Il Garante: ok ai decreti per la riforma dell’O.P., servono integrazioni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 novembre 2017 Mauro Palma resta in attesa della restante parte. Rita Bernardini sottolinea la scrupolosità dell’esame. Il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma ha inviato ieri al ministro della Giustizia il proprio parere su una parte importante dei decreti attuativi che gli sono stati inviati il 27 ottobre scorso. Il Garante - si legge in un comunicato ufficiale - ha riferito che ha effettuato un’analisi articolata e dettagliata del testo relativa esclusivamente a quanto ricevuto finora. Questo riguarda una parte del lavoro svolto dalle Commissioni nominate dal ministro riguardanti i temi della sanità penitenziaria, della semplificazione dei procedimenti, giurisdizionali e non, dell’eliminazione di automatismi e preclusioni per l’accesso, da parte di detenuti e internati, ai benefici penitenziari, del rafforzamento dei diritti dei detenuti e internati e del lavoro penitenziario. Esprimendo il complessivo apprezzamento per il testo presentato, in uno spirito di cooperazione, il Garante nazionale ha formulato indicazioni di necessarie integrazioni e modifiche a singoli articoli, nel perimetro definito dai criteri direttivi della legge delega e nella prospetti- va indicata dall’ampio dibattito sviluppato dagli Stati generali dell’esecuzione penale. Il Garante - che è tenuto a esprimere il proprio parere su ogni proposta di legge relativa al proprio ambito di competenza - resta in attesa della restante parte dello schema di decreto, riaffermando la propria disponibilità a esprimere analoghi pareri sui testi che perverranno, negli stessi tempi rapidi che si sono osservati in questa occasione. Un plauso alla celerità e accuratezza del lavoro di Mauro Palma in merito alla visione dei decreti, giunge da Rita Bernardini, della presidenza del Partito Radicale, che assieme all’avvocatessa Deborah Cianfanelli, presidente del comitato Radicale per la Giustizia “Pietro Calamandrei”, sono al 19esimo sciopero della fame per chiedere che vengano al più presto approvati i decreti attuativi per la riforma dell’ordinamento penitenziario. Nel frattempo il ministro Orlando ha fatto sapere che convocherà i sindacati della polizia penitenziaria per discutere i contenuti dei decreti attuativi. Colazione, pranzo e cena a 3,90 euro: per il Tar non è garantita la qualità di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 novembre 2017 La diaria giornaliera è rimasta uguale a quella evidenziata in un rapporto della Corte dei conti del 2014 e i reclusi sono costretti a ricorrere al “sopravvitto”. La diaria giornaliera prevista per garantire dei pasti di qualità per i detenuti piemontesi non è stata ritenuta sufficiente. Per questo motivo il Tar del Piemonte ha sospeso la gara suddivisa in lotti indetta dal ministero della Giustizia relativo all’affidamento del servizio di mantenimento dei detenuti e internati degli istituti penitenziari del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta attraverso l’approvvigionamento di derrate alimentari derivanti da processi di produzione a ridotto impatto ambientale per il confezionamento di pasti giornalieri completi (colazione, pranzo e cena) ai ristretti negli Istituti penitenziari, con assicurazione del servizio di Sopravvitto. Il valore stimato dal bando corrisponde per un totale 24.193.104,00 Iva esclusa per un totale di 36 mesi di erogazione del servizio da parte del vincitore di gara. Una gara però sospesa - il sette settembre scorso sono scaduti i termini di presentazione - perché i giudici ritengono che la diaria giornaliera (€ 3,90 per detenuto per tre pasti quotidiani) indicata a base d’asta non fosse sufficiente a garantire una offerta di qualità, competitiva e remunerativa. L’udienza di merito è fissata al 10 gennaio 2018. Nel frattempo, questa sospensione, riapre la questione rimasta tuttora irrisolta del vitto e sopravvitto dei penitenziari. Sì, perché la diaria giornaliera è rimasta tale e quale a quanto ha denunciato un vecchio rapporto della Corte dei Conti, risalente al 2014, che mette all’indice il business del vitto e conseguentemente il sopravvitto. Se con tre euro e 90 viene garantita la colazione, pranzo e cena a ciascun detenuto, viene da se immaginare che nessuno di loro riesca a sfamarsi con quello che offre lo Stato. Motivo per il quale i detenuti sono costretti a ricorrere al cosiddetto “sopravvitto”: gli alimenti da acquistare negli empori interni agli istituti. I prodotti in vendita sono gestiti dalla stessa ditta appaltatrice che fornisce anche i generi alimentari per la cucina. Il problema è che i prodotti in vendita hanno cifre da capogiro e non tutti i detenuti hanno la possibilità di acquistarli. Per capire i prezzi abbiamo l’esempio recente di un listino riportato da una lettera di denuncia dei detenuti del carcere di Secondigliano: 500 grammi di provola 4,30 euro, un chilo di banane 99 centesimi, cento grammi di prezzemolo 0,26 euro, una bottiglia di olio extravergine da un litro 4.99 euro, 250 grammi di caffè 2,70 euro, un chilo di scarole in confezioni 2,30 euro. una singola bottiglia d’acqua da un litro e mezzo va da 0,37 a 0,55 euro. E così via. I detenuti evidenziano nel prezzario anche alcuni articoli da cucina, come la bomboletta gr. 190 (2,05 euro) e una serie di articoli natalizi: biglietti augurali (1.35 euro), datteri gr. 250 (1,49 euro) e i mustaccioli gr. 400 (4,50 euro). E ancora: carta igienica 10 rotoli (2,42 euro), l’accendino bic (1.02 euro). L’istituzione del sopravvitto risale al 1920 - anno nel quale fu stabilito il Regolamento Generale per gli stabilimenti carcerari - e le ditte che si vincono le gare d’appalto per entrambi i servizi nelle carceri italiane sono 14. Società che però, indirettamente, vengono facilitate dai bandi stessi: uno dei criteri di selezione, come si legge nel recente bando, è il “fatturato annuo medio specifico nel settore di attività oggetto del presente appalto nel triennio 2014 - 2016”. Quindi viene da se pensare che abbiano più chance le ditte che nel triennio precedente abbiano regolarmente svolto rapporti analoghi con gli enti pubblici. Da anni i detenuti segnalano che i prezzi sono troppo cari, e da anni i volontari che provano a fare una verifica nei supermercati della zona hanno verificato che i prezzi interni al carcere sono uguali a quelli dei negozi. Apparentemente quindi sembrerebbe che il costo del ‘ sopravvitto’ rispetti l’ordinamento penitenziario, il quale recita: “I prezzi non possono essere superiori a quelli comunemente praticati nel luogo in cui è sito l’Istituto”. Ma non è esattamente così. La regola dell’ordinamento è vecchia e andrebbe aggiornata. Era l’epoca in cui non esistevano i discount, e i prezzi erano accessibili. Oggi, soprattutto con la crisi economica, molte persone non possono permettersi di fare spesa nei negozietti e quindi ricorrono ai discount, oppure fanno acquisti nei mercati a Km zero dove hanno tagliato i costi del trasporto e distribuzione. Ma per i detenuti non è così. Per loro vale la dittatura del prezzo unico e ciò crea malumore all’interno delle carceri. Soprattutto quando c’è un gran numero di detenuti che non hanno una famiglia alle spalle, basti pensare agli immigrati. Un problema che esiste da anni. Eppure proprio grazie ad un esposto del partito radicale, nel 2011, l’allora capo del Dap aveva predisposto un’indagine approfondita e una valutazione attenta sui costi del sopravvitto. Più reati punibili solo a querela di Giovanni Galli Italia Oggi, 3 novembre 2017 Colpevole punito se il danneggiato ne ha interesse. Il consiglio dei ministri ha dato ieri il via libera a uno schema di decreto che estende la procedibilità a querela di parte a quei reati contro la persona e contro il patrimonio che si caratterizzano per il valore privato dell’offesa o per il suo modesto valore offensivo. Si punta ad alleggerire i tribunali favorendo meccanismi di conciliazione per i reati di minore gravità. Disposizioni di modifica della disciplina del regime di procedibilità per taluni reati” dà attuazione alla legge di riforma del Codice penale, del Codice di procedura penale e dell’ordinamento penitenziario (legge 23 giugno 2017, n. 103) con l’obiettivo di migliorare l’efficienza del sistema penale, favorendo meccanismi di conciliazione per i reati di minore gravità, anche attraverso la collegata operatività dell’istituto della estinzione del reato per condotte riparatorie, che riguarda i reati procedibili a querela ma con querela rimettibile, e di conseguenza una maggiore efficacia dell’azione di punizione dei reati più gravi. Il fine ultimo è quello di un alleggerimento dei carichi che gravano sui tribunali. In particolare, la procedibilità a querela viene introdotta per i reati contro la persona puniti con la sola pena pecuniaria o con la pena detentiva non superiore a quattro anni, con l’eccezione per il delitto di violenza privata, nonché per i reati contro il patrimonio previsti dal Codice penale. Viene fatta salva, in ogni caso, spiega una nota di Palazzo Chigi, la procedibilità d’ufficio qualora la persona offesa sia incapace per età o per infermità, o ricorrano circostanze aggravanti a effetto speciale ovvero le circostanze aggravanti indicate all’articolo 339 del Codice penale o, in caso di reati contro il patrimonio, il danno arrecato alla persona offesa sia di rilevante gravità. Inoltre, in relazione a reati che già prevedono la procedibilità a querela nella ipotesi base, si riduce il novero delle circostanze aggravanti che comportano la procedibilità d’ufficio. “In tal modo”, si legge nella nota, “le nuove norme fanno emergere e valorizzano anche l’interesse privato alla punizione del colpevole in un ambito connotato dall’offesa a beni strettamente individuali, collegandolo alla necessità di condizionare la repressione penale di un fatto, astrattamente offensivo, alla valutazione in concreto della sua gravità da parte della persona offesa”. Ecco la riforma delle intercettazioni: un po’ meno fango di Giulia Merlo Il Dubbio, 3 novembre 2017 Via libera del governo al decreto legislativo che riforma le intercettazioni. Un’approvazione che ora mette il dl sul binario delle Commissioni giustizia di Camera e Senato, che potranno esprimere un parere (non vincolante) entro 45 giorni. Se non lo fanno, il provvedimento diventa operativo. “Abbiamo affrontato un tema annoso, senza restringere la facoltà dei magistrati e delle forze dell’ordine di utilizzare le intercettazioni nelle indagini, e senza interferire sulla libertà di stampa e sul diritto di cronaca, ma riducendo il rischio della fuga di notizie se non sono legate a fatti penalmente rilevanti” è il commento a caldo del ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Il Consiglio dei Ministri si è espresso, dando il via libera preliminare al decreto legislativo che riforma le intercettazioni. Un’approvazione che ora mette il dl sul binario delle Commissioni giustizia di Camera e Senato, tenute a esprimere parere non vincolante sul testo nel termine di 45 giorni, decorsi i quali le norme sulle intercettazioni potranno comunque essere emanate dal Governo. “Il provvedimento affronta un tema annoso, non restringe la facoltà dei magistrati e delle forze dell’ ordine di utilizzare le intercettazioni nelle indagini”, anzi, “in un passaggio rende più semplice la richiesta intercettazioni per i più gravi reati contro la Pubblica Amministrazione, e non interviene sulla libertà di stampa e il diritto di cronaca ma riduce il rischio della fuga di notizie se non sono legate a fatti penalmente rilevanti” è il commento a caldo del ministro della Giustizia, Andrea Orlando, che su questo decreto ha investito non poca della sua credibilità. Il Guardasigilli ha sottolineato i due aspetti da bilanciare: da una parte la riservatezza delle comunicazioni rilevanti e dunque la necessità di far fronte al rischio di divulgazione sulla stampa, dall’altra la necessità di disciplinare gli ascolti, tenendo ferma l’insostituibilità delle intercettazioni come mezzo di prova. “Le intercettazioni non sono disposte per far luce sulla sfera personale dei singoli ma per perseguire reati” ha ribadito Orlando, cui ha fatto eco anche il premier Paolo Gentiloni: “Noi non limitiamo l’uso delle intercettazioni ma contrastiamo l’abuso, sappiamo che questo strumento è fondamentale per le indagini e in nessuno modo vogliamo limitare la possibilità di disporre di uno strumento per la magistratura fondamentale per contrastare i reati più gravi”. Il primo ministro ha definito “giusta ed equilibrata” la proposta e ha ricordato come il testo potrà essere “arricchito nelle commissioni parlamentari”, seppur con proposte non vincolanti. Quanto ai contenuti del testo, Orlando ha illustrato le norme soprattutto per quanto riguarda la procedura di selezione delle intercettazioni. “Un primo vaglio viene effettuato dalla polizia giudiziaria, sotto il controllo del magistrato. Un vaglio che serve a togliere ciò che non è penalmente rilevante”. Per quanto riguarda le garanzie della difesa, invece, “c’è un meccanismo che può portare anche a un contraddittorio per verificare se ciò che viene prodotto è rilevante penalmente e l’ultima parola è rimessa a un giudice terzo”, ha proseguito Orlando, sottolineando come il decreto rafforzi “l’individuazione delle responsabilità nella custodia delle intercettazioni” e tuteli gli avvocati “attraverso l’impossibilità di trascrivere le intercettazioni tra il cliente e il suo legale”. Il varo in Cdm ha suscitato le immediate reazioni della galassia giudiziaria, oltre che del mondo politico. L’Anm, per bocca del presidente Eugenio Albamonte, ha definito “apprezzabile” lo sforzo del governo, definendo “centrato l’obiettivo di piena tutela della privacy e della riservatezza di chi con le indagini nulla c’entra: condividiamo questo aspetto”. Unico aspetto criticato dal sindacato delle toghe è la norma sull’utilizzo dei software spia Trojan Horse: “Questa è la parte più debole della riforma. Si tratta di un arretramento che non risponde allo spirito della giurisprudenza. Non si è compreso che questo strumento tecnico serve a mettere al passo coi tempi le capacità investigative”. Lo stesso parere favorevole, invece, non è condiviso dalle Camere Penali Italiane. Il segretario Francesco Petrelli ha sottolineato come il decreto “rischia di segnare un arretramento sotto il profilo delle garanzie della difesa”, perché “non sancisce un divieto di ascolto delle conversazioni assistito-avvocato, ma un divieto di trascrizione, comportamento che per altro non è coperto da alcuna sanzione”. Inoltre, “la selezione tra materiale rilevante e irrilevante non avviene nel pieno contraddittorio tra le parti e scandito da tempi che consentano al difensore di esaminare e conoscere bene il materiale intercettato, che è spesso molto vasto e che il pm le conosce da mesi: così si pongono le condizioni per un contraddittorio zoppo”. Sul fronte politico, invece, se Alternativa Popolare plaude al testo, volano strali da parte del Movimento 5 Stelle e Forza Italia. “Una riforma semplicemente ridicola - tuona il deputato forzista Francesco Paolo Sisto. Penalizza l’esercizio dei diritti della difesa, con complicazioni procedimentali che rendono pressoché impossibile il contraddittorio su quanto intercettato. Si tratta della triste conferma che questo governo ha a cuore solo gli interessi delle procure”. E anche il candidato premier del Movimento 5 Stelle Lugi di Maio, impegnato nella campagna elettorale siciliana, attacca il governo sul testo: “Governo e Pd hanno coronato il sogno di Berlusconi: limitare l’utilizzo delle intercettazioni telefoniche per la magistratura”. Ora la palla passa alle commissioni parlamentari, ma l’approvazione in Cdm era l’ultimo giro di boa necessario per mettere al sicuro il testo prima della fine della ghigliottina di fine legislatura. Il passo indietro della riforma delle intercettazioni di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 3 novembre 2017 Il Consiglio dei ministri esercita la delega e vara il decreto per limitare la diffusione degli ascolti irrilevanti nelle indagini. Soddisfazione dei magistrati, avvocati penalisti contrari. Magistrati e giornalisti abbastanza soddisfatti, avvocati penalisti contrariati assai: la nuova legge sulle intercettazioni durante le indagini, annunciata come una rivoluzione, non cambia molto lo status quo. Assai più timida rispetto alle prime ipotesi circolati al ministero della giustizia, ha preso forma ieri in una bozza di decreto delegato (la legge delega è entrata in vigore il 3 agosto dunque il termine di tre mesi per il governo scadeva oggi). Il decreto sarà adesso sottoposto alle commissioni giustizia di camera e senato che devono esprimersi in 45 giorni, scadenza che arriva quasi a coincidere con la fine della legislatura. O addirittura la supera, nel caso in cui il governo non vorrà adattarsi alle indicazioni del parlamento (in quel caso sono previsti altri 10 giorni di esame in commissione). Proprio a ridosso dello scioglimento delle camera, dunque, arriverà quella riforma delle intercettazioni che tanto ha fatto litigare destra e sinistra nell’ultimo quarto di secolo, quasi esclusivamente in relazione alle intercettazioni di esponenti politici. “Finalmente dopo anni di discussione abbiamo una soluzione a mio avviso giusta ed equilibrata”, ha detto il presidente del Consiglio Gentiloni. Mentre il ministro della giustizia Orlando ha assicurato che “il testo non restringe la facoltà dei magistrati e degli investigatori di usare le intercettazioni come strumento di indagine, non interviene sulla libertà di stampa, ma solo sulla procedura attraverso la quale vengono selezionate le intercettazioni”. La distinzione, in realtà presente già nella legge in vigore, è tra intercettazioni irrilevanti per le indagini e intercettazioni rilevanti. La novità è che un primo vaglio del materiale è affidato alla sola polizia giudiziaria, che non potrà più trascrivere nemmeno sommariamente il contenuto delle intercettazioni irrilevanti o che contengono dati personali sensibili. Il pubblico ministero non interviene direttamente in questa fase, se non avendo precedentemente dato istruzioni e direttive perché la polizia giudiziaria possa orientarsi nel caso di contenuto dubbio. Il materiale inutilizzabile è custodito sotto la responsabilità del pm. Nella fase successiva tutte le conversazioni, anche quelle non trascritte, vengono depositate in modo da consentire l’esame dei difensori, che però non potranno fotocopiare il testo delle trascrizioni (potranno copiare l’audio): tutti gli accessi all’archivio del pm saranno registrati. A quel punto pubblica accusa e difesa dovranno trovare un accordo su quale materiale accludere agli atti e quale stralciare come irrilevante; in caso di mancato accordo deciderà un giudice a seguito di una sorta di udienza-filtro. La procedura è più lunga ma nelle intenzioni del governo eviterà la circolazione di intercettazioni irrilevanti. Ma è caduta la previsione più stringente della prima bozza ministeriale, che vietava di accludere agli atti dell’indagine - tipo i provvedimenti cautelari, strumento classico per veicolare al pubblico le intercettazioni durante la fase delle indagini - il testo integrale dei colloqui, prevedendo la possibilità di fare solo una sintesi. Per i giornalisti, la Federazione nazionale della stampa ha tenuto a ribadire che “non potrà mai far venir meno il diritto-dovere del giornalista di pubblicare qualsiasi notizia, anche coperta da segreto, che abbia rilevanza per l’opinione pubblica”. Il diritto di cronaca è stato previsto (assieme al diritto alla difesa) come eccezione nel caso di un altro divieto contenuto dal decreto e sanzionato con il carcere: quello di registrare e diffondere in maniera fraudolenta una conversazione tra privati. Per l’Unione delle Camere Penali, invece, il nuovo testo “rischia di segnare un arretramento sotto il profilo delle garanzie della difesa perché lascia ampio margine alla interpretazione” della polizia giudiziaria e “non sancisce un divieto assoluto di ascolto delle conversazioni tra assistito e avvocati” per le quali è stato inserito solo un divieto di trascrizione. Per l’Associazione magistrati, infine, “è centrato l’obiettivo di piena tutela della privacy e della riservatezza di chi con le indagini non c’entra nulla”. Non piace invece alle toghe che sia stato l’imitato - sostanzialmente ai reati di mafia e terrorismo - l’uso dei trojan, i captatori informatici comandati da remoto che sono in grado di registrare conversazioni ambientali. Se l’indagine vale più delle garanzie di Giovanni Verde Il Mattino, 3 novembre 2017 Il legislatore aveva dato delega al governo verno per l’emanazione di un decreto in materia di intercettazioni, fissando i criteri ai quali si sarebbe dovuto attenere. Erano criteri assai ampi. Il legislatore delegato, ad esempio, doveva dettare nonne per garantire la riservatezza dei colloqui con il difensore; per tutelare le persone occasionalmente coinvolte nelle intercettazioni, per evitare la diffusione indebita di dati sensibili. Ma anche per rendere possibili le intercettazioni utilizzando il captatore informatico su dispositivo elettronico portatile (il cosiddetto trojan). Oggi il decreto è stato predisposto e dovrà essere emanato dal Capo dello Stato. Si era parlato di un’udienza “filtro”, nella quale, nel contraddittorio delle parti, si sarebbero valutate le registrazioni da stralciare perché irrilevanti o perché acquisite indebitamente. Di essa nel decreto non c’è traccia. Resta che il pm deposita gli atti entro cinque giorni dalla conclusione delle operazioni, chiedendo al giudice l’autorizzazione all’acquisizione e dandone contestuale comunicazione ai difensori, che hanno cinque giorni per prenderne visione e fare richieste ed osservazioni. Nei successivi cinque giorni il giudice decide. Gli atti stralciati vanno conservati in un archivio tenuto dal pubblico ministero. Alle parti è lasciata la possibilità di chiederne la distruzione a tutela della riservatezza. Soltanto dopo che il giudice abbia disposto la trascrizione delle registrazioni le parti possono estrarne copia. Ci chiedevamo prima e continuiamo a chiederci oggi se questo sistema sia a ragionevole tenuta, posto che di regola le intercettazioni si dipanano in migliaia di pagine trascritte (così che il controllo in tempi brevi è del tutto aleatorio) e che, una volta acquisite, restano (a quanto pare) utilizzabili. Lascio da parte la segretezza dei dati conservati nell’ archivio (le esperienze pregresse non sono incoraggianti). Il secondo comma dell’ art 266 c.p.p. risulta oggi così modificato: “Negli stessi casi (indicati nell’art. 266) è consentita l’intercettazione di comunicazioni tra presenti, “che può essere eseguita anche mediante l’inserimento di un captatore informatico su dispositivo elettronico portatile” (frase aggiunta). Tuttavia qualora queste avvengano nella dimora dell’indagato, “e si procede per delitti diversi da quelli di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3- quater” (mafia e terrorismo, ndr), l’intercettazione è consentita solo se vi è fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa”. In sostanza il legislatore delegato ha equiparato totalmente alle tradizionali intercettazioni l’uso del “trojan”. Era questo il compito che gli aveva affidato il legislatore delegante? O non avrebbe dovuto il legislatore delegato disporre limiti ulteriori, in considerazione della particolare invasività dello strumento “captatore”? Il legislatore si è limitato a disporre (inserendo un comma nell’art. 267 c.p.p.) che “Il decreto che autorizza l’intercettazione.... mediante inserimento di captatore informatico... indica le ragioni che rendono necessaria tale modalità per lo svolgimento delle indagini; nonché, se si procede per delitti diversi da quelli di mafia e terrorismo, i luoghi e il tempo, anche indirettamente determinati, in relazione ai quali è consentita l’attivazione del microfono”. Di più: il pubblico ministero può fare ameno dell’autorizzazione in caso di urgenza, ma soltanto nei procedimenti per delitti di mafia e terrorismo. Di sicuro la delega si è limitata a prevedere che fosse disciplinato espressamente l’uso del “trojan”. Non diceva altro. Il legislatore ha utilizzato la vaghezza del criterio, procedendo a una sua completa assimilazione alle tradizionali intercettazioni. Si potrebbe dubitare della correttezza della delega e della ragionevolezza della disciplina predisposta dal legislatore delegato. Staremo a vedere. Il cittadino è avvertito. Da oggi, è possibile che egli sia “captato” a sua insaputa e soltanto perché si ritiene che possa essere coinvolto in un qualsiasi reato (essendo l’elenco dei reati per i quali sono possibili le intercettazioni, di cui all’art. 266 c.p.p., pressoché illimitato). E forse, se non è colto dalla sindrome giustizialista (alimentata da chi della denuncia ha fatto una professione), potrebbe andare indietro negli anni, a quei periodi non esaltanti della nostra storia (ben rappresentati, ad esempio, nei romanzi di Maurizio De Giovanni che hanno per protagonista il commissario Ricciardi). Potrebbe essere indotto a rapportare quei tempi, in cui vi era un controllo ossessivo delle nostre vite, ai tempi attuali, in cui il controllo è reso anche più invasivo per i mezzi tecnici a nostra disposizione. E potrebbe chiedersi per che cosa i nostri Padri hanno lottato, se i diritti fondamentali di libertà consacrati nella nostra Carta costituzionale sono considerati poca cosa, in quanto essi cedono alle esigenze della legalità, che li sopravanza. Il presidente dell’Anm si duole perché la legge costituirebbe un passo indietro rispetto a una sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione che ampliava la possibilità di utilizzare i captatori informatici, in quanto “dare al pubblico ministero più strumenti per intercettare serve a rendere effettiva l’efficacia investigativa”. Il punto è questo. Le esigenze dell’indagine penale fanno aggio sui diritti di libertà, che sono il sale della democrazia. Ci dobbiamo rassegnare. Tutto ciò non può non porre un ulteriore problema. I pubblici ministeri fanno parte di un corpo unico, la magistratura, al quale è affidata l’amministrazione della giustizia. Bisogna ritenere, pertanto, che il ruolo della magistratura sia quella del contrasto alla illegalità. Questo, tuttavia, può essere il compito dei pubblici ministeri. Di sicuro non è il compito dei giudici, ai quali spetta una funzione essenziale di garanzia, quale è quella di emanare la decisione (di condanna o di assoluzione) a conclusione del giusto processo. Oggi assistiamo ad una singolare inversione di metodo, perché le esigenze di una parte (quella requirente) di un organismo che amministra giustizia prevalgono su quelle dell’altra parte (quella giudicante), che dovrebbe costituire invece il perno principale dell’organizzazione. E non è un caso che a capo dell’Anm vi siano per solito pubblici ministeri (o giudici rimasti nell’intimo pubblici ministeri). È una situazione ibrida che sarebbe necessario dipanare, perché lo statuto dei pubblici ministeri non può essere completamente assimilato a quello dei giudici. Se essi reclamano e ottengono di potere indagare sulle nostre vite private senza alcun limite e se di ciò non possiamo fare a meno, bisogna trovare dei rimedi per fronteggiare adeguatamente i possibili abusi. Se la politica litiga anche sui fondi per le vittime delle violenze di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 3 novembre 2017 Il ministro Orlando promette nuovi fondi. Ma troppo poco: centri antiviolenza costretti a chiudere e dalle Pari Opportunità non è arrivato nulla nonostante le promesse. Adesso il ministro della Giustizia Orlando promette un nuovo stanziamento da 10 milioni di euro e conferma che “con la nuova legge di bilancio saranno quadruplicate le risorse”. Ma lo scambio di accuse tra partiti sugli indennizzi per le vittime di reati violenti, dimostra che anche un tema così delicato come quello che riguarda femminicidi e stupri, è già diventato terreno di scontro per la campagna elettorale. Perché è vero che per la prima volta un decreto stabilisce il risarcimento per le vittime, ma è altrettanto vero che la legge è stata fatta soltanto dopo le sanzioni inflitte all’Italia dall’Ue. E soprattutto si tratta di cifre irrisorie, se si pensa che per gli orfani di chi viene ucciso dal coniuge sono previsti 8.200 euro, mentre chi subisce un’aggressione sessuale ha diritto ad appena 4.800 euro. Soldi che possono essere elargiti soltanto se si dimostra di avere un reddito minimo e al termine di una procedura complessa. Si affida a un post su Facebook il Guardasigilli per sottolineare che “fino al 2016 nessun governo aveva mai previsto un risarcimento nel caso il cui l’autore di reato violento sia incapiente o non individuato”, ma poi ammette: “È stato fatto un primo passo, non sufficiente dal punto di vista delle risorse, ma che ci ha consentito di far nascere il fondo. Non è l’unica cosa che abbiamo fatto su questo fronte. Anche dal punto di vista processuale ed extraprocessuale abbiamo dato vita al nuovo statuto per le vittime e avviato la costruzione di una rete di tutela e di supporto”. Azioni che non appaiono comunque sufficienti, visto che numerosi centri antiviolenza sono in grave difficoltà e altri hanno chiuso per mancanza di fondi. Il dicastero delle Pari Opportunità aveva promesso un sostegno che non è mai arrivato e sembra difficile che i 5 milioni promessi dal ministero dell’Interno possano bastare a fare fronte alle necessità. Ma su tutto questo i partiti continuano a litigare con la Lega che giudica il provvedimento “vergognoso” e Forza Italia che definisce gli indennizzi “un’elemosina”. Da due giorni il Movimento 5 Stelle parla di “offesa alle vittime alle quali è stato concesso un misero obolo” e il Pd con David Ermini accusa i grillini di “non aver votato la legge sul femminicidio” e attacca: “In tutti i casi noi non prendiamo lezioni dal partito che ha usato la Rete per attacchi sessisti ignobili per i quali dovrebbero solo vergognarsi”. Tutti contro tutti, in attesa di fare nuove promesse quando ci sarà un’altra donna violentata o uccisa. La confisca è estesa a casi di corruzione consumata tra privati di Marco Mobili Il Sole 24 Ore, 3 novembre 2017 Riallineare il nuovo codice antimafia alle regole comunitarie in materia di confisca allargata, dove soprattutto è imposta l’adozione di questo strumento per la condanna nei casi di corruzione tra privati. È quanto prevede uno degli emendamenti che il Governo si appresta a presentare al decreto legge fiscale collegato alla manovra di bilancio e ora all’esame della Commissione Bilancio del Senato. E non è il solo. Nel pacchetto di correttivi proposti dai vari dicasteri e ora al vaglio dei tecnici di Palazzo Chigi e del Mef ci sono anche le norme che consentono al Consiglio nazionale dei commercialisti di istituire le Scuole di alta formazione e di prevedere l’iscrizione degli “specialisti” nella sezione A dell’albo. Per gli avvocati, invece, potrebbe arrivare una riduzione dei costi di gestione che sono chiamati a sostenere sul fronte assicurativo:?la polizza va prevista per i collaboratori, praticanti e dipendenti per i quali non sia attiva una copertura assicurativa obbligatoria Inail. Confisca allargata stile Ue - Il Presidente della Repubblica, nel promulgare il nuovo codice antimafia (dato in arrivo sulla Gazzetta Ufficiale di sabato prossimo) si era rimesso “alla responsabilità del Governo” nell’individuare, “in tempi necessariamente brevi”, modi e forme per “ripristinare, anche a fini della certezza del diritto”, le regole sulla confisca allargata con cui era stata data attuazione in Italia alla direttiva comunitaria numero 42 del 2014. Con l’emendamento che il Guardasigilli si appresta a presentare al Senato si punta a reintrodurre la possibilità di ricorrere allo strumento della confisca allargata per reprimere condotte corruttive messe in atto da soggetti che rivestono posizioni apicali di amministrazione di controllo di società o enti privati. Con lo stesso emendamento, poi, vengono inclusi nell’elenco dei reati presupposto per l’applicazione della confisca anche i fatti più gravi realizzati in forma associativa di uso illecito di carte di credito, di accesso illecito a più sistemi informatici. Le Saf dei commercialisti - Dopo gli avvocati arrivano anche le Scuole di alta formazione dei dottori commercialisti. Sempre con un emendamento del Governo al Dl fiscale su cui i tecnici dell’Esecutivo hanno avviato in questi giorni le istruttorie per depositarlo a Palazzo Madama, intervenendo direttamente sull’ordinamento professionale, si consente al Consiglio nazionale di garantire ai propri iscritti di conseguire il titolo di specialista promuovendo od organizzando l’istituzione di scuole di alta formazione. La norma, che comunque deve ancora ottenere il via libera del Parlamento, rende operative queste scuole già di fatto “in costruzione”. Inoltre, lo stesso emendamento prevede che nella sezione A dell’albo professionale gli elenchi siano suddivisi per specializzazioni dove sono riportati gli iscritti in possesso di titolo di specializzazione professionale collegato ad attività previste tra le competenze riconosciute. Vanno indicate anche le modalità di conseguimento di questa specializzazione. Per diventare “commercialista specialista” occorre essere iscritti da almeno 5 anni nella sezione A dell’albo e avere almeno 200 ore di percorsi formativi, o ancora un diploma di specializzazione universitaria, ovvero la qualifica di professore universitario di ruolo in materie giuridiche ed economiche. A istituire le Saf saranno gli Ordini territoriali in collaborazione con le università. L’emendamento, infine, fa salve le regole di accesso e di esercizio della revisione legale dei conti annuali e di quelli consolidati. All’extracomunitario convivente spetta il permesso per motivi familiari di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 3 novembre 2017 Consiglio Stato - Sentenza 31 ottobre 2017 n. 5040. Il Consiglio Stato, sentenza n. 5040/2017, ha stabilito che anche in assenza di un reale rapporto di lavoro subordinato, qualora sussista un rapporto di convivenza “evidente e dichiarato”, la Questura non può emanare un provvedimento espulsivo basandosi sulla sola assenza dei requisiti di reddito. Per il Collegio, che ha accolto il ricorso di una cittadina extracomunitaria contro la decisione del Tar Lombardia (che aveva confermato il diniego al rilascio del permesso della questura di Brescia), nonostante la sostanziale natura fittizia del rapporto di lavoro (collaborazione domestica), il rapporto di convivenza onerava comunque l’Amministrazione a valutare il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi familiari. Anche se tale disposizione, prosegue la decisione, è stata introdotta per regolare i rapporti sorti da unioni matrimoniali, “non può non applicarsi, in base ad una interpretazione analogica anche al partner con cui il cittadino dell’Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata con documentazione ufficiale”. Una simile conclusione prosegue la sentenza “non risponde solo ad un fondamentale principio di eguaglianza sostanziale, ormai consacrato, a livello di legislazione interna, anche dall’art. 1, comma 36, legge 20 maggio 2016, n. 76, per quanto qui rileva, sulle convivenze di fatto tra “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”, ma anche alle indicazioni provenienti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo che, anche in questa materia, si è premurata di chiarire che la nozione di “vita privata e familiare”, contenuta nell’art. 8, par. 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo includa, ormai, non solo le relazioni consacrate dal matrimonio, ma anche le unioni di fatto nonché, in generale, i legami esistenti tra i componenti del gruppo designato come famiglia naturale”. Mentre, prosegue la decisione, “la circostanza che l’attuale legislazione in materia di permessi di soggiorno non sia stata ancora adeguata o comunque ben coordinata, sul punto, alle riforme introdotte dalla legge n. 76 del 2016 sulle unioni civili e di fatto, consentendo il rilascio del permesso di soggiorno per motivi familiari anche al convivente straniero di cittadino italiano, non osta all’applicazione mediata, anche in via analogica, degli istituti previsti dalla legislazione in materia di immigrazione per le unioni matrimoniali”. Non può che discenderne, conclude il Cds, l’illegittimità del decreto della Questura “nella misura in cui, pur correttamente rilevando che non sussistessero i presupposti reddituali per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato, non ha però valutato in violazione dell’art. 5, comma 9, del d. lgs. n. 286 del 1998”. Nelle tentate lesioni aggravate rientra in automatico lo stalking se si procede d’ufficio di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 3 novembre 2017 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 2 novembre 2017 n. 50088. A carico del soggetto condannato a un anno e quattro mesi per tentate lesioni aggravate nei confronti di una donna per averle messo del veleno nella bottiglia dell’acqua deve sussistere anche il riconoscimento del collegato delitto per stalking. Lo precisa la Cassazione con la sentenza n. 50018/2017. La Corte ha chiarito che per poter includere il reato ex articolo 612-bis del codice penale è stato necessario applicare al delitto tentato le medesime regole valide per quello consumato. E allora è evidente che nel reato di lesioni la procedibilità d’ufficio scatta se la prognosi probabile a seguito dell’illecito superi i 20 giorni di prognosi. Ipotesi questa che sicuramente ricorreva nel caso concreto visti gli effetti del veleno posto nella bottiglia dell’acqua. Secondo la Corte quindi il reato di stalking era assolutamente collegato e compreso da quello più grave di tentate lesioni. E così come non era necessario procedere alla querela di parte sul fronte delle lesioni altrettanto poteva dirsi sul fronte dello stalking. Di fatto la donna a seguito dell’accaduto aveva vissuto un forte stato d’ansia e preoccupazione per la sua incolumità personale. Non è stata accettata, quindi, la tesi della difesa secondo cui il delitto “satellite” sussisteva solo ove fosse stato consumato. Si legge per concludere nella sentenza che “laddove ricorra una delle circostanze indicate dal secondo comma dell’articolo 582 del codice penale(lesione personale) può certamente prescindersi da più o meno ragionevoli pronostici sull’entità delle lesioni che si sarebbero potute produrre in danno del soggetto passivo, che invece la difesa sollecita invitando ad avere riguardo agli accertamenti peritali e al più o meno elevato grado di tossicità delle sostanze con cui era stata contaminata l’acqua destinata a essere consumata dalla donna. E nella fattispecie concreta la rubrica contiene l’espresso richiamo al citato capoverso dell’articolo 582, in relazione agli articoli 585e 577, comma 1, n. 2 del codice penale in ragione dell’impiego di mezzo venefico o comunque insidioso”. Arrestato con la marijuana, assolto perché “era erba sacra che gli serviva per meditare” La Repubblica, 3 novembre 2017 Arrestato con la marijuana, viene assolto perché “era erba sacra che gli serviva per meditare”. Il tribunale di Bari ha pubblicato le motivazioni della sentenza con cui nell’aprile scorso ha assolto “perché il fatto non sussiste” un tabaccaio 30enne di Toritto adepto della religione rastafariana. Gli adepti della religione rastafariana “fanno uso di marijuana come erba sacra destinata alla meditazione” e per questo possederne per uso personale non è reato. Lo spiega il tribunale di Bari nelle motivazioni della sentenza con cui nell’aprile scorso ha assolto “perché il fatto non sussiste” un tabaccaio 30enne di Toritto (Bari) che era stato trovato in possesso di quasi 60 grammi di sostanza stupefacente. L’uomo fu arrestato in flagranza nel maggio 2016 dalla polizia ferroviaria con in tasca 8 grammi di marijuana. Nella successiva perquisizione domiciliare gli agenti sequestrarono in casa altri 50 grammi della stessa sostanza. Il 30enne dichiarò subito di essere “cultore della religione rastafariana” e in sede di convalida dell’arresto il giudice ne dispose l’immediata scarcerazione. La fede religiosa del rastafarianesimo ha fra i suoi precetti l’utilizzo della marijuana come erba medicinale, ma anche come erba meditativa, apportatrice di saggezza, ausilio alla preghiera. Le spiegazioni fornite dall’imputato, unite all’assenza di elementi dai quali avrebbe potuto evincersi una destinazione allo spaccio della marijuana, come bustine di plastica, scotch o sostanze da taglio, denaro contante in banconote di piccolo taglio, “inducono a ritenere - si legge nelle motivazioni della sentenza - che la droga fosse effettivamente detenuta per uso esclusivamente personale”. È reato taroccare il gratta e sosta di Mimmo Carola Il Sole 24 Ore, 3 novembre 2017 La Cassazione, con la sentenza n. 48107/2017, ha condannato un automobilista per l’apposizione di un biglietto falso sul cruscotto del proprio veicolo ribadendo che la falsificazione costituisce delitto contro la fede pubblica. Il fatto. Nel corso di un controllo un operatore di polizia locale richiede l’intervento della polizia giudiziaria al fine di verificare la falsità del ticket “gratta e sosta” posizionato sul cruscotto di un’autovettura. Dopo le verifiche del caso e la risultanza che il ticket apposto era falsificato, inevitabile la condanna dell’automobilista ritenuto colpevole del reato di falsità materiale commessa da privato ex articoli 477e 482 codice penale, condanna confermata dalla Corte territoriale. Avverso la sentenza ricorre l’imputato, ritenendo che i Giudici non hanno valutato appieno l’infondatezza del rilievo di grossolanità del falso contestato giacché la situazione di evidente alterazione del cosiddetto ticket “gratta e sosta” era stata evidenziata anche nella comunicazione della notizia di reato ove si parlava di tagliandi “palesemente alterati” e comunque non era rilevante la circostanza, invece argomentativamente valorizzata nell’impugnazione, della ritenuta necessità di chiamare da parte dell’operatore la polizia giudiziaria per avere conferma della intervenuta alterazione dei tagliandi. Inoltre, a giudizio del ricorrente, è anche evidente l’irrilevanza penale della condotta, atteso che i tagliandi contraffatti erano stati emessi non già dal Comune di Milano ma dalla Atm (Azienda trasporti Milano) che giuridicamente è una società per azioni e dunque gli stessi erano rappresentativi di un rapporto obbligatorio di diritto privato e non erano pertanto riconducibili al concetto di autorizzazione amministrativa. La decisione della Corte - Gli Ermellini respingono il ricorso escludendo l’ipotesi della “grossolanità del ticket”, confermata anche dal fatto che il vigile urbano ha avuto la necessità di chiamare la polizia giudiziaria per avere conferma della alterazione del tagliando per la sosta. Parimenti la Corte ritiene infondata anche la censura riguardante l’asserita inconfigurabilità del reato di cui al combinato disposto degli articoli477e 482 del codice penale per la natura privatistica del soggetto imprenditoriale emittente il predetto tagliando, atteso che, per un verso, non risulta rilevante per i fini qui di discussione la forma iuris del soggetto emittente la descritta autorizzazione al parcheggio (essendo invece rilevante, per contro, il profilo oggettivo dello svolgimento di funzioni di carattere amministrativo di gestione del suolo pubblico da parte del soggetto a ciò autorizzato dall’ente territoriale) e che, per altro verso, lo svolgimento della funzione da ultimo menzionata da parte della società privata, nel caso de quo una Spa, avviene sempre sulla base di un rapporto concessorio o comunque autorizzatorio intercorrente tra l’ente territoriale, in questo caso, il comune di Milano e la detta società, rapporto attraverso il quale si trasferisce lo svolgimento delle necessarie funzioni amministrative al soggetto imprenditoriale che gestisce il relativo servizio di utilizzazione del suolo pubblico e di parcheggio cittadino. Portoferraio (Li): convegno del Seac a cinquant’anni dalla sua fondazione tenews.it Il ritrovarsi del coordinamento di enti e associazioni del volontariato penitenziario. A cinquant’anni dalla sua fondazione e dal suo primo convegno, che si tenne a Portoferraio nel settembre 1967 per iniziativa di uomini e donne di Azione Cattolica, il Seac (che si definisce Coordinamento di Enti e Associazioni di Volontariato Penitenziario) ha chiamato a raccolta i volontari che operano in carcere e per il carcere proprio nell’isola dove nacque, per due giornate di confronto, di riflessione, di testimonianze. Così il 27 e28 ottobre numerosi volontari, giunti da Verona, da Roma, da Pisa e, naturalmente, elbani, si sono riuniti all’Elba, in amicizia, guidati da frà Beppe Prioli, frate francescano, fondatore, nel 1968, della Comunità “La Fraternità di Verona”, il quale del SEAC e del volontariato carcerario in genere è anima e generoso ispiratore. Secondo programma, il primo incontro si è tenuto a Portoferraio, nella sala convegni del Centro “De Laugier”, gentilmente concesso dal Comune, rappresentato con simpatico e caloroso saluto dal vicesindaco Roberto Marini. Il tema è la condivisione, operare insieme a favore del pianeta carcere. Numerosi gli interventi, fra i quali quello della presidente nazionale, Laura Marignetti, che traccia la storia del Seac ed auspica un sempre maggior impegno all’esterno del carcere, mentre il Garante dei detenuti di Porto Azzurro, Nunzio Marotti, rappresenta efficacemente la situazione attuale della Casa di Reclusione longonese, con i suoi decisi passi in avanti, ma anche con le sue criticità. Silvia Buoncristiani, coordinatrice Seac per la Toscana e volontaria dell’Associazione pisana “Controluce”, tra l’altro mette al centro del suo intervento ancora come prioritario il valore dell’accoglienza. Sull’importanza dell’accoglienza, dell’ascolto e del confronto si soffermano i volontari della “Fraternità” e della locale Associazione “Dialogo”, la quale, insieme con le educatrici Giuseppina Canu e Barbara Radice e con il cappellano don Francesco Guarguaglini, ha contribuito all’organizzazione dell’iniziativa. Dopo il termine del dibattito, concluso da fra Beppe con il suo schietto parlare e con il suo indubbio carisma, è seguita la cena presso la mensa Caritas di San Giuseppe a Carpani in Portoferraio. Sabato 28, dopo la Messa concelebrata da don Francesco e da frate Davide nella chiesa parrocchiale di Porto Azzurro, il convegno si è trasferito nel Belvedere presso la Casa di Reclusione longonese, dove, in una splendida mattina di sole, accoglie i partecipanti il cordiale e ospitale benvenuto del Direttore Francesco D’Anselmo, che parla delle condizioni attuali dell’Istituto da lui diretto e dei progetti per renderle progressivamente migliori, coniugando rispetto della legalità e senso di umanità. Si susseguono poi vari interventi, specie di detenuti e di familiari (due mamme nello specifico), che portano le loro testimonianze di sofferenza, di solitudine, ma anche di speranza, che si alimenta della vicinanza solidale, che supera steccati e pregiudizi. Dalle parole di chi il carcere lo vive è stata sottolineata la fondamentale importanza dei legami familiari, ma anche della vicinanza di persone che sappiano ascoltare e accogliere. Quali strumenti necessari alla riabilitazione sono stati dichiarati la cultura e il lavoro, dentro e fuori dal carcere. Il lavoro: ne parlano anche rappresentanti di cooperative e associazioni presso le quali lavorano alcuni detenuti. E diffusamente ne parla Paolo Mascellani, che sostiene che è l’ora di cambiare mentalità e di considerare il detenuto che esce dal carcere una risorsa e non un problema. E appunto sul “fine pena” si sofferma l’analisi del convegno, per ribadire l’assoluta necessità di creare condizioni adeguate per un fattivo e onesto reinserimento di chi, finalmente libero, si trova ad affrontare una realtà non facile, che altrimenti rischia di schiacciarlo di nuovo e di riaprirgli, come spesso succede, le porte del carcere. Arricchisce il dibattito Claudio Messina, che porta il suo apprezzato bagaglio di esperienza in quella assistenza ai carcerati, di cui la San Vincenzo dè Paoli è a tutti antica maestra. Un appello forte e accorato lancia infine frà Beppe a favore dell’abrogazione dell’ergastolo, pena disumana e anticostituzionale, che egli definisce un “peccato” per le nostre coscienze. Espressioni chiare ed equilibrate e di umana sensibilità pronuncia Giuliana Perrini, la Commissaria comandante della Polizia penitenziaria, di cui mette in luce il lavoro indispensabile e delicato, perché è grazie alla sicurezza e alla disciplina interna che si possono svolgere attività e progetti. La comandante denuncia anche lo stato di povertà di molti detenuti e apprezza l’aiuto e il sostegno della Associazione “Dialogo” ai più bisognosi. Suggella la bella mattinata un semplice aperitivo offerto dal locale volontariato, mentre la musica dello “Sugar Boys Group” e della “Piccola Orchestra Antani” regala con simpatia un gradito contributo all’evento con un concerto che unisce i partecipanti in un giorno di festa. Reggio Emilia: visita del Partito Radicale “in 44 nell’ex Opg, la situazione è critica” La Gazzetta di Reggio, 3 novembre 2017 Nuova ispezione della delegazione del Partito Radicale: “Pochi gli agenti e per di più non formati”. La situazione nel carcere della Pulce rimane delicata relativamente alla presenza di detenuti psichiatrici. L’ha constatato ieri la delegazione del Partito Radicale che, dopo la visita ispettiva del 24 febbraio scorso, è tornata nella struttura di via Settembrini. In febbraio erano 153 i malati psichiatrici (su un totale di 351 detenuti), con 50 di loro sotto osservazione nel nuovo reparto dell’ex Opg in cui opera un solo psichiatra una volta alla settimana. Ora il numero è calato a 44 internati sotto osservazione “ma in percentuale è una quantità molto superiore - rimarca Monica Mischiatti (associazione Piero Capone) che fa parte della delegazione radicale che ha incontrato i cronisti davanti alla Pulce - rispetto a tanti altri istituti carcerari e con la prospettiva, al momento, di non poter essere trasferiti nelle strutture riabilitative conosciute come Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza). Quindi il carcere si deve organizzare - conclude - per poter affrontare questo problema davvero serio”. Nelle Rems viene trasferito (nella struttura riabilitativa della propria regione di residenza) chi ha espiato la pena ed è incapace d’intendere e di volere, mentre restano nell’ex Opg gli internati che non hanno ancora saldato i conti con la giustizia ma anche quei detenuti che in carcere peggiorano visibilmente sul piano psichiatrico (“Perché il carcere produce queste forme di malattia”). Quindi i 44 detenuti psichiatrici restano - a Reggio - in una sorta di “limbo”, oltretutto sotto l’osservazione insufficiente non solo da un punto di visita numerico (quanto ad agenti penitenziari e personale sanitario), ma anche sul piano della specifica preparazione ad affrontare le malattie mentali. “Nell’ex Opg di Reggio la gestione senza l’adeguata preparazione medica per la tutela della salute mentale - spiega l’ex parlamentare radicale Maria Antonietta Farina Coscioni, presidente dell’istituto Luca Coscioni - non è un problema da poco per gli agenti penitenziari, con rischi connessi. Per non parlare del medico presente che è un precario a cui da 15 anni viene rinnovato il contratto annualmente. La nostra proposta? Bisogna cominciare a ragionare come in un’azienda privata in cui si ha attenzione per la salute e la preparazione professionale dei propri dipendenti. Durante l’ispezione - aggiunge - abbiamo apprezzato la disponibilità al dialogo del coordinatore sanitario Georgios Vertsonis. Continueremo a tenere sotto controllo la situazione che rimane di criticità”. Verona: Andrea Mirenda diventa magistrato di sorveglianza Corriere di Verona, 3 novembre 2017 Dopo la protesta pubblica contro un “sistema carrieristico” va ad occuparsi di detenuti. Per l’ufficialità si attende solamente la pubblicazione dei prossimi Bollettini Ufficiali del Ministero della Giustizia, a metà o fine mese. Ma alla fine, l’annunciata (e clamorosa) decisione del giudice Andrea Mirenda diventerà realtà: l’ormai ex presidente della sezione fallimentare prenderà servizio all’ufficio di magistrato di sorveglianza. “Vado ad occuparmi degli ultimi della terra, da ultimo dei magistrati” aveva scritto il giudice a fine luglio sulla propria bacheca Facebook. E il plenum del Csm nelle scorse settimane ha dato il via libera alla sua domanda di trasferimento: resterà all’ex Mastino ma non si occuperà più di imprese per andarsi ad occupare dei detenuti. Una scelta “inusuale” annunciata dopo le nomine dei presidenti di Tribunale di Pordenone e Rovereto e del Procuratore di Napoli, nomine che avevano scatenato il dibattito. “Dopo 32 anni la scelta è fatta. Ed è nel senso di un gesto controcorrente, di composta protesta verso un sistema giudiziario improntato oramai ad un carrierismo sfrenato, arbitrario e lottizzatorio, che premia i sodali, asserve i magistrati alle correnti, umilia la stragrande maggioranza degli esclusi e minaccia l’indipendenza dei magistrati con la lusinga della dirigenza o la mortificazione di una vita da travet” aveva denunciato pubblicamente Mirenda. “Lascio un posto semi-direttivo di prestigio, dove avrei potuto restare ancora per anni, per andare ad occuparmi degli ultimi della terra, da ultimo dei magistrati” era l’annuncio. Protesta condivisa e sostenuta dalla sezione scaligera dell’Associazione Nazionale Magistrati che anche nella riunione di fine settembre aveva votato quasi all’unanimità la proposta di “incarichi semi-direttivi a rotazione” tra i magistrati, con l’obiettivo di evitare distorsioni correntizie nel momento della scelta degli uffici giudiziari. Da Verona era stata rilanciata l’idea di una turnazione delle presidente delle varie sezioni dei tribunali e dell’incarico di procuratore aggiunto per consentire a tutti i magistrati di “sperimentare l’onere di un incarico semidirettivo evitando nomine “facilitate”. Trento: “Galeorto”, un marchio bio nato nel carcere di Spini di Gardolo di Franco Travaglini cucina-naturale.it, 3 novembre 2017 Lo si trova su zafferano, cavolfiori ed erbe officinali coltivati all’interno della Casa circondariale della provincia di Trento. I frutti del progetto, portato avanti dalla cooperativa La Sfera, sono distribuiti per ora solo nella provincia, ma c’è l’intenzione di aderire ad una rete nazionale di esperienze analoghe realizzate nelle carceri italiane che permetterebbe di portare i prodotti coltivati a Gardolo anche nelle altre regioni d’Italia, e viceversa. Cavolfiori, erbe officiali come melissa, lavanda e rosmarino per arrivare poi allo zafferano, una delle poche coltivazioni in Trentino dopo quelle portate avanti da alcuni agricoltori sul Monte Baldo. Dietro le sbarre si vive anche di agricoltura vista come occasione di lavoro, opportunità per ricominciare o, più semplicemente, per riuscire a trascorrere le lunghe giornate in carcere. È quanto si può leggere in un articolo pubblicato su “Il Dolomiti”, in occasione dell’edizione trentina di “Fa la cosa giusta”. Lo sanno bene i 6 carcerati che stanno lavorando i terreni che nel 2015 la casa circondariale di Gardolo ha messo a disposizione in un progetto portato avanti dalla cooperativa La Sfera. Un progetto chiamato “Galeorto” diventato oggi un vero e proprio marchio di produzione biologica che dopo essere entrato in alcuni ristoranti e malghe sparse in Trentino ora sta tentando di entrare a far parte di una rete più ampia di produzioni agricole coltivate nei carceri d’Italia. “Quando il nuovo carcere si è trasferito a Spini di Gardolo - ci racconta Franco Faes della cooperativa La Sfera che in questi giorni è stata presenta alla fiera ‘Fà la cosa Giusta!’ - al suo interno erano presenti diversi metri quadri di verde incolto. Da qui l’idea di coltivarlo e per farlo di offrire questa opportunità ad alcuni carcerati”. Le coltivazioni scelte, come già detto, sono state quelle di cavolfiori, di erbe officinali e soprattutto zafferano. Prodotti che oggi sono marchiati “Galeorto” e che si sono fatti conoscere sul territorio. “Tutta la produzione è biologica - ci spiega Faes - e all’interno del carcere abbiamo avviato un vero e proprio laboratorio per lavorare la verdura e le erbe officinali”. Lo zafferano, pianta quanto mai preziosa, rappresenta una delle coltivazioni sul quale Galeorto punta. Da questo, infatti, è nato un accordo di collaborazione tra la cooperativa La Sfera e l’Agribirrificio Argenteum di Cortesano, con la creazione di una birra artigianale, chiamata Zafferana, aromatizzata con lo zafferano biologico del carcere. “La coltivazione della terra - ci racconta il responsabile del progetto - è fondamentale per i carcerati non solamente per l’opportunità che viene data di mettere a frutto le proprie professionalità o impararne di nuove ma anche perché è l’unica realtà lavorativa che permettere a queste persone di vedere il sole per intero”. Ovviamente, il guadagno di tutti i prodotti, viene utilizzato interamente per le attività interne al Carcere e per portare avanti le coltivazioni. I successi che i prodotti Galeorto stanno avendo sul territorio fanno guardare oltre. Come già detto, infatti, l’obiettivo ora è quello di collegarsi ad una rete nazionale di coltivazioni agricole realizzate nei carceri italiani. Un percorso che permetterebbe uno scambio di prodotti e quindi una promozione anche dell’agricoltura trentina al di fuori dai confini provinciali. Pescara: “La pena e il suo fine, recuperare l’umano”, convegno all’Auditorium Petruzzi ilpescara.it, 3 novembre 2017 Si parla di recuperare l’umano al convegno inaugurale della mostra “Dall’amore nessuno fugge”. Osservando la realtà carceraria da un’altra angolazione si vedono gli uomini e non le sbarre, l’umanità al posto del reato, le potenzialità future e non solo gli errori del passato. Hanno guardato così le carceri in Brasile quelli delle Apac. Un modello che nasce dalla gratuità, un esperimento che, secondo alcuni, era destinato a naufragare presto, incagliandosi nell’insidia di una fiducia mal riposta. Se ne parla nel convegno inaugurale “Dall’amore nessuno fugge” che si terrà a Pescara lunedì 6 novembre alle ore 18 presso l’Auditorium Petruzzi in via delle Caserme 24. Per l’evento è stato richiesto l’accreditamento formativo all’Ordine degli avvocati d’Abruzzo. Al convegno interverranno Federica Chiavaroli, Sottosegretario alla Giustizia, Maria Rosaria Parruti, Presidente del Tribunale di Sorveglianza dell’Aquila, Franco Pettinelli, Direttore della Casa Circondariale di Pescara, Germano D’Aurelio, ‘Nduccio, ormai da tempo attivo con la sua associazione “Fratello Mio” a favore dei detenuti, Francesco Lo Piccolo, giornalista e presidente dell’associazione Voci di dentro che da dieci anni vede impegnati molti volontari nelle carceri, ed un ex detenuto con la sua testimonianza. Urbania (Pu): il teatro esce dal carcere e approda al palcoscenico “libero” di Teresa Valiani Redattore Sociale, 3 novembre 2017 Torna il “Convegno Internazionale Teatri delle Diversità” che il 4 e 5 novembre porterà ad Urbania ospiti da tutto il mondo. Tra le novità della XVIII edizione, la performance degli attori-detenuti fuori dalle mura della casa circondariale. Il teatro del carcere esce dai cancelli e approda su un palcoscenico “libero”. È una delle principali novità della XVIII edizione del Convegno Internazionale Teatri delle Diversità che il 4 e 5 novembre prossimi porterà ad Urbania ospiti da tutto il mondo. Con il titolo Le Scene Universitarie per il Teatro in Carcere, torna l’evento internazionale organizzato dall’Associazione Teatro Aenigma in collaborazione con il Coordinamento nazionale Teatro in carcere, il patrocinio dell’università di Urbino “Carlo Bo”, il sostegno del ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, della Regione Marche, e la partecipazione del ministero della Giustizia, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. La nuova edizione sarà ospite del Comune di Urbania, che offre il suo patrocinio mettendo a disposizione la Sala Paolo Volponi e il Teatro Bramante e si svolgerà sotto l’egida dell’International Theatre Institute dell’Unesco. “L’evento serale previsto per il 4 novembre - spiega Vito Minoia, presidente del Coordinamento nazionale Teatro in carcere- è una nostra ‘prima voltà e ha richiesto uno sforzo organizzativo in più da parte del carcere di Pesaro e della magistratura di sorveglianza perché gli attori-detenuti della compagnia “Lo Spacco” potrebbero uscire dall’istituto in permesso per recarsi in teatro”. Alla performance parteciperanno, come è tradizione, anche gli studenti: in questo caso saliranno sul palco i ragazzi della classe III B dell’istituto comprensivo Galilei di Villa Fastiggi, che in questi giorni stanno entrando in carcere insieme agli insegnanti per le prove dello spettacolo. Per la regia di Francesco Giliotti, regista fiorentino formatosi tra gli anni ‘70 e ‘80 a Roma con l’avanguardia teatrale, il progetto di Vito Minoia si intitola “Esodo - Per un richiamo simbolico alla ricerca di nuove progettualità dell’esistenza” e vedrà impegnati gli attori detenuti della Casa circondariale di Pesaro: un gruppo misto di italiani e stranieri, composto da 4 uomini e una donna. “Si tratta di un lavoro molto interessante anche per la riflessione attuale sull’ascolto dell’altro, sulle migrazioni, sugli aspetti interculturali della comunicazione e della conoscenza. - sottolinea Minoia - L’azione si svolge immaginando i ragazzi come gli antenati dei migranti che si materializzano sulla scena durante il loro sonno. Con gesti e frasi sussurrate nella alterata identità dei loro corpi di ragazzi, entrano nel sogno dei migranti per evocare ricordi lontani e buoni auspici per il pericoloso viaggio che stanno compiendo. Questa necessaria riflessione sui motivi ancestrali e profondi che si accompagnano ai bisogni primari dell’umanità in migrazione è alla base del metodo teatrale. La musica, eseguita dal vivo da un musicista-testimone, Giovanni Scaramuzzino, accompagna, senza enfatizzare, lo svolgimento della sequenza”. Nutrito il programma del Convegno i cui lavori iniziano sabato alle 15, alla Sala Volponi, e che vedranno alternarsi al tavolo dei relatori, professori, studiosi, registi teatrali e operatori sociali da tutto il mondo. L’introduzione sarà curata dal presidente Minoia che relazionerà sul 35mo Congresso Mondiale dell’Iti-Unesco di Segovia, in Spagna, dove ha raccontato l’esperienza italiana di Teatro in Carcere. A seguire, gli ospiti internazionali: Jean-Marc Larrue (Belgio), Chiwoon Ahn (Corea del Sud), Maria S. Horne (Usa), Chelsea L. Horne (Usa), Ouriel Zohar (Israele), Elka Fediuk (Messico), Isabel C. Flora Hernandez (Messico) e Graciela Muñoz (Argentina). Nel pomeriggio cerimonia di assegnazione del Premio Internazionale Gramsci per il Teatro in Carcere (II edizione), a cura della rivista europea “Catarsi-Teatri delle Diversità”, il cui vincitore sarà proclamato durante il Convegno. Alla cerimonia sarà presente la regista libanese Zeina Daccache, già vincitrice del riconoscimento lo scorso anno. La giornata si concluderà al Teatro Bramante con la performance della compagnia “Lo Spacco” e, a seguire, il concerto della Scaramuzzino Family con le Musiche per Mandolino, spaziando dal repertorio classico a quello etnico. Domenica 5 novembre alle 9.30 alla Sala Volponi si alterneranno interventi di Nicola Savarese, Mariano Dolci, Mimmo Cuticchio, Michalis Traitsis e Fra Stefano Luca. Particolare attenzione sarà data alla presentazione della IV edizione della Rassegna nazionale di Teatro in carcere Destini Incrociati che si svolgerà a Roma dal 15 al 17 novembre, a cura del Coordinamento nazionale Teatro in carcere. Chiuderà i lavori Somud U Ahlam - Resistenza e Sogni, monologo di teatro reportage di Annet Henneman sui suoi ultimi viaggi in Iraq e Palestina nel 2016 e 2017. Migranti. La “macchina” delle espulsioni funziona solo per un quarto degli irregolari di Vladimiro Polchi La Repubblica, 3 novembre 2017 Il complesso meccanismo di contrasto all’immigrazione irregolare, fatto di Cie, accordi bilaterali e rimpatri è in stallo da tempo. Lo dimostrano i dati raccolti dall’ultimo Dossier statistico immigrazione: intercettati 41.473 migranti irregolari, circa settemila in più dell’anno precedente, ma molto meno del periodo 2006-2010. Effettivamente allontanati dall’Italia 18.664. La macchina delle espulsioni da anni non gira a pieno regime. Il complesso meccanismo di contrasto all’immigrazione irregolare, fatto di Cie, accordi bilaterali e rimpatri è in stallo da tempo. Gli ultimi numeri lo confermano: lo scorso anno gli irregolari che hanno effettivamente lasciato il Paese si sono fermati a quota 18mila. Anche per questo, il 10 febbraio scorso è stato varato il decreto legge Minniti-Orlando, che prevede il potenziamento dei centri di identificazione e maggiori risorse per eseguire i rimpatri. Il flop delle espulsioni. Nel 2016, come dimostrano i dati raccolti dall’ultimo Dossier statistico immigrazione, sono stati intercettati 41.473 migranti irregolari, circa settemila in più dell’anno precedente, ma molto meno del periodo 2006-2010. Ma poi quanti sono stati gli irregolari effettivamente allontanati dal territorio italiano? Ben pochi: 18.664. Respinti ed espulsi. Tra gli allontanati vanno tenuti distinti i respinti alla frontiere dai provvedimenti d’espulsione. Nel 2016 solo un quarto degli allontanati dall’Italia sono stati respinti alla frontiera (10.218): di questi, il 61% ha cercato di entrare nel Paese via aerea, il resto via mare. I più respinti? Albanesi (ben 5.756), seguiti a distanza da moldavi e nigeriani. I destinatari di un provvedimento d’espulsione sono stati invece 31.255, ma di questi solo 8.446 sono effettivamente usciti dal territorio nazionale (il 27%). Quelli che rimangono. Le regioni in cui sono stati intercettati più irregolari sono la Lombardia (il 17,4% del totale), Sicilia (oltre il 14%), Puglia e Lazio. Tra i “non ottemperanti”, ossia le persone destinatarie di un provvedimento di espulsione che non sono però state effettivamente rimpatriate, è record di marocchini (6.655), seguiti da algerini e tunisini. Come funzionano i Cie? Di questi centri, ne sono rimasti sei, per un totale di 359 posti: Bari Palese, Brindisi, Caltanissetta, Crotone, Ponte Galeria a Roma e via Brunelleschi a Torino. Ebbene, se nel 2015 solo il 51,7% dei 5.371 migranti trattenuti nei Cie è effettivamente rientrato nel proprio Paese, nel 2016 la percentuale è scesa al 48,3% e il numero dei trattenuti a 2.984. E ancora: oltre un terzo dei trattenuti è tunisino, seguono nigeriani, marocchini ed egiziani. Ma, dati alla mano, quello che emerge è che per oltre la metà dei migranti reclusi, i Cie non funzionano. Migranti. Isole dell’Egeo come prigioni: “Profughi ormai allo stremo” di Carlo Lania Il Manifesto, 3 novembre 2017 Hotspot sovraffollati e non attrezzati per l’inverno. In aumento i tentativi di suicidio. Campi profughi sovraffollati all’inverosimile, tende senza pavimenti né riscaldamento, donne e bambini accampati lungo le strade o nei boschi. E centinaia di minori, spesso senza un adulto che li accompagni, privi delle attenzioni e delle cure, anche sanitarie, di cui avrebbero bisogno. Per i rifugiati siriani, iracheni e afghani le isole greche dell’Egeo sono ormai una prigione a cielo aperto. Le condizioni di vita nei campi di Chios, Samos, Kos, Lesbo e Leros - denunciano le organizzazioni umanitarie - sono oltre il limite della sopportazione e le persone, spesso intere famiglie, sono costrette a cercare da sole un rifugio dove ripararsi. Una situazione a cui l’Europa finora ha assistito senza intervenire e alla quale il governo greco sembra incapace di far fronte, ma che rischia di aggravarsi ulteriormente con l’avvicinarsi dell’inverno. “Ora le persone stanno dormendo per le strade o in piazza Sappho, nel centro della città. Con le prime piogge subiremo inondazioni e avremo problemi nel gestire questa situazione”, denunciava pochi giorni fa al giornale Kathimerini il sindaco dell’isola di Lesbo, Spyridon Galinos, ricordando come tra i disperati abbandonati a se stessi ci siano anche donne incinta, disabili e bambini. Si calcola che sulle isole dell’Egeo si trovi circa un quarto dei 60 mila rifugiati presenti in Grecia da quando, a marzo dell’anno scorso, è stata chiusa la rotta balcanica. Persone arrivate dopo l’accordo stretto dall’Unione europea con la Turchia e alle quali è proibito il trasferimento sulla terra ferma. Nel frattempo gli arrivi sulle isole non si sono fermati e i numeri, anche se non sono certo paragonabili a quelli del 2015, hanno ricominciato a crescere: più di 5.700 sbarchi a settembre (l’anno scorso furono 3.080), un quarto degli arrivi di quest’anno,1.394 solo nelle prime tre settimane di ottobre, in maggioranza famiglie irachene e siriane. Cifre che hanno ulteriormente esasperato le condizioni di vita già critiche all’interno dei campi. Negli hotspot di Moria - a Lesbo - e sull’isola di Samo, progettati per ospitare in tutto 3.000 migranti, ce ne sono oggi più di 8.300. In quello di Chios si contano invece 1.964 persone a fronte di una capacità di 800 posti letto. “Moria come gli altri hotspot sono ormai macchine che creano sofferenza” denuncia Stefano Argenziano, responsabile di Medici senza frontiere per la migrazione. “Moria è una specie di giungla e per di più ovunque si è creato un ingorgo burocratico per cui anche chi avrebbe diritto a essere trasferito sulla terra ferma resta imprigionato sulle isole”. Particolarmente a rischio sono donne e bambini, che rappresentano rispettivamente il 20 e il 40 per cento degli arrivi. Dei circa 3.000 minori non accompagnati che si trovano in Grecia, ha denunciato Laurent Chapuis, coordinatore dell’Unicef in Grecia, “attualmente circa 1.800 sono in attesa di un posto in un rifugio e vivono all’aperto, nei centri di accoglienza o sono bloccati nelle isole in condizioni di disagio”. Sempre secondo l’Unicerf, inoltre, solo un terzo dei bambini “riceve riparo e assistenza adeguati”. Condizioni terribili che inevitabilmente hanno ripercussioni sullo stato fisico e soprattutto mentale dei rifugiati che si trovano sulle isole. Sempre Msf ha denunciato un’emergenza per quanto riguarda le condizioni psicologiche dei richiedenti asilo, emergenza “creata dalle condizioni di vita povere, da negligenza e violenza. Durante l’estate - ha reso noto l’associazione - sono arrivati nelle nostre cliniche in media da sei a sette pazienti a settimana in seguito a tentativi di suicidio, atti di autolesionismo o episodi psicotici, il 50% in più rispetto al trimestre precedente. Persone che ci dicono che preferirebbero essere morte piuttosto che trovarsi qui”. “Non dimentichiamo - aggiunge Argenziano - che abbiamo a che fare con persone che sono sopravvissute a violenze estreme, a torture e a bombardamenti e che in Grecia hanno ricevuto un ulteriore colpo, anche alla loro dignità”. L’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, ha chiesto al governo di Alexis Tsipras di adeguare rapidamente i campi per i rifugiati che si trovano sulle isole in vista dell’inverno, mentre Oxfam, Human Right Watch, Action Aid, Amnesty International e altre 15 Ong si sono appellate al premier chiedendogli di mettere fine alla “politica di contenimento” dei migranti sulle isole permettendo di tasferirli sulla terra ferma. Il fatto è, come hanno rilevato i media greci, che il governo sembra non avere alcun piano per gestire la nuova emergenza. Come sa bene anche il sindaco di Lesbo, Galinos, che nei giorni scorsi ha scritto anche lui a Tsipras denunciando come le strutture abbiamo ormai superato ogni limite. “Stiamo aspettando solo che la bomba scoppi”, si è poi sfogato il sindaco con i giornalisti. Stagna. In carcere vicepresidente e 7 ministri della Catalogna La Repubblica, 3 novembre 2017 Gli ex membri del Govern sono detenuti a Madrid: gli uomini nella prigione di Estremera, le donne in quella di Alcalà. Prima di entrare hanno invitato la popolazione alla calma. L’ex presidente ancora a Bruxelles con 4 ex consiglieri-ministri. Migliaia in piazza a Barcellona: “Prigionieri politici”. Sono in carcere i sette membri del Govern catalano per cui la Procura spagnola aveva chiesto l’arresto. Un provvedimento senza precedenti deciso dalla giudice della Audiencia Nacional, Carmen Lamela, per eliminare ogni “rischio di fuga”. E l’avvocato belga Paul Bekaert, legale dell’ex presidente della Generalitat catalana, Carles Puigdemont, scappato in Belgio ed irreperibile, ha annunciato alla tv fiamminga che la magistratura spagnola avrebbe già spiccato il mandato di cattura europeo per il suo assistito. La notizia, però, non è stata confermata dalla procura di Madrid. Fonti giudiziarie spagnole hanno ribadito comunque che il provvedimento potrebbe essere emesso nelle prossime ore. Dalle 19.30 circa, l’ex vicepresidente Oriol Junqueras, Jordi Turull (Presidenza), Josep Rull (Territorio), Carles Mundò (Giustizia), Raul Romeva (Esteri) e Joaquim Forn (Interno) si trovano nel carcere di Estremera, a Madrid. Mentre le due donne, Meritxell Borras (Governo) e Dolors Bassa (Lavoro), sono detenute nella prigione femminile di Alcalà, poco fuori dalla capitale spagnola. Convocati questa mattina, erano tutti comparsi dinanzi al giudice ma si erano rifiutati di rispondere alle domande. Pesanti i capi d’imputazione: sono accusati di “ribellione”, sedizione e malversazione, rischiano fino a 30 anni di carcere. La stessa giudice giustifica il provvedimento con un “rischio fuga” degli imputati, oltre alla possibilità di “reiterazione del reato” e “distruzione di prove”. E il magistrato allude all’ex governatore Puigdemont e altri quattro membri del Govern deposto, riparati in Belgio: “Basta ricordare il fatto che alcuni denunciati già si sono spostati in altri Paesi, per eludere responsabilità penali in cui avrebbero potuto incorrere”. L’unico ad aver ottenuto il rilascio in libertà condizionata è stato l’ex ministro Santi Vila: si era dimesso il giorno prima della dichiarazione di indipendenza ed è stato il solo ad aver risposto stamani alle domande della giudice per una quarantina di minuti. Ma nel pomeriggio il suo avvocato ha reso noto che non pagherà alcuna cauzione e andrà in carcere “assieme agli altri compagni per solidarietà”. È prevedibile, a breve, un analogo provvedimento di detenzione, ma in questo caso con un mandato d’arresto europeo, anche per Carles Puigdemont, il presidente esautorato della Regione catalana che da lunedì si trova in Belgio insieme ad altri quattro ex consiglieri-ministri. La Procura spagnola lo ha già richiesto, “così è la normale procedura” aveva dichiarato in mattinata il presidente della Corte Suprema spagnola, Carlos Lesmes. Secondo La Vanguardia, la giudice Lamela in queste ore sta ultimando la stesura del provvedimento ma ancora non lo avrebbe emesso. Con Puigdemont, rischiano anche Clara Ponsatí, Mertitxell Serret, Antoni Comin e Lluís Puig. Spetterebbe poi alla giustizia belga eseguire l’ordine e decidere se mandare in carcere gli imputati. Almeno fino a quando un tribunale non decida in merito a una eventuale estradizione in Spagna, entro un arco temporale massimo di circa due mesi. L’ex presidente della Catalogna ha deciso di non mostarsi in pubblico per ora, ma dal suo profilo twitter ha scritto: “Il governo legittimo della regione incarcerato per le sue idee e per essere stato fedele al mandato approvato dal parlamento catalano”. In un secondo messaggio, con la foto delle migliaia di cittadini scesi per strada per protesta, il leader indipendentista aggiunge: “Il clan furioso della 155 (la legge che è stata applicata da Madrid per destituire il governo, ndr) vuole il carcere. Il clan sereno dei catalani, la libertà” “Carcere per tutti. Sensazione di grande ingiustizia. Un giorno molto triste per la democrazia”, così scrive Jaume Alonso-Cuevillas, avvocato di Puigdemont. “È una giornata buia per la Catalogna”, così la sindaca di Barcellona Ada Colau che ha aggiunto: “Il governo eletto democraticamente nelle urne va in carcere” ha denunciato, auspicando un “fronte comune per ottenere la liberazione dei detenuti politici”. “Mi vergogno che nel mio paese si metta in carcere gli oppositori - ha commentato Pablo Iglesias, leader di Podemos -.Noi non vogliamo l’indipendenza, ma oggi chiediamo la libertà per detenuti politici”. Intanto, in tutto il Paese, migliaia di catalani si sono concentrati davanti ai luoghi di lavoro a mezzogiorno per osservare un minuto di silenzio, rispondendo all’appello delle organizzazioni della società civile indipendentista e protestare contro il “processo politico” avviato contro il Govern. La concentrazione maggiore è stata quellad davanti al Palazzo della Generalitat di Barcellona, dove i manifestanti hanno gridando “Puigdemont è il nostro Presidente”, “Libertat”, “Sono prigionieri politici” e hanno cantato l’inno di Els Segadors. In tutta la Catalogna si protesterà per giorni: l’associazione indipendentista Omnium Cultural ha infatti chiamato una settimana di protesta che culminerà in una “grande manifestazione” il 12 novembre. Prima di entreare in carcere, i leader indipendentisti hanno lanciato appelli affinché la popolazione catalana mantenga la calma. Lo stesso appello è stato lanciato, “nell’indignazione”, dalle segretarie di Erc e Pdecat, Marta Pascal e Marta Rovira. Così ha fatto anche il vicepresidente del Govern Oriol Junqueras, leader del primo partito catalano, Erc, che su Twitter ha scritto: “affinché il bene sconfigga il male, rispondete a Madrid con il voto delle elezioni del 21 dicembre. Fate ogni giorno quello che potete perché il bene sconfigga il male nelle urne. In piedi, con determinazione, fino alla vittoria!”. Ma Madrid va dritta per la sua strada e anche la Guardia Civil stamani è di nuovo entrata nel commissariato dei Mossos d’Esquadra, la polizia catalana, a Lleida, per cercare informazioni legate al referendum sull’indipendenza del primo ottobre. Già il passato 19 ottobre la Guardia Civil aveva setacciato il commissariato per 11 ore. Spagna. L’errore a tempo scaduto che legittima il vittimismo di Lucio Sessa Il Mattino, 3 novembre 2017 Commentiamo l’arresto dell’intero governo catalano (ad eccezione dei “fuoriusciti belgi”) parlando dell’autore della richiesta, il procuratore generale José Manuel Maza, nominato dal ministro della Giustizia Rafael Cata- M, in sostituzione di Consuelo Madrigal, il cui incarico non fu rinnovato per non aver accettato dei “consigli” da parte del ministro. Cataffl, infatti, proponeva, tra le altre cose, di nominare il giudice Manuel Moix all’Anti-corruzione e di destituire Javier Zaragoza dal collegio che si occupava dei reati di corruzione. José Manuel Maza si incaricherà di rispettare le consegne, nominando Moix e destituendo Zaragoza, giudice che si era distinto ai tempi della lotta al terrorismo. A causa di questi (e altri) cambiamenti, nel febbraio de12017, Mazaverrà chiamato a rispondere in Parlamento, presso la commissione Giustizia. L’editoriale de “El País” del giorno dopo parla di “spiegazioni insoddisfacenti”, e prosegue scrivendo che “Maza non ha sfruttato un’opportunità per rafforzare la credibilità di un’istituzione essenziale in uno Stato di diritto, la cui credibilità è in netto calo presso la cittadinanza”. Saltiamo altri passaggi, sia pure interessanti, per arrivare a un fatto che non ha precedenti nella storia spagnola: il 17 maggio del 2017 il Parlamento approva una mozione di censura nei confronti del ministro della Giustizia (Miguel Catal4 del Procuratore generale (José Manuel Maza) e del giudice designato all’Anti- corruzione (Manuel Moix), in quanto tutti i gruppi parlamentari, ad eccezione del Partido Popular, considerano che essi hanno preso decisioni che avevano “lo scopo di ostacolare l’azione della Giustizia per i reati riguardanti la corruzione”. Si noti che non solo i gruppi dell’opposizione, ma anche gli alleati di governo Ciudadanos e Partito Socialista (Psoe) condividono la risoluzione, anzi il Psoe userà espressioni particolarmente dure. D’altro canto, quando Maza era stato nominato, nel novembre del 2016, la reazione del Psoe era stata la seguente: “Un brutto inizio di legislatura. La sua traiettoria come magistrato non garantisce assolutamente il profilo indipendente che richiede la figura di procuratore generale”. (A questo punto, bisogna dare un’informazione importante. Che cosa c’è in ballo e perché si parla tanto di corruzione? In ballo c’è il Caso Girtel, “uno dei principali e più vergognosi scandali di corruzione politica di questo Paese”, secondo la definizione che ne dà El País. Dopo dieci anni di indagini, si sta cominciando a vedere la luce, e in questo enorme scandalo il Partido Popular è immerso fino al collo. Ma ci sarà tempo per parlarne). Tornando a noi, ci stupisce la distanza tra Ciudadanos e il Psoe da una parte e il Partido Popular dall’altro, visto che nella “vicenda catalana” sono andati d’amore e d’accordo. Certo, si tratta di un’altra questione, ma c’è una domanda insidiosa che formuliamo: non è che la questione catalana sia diventata una sorta di “nemico interno” utile a ricompattarsi? Dopotutto col terrorismo basco le cose, a un certo punto, andarono proprio così. Ma abbandoniamo la sociologia politica per tornare all’attualità. I membri del governo catalano sono accusati di malversazione, sedizione, ribellione. Molti autorevoli giuristi, tra cui Baltasar Garzón e López Garrido, hanno sollevato obiezioni sul reato di “ribellione”, in quanto per contestare tale reato bisognerebbe aver compiuto atti violenti. Per il procuratore Maza, in realtà, la violenza ci sarebbe stata: infatti, nelle motivazioni della citazione in giudizio per ribellione, afferma che gli imputati hanno compiuto una sollevazione violenta, incitando alla resistenza collettiva contro i poteri dello Stato e dunque la “resistenza pacifica” non sarebbe altro che un eufemismo, visto che c’è stata una “sollevazione intimidatoria e violenta contro la Costituzione e per rompere l’organizzazione territoriale”. Una curiosità: il file della Procura distribuito alla stampa aveva, come tutti i file, un titolo, ed il titolo era: “Più dura sarà la caduta”. La cosa ha ovviamente sollevato delle polemiche, anche perché da tempo il fronte catalano separatista va affermando che c’è nella Giustizia spagnola un intento vendicativo nei loro confronti, e anche su queste supposizioni si sarebbe basata la “fuga” a Bruxelles di Puigdemont e di altri quattro membri del governo. Dagli uffici della Procura si sono difesi dicendo che era il titolo di un file che apparteneva a un altro documento e che per sbaglio non era stato cancellato. Sembra il caso di uno che fauna gaffe e poi per rimediare ne commette una peggiore. C’è poi la “Operación Catalufia”, cioè una commissione parlamentare di inchiesta su un caso di “guerra sporca”. Il ministro dell’Interno Jorge Fernéndez Díaz e il giudice Daniel de Alfonso, capo dell’Ufficio anti-frode di Catalogna, furono intercettati mentre discutevano su come “inguaiare” alcuni dirigenti del fronte secessionista catalano, al fine di screditare il processo indipendentista: una macchina del fango messa a punto in un ufficio ministeriale. La commissione parlamentare ha concluso che tale operazione ha effettivamente avuto luogo: ha votato contro il PP, mentre Ciudadanos si è astenuto. Podemos ha annunciato ricorso in Tribunale. Ora, si accusano i dirigenti catalani indipendentisti di vittimismo, ed è un accusa più che fondata, se si considera che essi sono soggetti politici che si sono “volontariamente” messi fuori e contro la legge. D’altro canto, il vittimismo è uno dei mali più fastidiosi del nostro tempo; ma il nostro tempo, complesso assai, è anche quello per cui, come dice il poeta Franco Arminio, “a un animale condotto al macello gli si dà del vittimista”. Egitto. Le omissioni di Cambridge e gli interessi di Roma: su Regeni zero verità di Chiara Cruciati Il Manifesto, 3 novembre 2017 L’ex premier Renzi e inchieste giornalistiche chiedono conto all’ateneo britannico delle reticenze sul caso Regeni. L’università risponde: “Pronti a collaborare”. La Procura manda la terza rogatoria, ma a preoccupare sono i tentativi di sviare l’attenzione da al Sisi, con cui la Farnesina continua a fare affari. Mentre in Italia l’ex primo ministro Renzi chiedeva conto delle “bugie” dell’università britannica di Cambridge e le agenzie rilanciavano l’inchiesta di Repubblica sul ruolo della tutor di Giulio Regeni, Maha Abdelrahman, al Cairo l’ambasciatore Cantini passava dall’incontro con il ministro della Cooperazione internazionale Nars a quello con il ministro dell’ambiente Fahmy. Il rappresentante della Farnesina ha discusso di investimenti comuni sul piano della cooperazione (con un progetto di due milioni di euro a favore di studenti svantaggiati) e sul piano dell’ambiente (con il via alla terza fase del programma di cooperazione ambientale, 3 milioni di euro), parlando del “contributo che le imprese italiane possono dare nell’ambito” di agroindustria e demografia, Il governo italiano, dunque, prosegue spedito nel miglioramento dei rapporti diplomatici e economici con l’Egitto del presidente-golpista al Sisi. Non ha avuto dubbi sulla necessità di rinviare l’ambasciatore al Cairo il 14 agosto scorso. Ma ne ha con le reticenze di Cambridge. Che ci sono e sono innegabili, come però è innegabile che Giulio sia stato ucciso al Cairo, dalla macchina repressiva del regime, e non in un ateneo inglese. Di certo la superficialità con cui il giovane ricercatore è stato inviato in Egitto ha impedito una sua maggiore protezione. La ricerca, scriveva ieri Repubblica citando conversazioni di Giulio con i genitori (che dimostrano le sue preoccupazioni), era stata suggerita alla tutor Abdelrahman, egiziana e oppositrice del regime. Viene da pensare che le indagini sul terreno di Giulio le fossero utili per lavori propri. Era dunque consapevole del pericolo che una figura come Regeni potesse correre, esposto com’era dalle domande e le interviste che conduceva. Le ombre ci sono e il silenzio di ferro finora adottato sembra volto a evitare problemi legali all’ateneo: non caso la Procura di Roma ha chiesto con una terza rogatoria alle autorità giudiziarie della Gran Bretagna non solo l’audizione della professoressa, ma anche quelle degli studenti dell’ateneo transitati per la stessa tutor e per Il Cairo dal 2012 al 2015. Il team investigativo guidato dai pm Pignatone e Colaiocco ha chiesto inoltre i tabulati telefonici, mobili e fissi, della professoressa tra il gennaio 2015 e il 28 febbraio 2016. Quanto Abdelrahman ha condizionato la ricerca di Giulio, diretta a indagare il più generale tema economico, per poi focalizzarsi sui sindacati indipendenti, tema caldissimo nell’Egitto post-golpe? Ha definito lei le domande da porre agli intervistati? Giulio le consegnò i risultati della ricerca quando la vide al Cairo il 7 gennaio 2016, fatto che Abdelrahman continua a negare ma che emerge dalle mail di Regeni ai genitori? Questo la Procura vuole sapere. Ieri un portavoce di Cambridge ha detto che Abdelrahman “ha ripetutamente espresso la sua volontà di collaborare appieno con i procuratori italiani” e di non aver ancora “ricevuto una richiesta formale per la testimonianza”. Eppure questa è la terza rogatoria. Ad emergere è il comportamento privo di prudenza, dettato dall’approssimazione dell’ateneo e dall’interesse accademico personale della tutor. Ma a far paura è il modo in cui le omissioni - gravi - di Cambridge vengano usate per spostare l’attenzione dal vero responsabile politico della morte di Giulio. Anche sminuendo, come fa Repubblica, la figura della tutor che non vanterebbe “esperienze accademiche né di lungo corso né di particolare spessore”. Gli autori citano un suo pamphlet pubblicato con la “piccola” casa editrice Routledge. Che però è il primo editore al mondo per articoli accademici nelle scienze sociali e umanistiche. Un’altra superficialità. Malta. Daphne Galizia, la Commissione Ue risponde ai direttori: “non finirà nel silenzio” La Repubblica, 3 novembre 2017 Otto grandi testate, tra cui Repubblica, hanno scritto al vicepresidente Timmermans affinché si indaghi senza sosta sul caso. Domani a Bruxelles bandiere a mezz’asta per chi ha dato la vita per la libertà di stampa. La famiglia della giornalista ha ringraziato per l’iniziativa presa. “Per la Commissione europea non ci possono essere né una vera democrazia né uno stato di diritto senza organi di informazione liberi. Questo è quanto abbiamo detto chiaramente la scorsa settimana, quando il Parlamento europeo ha discusso sull’assassinio barbaro di Daphne Caruana Galizia. Se i giornalisti vengono silenziati, lo sarà anche la democrazia”. Inizia così la lettera con cui la Commissione europea ha accolto l’appello di otto direttori per far luce sulla morte della giornalista che aveva indagato sui MaltaFiles. A firmare la lettera, oltre a Mario Calabresi, direttore di Repubblica, anche gli editor-in-chief di Financial Times, New York Times, Le Monde, El Pais, Guardian, Süddeutsche Zeitung e BBC. Si sono rivolti al vicepresidente Frans Timmermans esortandolo a ricorrere a tutti i poteri a sua disposizione per garantire che si indaghi a fondo sulla morte di Daphne e che si mandi così un chiaro messaggio di sostegno ai giornalisti che lavorano nell’interesse dell’opinione pubblica, a Malta e in tutto il resto del mondo. Nella lettera l’organo dell’Unione europea ha invitato di nuovo le autorità maltesi a continuare le ricerche senza sottovalutare alcun dettaglio. Inoltre, la Commissione europea ha ribadito che la vicenda non verrà fatta cadere nel silenzio e non sarà preda dell’omertà. “Vogliamo che i responsabili di questo orribile omicidio - si legge - siano consegnati alla giustizia e che le indagini vadano talmente a fondo da scoprire, se presenti, problemi strutturali da risolvere”. Domani le bandiere del palazzo della Commissione, a Bruxelles, resteranno per mezz’ora a mezz’asta in ricordo di Daphne Galizia e di tutte le persone che hanno dato la vita per la libertà di stampa senza la quale la libertà sarebbe “un guscio vuoto”. Matthew, il figlio della giornalista assassinata, ha ringraziato per l’iniziativa e si è detto “grato per gli sforzi e per la lettera a nome della sorella, dei fratelli e del padre di Daphne”. Tailandia. La Presidente di Amnesty prosciolta dall’accusa di diffamazione di Riccardo Noury Corriere della Sera, 3 novembre 2017 Mentre il presidente di Amnesty International Turchia rimane in carcere con la ridicola accusa di terrorismo, quella della sezione thailandese, Pornpen Khongkachonkiet, è stata prosciolta dall’accusa, altrettanto inesistente, di diffamazione. Insieme a lei, il procuratore della provincia di Pattani ha prosciolto altri due difensori dei diritti umani, Somchai Homla-or e Anchana Heemmina. La denuncia per diffamazione era stata presentata nel maggio 2016 dal Quarto comando regionale, l’organo militare responsabile per la sicurezza nella Tailandia meridionale. Oggetto della denuncia, un rapporto curato dai tre difensori dei diritti umani per conto di due Ong locali, Cross Cultural Foundation e Duay Jai Group. Nel rapporto, pubblicato tre mesi prima, venivano denunciati 54 casi di tortura ad opera della polizia e dell’esercito nel sud del paese. Il felice esito della vicenda non deve far dimenticare che in Tailandia il reato di diffamazione viene sempre più spesso usato per cercare di mettere a tacere gli attivisti e i giornalisti che denunciano le violazioni dei diritti umani. Anche quando non si arriva al processo, l’effetto intimidatorio è evidente. Per questo, da tempo Amnesty International ne chiede la cancellazione dal codice penale.