasce in occasione del trentacinquesimo anniversario del Ceis di Pistoia, l’associazione, fondata da suor Gertrude, da sempre impegnata nella lotta alle dipendenze e nei percorsi di riabilitazione. Il legame tra il Ceis e la compagnia “Stabile Assai” nasce - come spiega il Presidente Franco Burchietti - proprio dall’importanza dei laboratori teatrali in tutte le tre comunità dell’associazione: tra i minori, le madri e gli adulti. Il teatro, infatti, - spiega il Presidente del Ceis - ha grandi potenzialità di recupero e di espressività: è per noi davvero importante”. Molte le storie peculiari degli attori/detenuti, della compagnia “Stabile Assai”: come Salvo Buccafusca, appartenente alla famiglia mafiosa di Pippo Calò, poi laureatosi in sociologia in carcere e oggi imprenditore edile, Francesco Rallo, detenuto ergastolano appartenente al clan mafioso di Partanna, Cosimo Rega detenuto ergastolano, noto per aver vinto con la regia dei Fratelli Taviani l’orso d’oro di Berlino nel 2012 (era il Cassio di “Cesare deve morire”), Giovanni Arcuri (il Cesare dell’omonima opera teatrale), noto narcotrafficante ed oggi imprenditore, sono tra i protagonisti dell’opera. Da evidenziare, la partecipazione di Rocco Duca, unico agente penitenziario in Italia a recitare con i detenuti. La scrittura drammaturgica è affidata ad Antonio Turco, il fondatore (nel lontano 1982) della Compagnia, funzionario pedagogico della Casa di reclusione di Rebibbia e della teatro terapeuta Patrizia Spagnoli. Ma che cos’è e cosa rappresenta la compagnia “Stabile Assai”? Nata nella Casa di Reclusione Rebibbia di Roma è, come detto, il più antico gruppo teatrale operante all’interno del contesto penitenziario italiano: il suo esordio, come detto, risale al luglio 1982. La compagnia si è caratterizzata per la stesura di testi del tutto inediti, dedicati ai grandi temi dell’emarginazione, come l’ergastolo (“Fine pena mai”), la follia (“Nella testa un campanello”), la questione meridionale (“Carmine Crocco”), l’integrazione interetnica (“Nessun fiore a Bamako”). Una realtà, quella che si esibirà al Teatro Manzoni a Pistoia martedì prossimo, che è anche stata insignita della medaglia del Capo dello Stato per la valenza sociale della sua attività artistica. Per informazioni e prenotazioni sullo spettacolo: segreteria Ceis: 0573368701 segreteria@ceispt.org oppure presso la biglietteria del Teatro Manzoni. Gaetano Di Vaio: “da ex camorrista faccio film per combattere le mafie” di Roberto Zichittella Famiglia Cristiana, 4 novembre 2017 Intervista al produttore e interprete di “Take Five”, che Rai 3 manda in onda stasera alle 21.10. In occasione della messa in onda su Rai 3 in prima serata del film “Take Five”, pubblichiamo l’intervista al produttore e attore Gaetano Di Vaio. Una bella storia di riscatto. Poteva perdersi per sempre, Gaetano Di Vaio. Inghiottito da Gomorra, perduto in una di quelle vite senza rimedio, segnate dal crimine e dalla violenza, scadenzate dagli ingressi e dalle uscite dal carcere. In parte, Gaetano, quella vita l’ha fatta e nel risvolto di copertina del libro che ha scritto per Einaudi insieme a Guido Lombardi, Non mi avrete mai, leggiamo che ha avuto “una lunga e vivace storia criminale”. Ma poi è arrivato il riscatto. Gaetano ha voltato pagina e il criminale di ieri oggi sfila sui tappeti rossi dei festival cinematografici, interpreta, produce e dirige film e documentari. “A mia moglie e a mia madre”. La casa di produzione fondata da Di Vaio ha un nome che è tutto un programma: Figli del Bronx. Ai primi di ottobre è uscito nelle sale Take Five, in cui Gaetano è anche interprete, storia di una banda di ladri un pò strampalati, con richiami a I soliti ignoti di Monicelli e a personaggi alla Tarantino. Al Festival del cinema di Roma, Di Vaio ha presentato come regista il documentario Largo Baracche (un viaggio fra i Quartieri Spagnoli di Napoli) e da produttore il cortometraggio di Toni D’Angelo, Ore 12. In passato Di Vaio ha realizzato Il loro Natale, un documentario sulle famiglie dei detenuti di Poggioreale. “Lo volli dedicare”, spiega, “a mia moglie e a mia madre, per i sacrifici che facevano quando ero carcerato”. Nato nel 1968 a Piscinola, a ridosso di Scampia, Gaetano Di Vaio è padre di due figli grandi, avuti con la prima moglie, e di un bimbo di 10 mesi. A fine anno diventerà nonno. “Vengo da una famiglia numerosa”, racconta: “Dieci figli, papà muratore in nero e mamma casalinga, persone povere e oneste. Non sapendo come mantenerci, hanno mandato sei figli, me compreso, in collegio. Avevo 7 anni. Se ho preso una brutta strada non è per colpa di Scampia, ma dei collegi. Lì sono cominciati i primi soprusi, magari solo perché facevo la pipì a letto. Mi punivano non dandomi il latte a colazione e in più c’erano le cinghiate”. “Verso i 9 anni cominciai a ribellarmi”, continua Di Vaio, “così scappai e cominciai a frequentare la strada. Iniziai a rubare autoradio e ruote di scorta. Mi beccarono e mi portarono in un centro di rieducazione, un luogo molto violento. Sono evaso anche da lì finché un giudice decise di mandarmi in un centro di igiene mentale. Avevo 12 anni. L’impatto fu tremendo. Ero terrorizzato da quelle persone, scappai, mi devastarono di botte, mi ripresero. Rimasi lì 11 mesi, ma grazie a un’educatrice mi mandarono a studiare fuori da quel posto. Però i miei compagni avevano paura, per loro ero “quello che viene dal collegio dei pazzi”. Gaetano continua il racconto alternando l’italiano a espressioni dialettali. “Scappai anche dalla casa dei pazzi e intanto avevo raggiunto l’età per essere rinchiuso nelle carceri minorili. Purtroppo scoprii la droga, prima come consumatore e poi da spacciatore. Entrai nel crimine: rapine, scippi, mi drogavo. Mi persi definitivamente. A quel punto mi restava solo da affiliarmi alla camorra. Ma diedi retta a mia madre che mi diceva: “Me ne hai combinate tante, ma almeno nella camorra non entrare, non darmi quest’altro dolore”“. In tutto Gaetano Di Vaio ha passato quasi nove anni in carcere. E in cella ha fatto un incontro determinante. “A Poggioreale nacque una bella amicizia con Raffaele Di Gennaro. Lui, a parte che era innocente, soffriva molto la galera, era sempre in silenzio. Mi incuriosiva il suo silenzio e piano piano mi avvicinai, così cominciò ad aprirsi. Già il fatto che mi parlasse in italiano era strano, perché qui usano tutti il dialetto, ma per la prima volta nella mia vita una persona mi parlava di sentimenti. Raffaele definiva mia moglie “un fiore da non far appassire” ed erano parole che a me nessuno aveva mai detto”. A Scampia Gaetano ci presenta altri amici che, dopo il carcere, oggi recitano a teatro o nel cinema. Come Enzo Fabricino, il Pit Bull del film Gomorra, interprete anche della omonima serie televisiva. Dice: “Sai qual è la cosa più bella che mi ha insegnato Gaetano? Che la vita è bella anche senza soldi. Prima erano una ossessione”. Come mai dal carcere escono così tanti bravi attori? “Le esperienze dure di vita lasciano il segno e ti formano”, risponde Di Vaio, “ma conta anche il fatto che siamo di Napoli, una città dove hai l’arte nel sangue e dove la strada è un palcoscenico”. Prima dei saluti un’ultima confidenza di Gaetano: “A 7 anni mio figlio Francesco mi chiese se davvero ero stato in carcere. Fu bellissimo perché capii che lui non aveva vissuto quella parte brutta della mia vita e sentii tutta la forza del mio cambiamento”. Terrorismo. Web e social network sono l’arma più potente dell’Isis di Stefano Mauro Il Manifesto, 4 novembre 2017 Il califfato perde terreno ma ormai è sempre più digitale. L’allarme delle intelligence. “Un indebolimento dello Stato Islamico rinforza il rischio di attentati nel mondo - ha recentemente dichiarato in un’intervista televisiva Jean Pierre Filiu, esperto di questioni mediorientali all’Università SciencesPo di Parigi - si combatte l’Isis sul campo di battaglia ma resiste quello virtuale su Internet: un’organizzazione che recluta, ispira e sostiene gli attentati e che è difficile da contrastare”. Daesh sta perdendo terreno, questo è indiscutibile. Il suo territorio si è ridotto del 70% nell’ultimo anno: le due principali capitali, Mosul e Raqqa, sono cadute. Gli stessi introiti legati al contrabbando di petrolio sono calati in questi ultimi anni da 1,5 milioni fino a quasi 150mila dollari al giorno. “Possiamo affermare che le perdite di territorio stanno indebolendo lo Stato Islamico da un punto di vista economico, logistico e militare, non si può dire la stessa cosa però per la sua vera forza, che rimane la propaganda e la diffusione dell’ideologia jihadista sul web”, così dichiarano le principali agenzie di stampa occidentali. La minaccia jihadista legata al cyber-terrorismo è, in effetti, una delle maggiori preoccupazioni delle intelligence di tutta Europa: a tal punto che Francia, Gran Bretagna e Italia hanno recentemente redatto un documento segreto legato alla lotta alla radicalizzazione ed alla propaganda in rete per armonizzare il controllo del web. New York, Marsiglia ed Edmonton ne sono l’ultimo esempio. Il pericolo legato al web rimane sia per il reclutamento di nuovi jihadisti ma soprattutto per l’influenza di ogni singolo aspirante “martire”. Altrettanto pericolosi sono i diversi “tutorial”, video o spiegazioni, creati per la produzione di ordigni esplosivi artigianali (Barcellona e Londra), per la preparazione di attacchi con camion o furgoni o all’arma bianca. L’ultimo rapporto, in Francia, dell’Unità Coordinamento Lotta Antiterrorismo (Uclat) del 1 giugno scorso riporta che i francesi “radicalizzati” sono oltre 15mila, nel 95% dei casi convertiti attraverso il web, stesse percentuali per quelli belgi, tedeschi e svedesi. Daesh è presente su internet: utilizza i social network per arruolare, comunica attraverso app di ultima generazione e ha tra le sue fila numerosi hackers ed esperti d’informatica. Negli ultimi due anni, mentre si combatteva per la conquista di Mosul e Raqqa, l’Isis ha cominciato a cambiare strategia, sfruttando il web per iniziare la sua campagna terroristica “low cost” in Europa. “La rivendicazione di ogni attentato non implica quasi mai - secondo Rita Katz, direttrice di Site - un legame diretto a livello organizzativo ma un’influenza ideologica sul singolo “martire” che giura fedeltà ed ha una cassa di risonanza devastante nei paesi colpiti a causa dei mass-media”. Non avere più un territorio definito non sta impedendo, comunque, allo Stato Islamico di muoversi e riorganizzarsi verso territori decentrati come Afghanistan o Cecenia, il sud-est asiatico (Malesia, Indonesia e Filippine) e il continente africano (Nigeria e Libia). Secondo l’Fsb russo un grande numero di jihadisti si starebbe spostando verso l’area del sud- est asiatico e verso l’Afghanistan, visto che, secondo numerosi indicatori, il livello di minaccia sta aumentando in quelle aree e la minaccia globale da parte di Daesh “sta cambiando e assumendo nuove forme”. Lo Stato Islamico, secondo l’Institute for Policy and Conflict (Ipac), sta spostando parte dei suoi capitali finanziari facendo investimenti verso l’occidente (Usa, Europa) o utilizzando i bitcoin, la moneta virtuale facile da utilizzare, ma difficile da contrastare. “Il fatto di non avere una strategia unitaria di contrasto - conclude Filiu - provoca questa situazione di vantaggio per l’organizzazione terroristica visto che Daesh agisce su scala mondiale, mentre i paesi occidentali non hanno nessun tipo di disegno politico di contrasto, se non quello militare”. Terrorismo. Obiettivo deradicalizzare: a Bari prima lezione per un indagato Corriere della Sera, 4 novembre 2017 Alfredo Santamato, alias Muhammad, ha iniziato il percorso disposto dai giudici. Il commento all’uscita dall’aula: “Credo sia una cosa positiva, mi servirà per capire”. “Mi aspetto che questi incontri possano servire a comprendere gli errori fatti”. Il 42enne di Turi Alfredo Santamato, alias Muhammad da quando si è convertito all’islam, ha iniziato oggi il percorso di de-radicalizzazione voluto dalla magistratura barese (prima iniziativa di questo tipo in Italia), come una delle prescrizioni imposte dalla sorveglianza speciale alla quale Santamato è sottoposto da alcuni mesi in quanto sospettato di apologia di terrorismo. Il 42enne, ex camionista e ritenuto pericoloso anche per questo, perché il tir di cui disponeva era considerato dal Tribunale “una vera e propria arma nelle sue mani”, si è presentato oggi in Questura a Bari accompagnato dalla madre e poi, scortato da agenti della Digos, ha raggiunto l’università dove si è tenuta la prima lezione. Le prime reazioni - “Questo è stato un primo incontro, - ha detto uscendo dall’aula, nell’ex palazzo delle poste - abbiamo tirato le linee guida di questo percorso quindi non posso dire ancora niente sui contenuti, però credo che sia una cosa positiva perché mi servirà per capire”. Santamato ha spiegato che “ci sarà da studiare il diritto e, in particolare, come le religioni interagiscono con le leggi italiane”. Le lezioni avranno cadenza quindicinale e verteranno sui temi dei diritti costituzionali, dell’eguaglianza dei cittadini nella diversità culturale e religiosa, della condizione della donna e, collegato con questo, dei simboli religiosi e dell’abbigliamento femminile. Le linee guida - Fra le linee guida individuate da Università e Tribunale nel percorso di de-radicalizzazione che Santamato dovrà seguire, ci sono anche riferimenti al rilievo penale di alcune condotte, come i maltrattamenti in famiglia, la violenza privata o le mutilazioni rituali, oltre ad approfondimenti sui concetti di democrazia e di rispetto delle libertà fondamentali in nome della convivenza pacifica. In alcune dichiarazioni rese nei mesi scorsi e dall’analisi del suo profilo Facebook, era infatti emersa la sua volontà di far infibulare le figlie, diceva di condividere l’ipotesi di istituire una “polizia religiosa” per “controllare” i comportamenti delle donne e, contemporaneamente, condivideva messaggi su sgozzamenti e integralismo islamico, oltre ad avere numerosi contatti con sospetti jihadisti. Migranti. Far finire la tragedia dei “campi” libici di Ernesto Preziosi* Avvenire, 4 novembre 2017 La Libia, per più motivi, va tenuta in primo piano nell’attenzione internazionale e nazionale. Se infatti è stata salutata positivamente dall’opinione pubblica la netta diminuzione degli sbarchi sul nostro territorio, rimane aperto il problema della permanenza e del trattamento riservato ai profughi nei campi libici. Dobbiamo esigere che si faccia tutto il possibile, anche a fronte dei consistenti interventi economici assicurati dal nostro governo, per imporre attraverso organismi internazionali dei controlli finalizzati al rispetto dei diritti umani; obiettivo che si potrà raggiungere pienamente solo con la chiusura degli attuali campi e con la costruzione di luoghi che rispondano alla tutela della dignità umana. A tal proposito ho chiesto al Governo, in una interrogazione, cosa intenda fare per togliere la gestione dei campi alle milizie libiche e assegnarla a organizzazioni internazionali sia dell’Onu sia non governative (Ong), e se esiste un calendario in proposito. È indispensabile l’ingresso di Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni) e Acnur-Unhcr (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) per garantire condizioni dignitose ai migranti che sono in questo momento dentro il Paese nordafricano. Il Governo italiano va sollecitato, perché eserciti un’adeguata pressione su Onu e Ue per un’azione più efficace e perché organizzi un sistema di “corridoi umanitari” per le persone che hanno diritto allo status di rifugiato. La situazione con cui ci misuriamo richiama una precisa responsabilità della politica. Non basta accogliere, e per questo esistono numerose agenzie da quelle educative a quelle religiose, e la cultura stessa può fare la sua parte. Coordinare tutto questo è compito della politica. E in particolare dei politici più favorevoli all’accoglienza dei rifugiati. Essi hanno il dovere di creare le condizioni perché l’accoglienza sia fatta con la prudenza necessaria, attraverso una concreta integrazione che risolva il problema di alloggio e lavoro, contribuendo a creare un contesto di sicurezza che possa rassicurare e ben disporre tutta la popolazione perché, come ha detto il Papa, “non si può chiudere il cuore a un rifugiato e gli Stati devono essere molto aperti a riceverli” e, insieme, fare “il calcolo di come poterli sistemare, perché un rifugiato non lo si deve solo ricevere, ma lo si deve integrare”. Se questo è vero per i Paesi di destinazione, a maggior ragione deve esserlo per quelli di transito come la Libia. La presenza internazionale nei campi profughi per il rispetto dei diritti umani deve procedere di pari passo con un’azione politica. Le speranze su un più efficace intervento internazionale sono riposte su quanto stabilito nel settembre scorso al tavolo della 72a sessione dell’Assemblea generale Onu. In quella sede, l’inviato speciale delle Nazioni Unite nel paese africano, Ghassan Salame, si è impegnato per accelerare gli accordi per il pieno ritorno in scena delle grandi organizzazioni umanitarie. Il problema, come sappiamo, sta nell’individuare l’interlocutore libico che possa assicurare un’efficace stabilizzazione. Per questo è importante che accanto al primo interlocutore, cioè il governo di Tripoli di Fayez al-Sarraj, legittimato dall’Onu, si consideri anche la possibilità di coinvolgere nel processo di pacificazione e stabilizzazione della Libia il generale Khalifa Haftar, l’uomo della Cirenaica. L’Italia in tal senso può avere, e lo sta avendo, un ruolo importante. Si potrà aprire a quel punto un percorso, con tappe ben individuate che punti alla stabilizzazione e che passi anche per la sinergia tra Onu e impegno europeo e attraverso alcune modifiche all’Accordo nazionale sottoscritto nel dicembre del 2015 a Skhirat, in Marocco da 90 componenti della Camera dei rappresentanti di Tobruk e 69 deputati del Congresso nazionale di Tripoli (accordo che scadrà il 17 dicembre): l’adozione di una Costituzione ed elezioni politiche. Auspicabile sarebbe anche una missione Onu ai confini meridionali del Paese e il perdurare dell’impegno italiano con le tribù del Fezzan, Tebu e Tuareg, unito alla formazione della Guardia Costiera. Ciò che non è più accettabile è il traffico e la detenzione di esseri umani in Libia; e l’attenzione internazionale non può calare. *Deputato del Pd Migranti. Incendiato nel parmense un ex caseificio destinato ai richiedenti asilo La Repubblica, 4 novembre 2017 Il sindaco di Lesignano: “Una delle pagine più brutte nella storia del nostro Comune. Un atto criminale inimmaginabile”. Un incendio di origine dolosa ha bruciato l’ex caseificio di San Michele Cavana, nel comune di Lesignano Bagni in provincia di Parma. La struttura dalla prossima settimana avrebbe dovuto accogliere otto richiedenti asilo. A confermare che si è trattato di una atto criminale è il sindaco del paese Giorgio Cavatorta: “Sono sconvolto. Giovedì sera è stato appiccato il fuoco all’ex caseificio. Lì avremmo dovuto sviluppare un progetto di accoglienza per i rifugiati. Si tratta di un fatto molto pesante e inaccettabile”. L’immobile, abbandonato da anni, era stato concesso in locazione al Comune dalla cooperativa La Fabiola e il municipio lo aveva destinato ad accogliere otto immigrati in collaborazione con Ciac onlus e prefettura di Parma. “Andremo avanti - continua Cavatorta - non possiamo dare ragione a chi commette azioni del genere. È stata scritta una delle più brutte pagine nella storia di questo comune. Un atto criminale inimmaginabile”. Il Comune lo scorso agosto si era impegnato in un percorso di accoglienza da gestire in ambito Sprar (Sistema di protezione dei richiedenti asilo) utilizzando l’ex caseificio di San Michele Cavana. Una decisione maturata dopo che lo stesso primo cittadino si era detto contrario a utilizzare un altro ex caseificio, quello di Mulazzano, arrivando a minacciare le dimissioni, poi rientrate dopo un nuovo accordo siglato con la prefettura di Parma. “I locali erano stati ristrutturati, era tutto pronto. La prossima settimana sarebbero dovuti arrivare gli otto rifugiati. Abbiamo sviluppato un progetto serio d’accoglienza, che avrebbe favorito l’integrazione dei migranti, anche con la possibilità d’inserimento lavorativo, grazie alla collaborazione di alcune aziende. Ora il nostro primo obiettivo è chiedere aiuto al ministero e far partire l’attività”. Il rogo è oggetto d’indagine dei carabinieri, mentre la stima dei danni è in corso. “Mi auguro - conclude il primo cittadino - che i responsabili siano presi e paghino per quello che hanno fatto”. Non era a Cuba quel giorno, come può aver commesso il reato? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 novembre 2017 L’incredibile storia di Luigi Sartorio, accusato di corruzione di minore e condannato a 20 anni. Attualmente è recluso nel carcere italiano con un tumore al cervello in stato avanzato ma dichiarato compatibile con la carcerazione dalla magistratura di sorveglianza. Fu estradato tre anni fa da Cuba con l’infamante accusa di aver partecipato a festini a luci rosse con ragazzine. Ma è innocente. Sicuramente è innocente e ora vedremo perché. Venne condannato dalla magistratura cubana a vent’anni di galera senza prove, grazie a una prima confessione estorta dalla polizia con la tortura. Si chiama Luigi Sartorio, 51 anni, ex imprenditore vicentino. Era stato arrestato il 2 luglio 2010 a Cuba. Lo avevano accusato di corruzione di minore, per aver partecipato a festini con ragazzine minorenni. Condannato a 20 anni per un reato che in Italia viene punito con una pena molto meno severa. Era stato assolto invece dall’accusa iniziale di omicidio di una ragazza, per il quale, invece, sono stati condannati altri due connazionali, Angelo Malavasi e Simone Pini, tuttora rinchiusi in un stato poco più che vegetativo in una fetida cella oltreoceano e condannati con una pena da scontare di 25 anni di reclusione. È da allora, dal luglio di sette anni fa, che è cominciato l’incubo: da quando Sartorio andò a Cuba. A nulla sono valse le prove - comprese i timbri diplomatici - per dimostrare che lui, all’epoca dei fatti contestati, si trovava in Italia. Vediamo i fatti: Il 19 maggio 2010 una ragazzina di 13 anni era stata trovata morta in aperta campagna ed in stato di decomposizione. In seguito all’autopsia effettuata a Cuba non è mai stato chiarito se sia deceduta per arresto cardio- circolatorio dovuto all’assunzione di un mix di droga e alcool oppure perché, esanime ed apparentemente morta, sia stata grossolanamente seppellita da sconosciuti e morta per asfissia. Il fatto aveva ovviamente destato grande scalpore in tutta la comunità locale e la polizia era stata posta sotto pressione affinché individuasse rapidamente i responsabili. I capri espiatori perfetti non potevano che essere degli stranieri, in quel caso degli italiani. L’interrogatorio della polizia cubana - Torniamo un po’ indietro negli anni. 2007: a Sartorio viene diagnosticato un melanoma maligno con il 20% di possibilità di sopravvivenza. Dopo un periodo di sconforto, decide di affittare la sua azienda e intraprende un viaggio a Cuba. Conosce così la sua attuale compagna nel 2009, e a febbraio del 2010 nasce il suo primo figlio, Lorenzo. Nel frattempo la sua malattia fortunatamente regredisce e pertanto pensa di ritornare a lavorare. Nel giugno 2010 un suo amico italiano, Angelo Malavasi di Modena, viene incarcerato a Bayamo, nell’oriente di Cuba, accusato di essere stato presente a una festa con droga e sesso alla quale avrebbe partecipato anche quella ragazzina di 13 anni trovata morta a metà maggio. Sartorio a questo punto decide di partire per Cuba, contro il parere della sua compagna che gli dice di dimenticare il suo amico perché Cuba è pericolosa. Sartorio telefona e va dalla polizia di Cuba per avere informazioni, ma da quel momento inizia il suo incubo. Una volta giunto all’interno della stazione di polizia, a Sartorio viene chiesto di “spiegare l’accaduto” e, quando lui ribadisce di non capire di cosa dovrebbe parlare, i sei poliziotti presenti gli intimano di riferire cosa sia accaduto il 14 maggio 2010, ritenendolo responsabile della morte della ragazzina di Bayamo. Sartorio riferisce di non sapere nulla poiché quel giorno era in Italia ma, nonostante ciò, subisce fortissime pressioni affinché firmi una confessione con la quale dichiarare che il 14-5-2010, in realtà, lui era a Bayamo. Di fronte al suo rifiuto, gli viene negata la possibilità di parlare sia con l’ambasciata sia con un avvocato; gli viene impedito di contattare la famiglia per avvisare dell’accaduto e, malgrado lui non comprenda benissimo lo spagnolo, non è presente un interprete. Lo rinchiudono nella cella della stazione di polizia. Nel corso del lungo interrogatorio, Luigi Sartorio esibisce il cellulare (dal quale risultavano gli sms spediti alla compagna, dall’Italia, nel mese di maggio 2010) ed afferma di aver da poco subito un’operazione alla schiena per un melanoma che gli impedirebbe di essere detenuto nella cella stretta e fetida nella quale lo hanno invece rinchiuso. Gli interrogatori continuano, per 16 ore al giorno, anche nei giorni successivi. In alcuni casi, anche per 10 ore, viene messo in una piccola stanza con l’aria condizionata al massimo; i poliziotti entrano ogni due ore dicendogli semplicemente: ‘ collabori? ‘ e, di fronte al nuovo rifiuto, a un certo punto viene trasferito in una cella con 45° (siamo a luglio ed ai tropici). Luigi Sartorio, dopo continue sevizie, alla fine firma la dichiarazione. Il processo - In prigione, in attesa del processo, subisce torture, minacce, violenze, inganni, perde 20 kg di peso. Entra in un dramma senza fine: mai un avvocato, un traduttore al suo fianco. La sua famiglia produce prove inconfutabili che dimostrano che lui il 14 maggio era a Vicenza, prove timbrate al consolato cubano di Milano che sono costate più di 22.000 euro. A nulla però sono servite. Dopo 14 mesi di detenzione preventiva, arriva il processo. Ad assisterlo c’è l’ambasciata Italiana che fa anche una relazione a favore di Sartorio rilevando le varie irregolarità processuali e dell’investigazione. L’Ambasciata chiede a Cuba spiegazioni e le prove che lo accusano, ma non ottiene risposte. Nonostante le prove della difesa, la giustizia cubana lo condanna. La malattia e l’estradizione - Nell’aprile 2012 le condizioni di salute nel carcere cubano peggiorano: non mangia, non cammina, vive in uno stato di incoscienza da somministrazione di psicofarmaci aiutato solo da Pini, l’altro italiano condannato che si trova con lui in prigione. L’Ambasciata italiana si lamenta con Cuba, mai una visita specialistica, mai una Tac. A luglio arriva la terribile diagnosi: metastasi di grosse dimensioni nel cervello. Cuba promette un rimpatrio rapido che avverrà però dopo tanto tempo. Ad aprile del 2014 viene finalmente trasferito nelle carceri italiane, a Roma e poi a Padova dov’è tuttora detenuto. Non c’è stato modo di ottenere un adeguamento - lo prevede il trattato internazionale tra Cuba e l’Italia - della pena, visto che in Italia, per quel reato, sono previsti tre anni di carcere. Per la magistratura italiana non è più possibile e è stata rigettata l’istanza di revisione. A questo si è aggiunto un altro rigetto, quello relativo alla richiesta di incompatibilità carceraria. Una richiesta depositata proprio in riferimento al suo stato di salute, alla necessità di continui controlli visto le gravi malattie che ha dovuto affrontare. Ma per il tribunale di sorveglianza, anche se Sartorio ha un melanoma metastatico, gli accertamenti e la cura possono avvenire anche in carcere. Sartorio quindi è tuttora in cella, malato, condannato senza prove dalla giustizia cubana ad espiare una pena che dura quanto un ergastolo. Spagna. La vendetta di Madrid con il trucco della “legalità” di Marco Bascetta Il Manifesto, 4 novembre 2017 Madrid sta giocando alla guerra civile. Si comporta incredibilmente come se avesse avuto luogo un’insurrezione armata. Barcellona, invece, mantiene la calma e non valica il limite della protesta pacifica e del discorso democratico. Ciò che accade in Spagna è assolutamente inaudito. La destra spagnola sta sfruttando la crisi catalana per spostare in senso autoritario e repressivo gli equilibri politici del paese. Un governo democraticamente eletto viene incarcerato in blocco in seguito a una iniziativa politica rimasta, in buona sostanza, sul piano simbolico-comunicativo e già neutralizzata dall’esautorazione delle istituzioni catalane. Nessuna violenza, discriminazione o negazione di qualsivoglia diritto può essere imputata agli indipendentisti catalani, organizzati del resto in associazioni e partiti legalmente riconosciuti, per motivarne la criminalizzazione. L’arresto dei ministri rimasti in Spagna e l’incriminazione di quelli riparati all’estero rappresentano a tutti gli effetti una persecuzione politica e una indegna manifestazione di vendetta. Il trucco della “legalità” che si sostituisce politicamente alla politica ha condotto a tutto questo, mettendo nelle mani di una magistratura notoriamente orientata a destra e forte di una Costituzione scesa a patti con l’eredità del fascismo, il futuro della convivenza civile in Catalogna e, probabilmente, anche in altre regioni di Spagna. Quale clima possa instaurarsi in un paese nel quale la rappresentanza della metà dei cittadini è dichiarata criminale e trattata di conseguenza è facile immaginare. Fino ad ora non ci sono che da ammirare i nervi saldi dei catalani, trascinati in una guerra intestina immaginaria da una politica che, nascosta dietro la magistratura, ha sistematicamente boicottato qualsiasi possibilità di dialogo. Giunto all’ultimo atto Puigdemont aveva di fatto ceduto accettando di congelare la dichiarazione d’indipendenza e di indire elezioni anticipate. Chiedeva in cambio la salvaguardia dell’autonomia catalana e la rinuncia a misure repressive nei confronti degli indipendentisti. Ma proprio questi erano, fin dall’inizio, gli obiettivi del governo di Madrid, guidato da una forza politica, il Partito popolare, da sempre impegnato nell’impedire ogni approfondimento delle autonomie per non parlare dell’evoluzione della Spagna in senso federalista. Ha dunque dell’incredibile l’appoggio offerto dal Partito socialista spagnolo alla crociata di Mariano Rajoy in cambio di una chimerica riforma federale. I socialisti spagnoli hanno di fatto indegnamente votato i crediti di guerra contro la Catalogna la cui distanza dal resto della Spagna è stata sancita assai più dalla linea di condotta del governo di Madrid che non dal referendum del primo di ottobre. Fino ad oggi le aspirazioni indipendentiste catalane avevano ragioni assai discutibili, per non dire errate. Ma come atteggiarsi nel momento in cui dovessero assumere natura difensiva nei confronti di un nazionalismo unionista dal volto repressivo e violento? L’Unione europea di quest’ultimo si è mostrata finora complice, a conferma di quanto sovranismo nazionale scorra nelle sue vene. Il feticcio della “legalità” non servirà certo a fare i conti con quelle speciose “interpretazioni” della democrazia che da Budapest a Varsavia, oggi a Madrid e domani a Vienna, avvelenano e avveleneranno il Vecchio continente. L’affermarsi di politiche discriminatorie, l’applicazione arbitrariamente distorta di articoli di legge previsti per fronteggiare un rovesciamento violento dell’ordine istituzionale, mai avvenuto, costituiscono un problema che oltrepassa i confini della Catalogna e della stessa Spagna. Il causidico opportunismo di Bruxelles rappresenta l’ennesimo interessato fallimento dell’Unione europea. Si può dissentire radicalmente dalle scelte di Puigdemont e dei suoi ministri, ma sul fatto che costoro siano oggi dei perseguitati politici non c’è discussione. L’Europa dovrebbe rendersi rapidamente conto delle catastrofiche conseguenze del gioco condotto dal governo di Madrid. Stati Uniti. Stretta anti pedofili: arriva il “bollino” sul passaporto La Repubblica, 4 novembre 2017 D’ora in poi in America chi è stato condannato per atti sessuali con minori sarà identificato anche sui documenti d’identità con una speciale dicitura. Una misura per rafforzare la lotta contro il turismo sessuale e lo sfruttamento dei bambini. D’ora in poi i pedofili americani saranno identificati come tali anche sul passaporto, per rafforzare la lotta contro il turismo sessuale con minori e lo sfruttamento. Lo ha reso noto il Dipartimento di Stato, che dunque applicherà una sorta di “bollino” sui documenti di identità chi ha commesso questo tipo di reati. Il retro del passaporto recherà la dicitura “Il proprietario è stato condannato per un reato di tipo sessuale nei confronti di minori ed è stato schedato secondo la legge americana”. Il Dipartimento di Stato americano ha cominciato a revocare anche i documenti dei pregiudicati. Le persone interessate da questo provvedimento dovranno richiedere un nuovo passaporto, dove sarà indicata la loro passata condanna. I cambiamenti sono stati introdotti dalla “International Megan’s Law”, così intitolata in ricordo di Megan Kanka, una bambina di 7 anni uccisa da un pedofilo in New Jersey, nel 1994. Quel caso ottenne grossa rilevanza e portò alla creazione, in molti stati, di un registro dei pregiudicati per pedofilia. La legge venne approvata nel 2016 dall’allora presidente Barack Obama per frenare lo sfruttamento e il turismo sessuale con minori. Siria. Le vedove dell’Isis fuggite dall’orrore: “se non sorridevi eri morta” di giordano stabile La Stampa, 4 novembre 2017 Dilbar ha soltanto 18 anni, due occhi marroni chiari che si intonano al fazzoletto colorato che le incornicia il viso sottile. Viene dall’Azerbaigian, ha attraversato tutta la storia e la geografia del califfato e si ritrova ora sola, con due bambini piccoli, prigioniera in un’area speciale del campo profughi di Ain Issa. È una delle “vedove dell’Isis”, donne giovanissime che hanno seguito i loro compagni jihadisti, il sogno del “Paradiso islamico in terra”, e si sono ritrovate in un inferno di menzogne e violenza. Dilbar ha visto la fine del califfato, tra le macerie di Raqqa, e si è riuscita a salvare con la fuga, un mese prima della caduta dell’ex capitale dello Stato islamico che ha dato il via al collasso del regno di Abu Bakr al-Baghdadi. Ieri sono cadute le ultime due città ancora in mano agli islamisti, Deir ez-Zour in Siria e Al-Qaim in Iraq. L’Isis è in trappola: mentre le forze curde appoggiate dagli americani premono da Nord, la tenaglia delle forze di Damasco da Ovest e di quelle di Baghdad da Est si sta per congiungere ad Al-Bukamal, un piccolo centro sulla frontiera siro-irachena dove si nascondono gli irriducibili non ancora morti o in fuga nel deserto. Fra loro ci sono molti stranieri, spesso partiti verso il califfato con tutta la famiglia. Dilbar è arrivata in Siria appena quattordicenne, con il padre Mohammed e il fratello Abdullah. “Quelli hanno ucciso mio padre”, esordisce con un sguardo diretto, il mento leggermente alzato, con orgoglio. “Dopo che ha visto uccidere una povera donna accusata di stregoneria è andato da loro - continua -: e gli ha detto “questo non è islam, gli eretici siete voi”. L’hanno condannato a morte come kaffir, uno con la fede deviata, invece mio padre era un vero fedele”. Il padre l’aveva portata in Siria per farla vivere “da musulmana”. Ad Aleppo, la giovane azera sposa un combattente turco, che parlava anche un pò della sua lingua. “È morto soltanto un anno dopo - spiega - sul fronte di Hasaka”, non lontano da Raqqa. Quando lo viene a sapere Dilbar già aspetta il suo primo figlio, Ibrahim, che adesso ha quasi tre anni e vive con lei nella sezione speciale del campo, assieme a tanti altri bambini del califfato. Dopo la nascita del primogenito la ragazza trova un secondo marito, un altro turco ma di etnia curda. Ma anche lui è destinato a morire sul campo, all’inizio della battaglia di Raqqa, “nella zona di Al-Mansour”. Lei è in attesa del secondo figlio, una bambina, Rafiqa, che stringe a sé mentre racconta. Con l’assedio che stritola Raqqa, l’Isis mostra “il suo vero volto”. È una caccia continua ai traditori, alle spie, a chi non mostra “abbastanza entusiasmo per la jihad”. Ma “non era jihad”. Dilmar ripete le parole del padre, gli occhi si velano di tristezza ma non di paura. “La cosa che odiavano di più erano le persone scontente, “le facce da funerale”, come dicevano loro. Potevi finire in prigione solo per quello. Quando incrociavi i combattenti, soprattutto stranieri, dovevi sforzarti di sorridere”. Impossibile, quando non c’era “più cibo, neanche acqua da bere, con i bombardamenti continui che distruggevano ogni cosa: ho visto Raqqa bruciare, ma sono riuscita a scappare prima della fine”. “Dicevano di volere un islam giusto e per tutti, ma volevano solo soldi, donne e potere”, conferma Kaddouja Homri, tunisina di 29 anni. Kaddouja indossa il tradizionale niqab nero, è arrivata in Siria nel 2013, assieme al marito, “professore di matematica”. Tutti e due nati e cresciuti a Tunisi in una società europeizzata, ma senza “ideali”. Quando scoppia la “rivoluzione in Siria” l’imam che frequenta il marito, Abu Baraka, li esorta ad andare ad aiutare “i fratelli islamici”. Abu Baraka si unisce subito all’Isis e tutti e due si trasferiscono ad Aleppo, dove nasce la loro figlia Baraa. È subito guerra: lo Stato islamico cerca di strappare la città agli altri gruppi ribelli, Ahrar al-Sham e Jaysh al-Khor, e Abu Baraka muore in battaglia. Kaddouja riesce a risposarsi con un altro combattente tunisino e insieme hanno tre figli: le piccole Sajada e Aysha, e il maschio Daoud, un anno appena. La vita delle mogli dei combattenti stranieri è monotona, sotto stretta sorveglianza; le vedove vengono tenute in una specie di residence chiamato “Panorama”. A Raqqa non c’è nulla di quello che avevano promesso i predicatori e i reclutatori salafiti: il paradiso è solo per i capi dell’Isis, una “mafia” formata dagli sceicchi della tribù locale degli Shawir e dagli emiri stranieri, maghrebini, iracheni e del Golfo. I combattenti sono invece “carne da cannone”, inviati allo sbaraglio, alla morte certa sul fronte. Restano solo le loro vedove, e i loro figli, nel sezione speciale del campo di Ain Issa. Libia. Nelle prigioni lo stupro maschile è usato come arma lettera43.it, 4 novembre 2017 Prigionieri violentati con manici di scopa. Migranti costretti a usare violenza contro altri detenuti per sopravvivere. L’inferno delle carceri svelato da un’inchiesta giornalistica. Nella Libia in preda all’anarchia e divisa fra milizie armate, lo stupro maschile viene praticato “sistematicamente” come strumento di umiliazione, soggiogamento e dominazione o per mettere fuori gioco avversari, essendo nella cultura araba la sodomia un tabù assoluto e un’onta socialmente irreparabile. In diversi casi le vittime venivano gettate in una una stanzetta con altri detenuti, ai quali veniva ordinato di sodomizzarle, dietro la minaccia di morte. Lo scrive il quotidiano britannico The Guardian sulla base di dolorose testimonianze dirette raccolte da un’inchiesta svolta da una ong libica e da un giornalista di Le Monde. L’inchiesta contiene testimonianze e filmati di stupri di uomini con l’utilizzo di diversi strumenti, come manici di scopa attaccati alle pareti e perfino razzi. “Violentalo o sei morto”. In particolare un testimone, Ahmed, ha raccontato di essere stati detenuto per quattro anni in una prigione a Tomina, alle porte di Misurata. “Ti separano (dagli altri) per soggiogarti”, ha detto, confermando di essere stato costretto a sodomizzarsi da solo con un manico di scopa fissato al muro se avesse voluto mangiare. “Non potevo muovermi finché il carceriere non vedeva scorrere il sangue. Nessuno poteva sfuggire...”, ha aggiunto. Secondo Ahmed almeno 450 uomini si trovavano in quel ramo della prigione. “C’era un uomo di colore”, continua, “un migrante. La sera veniva gettato all’interno delle nostre celle e gli veniva ordinato: Violentalo altrimenti sei morto”. “Soggiogare è l’espressione da loro usata”, spiega Ahmed. “E significa che non potrai mai più rialzare la testa, anche perché loro filmano il tutto con i loro telefonini”. Le persone che subiscono questo tipo di umiliazione si considerano troppo danneggiate per poter ritornare alla loro vita pubblica. Il regime di Gheddafi era stato accusato in passato di aver usato lo stupro maschile come arma durante la rivoluzione del 2011 che portò alla morte del raìs, ma fino a ora mancavano le prove. I lealisti del Colonnello, conferma un esiliato libico al Guardian, “stupravano durante la rivoluzione. Quando sono stati sconfitti, hanno subito la stessa violenza”. Pakistan. Negate le visite dei sacerdoti ai detenuti cristiani asianews.it, 4 novembre 2017 Nel 2015 il divieto era imposto agli imam per prevenire il terrorismo. Agli inizi del 2016 sono state bloccate le visite di tutti i leader religiosi. Cristiani discriminati dietro le sbarre e costretti a svolgere lavori degradanti. In Pakistan ai detenuti cristiani viene negato il conforto della fede da parte dei sacerdoti. Lo denuncia il World Watch Monitor, che ha ottenuto il permesso di visitare alcuni carcerati rinchiusi nelle case circondariali di tutto il Paese. Il rev. Maurice Shahbaz, direttore della Prisons Mission Society of Pakistan, dichiara che è da più di un anno che tenta di avere il consenso per le visite ai detenuti da parte di missionari, evangelici e pastori. Questo consentirebbe ai cristiani, già discriminati dai compagni di cella a causa della loro fede, di avere per lo meno la consolazione della fede. Tariq Mehmood Khan Babar, vice ispettore generale, fa sapere che il blocco delle visite degli imam ai detenuti risale agli inizi del 2015, in concomitanza con l’approvazione del National Action Plan. Si tratta del piano di prevenzione al terrorismo lanciato da Islamabad in seguito alla strage dei talebani alla scuola militare di Peshawar del dicembre 2014, che provocò la morte di 132 bambini. Se all’inizio l’obiettivo era sradicare l’estremismo islamico che dall’esterno poteva filtrare nelle prigioni, il risultato finale è stata una restrizione generale della libertà di culto di tutti i carcerati. Il pastore Shahbaz riporta che l’interruzione delle visite è stata decretata all’inizio del 2016, quando “l’ex ispettore generale, Mian Farooq Nazir, ha imposto il divieto a leader religiosi e insegnanti di accedere nelle carceri e fare visita ai prigionieri”. Questa decisione ha effetti anche sulla durata della detenzione, dato che una legge del 1978 prevede una riduzione di pena in caso di superamento degli esami scolastici, che ora non sono più consentiti. La situazione dei detenuti cristiani in Pakistan, Paese a maggioranza islamica, è penosa. Gran parte di essi rivelano di subire maltrattamenti a causa della religione. Lamentano che il comportamento degli altri carcerati e delle guardie cambia non appena vengono a sapere che essi professano il cristianesimo. Da quel momento, vengono trattati come “intoccabili” e costretti a mansioni considerate degradanti come la pulizia dei bagni. Non solo, date le lungaggini burocratiche del sistema giudiziario, i cristiani rischiano di rimanere dietro le sbarre per lunghi periodi di tempo, soprattutto se sono accusati di blasfemia, che in Pakistan viene punita con la pena di morte. Gli attivisti sostengono che spesso queste denunce sono effettuate per vendetta personale o per interesse da parte degli accusatori. I difensori dei diritti umani aggiungono che la questione più spinosa è che i tribunali impiegano anni per accertare la veridicità dei fatti e, nel caso, assolvere gli incolpati. Nel frattempo, i carcerati languono nelle celle. Uno di loro, Yousuf Sodagar, assistente sociale, ricorda: “Sono stato imprigionato per sbaglio nel 1993. Ho chiesto all’ispettore carcerario che ai detenuti fosse concesso di pregare insieme. Dapprima ci sono stati concessi due momenti di adorazione, poi uno solo. Quando in seguito ho incontrato il sovrintendente delle carceri del distretto di Kasur, egli mi ha detto che i cristiani avrebbero dovuto pregare in modo decente e con musica a basso volume”.