Consiglio nazionale forense e Garante dei detenuti, insieme per la tutela dei diritti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 novembre 2017 Oggi sarà sottoscritto un protocollo d’intesa dal Presidente del Cnf Andrea Mascherin e da Mauro Palma. L’obiettivo è quello di promuovere e incentivare iniziative di informazione sullo stato della detenzione in Italia e formazione sui temi della funzione della pena. Tutelare, insieme, i diritti delle persone detenute e private della libertà personale. Una collaborazione, già sancita ufficialmente l’anno scorso, tra il Garante dei detenuti e l’avvocatura che ora sarà operativa grazie al protocollo di intesa che verrà sottoscritto questa mattina, alle ore 10: 30, presso la sede del Consiglio nazionale forense, dal Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale Mauro Palma e il presidente del Cnf Andrea Mascherin. La finalità dell’intesa consiste nella realizzazione di azioni comuni volte a promuovere e incentivare, anche tramite le Fondazioni del Consiglio, gli Ordini territoriali degli Avvocati e i Garanti regionali o locali, iniziative di informazione sullo stato della detenzione in Italia e formazione sui temi della funzione (anche costituzionale) della pena, della esecuzione della stessa, sia nel circuito carcerario che non, al fine di fornire una informazione garantistica quanto più consapevole possibile. Le parti si impegneranno a raggiungere diversi obiettivi, come lo sviluppo delle competenze in materia di esecuzione della pena anche attraverso la valorizzazione dell’ educazione interculturale e dell’educazione alla pace, il rispetto delle differenze e il dialogo tra le culture, il sostegno dell’assunzione di responsabilità, nonché della solidarietà e della cura dei beni comuni e della consapevolezza dei diritti e dei doveri dei detenuti e delle persone private della libertà personale; il potenziamento delle conoscenze in materia di esecuzione della pena, condizioni della detenzione, modalità alternative di esecuzione della pena, tutela dei diritti umani, diritti fondamentali della persona, giurisprudenza delle Corti europee; sviluppo e implementazione della conoscenza del ruolo dell’avvocato durante la fase esecutiva sia nell’ambito delle attività processuali che ultra-processuali e orientamento alla professione di Avvocato nell’ambito dell’esecuzione della pena. L’attuazione di questi obiettivi consisterà nell’individuazione di modalità operative uniformi con le quali gli Ordini territoriali degli Avvocati, nella realizzazione degli eventi informativi e formativi, assicurino lo svolgimento di eventi e/o percorsi specifici in materia di esecuzione della pena, condizioni della detenzione, misure alternative, tutela dei diritti fondamentali della persona, tutela dei diritti umani; attuazione di corsi di formazione tenuti da avvocati e da esperti individuati dal Garante e tavoli di lavoro di tipo tecnico-scientifico per lo studio di tematiche attinenti in generale alla esecuzione della pena elaborando e/o raccogliendo idonei materiali illustrativi e divulgativi. Il progetto condiviso, in sintesi, è la tutela dei diritti delle persone detenute e delle persone private della libertà personale. Una tutela che verrà portata avanti attraverso percorsi di studio e di apprendimento, anche a carattere multidisciplinare e multimediale, volti ad approfondire gli strumenti ed i mezzi a disposizione del detenuto o della persona privata della libertà personale per la tutela dei propri diritti. Verrà, inoltre, sensibilizzata la società civile, oltre che gli operatori della giurisdizione nonché gli esercenti le professioni sanitarie e le persone detenute, al valore della legalità e del rispetto dei diritti fondamentali della persona. Per finire, ci sarà un impegno per elaborare un programma di incontri su base locale, sia nel circuito carcerario che fuori dello stesso, con il fine precipuo di diffondere e pubblicare una “Carta nazionale dei diritti della persona detenuta o della persona privata della libertà personale”. “41bis: vietato dire buongiorno, colloqui limitati e costrette a denudarsi” Il Dubbio, 30 novembre 2017 Nel memoriale dell’ex Br Nadia Lioce le condizioni di vita al 41bis, i divieti totali, le misure disciplinari, la riduzione dei colloqui, dei quaderni, dei libri, delle sigarette. e la proibizione assoluta di rivolgere la parola agli altri detenuti. Pubblichiamo alcuni passi della memoria scritta da Nadia Lioce in cui descrive le condizioni di vita in regime di 41bis. Nadia Lioce è l’esponente delle nuove Br che fu arrestata nel 2003 dopo uno scontro a fuoco nel quale morì un agente della Polfer. È stata successivamente condannata all’ergastolo per gli omicidi D’Antona e Biagi. Il testo di questo memoriale è stato depositato dai suoi legali nel corso dell’udienza che si è tenuta lo scorso 24 novembre davanti al Tribunale dell’Aquila chiamato a pronunciarsi sulla denuncia per “disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone e oltraggio a pubblico ufficiale”. Dopo una lunga serie di misure restrittive che avevano portato alla drastica riduzione del numero dei libri, quaderni e documenti tenuti in cella, Lioce aveva dato vita ad una serie di proteste battendo con una bottiglietta di plastica sul blindato delle propria camera detentiva. La parola segregata - Non un “buongiorno” può essere scambiato. Così come effettivamente disposto dalla direzione dell’istituto de L’Aquila in data 6 novembre 2016. Un divieto di scambio di saluto tra detenuti presenti all’interno di una medesima sezione, che in concreto interruppe questa sopravvissuta tradizione e che è una delle espressioni, materializzate, di quella ambiguità aleggiante sulle regole del 41bis, che si genera tra disposizioni di legge, disposizioni del decreto di 41bis, apparentemente a raggio di azione circoscritto; e contenuti di giurisprudenza costituzionale (esempio: sent. C. Cost. 122/2017) che, dagli asseriti legittimi limiti alla comunicazione dei detenuti appare escludere, e con un argomento pesante quale quello dell’inviolabilità della persona, la possibilità di precludere comunicazioni tra detenuti compresenti in una sezione, in quanto argomenta di limitazioni alla facoltà dei detenuti di intrattenere colloqui diretti con persone esterne all’ambiente carcerario. Uno slittamento che pare essere potuto avvenire in una condizione generale formata da una reiterazione di rappresentazioni pubbliche del carcere come un “santuario”, ovvero luogo in cui chi vi si trovi è invulnerabile, incontrollabile e incoercibile, opposte alla realtà della prigione, in cui le libertà sono a priori residue, e chi vi è rinchiuso è “coatto”, che hanno sollecitato un’aspettativa pubblica giustificante le scelte politiche alla base della legiferazione. In ogni caso, ricostruendo gli avvenimenti, “la parola” segregata fu in realtà introdotta già da una circolare ministeriale nell’agosto 2008, cioè circa 10 anni fa, plausibilmente come sperimentazione della successiva introduzione legislativa. La “parola”, ovvero quella facoltà innata del genere umano che storicamente presso un po’ tutte le civiltà ne tipicizza la dignità rispetto alle altre specie animali, viene criminalizzata in se stessa. Verso il detenuto in 41bis che non si auto-inibisse, lo è dal 2008 in poi con la sanzione disciplinare, sebbene non prevista come indisciplina specifica dall’ordinamento penitenziario né dal regolamento di esecuzione almeno fino al settembre 2017, ma, si presume, suscettibile di sanzione in quanto inosservanza di un ordine. Ma verso chiunque altro “consentisse” al detenuto in 41bis di “comunicare” con “l’esterno” (presumibilmente anche del gruppo) - dal personale penitenziario, all’avvocato, al familiare, a chiunque solidarizza previsione legislativa del 2009 è l’incriminazione penale. E tenuto conto che “verba volant”, che significa che le parole non hanno consistenza materiale, né in se stesse potenzialità di effetti materiali, intorno a questa criminalizzazione è venuto a formarsi un grumo antigiuridico potenzialmente ad alto tasso di criminogenità, potendo chiunque essere accusato di qualunque cosa. Questa innovazione legislativa, insieme a quella che andava a creare un regime speciale per il diritto di difesa del detenuto in 41bis limitandone le ore di colloquio e la durata delle telefonate (ne- anni arrivate alla consulta e dichiarate incostituzionali) e insieme centralizzazione presso un unico Tribunale di Sorveglianza - quello territoriale del Ministero decretante la misura- dei reclami contro i decreti di 41bis, andarono ad integrare il nuovo paradigma del “carcere duro”. Un paradigma la cui specificità rispetto al precedente è la capacità di proiezione di conseguenze a largo raggio, molto oltre l’ambito dei suoi “ristretti” o dell’intera popolazione detenuta, venendo ad incidere sul ruolo e sull’operatività di tutta la Magistratura di Sorveglianza. Il regolamento emendato - Fino al 2005, la sezione 41bis femminile era quella di Rebibbia, a Roma, dove le restrizioni applicate erano quelle di legge e generali, e il personale penitenziario era ordinario. Quella sezione nel 2009 chiuse. In quella aquilana, aperta nell’ottobre 2005, per applicare il “massimo rigore” fu adottato l’espediente di elaborare ed affiggere nella saletta della sezione un regolamento apposito per la sezione, che voleva dare l’impressione che, data la peculiarità di genere della sezione, essendo femminile in un carcere esclusivamente maschile, ne servisse uno apposta, altrimenti esisteva un regolamento di istituto che era vigente a tutti gli effetti. In realtà, quando nel 2006 fu chiesto di poter acquisire il regolamento d’istituto - tutti gli istituti devono averne uno - non fu opposto un diniego, non sarebbe stato giustificabile, ma fu affissa una copia del regolamento mancante di alcune pagine iniziali e anche al suo interno. Se ne dovette perciò reclamare l’affissione nella sua interezza al Magistrato di sorveglianza. E infatti così fu fatto quando il magistrato lo ordinò. Allora si poté scoprire che, quelle mancanti, erano pagine concernenti modalità di perquisizione personale, quantità e generi alimentari, di vestiario e altro, detenibili in cella. Ambiti in cui la prassi nella sezione femminile non osservava il regolamento a scapito delle detenute, fino a quel momento ancora poco esperte. La sottoscritta farà alcuni esempio pratici: le “perquisizioni personali con denudamento” venivano fatte con denudamento integrale nonostante il regolamento d’istituto prescrivesse che il detenuto restasse con gli indumenti intimi. Un altro esempio: il regolamento d’istituto prevedeva che in cella si potessero detenere 10 pacchetti di sigarette. Quello di sezione non contemplava l’argomento, sicché la quantità detenibile veniva comunicata oralmente. Diventarono 8, poi 6, poi 4. E il momento della decisione di ridurre da 8 a 6 ecc. era quello in cui nel corso della perquisizione della cella, a quel tempo settimanale, se ne trovavano 7, poi 5 e così via. Alla detenuta veniva contestata la detenzione di un “eccesso”, alla previsa e scontata rimostranza, la prima volta c’era l’avvertimento, la seconda il rapporto disciplinare. E così per ogni variazione in senso restrittivo che potesse/ volesse essere inventata. A quel tempo, fino a tutto il 2009, era un metodo, poi è diventato periodico, mentre, più in generale, anche sui generi detenibili in cella il dipartimento ha sussunto molte delle potestà prima in capo, almeno formalmente, ai direttori. Reati puniti con l’ergastolo fuori dal rito abbreviato di Claudia Morelli Italia Oggi, 30 novembre 2017 I reati più gravi, quelli puniti con l’ergastolo, rimarranno fuori dall’ambito di applicabilità del rito abbreviato, che permette al condannato di ottenere uno sconto di pena come “contropartita” di aver chiesto di essere giudicato già in fase di udienza preliminare e non in dibattimento. Con conseguente deflazione dei processi penali. La nuova disciplina riguarda i procedimenti in corso alla data della sua entrata in vigore. A meno ché alla medesima data sia già stata presentata richiesta. Mercoledì l’aula della Camera ha approvato, anche con i voti del Pd, un provvedimento proposto dalla Lega, che non ha invece potuto contare sui voti “dell’alleato” politico alle prossime elezioni, Forza Italia che ha ritenuto il testo di stampo “giustizialista” e con profili di incostituzionalità. Il provvedimento comunque passa all’esame del Senato. In linea generale, sono esclusi dall’applicabilità del rito abbreviato i reati puniti con la pena dell’ergastolo ma il testo disciplina alcune ipotesi nelle quali comunque l’imputato di un reato gravissimo può accedervi, sia in fase di udienza preliminare sia in fase dibattimentale sempre ché processualmente non si sia addivenuti da una diversa qualificazione del fatto-reato, con conseguente derubricazione. Il provvedimento modifica anche un aspetto del rito abbreviato per tutti gli altri reati gravi che non sono puniti con l’ergastolo ma sono di competenza della Corte d’assise, per fare in modo che in questi casi sia sempre la corte d’assise (con la integrazione dei giudici popolari) ad emettere sentenza e non il giudice delle indagini preliminari. Altro aspetto riguarda i delitti contro la persona (cioè tutti quelli previsti dagli articoli 575 a 623bis del codice penale) che, se non puniti con l’ergastolo, possono accedere al beneficio ma “ridotto”: lo sconto di pena infatti dovrà essere calcolato sulla pena stabilita tenendo conto anche delle circostanze aggravanti quali l’aver agito con crudeltà e sevizie, che non potranno più essere “compensante”, diciamo, con quelle attenuanti. Nel testo approvato dalla commissione giustizia, che comunque ha ricevuto il via libera dalla commissione affari costituzionali, non era prevista una norma transitoria, che è stata introdotta in aula con emendamenti del Pd per rendere applicabile la normativa restrittiva anche ai processi in corso. Il giornalismo patibolare che spiana la strada alle fake news di Goffredo Pistelli Italia Oggi, 30 novembre 2017 L’agenda s’è già spostata sulle fake news, perché il New York Times, nientemeno, ha denunciato strane convergenze fra siti paragrillini e paraleghisti, smentite da grillini e leghisti ufficiali. E Matteo Renzi, che aveva recentemente accennato a un’attività russa sui social in coincidenza della campagna referendaria, ha chiesto, non una legge, ma ai padroni degli stessi social network di vigilare. Tutto corre veloce e così è stata rapidamente archiviata la fase forcaiola che ha accompagnato le molestie sessuali in ambito cinematografi co italiano. Fase culminata in un pubblico processo tv al regista Sergio Brizzi, accusato e subito mediaticamente condannato da un programma d’assalto e poi, a ruota, dalla giuria popolare di Twitter, presieduta da Asia Argento, in quanto vittima di molestie, e da una processione di magazine femminili adoranti, che pensano così di rifarsi una verginità engagée. Il cortocircuito sta proprio qui, perché, sovente, quelli che strillano contro le fake news sono gli stessi che alimentano i processi sommari, le sentenze lampo, la Cayenna informativo-giudiziaria. Forse, prima di denunciare le fake news (ottima cosa, lo facemmo nell’ottobre dell’anno scorso documentando fole che bersagliavano l’allora premier Renzi) prima di denunciare le bufale online, dicevamo, converrebbe riflettere un po’ anche su questa attitudine, di tanti giornalisti, a ergersi a Saint Just de noantri, pronti a far rotolare le teste per il gaudio di milioni di tricoteuses che condividono i filmati dei servizi sui social. Perché le notizie farlocche, artatamente diffuse, abbeverano la stessa sete di sangue e di teste idealmente mozzate che loro, gli implacabili additatori al pubblico ludibrio, i guardiani della morale pubblica, elegantemente, alimentano. E allora, si può inarcare il sopracciglio scandalizzandosi per le notizie false, per il numero imponente delle persone che le condividono, quando un deputato regionale siciliano, Cateno De Luca, è stato trattato come il nuovo Girolimoni, linciato moralmente come un Gheddafi della politica siciliana, sol perché l’avevano arrestato, ai domiciliari, il giorno dopo del voto regionale? Si può pontificare sulle fake news e praticamente ignorare, pochi giorni più tardi, che il gip ha rimesso in libertà quell’Al Capone della politica regionale, per l’inconsistenza degli indizi accusatori? Come si fa a non capire che questa informazione patibolare, che vuol essere giustizia spietata e senza garanzie, è ciò che ara oggi il terreno dove le fake news germoglieranno facilmente domani? La Cassazione: al 41bis sì alla radio, ma non alla tv di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 novembre 2017 Al 41bis può usare la radio, i giornali, ma non la tv. Questo è il verdetto della Cassazione nei confronti di Vincenzo Forastefano, boss recluso al 41bis, con una condanna di 24 anni di carcerazione dura. Il boss aveva fatto ricorso lamentando “la violazione del diritto all’informazione, segnatamente l’asserito inibito accesso all’informazione televisiva”. In prima istanza, il tribunale di Milano ha ritenuto infondata la richiesta di Forastefano. Stesso verdetto anche dalla Suprema Corte, che ha ritenuto corretta la prima decisione: per detenuti come Forastefano, esclusi dalle attività in comune, il regolamento “non include la dotazione dell’apparecchio televisivo, garantendo e assicurando al detenuto il diritto all’informazione, i colloqui visivi e telefonici con difensori e familiari, il vitto ordinario, il quotidiano monitoraggio sanitario”. Per i giudici della Cassazione “le modalità di esplicazione del diritto restano affidate alle scelte discrezionali dell’amministrazione penitenziaria in funzione delle esigenze di ordine e disciplina interne, che, ove non manifestamente irragionevoli ovvero sostanzialmente inibenti la fruizione del diritto, non sono sindacali in sede giurisdizionale”. In soldoni, la tv non è vietata nel regolamento, ma è a discrezione dell’amministrazione penitenziaria. Infatti, ricordiamo, che la nuova circolare sul 41bis ribadisce il diritto di avere la tv in cella, ma a determinate condizioni. Il telecomando della tv deve essere sigillato e piombato, al fine di evitarne la manomissione, e frequentemente controllato dal personale di polizia penitenziaria. La visione dei programmi è limitata ai principali canali della rete nazionale vale a dire pacchetto Rai (1-2-3-4-5, news, movie, scuola, storia, rai sport 1 e 2, premium, yoyo, gulp), canale 5, rete 4, Italia uno, la7, cielo, iris e TV 2000, preventivamente sintonizzati e abilitati dal tecnico di fiducia della Direzione. Le camere di detenzione sono dotate di televisioni fornite dall’Amministrazione prive di televideo o munite di sistemi che ne inibiscono la funzionalità. La fruizione del televisore viene consentito solo in orari stabiliti, con accensione alle ore sette del mattino e spegnimento non oltre la mezzanotte, al fine di non disturbare il riposo degli altri detenuti al 41bis. È consentito avere anche la radio. Ma deve essere di formato ridotto, con caratteristiche idonee ad escluderne la manomissione e comunque tali da non rendere possibile l’occultamento interno di oggetti vietati o pericolosi. In ogni caso, prima della consegna, la radio deve essere preventivamente piombato. Ove non disponibile sul mercato la radio a sola frequenza media (Am,) il detenuto al 41bis potrà essere autorizzato ad acquistare ugualmente la radio, ma prima della consegna la stessa dovrà essere modificata in modo tale da consentire l’ascolto sui soli canali a frequenza media (Am). Detta operazione viene comunque effettuata da tecnico specializzato convenzionato con la Direzione a spese del detenuto. Tra gli strumenti tecnologici, in cella al 41bis non viene consentito l’utilizzo del personal computer portatile. Se frequenta corsi scolastici o universitari cui è regolarmente iscritto, per i quali si rende indispensabile l’uso di strumenti e supporti informatici, potrà fruire, previa richiesta, di computer fissi messi a disposizione - in apposite sale separate - dalla Direzione che ne disciplinerà giorni, orari di accesso e modalità, al fine di scongiurare che siano sovvertite le caratteristiche e le finalità del regime. Il detenuto al 41bis può consultare, previa autorizzazione della competente Autorità giudiziaria, materiale giudiziario su supporto informatico, qualora sia troppo voluminoso in formato cartaceo. La consultazione, non dovrà comportare la permanenza del soggetto fuori dalla camera detentiva oltre i limiti previsti dalla vigente normativa La prescrizione del reato non blocca la confisca di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 30 novembre 2017 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 29 novembre 2017 n. 53692. La prescrizione del reato non blocca la confisca urbanistica. In caso di un sequestro preventivo finalizzato alla confisca, infatti, il giudice del dibattimento, non ha l’obbligo di dichiarare immediatamente le cause di non punibilità (articolo 129 del Codice di rito penale). È dunque possibile disporre la misura, anche in assenza di una sentenza di condanna, purché si proceda all’accertamento del reato “nelle sue componenti oggettive e soggettive, assicurando alla difesa il più ampio diritto alla prova e al contraddittorio”. Per raggiungere lo scopo è dunque necessario proseguire il dibattimento, rimandando, nel caso, la dichiarazione di estinzione del reato alla fine del giudizio. Un compito che può essere svolto dal giudice penale, al quale il testo unico sull’edilizia attribuisce il potere di accertare la lottizzazione abusiva e disporre la misura. Secondo i giudici il principio affermato è in linea sia con la Carta sia con le garanzie previste dalla Cedu. La Corte costituzionale (sentenza 49 del 2015 e ordinanza 187 del 2015) ha infatti affermato che la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo (sentenza Varvara) può essere letta nel senso che la confisca urbanistica non esige una sentenza di condanna da parte del giudice penale. Per il rispetto delle garanzie previste dalla Convenzione è sufficiente il pieno accertamento della responsabilità personale del destinatario della misura ablativa. Il giudice deve dunque escludere che la sentenza sia presupposto per la misura, perché non si può esigere una condanna penale per l’applicazione di una sanzione di carattere amministrativo, per quanto assistita dalle garanzie della “pena” in base all’articolo 7 della Cedu. Con una diversa conclusione si verrebbe a determinare un integrale assorbimento della misura nell’ambito del diritto penale. Si tratterebbe - chiariscono i giudici - di una soluzione difficilmente compatibile con il principio della sussidiarietà, secondo il quale la criminalizzazione, come ultima ratio, deve scattare solo se gli altri rami dell’ordinamento non offrono adeguata tutela al bene da garantire. Il rapinatore ha un gemello: impossibile capire chi processare di Alessandro Chetta Corriere della Sera, 30 novembre 2017 La Procura costretta all’archiviazione: somiglianza straordinaria tra due marocchini 27enni. “Mi sembra di vederci doppio” ha riferito una testimone quando li ha visti. Impossibile distinguerli: chi ha fatto la rapina? Chi merita il processo? Il dubbio assale quando un rapinatore viene “salvato” dal fratello gemello: la somiglianza fra i due è tale che la Procura di Torino, sulla base di quanto emerso dalle indagini, ha dovuto chiedere l’archiviazione. Non è stato possibile incastrare il colpevole, individuarlo con ragionevole certezza. Rapinò un connazionale al fast food - “Mi sembra di vederci doppio”, avrebbe addirittura riferito una testimone quando ha visto i due. L’indagato è un marocchino di 27 anni che nel dicembre del 2016, davanti a un fast food di Corso Vittorio Emanuele, aggredì un connazionale portandogli via denaro per duecento euro. Lo straniero fu individuato perché alcune presenti annotarono la targa dell’auto su cui si allontanò. Identikit “inutile” - Nessuno, però, poteva immaginare l’esistenza di un gemello. Descrivere il balordo perciò non servì a molto, dal momento che l’identikit si sovrapponeva bene a due persone a quanto pare pressoché identiche. Solo qualche giorno dopo, quando i due si ripresentarono al fast food saltò fuori il gemello: fu in quell’occasione che la teste ebbe “l’impressione di vederci doppio”. Maltrattamenti in famiglia, no all’aggravante se il figlio non era capace di comprendere di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 30 novembre 2017 Corte di cassazione - Sentenza 29 novembre 2017 n. 53823. Nel reato di maltrattamenti in famiglia l’aggravante per la presenza di minori può essere contestata sempreché sia dimostrata la maggiore potenzialità offensiva della condotta e dunque la sua percepibilità da parte delle vittime. Con questa motivazione la Cassazione, sentenza 53823 del 29 novembre 2017, ha accolto il ricorso di un padre che aveva contestato l’impossibilità per il figlio di un anno di comprendere la molestia nei confronti della madre, tanto più che si trattava di un insulto verbale. Per la Corte di appello di Milano invece “l’atteggiamento violento del genitore avrebbe potuto essere percepito anche da un bimbo di tenera età, in un periodo delicato di formazione della sua personalità”. Per il ricorrente al contrario “l’aggravante presuppone un quid pluris offensivo che coinvolga anche il minore: tale maggiore offensività deve essere valutata caso per caso e trovare un serio e concreto riscontro nel minore, oltre che formare oggetto di rigorosa motivazione”. Mentre la decisione “non aveva considerato la natura meramente verbale dell’episodio di maltrattamento e, in ogni caso, aveva motivato in modo apodittico in ordine alla percepibilità dell’atteggiamento contestato al ricorrente da parte dell’infante, ben potendo all’occorrenza ricorrere ad una perizia”. La Cassazione nell’accogliere il motivo osserva che “l’aggravante di cui all’art. 61, comma primo, n. 11 - quinquies, c.p., presuppone che il fatto assuma maggiore gravità in ragione della sua maggiore potenzialità offensiva, connessa alla presenza di minori”. Ciò implica, prosegue la decisione, che sia “idoneamente verificato che il minore, in ragione delle sue condizioni psico-fisiche o del grado di maturità, correlati alla natura del fatto, sia in condizione non tanto di recepirne la natura di reato o il disvalore etico-sociale, ma di avvertire la situazione di disagio che ne deriva”. Invece, nel caso di specie “in presenza di un infante in tenerissima età (il bambino aveva circa un anno di vita) la Corte si è indebitamente basata su riferimenti apodittici e astratti, non commisurati alle effettive e concrete condizioni del minore e alla specifica natura delle vicende”. I giudici hanno poi annullato, con rinvio, la decisione sul presupposto che la figlia maggiore prima inserita nella lista dei testimoni era poi stata depennata in tal modo producendo una grava lacuna probatoria. È pur vero, scrive la Corte, che “l’audizione di un minore in un procedimento avente ad oggetto le accuse rivolte da un genitore contro l’altro determina di per sé una situazione di disagio, che peraltro può essere compensata dalle forme dell’audizione e dall’essenzialità della stessa”. Tuttavia, il fatto che la bambina avesse segnalato nel procedimento aperto davanti al tribunale dei minorenni di non volere giudicare i genitori, non è sufficiente ad escluderne la testimonianza. Per far ciò infatti sarebbe stata necessaria una ulteriore verifica circa l’effettiva “situazione di rischio di serio pregiudizio derivante dal fatto di dover deporre e dall’oggetto della deposizione”. Al contrario la Corte ha solo “apoditticamente prospettato il danno, ma non ha specificamente illustrato su basi documentate e tecnicamente plausibili le ragioni per cui l’audizione avrebbe realmente comportato un pregiudizio per la salute psichica e il processo di crescita della minore, e non ha neppure chiarito quale fosse il tipo di danno paventato”. Anche il socio può essere condannato per indebita restituzione dei conferimenti di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 30 novembre 2017 Corte di cassazione - Sentenza 53832. Anche il socio può essere condannato per il reato di indebita restituzione dei conferimenti. Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza n. 53832 della Sesta sezione penale depositata ieri. La pronuncia respinge così il ricorso presentato dai soci di una società calcistica contro il sequestro preventivo di svariate somme di denaro. Tra i motivi dell’impugnazione aveva trovato posto la contestazione della qualifica soggettiva richiesta dal reato disciplinato dall’articolo 2626 del Codice civile. Si sottolineava infatti che la persona nei confronti della quale era stata disposta la misura cautelare era in realtà solo socio e non amministratore della società. La Cassazione replica, ricordando che è vero che la fattispecie di indebita restituzione dei conferimenti è una reato proprio che può essere commesso solo dagli amministratori in quanto sono loro a essere titolari dell’obbligo di garanzia sull’integrità del capitale sociale. Incriminando soltanto l’amministratore, il legislatore non ha voluto punire anche il socio beneficiario della restituzione del conferimento o della liberazione dall’obbligo di eseguire lo stesso. Tuttavia, ed è il passaggio chiave, l’esclusione dal concorso necessario del socio non ha come conseguenza anche l’impossibilità di contestare il concorso eventuale nelle ipotesi in cui lo stesso “abbia tenuto una condotta diversa ed ulteriore rispetto a quella tipizzata e non sottoposta a pena e che si risolva in un contributo di partecipazione atipico rispetto alla condotta dichiarata punibile”. Si dovranno così applicare le disposizioni sul concorso eventuale di persona quando, come nel caso finito in Cassazione, il socio non si è limitato a trarre un vantaggio dalla restituzione o dalla liberazione, ma ha invece fornito un contributo effettivo di volontà “qualificabile in termini di determinazione, istigazione o rafforzamento del proposito criminoso dei titolari dei poteri di gestione”. Nel caso esaminato era stata realizzata un’operazione di ricapitalizzazione della società, in assenza della quale il socio avrebbe subito una grave perdita. Le somme immesse nella società erano però state recuperate attraverso la restituzione dei conferimenti disposta da un familiare amministratore della Srl. In queste condizioni, contesto familiare della compagine sociale, la contestualità tra l’esecuzione dell’aumento di capitale e lo storno delle somme attraverso le quali l’operazione era stata realizzata, avevano portato i giudici di merito a ritenere esistente il concorso nella commissione del reato. A venire respinta è poi stata anche quella parte del ricorso sulla contestazione del falso in bilancio: la difesa faceva infatti rilevare un possibile mancato superamento delle soglie di rilevanza penale, oggi scomparse ma applicabili al momento della commissione dei fatti. Il parere della Cassazione è comunque contrario alla esclusione della punibilità per “alterazioni non sensibili” e anche all’applicazione della nuova causa di non punibilità introdotta l’anno scorso per tenuità del fatto. Calabria: l’On. Nicolò (Fi) “servono maggiori controlli sulla salute dei detenuti” strill.it, 30 novembre 2017 “Quanto sta accadendo dentro gli istituti di pena necessita un rapido intervento del legislatore e della politica. Le condizioni disastrose delle infrastrutture di detenzione sono un simbolo di degrado per un Paese civile e per chi ci lavora o sconta i suoi debiti con la società”. Lo afferma in una dichiarazione il capogruppo di Forza Italia in Consiglio regionale, Alessandro Nicolò. “L’emergenza carceri non è questione che riguardi soltanto il sovraffollamento, ma anche il continuo insorgere di patologie ad alto rischio fisico, infettivo e psicologico. Certamente gli spazi ristretti promuovono le condizioni per un veloce propagarsi delle malattie infettive, come la tubercolosi, come si riscontra da nota pubblicata su testate giornalistiche, diagnosticata a due detenuti presso le carceri San Pietro di Reggio Calabria. Governo, Parlamento ed istituzioni locali devono agire all’unisono per avviare una seria politica di investimenti e di risanamento del “sistema carcere”, che ancora oggi risente influenze post- borboniche che non trovano più rispondenza, per vetustà, sistemi di sorveglianza e programma di rieducazione, alle questioni che oggi la nostra società pone. Lo sforzo dagli operatori carcerari per umanizzare il carcere - dice Alessandro Nicolò - è appena sufficiente a lenire casi limite o emergenze, mentre si fa sempre più insopportabile una condizione di vita di per se durissima già per la sanzione afflittiva. Sindacati della polizia penitenziaria, comitati di garanzia dei detenuti, la Chiesa e gli operatori sanitari e sociali, che svolgono il loro lavoro dentro le mura del carcere, parlano ormai la stessa lingua e chiamano in causa la politica affinché, senza perdonismi o colpevolismi, si affronti con la dovuta energia un programma di interventi per garantire decoro umano a quanti, si trovano dentro gli istituti di pena. Situazione peraltro aggravata dalla costante crescita - ricorda Alessandro Nicolò - della multietnicità degli arrestati o dei condannati che gravano direttamente sul nostro sistema penitenziario, che fa insorgere seri problemi di convivenza per insufficiente comunicazione linguistica, culture e religioni diverse. Da qui - continua Nicolò - l’inevitabile lievitare dei conflitti, degli atti di violenza e di autolesionismo, che solo grazie alla sensibilità ed all’impegno quotidiano del personale di polizia penitenziaria, degli operatori sociali e dei magistrati di sorveglianza, si riesce a contenere con gravissimo pericolo per chi deve esercitare i dovuti controlli. Insieme, dunque, alle necessarie ristrutturazioni o rifacimenti delle case penali - afferma Alessandro Nicolò - si rende opportuno che il Governo, le Regioni e l’amministrazione penitenziaria, diano corso ad un controllo a largo spettro, sullo stato di salute psicofisica delle persone detenute affinché si abbia un dato certo delle loro condizioni, evitando così pericolose forme di veicolazione di malattie infettive e di manifestazioni di autolesionismo, il cui propagarsi è assolutamente inconciliabile con ogni sorta di trattamento umano e civile di chi paga già un prezzo altissimo come la restrizione della libertà e l’allontanamento, per anni, dal proprio nucleo famigliare. Il Consiglio regionale discuterà della legge per l’istituzione del Garante dei detenuti, un’occasione per le forze politiche regionali per rendere chiaro il proprio orientamento ed il proprio impegno verso quella parte dell’umanità spesso dimenticata come fosse un vecchio arnese abbandonato in una soffitta”. Rimini: Camera penale “con il braccialetto elettronico meno detenuti nelle carceri” riminitoday.it, 30 novembre 2017 In occasione della III edizione della “Giornata dei Braccialetti”, la Camera Penale di Rimini condivide e si associa alla denuncia dell’Unione delle Camere Penali Italiane circa l’illegale detenzione di tutti coloro che, pur avendo ottenuto gli arresti domiciliari, restano in carcere per la mancata disponibilità dei braccialetti elettronici e sollecita il Governo a porre rimedio a questo ingiustificato ritardo. Diciassette anni fa è entrato in vigore l’art. 275 bis cpp, che prevede una particolare modalità esecutiva degli arresti domiciliari, ossia gli arresti domiciliari “controllati” (l’autoreclusione è garantita dall’uso di una specie di cavigliera, che consente di monitorare in modo continuativo gli spostamenti di una persona, allertando prontamente le forze dell’ordine in caso di allontanamento del soggetto dal luogo di esecuzione degli arresti); a fine 2013, poi, il legislatore ha stabilito che la prescrizione degli strumenti elettronici di controllo debba rappresentare la regola (la custodia cautelare in carcere è uno strumento da utilizzare come extrema ratio); sempre a fine 2013, infine, ha preso vita il nuovo art. 58 quinquies Ordinamento Penitenziario, che conferma l’utilizzo del braccialetto elettronico come strumento di controllo, anche dopo la condanna dell’imputato, nell’ipotesi di concessione della detenzione domiciliare. L’intento è quello di contrastare il sovraffollamento carcerario e ridurre i rilevanti costi pubblici della detenzione. Sennonché, nonostante la Magistratura stia facendo sempre più ricorso a questa misura, le scorte di braccialetti in dotazione alla polizia giudiziaria sono limitate e insufficienti. Duemila in tutto gli strumenti disponibili sul territorio nazionale, che portano alla creazione di una lista non regolamentata (in attesa di poter fruire dei dispositivi elettronici utilizzati da altri imputati) e, soprattutto, che portano a una sostanziale disapplicazione delle norme (gli imputati sono costretti a subire una detenzione carceraria che gli stessi giudici hanno riconosciuto sproporzionata ed inadeguata per la tutela della collettività), in contrasto con l’esigenza di superare e prevenire il sovraffollamento nelle carceri italiane. Anche dopo l’aggiudicazione del recente bando di gara per la produzione di braccialetti elettronici, indetto per migliorare la situazione, non si hanno notizie precise sulla quantità e qualità dei nuovi braccialetti e sui tempi di utilizzabilità. Mentre il sovraffollamento carcerario sta aumentando di giorno in giorno. Secondo i dati al 31 ottobre scorso a fronte di una capienza regolamentare di 50.544 unità, sono presenti nelle carceri italiane 57.994 detenuti, di cui 10.249 in attesa del giudizio di primo grado e quindi “presunti innocenti”. Napoli: è morto il detenuto ferito fuori dal carcere di Secondigliano un mese fa cronachedellacampania.it, 30 novembre 2017 È morto nella serata di ieri all’ospedale di Caserta dove era ricoverato da un mese Lello Russo “cartolandia” il pregiudicato di Arzano legato al clan Moccia di Afragola che fu ferito mortalmente fuori al carcere di Secondigliano la mattina del 27 ottobre scorso. Ha lottato tra la vita e la morte ma i cinque colpi di pistola che lo avevano raggiunto al volto e al torace lo avevano reso in gravissime condizioni fin da subito. Trasportato prima al Cardarelli e poi la sera del 31 ottobre a Caserta è morto ieri. Russo, conosciuto alla forze dell’ordine con il soprannome di Lello “cartolandia”, era detenuto in regime di semilibertà. Il 27 ottobre scorso, quando è uscito dal carcere di buonora è stato oggetto di un agguato mentre stava per salire sulla sua macchina una Opel parcheggiata in via Roma verso Scampia, proprio di fronte al penitenziario. Nella sparatoria era rimasto ferito, ma solo di striscio anche un secondo detenuto che come Russo era in regime di semilibertà e che era appena uscito dal carcere per andare a lavorare a Boscoreale. Gli inquirenti che non hanno mai smesso di indagare su quell’agguato propendono per la pista dello “sgarro” al gruppo emergente denominato della “167”, nel cuore del rione popolare di via Colombo di Arzano. Un gruppo che sarebbe legato a doppio filo sia con gli Amato-Pagano che con la mala di Frattamaggiore e Cardito e che starebbe seminando il terrore tra Arzano, Scampia, Casoria, Frattamaggiore, Sant’Arpino e Crispano. Questa nuova organizzazione criminale in forte ascesa - secondo gli investigatori, avrebbe condizionato anche le ultime elezioni comunali ad Arzano e beneficiato di certificati per la tossicodipendenza rilasciati dai Sert di Casavatore e Scampia. Certificati per beneficiare di misure alternative al carcere. Belluno: il carcere dove c’è sempre qualcosa da fare per tutti i detenuti di Francesca Valente Redattore Sociale, 30 novembre 2017 Nella Casa circondariale di Baldenich a Belluno lavora l’80% dei reclusi e si svolgono molte attività ricreative, tra cui una rivista finanziata dal Csv. Coinvolgendo cinque associazioni di volontariato, cooperative sociali, docenti e dieci aziende. Cinque associazioni di volontariato, un gruppo di docenti del Centro provinciale istruzione per adulti (Cpia), la fondazione Esodo, la Caritas diocesana di Belluno-Feltre, tre cooperative sociali e una decina di aziende. Sono questi i numeri della piccola grande rete creata per dare occupazione, sollievo e motivazione agli ospiti della Casa circondariale di Baldenich a Belluno. L’ultimo tavolo convocato dalla direzione del carcere e coordinato dalla capoarea educativa è stata una preziosa occasione per gli operatori esterni di incontrarsi e raccontare le attività svolte nel corso del 2017, anche in vista della programmazione del prossimo anno. Il lato più interessante è stato indubbiamente relativo alle attività “ricreative”, ovvero tutte quelle che parallelamente al lavoro, che oggi impiega quasi l’80 per cento dei detenuti, offrono momenti di svago e di crescita alle persone recluse. L’associazione Il Tralcio di Tambre è attiva da diversi anni nella piccola sezione transessuali con un gruppo di lettura e un cineforum, momenti di confronto settimanale sui temi più disparati, a cui le ospiti rispondono con grande attenzione e partecipazione. A luglio ha avviato una collaborazione con l’associazione Jabar, che da metà del 2014 tiene un corso settimanale di informatica nella più ampia sezione maschile, strutturato sulle varie competenze dei partecipanti, dall’alfabetizzazione digitale fino al linguaggio html. Nello stesso contesto è nata un anno fa una piccola redazione branca del corso che si occupa di pensare, scrivere e organizzare la rivista semestrale “Sconfinamenti”, stampata grazie a un finanziamento del Csv di Belluno per portare fuori spunti e riflessioni sui temi della privazione della libertà, della legalità e della rieducazione. Dalla collaborazione tra le due associazioni è nato il nuovo progetto “Liber libri”, un percorso di lettura critica di alcuni titoli selezionati sulla base degli autori che si prefigge l’obiettivo di far incontrare i lettori e gli scrittori. La prima presentazione in carcere si è svolta il 6 ottobre con la partecipazione straordinaria dell’autore romano Edoardo Albinati (premio Strega 2016), molto apprezzata e partecipata. Da maggio Jabar ha preso sede al primo piano della Casa del volontariato e sta intessendo un’importante collaborazione con il Csv per integrare una parte di servizi alla persona marginalizzata, a partire dalle consulenze alle famiglie dei detenuti a Belluno. C’è poi il Csi di Belluno che da oltre un anno organizza corsi di pallavolo, basket e ora calcetto nei sabati pomeriggio di bel tempo in un piccolo quadrilatero di cemento nel cuore della struttura. E ancora il gruppo San Francesco coordinato dal cappellano padre Olindo, che raggruppa anche alcuni volontari della Società San Vincenzo dè Paoli bellunese per raccogliere indumenti da donare agli indigenti, tenere incontri di catechesi e dal prossimo anno proporre anche un corso di chitarra. Nel 2018 saranno riconfermate tutte le attività in corso, con l’auspicio che assieme al lavoro torni anche il bisogno di rimettersi sui banchi di scuola. Trento: una mostra con “501 disegni a sei mani” per raccontare la pace di Teresa Valiani Redattore Sociale, 30 novembre 2017 Dal Palazzo Ducale di Venezia al carcere di Trento la mostra con i lavori di 1.500 bambini di Italia, Tunisia, Marocco e Texas e il contributo di 9 detenuti che hanno tradotto i loro messaggi. Nel catalogo, la prefazione del Presidente Mattarella. Inaugurazione il 5 dicembre. Mille e 500 bambini italiani, tunisini, marocchini e texani (anche figli di detenuti) al lavoro con tele e pennelli per colorare la pace e scrivere messaggi in lingue diverse. Nove detenuti del carcere di Venezia e Trento che traducono e trascrivono i loro pensieri, abbattendo muri linguistici e avvicinando culture differenti anche attraverso la consultazione del vocabolario, della Bibbia, del Corano e della Torah. Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che firma la prefazione al catalogo e Papa Francesco che concede la Benedizione apostolica al progetto. C’è tutto questo dietro “501 disegni a sei mani per 500 anni veneziani. Venezia, Tunisi, Rabat, Hewitt”, la mostra inaugurata il 25 ottobre scorso a Palazzo Ducale alla presenza di 900 bambini, e che dal prossimo 5 dicembre si trasferisce nel carcere di Trento. I 501 disegni sono il prodotto del ponte d’amicizia tra 24 scuole elementari iniziato 2 anni fa a Venezia e che ha toccato Tunisia, Marocco e Texas. “I bambini - spiegano gli organizzatori - hanno colorato, a distanza e in tempi successivi, fogli di carta a forma di mondo suddivisi in tre settori: un alunno ha iniziato a disegnare una parte e ha lasciato gli altri due spazi per i coetanei che hanno continuano e completato l’elaborato. Insieme alla mostra è stato realizzato un volume, dedicato a padre Fabrizio Forti, che ospita la prefazione scritta dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella tradotta in inglese, arabo ed ebraico”. “Desidero rivolgere il mio più sentito ringraziamento per la costante, preziosa e meritevole azione dell’Associazione “Venezia: Pesce di Pace” - si legge nel messaggio del Presidente della Repubblica. I 501 lavori raccolti in questo volume sono il frutto della fantasia e della mente libera da ogni pregiudizio di bambini appartenenti a paesi e culture differenti tra loro. Disegni e messaggi di amicizia che rappresentano una straordinaria testimonianza di dialogo e reciproco rispetto che, attraverso i colori, questi giovani hanno voluto consegnare al mondo degli adulti. Si tratta di iniziative preziose, dal profondo valore etico, che auspico possano ripetersi contribuendo a consolidare nel tempo, sempre di più, quei principi di dialogo, tolleranza e comprensione alla base di una convivenza pacifica tra le nazioni”. Il progetto, ideato e realizzato dalla giornalista Nadia De Lazzari dell’Associazione di volontariato “Venezia: Pesce di Pace” (25 anni di attività, dal 1992 al 2017, e 25 mila disegni in totale realizzati dagli studenti delle scuole elementari) ha ricevuto la benedizione apostolica di Papa Francesco. I “501 disegni a sei mani” hanno cinque temi e colori: l’autoritratto in rosso, l’amicizia in verde, la propria città in azzurro, le feste in viola, la chiesa, la moschea, la sinagoga in arancione. L’inaugurazione della mostra è prevista per le 11 di martedì 5 dicembre, nella casa circondariale di via Cesare Beccaria e vedrà la presenza del direttore dell’istituto, Valerio Pappalardo, del provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria di Veneto, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia, Enrico Sbriglia, del sindaco di Trento, Alessandro Andreatta, della presidente del consiglio comunale di Venezia, Ermelinda Damiano, e del presidente della Fondazione Musei Civici di Venezia, Mariacristina Gribaudi. Parteciperanno anche il Direttore della Fondazione, Gabriella Belli, il vescovo di Trento, Monsignor Lauro Tisi, il Rabbino di Verona e Vicenza, Rabbi Yosef Y. Labi, il rappresentante del Settore educativo del Coreis, Comunità religiosa islamica italiana, Imam Isa Abd Al-Haqq Benassi, un rappresentante del progetto culturale/educativo internazionale, e la giornalista Nadia De Lazzari, responsabile dell’Associazione “Venezia: Pesce di Pace”. Queste, le scuole che hanno partecipato: Venezia: Alighieri, Canal, Cerutti (Murano), Collodi (Tessera), Antonio di Cocco (Burano), Foscarini, Diaz, Gallina, Gozzi, Cavanis, Manzoni, Morosini, Penzo (Malamocco), Vivarini (Sant’Erasmo); Fiesso d’Artico (VE): Italia K2; Olmi (Treviso): H-International School; Trieste: Scuola ebraica Isacco Sansone Morpurgo; Zermeghedo (Vicenza): Zanella; Rabat (Marocco): Taha Al Forkane; Tunisi (Tunisia): Scuola Italiana G.B. Hodierna, Garderie Pilote, Ibn El Jazzar, Salima School; Hewitt (Texas): Castleman Creek Elementary. Vicenza: legalità e società, il teatro dei detenuti di Rebibbia a scuola tviweb.it, 30 novembre 2017 Cos’è la normalità? Siamo tutti forse socialmente normali? Disabilità Sociale e Successo racconta come si superano i problemi, come la vita possa cambiare da un momento all’altro, come anche gli errori più gravi possano essere vissuti per aprire nuove strade e come la legalità sia alla base di una società di convivenza e rispetto. Aics, Associazione Italiana Cultura e Sport, da anni si occupa di creare occasioni ed eventi per affrontare importanti tematiche sociali. “Disabilità Sociale e Successo”, giunta alla nuova edizione 2017 si articola in tre appuntamenti significativi con l’anteprima a Belluno oggi, ospitata nel Teatro Comunale di Belluno e parteciperanno gli studenti dell’Istituto Superiore “T. Catullo”, mentre domani sarà ospitata a Padova nell’Auditorium del Liceo Artistico Modigliani e il 1° dicembre 2017 sarà a Vicenza nella Sala Teatro dell’Istituto Rossi con la partecipazione degli studenti dell’IPSS Montagna. A Padova e Vicenza i ragazzi del corso di Teatro saranno parte attiva nello spettacolo con alcuni monologhi. La Compagnia Stabile Assai di Rebibbia, il più antico gruppo teatrale operante all’interno del contesto penitenziario italiano, proporrà al pubblico lo spettacolo “Il Corno di Olifante”, scritto da Patrizio Pacioni con adattamento scenico e regia di Antonio Turco e contributi scenografici e di sceneggiatura di Paolo Mastrorosato, Patrizia Spagnoli e Cosimo Rega - il Cassio di “Cesare deve morire” che nel 2011 ha vinto l’Orso d’oro a Berlino. Musiche interpretate da Lucio Turco, tra i più importanti batteristi jazz italiani e da Roberto Turco, il bassista di Rino Gaetano. La morte del Paladino Orlando e del Magistrato Paolo Borsellino hanno molte analogie. Entrambe sono state determinate dalla scelta dei due personaggi di non indietreggiare di fronte alla “certezza della morte” per il bene comune. Lo spettacolo rende omaggio, con “Chanson de geste” a due figure che hanno saputo interpretare sino alla fine il ruolo di “servitori dello Stato” con una dignità e con una “onestà di principi” fuori dal comune. Un “Teatro di denuncia” che vuole portare l’attenzione dal passato al presente, per costruire il futuro. La compagnia proporrà anche un intervento della pedagogista Tamara Boccia. Tutta la mattinata è impostata su un’attiva interazione con gli studenti sia durante gli interventi che nei momenti di confronto, gli attori, detenuti, ex detenuti ed ergastolani e i testimonial di Brain saranno a disposizione dei ragazzi per un aperto dialogo. “Disabilità Sociale e Successo”, è un forum per riflettere a mente aperta, un incontro per interagire con gli studenti degli istituti superiori e con loro approfondire gli aspetti più scottanti della quotidianità, proposto e realizzato dalla progettista e consulente Monya Meneghini. Anche se il titolo può sembrare provocatorio lo scopo è di guardare positivamente al futuro oltre ogni difficoltà. Non si vuole intendere la parola disabilità in maniera convenzionale, si vuole riferirla a qualsiasi limitazione della capacità di agire e interagire a livello sociale, perciò parliamo di disabilità sociali. Il programma della mattinata si completa poi per Padova e Vicenza, con la testimonianza dei ragazzi di Brain Onlus coordinati dalla Dott.ssa Ilaria Locati. Ragazzi di varie età, vittime di incidenti stradali o banali infortuni - un attimo che cambia il tutto mondo e la vita intera - parleranno di come hanno ripreso lentamente in mano la propria vita, con fatica e dedizione, ricominciando da zero e riscoprendo valori e punti di riferimento. Alcuni di loro sono ospitati presso la struttura La Rocca ad Altavilla Vicentina - unica nel Veneto - realizzata da Brain voluta da Edda Sgarabottolo, la Presidente, per assistere le vittime di cerebro-lesioni dopo il ricovero ospedaliero. L’Associazione Brain Onlus da 20 anni assiste quanti hanno subito traumi cranici e si occupa anche di prevenzione, dialogando con gli studenti delle scuole per sensibilizzare, smentire i pregiudizi e consentire agli assistiti di avere un ruolo attivo, fortemente motivante, come promotori di messaggi. Macerata: convegno “Il carcere che verrà, verso la riforma del sistema penitenziario” ilmascalzone.it, 30 novembre 2017 Convegno promosso dal Garante dei diritti e dall’Università di Macerata in programma per il 1° ed il 2 dicembre. Previste due sessioni su “Infanzia e carcere: quale tutela?” e su “L’eredità degli Stati generali nella delegata per la riforma dell’ordinamento penitenziario”. Quale futuro per il sistema penitenziario italiano? Il quesito viene riproposto dal Garante dei diritti, Andrea Nobili, attraverso il convegno “Il carcere che verrà”, organizzato con l’Università di Macerata e patrocinato dall’Ordine degli avvocati maceratese, da quello degli assistenti sociali delle Marche e della Società San Vincenzo de Paoli. L’iniziativa, ospitata proprio nell’Università di Macerata che in questi anni ha riservato particolare attenzione al tema del carcere - il corso di laurea in Giurisprudenza è uno dei pochi in Italia ad avere un corso di diritto penitenziario - prevede due distinti momenti di riflessione. Nel pomeriggio del 1° dicembre, all’Auditorium di Unimc, incontro su “Infanzia e carcere: quale tutela?” Tema in agenda per il 2 dicembre, invece, “L’eredità degli Stati Generali nella delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario”, con un incontro al “Polo didattico Pantaleoni”. “In Italia i figli dei detenuti che vivono il problema della separazione da un genitore sono circa centomila. Il convegno - sottolinea Nobili - intende porre al centro del dibattito il principio della tutela dell’interesse superiore del minore, al quale deve essere garantito il mantenimento del rapporto con il genitore, sia durante, sia oltre la detenzione, cercando di evitare che eventuali ricadute negative possano incidere sul loro percorso di crescita”. Ad affrontare questo delicato problema sono chiamati Gian Piero Turchi, psicologo dell’Università di Padova; Francesco Cascini, presidente della Commissione ministeriale in tema di ordinamento penitenziario minorile; Antonio Crispino, collaboratore del Corriere della Sera; Antonio Marsella dell’Università del Salento; Lia Sacerdote dell’associazione “Bambini senza sbarre”; Piergiorgio Morosini del Consiglio Superiore della Magistratura. Per l’appuntamento del 2 dicembre l’attenzione è riservata agli obiettivi perseguiti attraverso il percorso di approfondimento promosso dal Ministro Orlando ed effettuato negli ultimi due anni per procedere verso una sostanziale modifica dell’attuale legge penitenziaria. Il dibattito parteciperanno Lina Caraceni, docente di diritto penitenziario dell’Università di Macerata; Glauco Giostra, presidente della Commissione di riforma dell’ordinamento penitenziario; Fabrizio Siracusano dell’Università di Catania; Marcello Bortolato, presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze; Gabriele Terranova dell’Osservatorio carceri - Unione delle camere penali; Lucia Castellano, direttore generale esecuzione penale esterna e messa alla prova. Moderano le due diverse sessioni il Garante e la Presidente dell’Ordine degli avvocati di Macerata, Maria Cristina Ottavianoni. Napoli: “ArtigiaNato in carcere”, mostra-mercato dei prodotti realizzati dai detenuti di Lucio Toscano Il Mattino, 30 novembre 2017 Sabato 2 dicembre 2017, dalle ore 9.00 alle ore 17.00, presso la Galleria Umberto I° di Napoli, si terrà la 7° edizione della mostra-mercato “ArtigiaNato in carcere”, organizzata dal Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria di Napoli in collaborazione con il Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità, il Garante per i Detenuti per la Regione Campania e l’Associazione “Il carcere possibile Onlus”. La manifestazione è patrocinata dal Comune di Napoli e propone l’esposizione e la vendita di prodotti realizzati negli Istituti Penitenziari della Regione in collaborazione con le Associazioni e Cooperative collegate. Obiettivo principale dell’iniziativa è sensibilizzare l’opinione pubblica sulle attività svolte dai detenuti all’interno degli Istituti, dando risalto ad una delle missioni fondamentali dell’Amministrazione Penitenziaria: rieducare e reinserire attraverso il lavoro e la formazione professionale. Negli anni questa manifestazione è diventata un’occasione di incontro e verifica tra gli operatori penitenziari e la rete territoriale, contribuendo a solidificare rapporti e a creare nuove sinergie. Fortemente motivante è la presenza dei detenuti permessati che si occupano direttamente dei manufatti provenienti dai laboratori a cui partecipano. Dalle ore 11.00 è previsto l’arrivo delle autorità, alle ore 12.00 l’esibizione musicale, con la banda dell’Amministrazione e l’aperitivo offerto dall’associazione “Scugnizzi”, e alle ore 15.00 ci sarà una dimostrazione di ginnastica artistica promossa dal CSI Campania. Foggia: padri detenuti scendono in campo coi figli, ecco la “partita del cuore” immediato.net, 30 novembre 2017 “L’amore può cambiare le persone, quello per i figli un’intera esistenza. Ne è convinto Matteo, 44 anni e due bambine di 11 e 9 anni che sono diventate l’unica ragione di vita dentro, in attesa di poterle stringere fuori, in un abbraccio senza tempo e senza barriere”. In poche righe, estratte dal libro “Colpevoli. Vita dietro (e oltre) le sbarre” di Annalisa Graziano, si ritrova tutto il senso dell’iniziativa che martedì 5 dicembre 2017, dalle ore 9.30 alle 11.30, vedrà scendere in campo i padri detenuti della Casa Circondariale di Foggia. Ancora una volta, animatore della manifestazione sportiva e sentimentale è Luigi Talienti, avvocato, docente del Cpia1 e assistente volontario del carcere, che spiega i dettagli della “partita del cuore”. “Sostenere e tutelare la relazione padre-figlio durante la detenzione è molto importante - sottolinea - ogni qualvolta che c’è un ingresso in carcere, a essere colpita è una sfera più vasta di persone: la famiglia di origine del detenuto, quella acquisita e, soprattutto, i figli. I bambini hanno il diritto di mantenere un legame affettivo con i propri genitori reclusi e di non essere colpiti da una sentenza di cui non hanno colpa. Dove c’è un bambino c’è un padre…anche se il padre è detenuto”. La “partita del cuore” dietro le sbarre, pensata a conclusione del torneo “Sportiva… mente”, vedrà coinvolte le sezioni di media sicurezza dell’Istituto di Pena ed è realizzata in collaborazione con il Csv Foggia, il Centro di Servizio al Volontariato di Capitanata, con il Cpia1, nella persona della dirigente, Antonia Cavallone e con l’Acsi, l’associazione degli arbitri. Sono state invitate a intervenire i massimi rappresentanti delle Istituzioni Locali. “Essere genitori in carcere non è facile: per questo - continua Talienti - è importante pensare a percorsi di sostegno e a come implementare strategie utili a mantenere il rapporto con i figli. Per i padri la detenzione è la perdita di possibilità di coltivare affetti e legami; i loro figli devono rinunciare, nella quotidianità, a una figura di riferimento fondamentale, a parte della loro storia, con cui è necessario confrontarsi e che, in qualche modo, va recuperata. In questi processi di recupero, all’interno degli istituti di pena, fondamentale è l’aiuto della Direzione del Carcere, dell’Area Trattamentale, della Polizia Penitenziaria e dei volontari, sempre presenti anche grazie al sostegno del Csv”. Non perdere i propri rapporti familiari è dunque fondamentale per il recluso, e sostenere questi legami è vantaggioso per il reo, per il figlio, ma anche per la società. Gli episodi di violenza e di insubordinazione di questi detenuti sono minori rispetto a quelli dei detenuti che hanno cessato ogni rapporto familiare. La minaccia del conformismo fascista che ricorda gli anni Venti di Tommaso Cerno La Repubblica, 30 novembre 2017 Ciò che inquieta di queste immagini è la normalità, il conformismo di chi si sente di nuovo in pieno diritto di agire alla luce del sole. Il caso di Como inquieta più della violenza di Ostia. Pochi fotogrammi di un video che ci mostrano il ritorno di una destra fascista che si sente nel pieno diritto di cittadinanza democratica. La scena che abbiamo documentato è surreale. Ed è destinata a ripetersi ancora. Perché ci mostra il salto di qualità che i gruppi neonazisti stanno facendo in Italia, coscienti che la pregiudiziale contro di loro è caduta e che a destra ormai il ritorno di slogan, sigle e simboli che credevamo sepolti dalla storia è considerata normale da molti italiani. Accade qualcosa di simile a ciò che avveniva negli anni Venti, quando ancora ripetevamo che non c’era alcun pericolo. Che tutto era normale. Che si trattava di gruppi isolati. Ecco, un gruppo “isolato” di Skinhead è partito dal Veneto per una trasferta “ideologica” nel comasco. Si tratta di uno dei gruppi neofascisti più antichi e forti della destra estrema italiana. Non hanno in mente di menare le mani, ma di spaventare le menti. Di interrompere la vita democratica del Paese comparendo dal nulla, di congelare per qualche minuto il diritto di discussione durante una riunione di “Como senza frontiere”, una rete che unisce decine di associazioni che si occupano di migrazioni. Siamo a Como al chiostrino di Santa Eufemia. Gli Skinhead venuti dal Veneto entrano in fila indiana, come una squadra militare. Sono tutti rasati, identici nell’espressione del volto, chiusi nel loro bomber nero, con lo sguardo vuoto. Il capo banda, o chi è stato delegato a parlare per tutti, si porta al centro della sala. Tiene in mano un foglio per leggere. L’effetto è quello di un vero e proprio proclama dai toni inquietanti. Il tono è pacato e scandito. Nella sua voce c’è qualcosa di freddo. La lettura è frastagliata, come se non comprendesse a pieno il senso delle parole scritte lì sopra, probabilmente scritte da qualcun altro. Non ci sono voci alzate, né urla. Non c’è la violenza fisica e nemmeno la minaccia. Non c’è il sangue di Ostia, il giornalista con il naso rotto dal rampollo Spada. C’è il gelo di chi vede accadere qualcosa che sembrava sepolto nella storia. E che invece riemerge dal buco nero del nazionalismo che l’Italia, come l’Europa, in questi decenni hanno tenuto sotto le braci ma non hanno mai spento davvero. Ciò che inquieta di queste immagini è proprio la normalità, il conformismo di quel gruppo di neonazisti che si sentono di nuovo in pieno diritto di agire alla luce del sole. È un gruppo conosciuto, sono partiti da Como due giorni fa per un tour neonazi. Qualcosa che somiglia all’annuncio di un ritorno nelle strade. Una specie di avvertimento, di rito iniziatico che annuncia la loro battaglia nel silenzio generale del Paese. E di fronte a uno Stato impotente, che non sa come classificare questo episodio. Non usano la parola fascismo, non inneggiano al Duce o al Führer, schivano le trappole dei divieti di stato. Parlano di migranti, di razza, di patria. Le parole d’ordine sono quelle della destra xenofoba, ma sono agganciate alla paura di futuro dell’Italia degli ultimi: lavoro, schiavismo, padroni, immigrazione, popoli sacrificati al capitalismo, propaganda, clericalismo. Le facce di chi ascolta sono basite, a metà fra gentilezza e paura. Lo skinhead con il foglio in mano finisce di leggere e si commiata “autorizzando” il gruppo a riprendere la discussione su “come rovinare la nostra patria”. È la minaccia più velata e più strisciante, quella del conformismo fascista che più di tutte ricorda gli anni Venti. La gentilezza di chi ti dice che puoi continuare a parlare, ora che ti è stato detto che ciò che dici sta tornando a essere pericoloso. Per te e per gli altri. Si sente una voce alzarsi dal gruppo e chiedere “rispetto” allo Skinhead. È lo stesso rispetto, dicono quelli di “Como senza frontiere”, che loro hanno tenuto nei confronti degli skinhead. I quali, ordinatamente, come militari, escono dalla stanza lasciando il proclama - in modo da poter essere studiato - uno identico all’altro. Per spostarsi chissà dove a ripetere quelle inquietanti e pacate minacce. Nell’Italia che, ormai settantadue anni fa, aveva bandito dalla Costituzione il fascismo. Europa e giovani migranti, il futuro va creato in Africa di Andrea Riccardi Corriere della Sera, 30 novembre 2017 La miopia politica della Ue è stata fermarsi a una visione emergenziale dell’emigrazione. Si può arrivare a una soluzione coinvolgendo i loro leader. Il vertice di Abidjan tra l’Unione europea e quella africana, apertosi ieri, non è rituale. Il grande centro congressi all’Hotel Ivoire sulla laguna accoglie un’ottantina di capi di Stato e di governo attorno a un tema decisivo: “Investire sui giovani per un avvenire duraturo”. L’Africa è il continente dei giovani, più della metà della sua popolazione. Questi giovani sono anche un problema per gli europei alle prese con sbarchi e immigrazione. Lo sono stato troppo poco per i governi africani, disattenti ai loro migranti, tanto da far sospettare che le partenze siano anche una valvola di sfogo. Non si sono mai visti capi di Stato africani venire a Lampedusa, inchinandosi di fronte all’immenso cimitero rappresentato dal Mediterraneo con i 33.305 morti dal 1997 (per alcuni 50.000), in buona parte africani. Ci si chiede peraltro se Paesi, come Costa d’Avorio, Ghana o Etiopia, con tassi di crescita oltre l’8% da anni, non possano frenare in parte l’esodo dei giovani, creando più posti di lavoro. Tuttavia qualcosa di nuovo sta avvenendo in Africa. Non solo i giovani sono all’ordine del giorno del summit di Abidjan, ma un movimento di consapevolezza comincia a scuotere l’opinione pubblica. Il terribile video della Cnn sui migranti all’asta in Libia ha scatenato reazioni appassionate dei giovani. Al palazzo dello sport di Abidjan, l’altro ieri, migliaia di giovani hanno esaltato il loro idolo, il calciatore Didier Drogba, che lanciava questo messaggio: “I giovani non debbono più partire, guardate che orrore, che vergogna in Libia, i migranti venduti come schiavi!”. I giovani erano presi dai messaggi dei cantanti: “Chi parte è “scemo”, non furbo, perché il futuro è in Africa”. È la verità sui viaggi nel deserto, mentre c’è stata per anni la falsa e seducente propaganda delle mafie dei trafficanti, fatta porta a porta. L’Europa è sul banco degli imputati nei messaggi dei giovani a causa dei respingimenti. Ma c’è da notare la responsabilità dei libici e dei racket africani dei clandestini. E brilla l’assenza dei governanti africani in questo campo. La miopia politica europea è stata fermarsi a una visione emergenziale dell’emigrazione sulle frontiere, senza ascoltare quanti indicavano come il problema fosse in Africa. Qui va invertito il fenomeno alle origini, anche se è complesso. Vanno aperte vie legali d’immigrazione e quote per necessità di lavoro europee, ma soprattutto va creato futuro per i giovani in Africa. Il vertice di Abidjan può essere una svolta. Del resto è il primo summit tra le due Unioni, nella prospettiva di Eurafrica, quella lanciata dal presidente-poeta senegalese Senghor dopo la seconda guerra mondiale: un destino comune tra i due continenti. Il summit non sarà semplice. L’Unione africana parla a fatica con voce unica. Soprattutto, è finanziata da donatori (in larga parte europei) e non dagli Stati membri, motivo di debolezza anche nei confronti di Bruxelles. Il prossimo arrivo del presidente ruandese, Paul Kagame, alla testa dell’Unione, avverrà però all’insegna della riforma e dell’autofinanziamento. Chi conosce Kagame sa che non gli mancherà l’energia per imporre il cambiamento e provare a fare dell’Unione un soggetto politico. Anche perché tanti Stati africani, con le loro fragilità, non ce la fanno a confrontarsi da soli con partner tanto più forti. Il vertice di Abidjan registra in questi giorni la presenza dei maggiori politici europei. Ieri hanno parlato Macron, Gentiloni, Merkel e Rajoy. Ci sono ben 14 leader europei (Belgio, Finlandia, Paesi Bassi, Portogallo, persino Polonia e via dicendo). L’Unione poi non si presenta a mani vuote o con una limitata offerta di aiuti: lancia un piano europeo d’investimenti che punta almeno a 44 miliardi di euro, anche se le rimesse degli emigrati restano sempre il grande motore dello sviluppo africano. La base è un vero partenariato tra africani e europei, che possono scoprire le opportunità che l’Africa offre alle loro economie. Il vertice registra una nuova coscienza europea, ben espressa da Federica Mogherini: “Come tra tutti i vicini, quello che avviene in casa dell’uno ha ripercussioni sull’altro”. L’emigrazione africana in Europa ha fatto maturare recentemente in molti governi europei la convinzione che bisogna agire in Africa e cooperare con essa, mentre non basta presidiare o chiudere le frontiere. Questa convinzione, con il coinvolgimento dei leader africani, può portare a creare opportunità di futuro per i giovani africani nel loro continente. Mogherini (Ue): “gli Stati africani facciano la loro parte con i rimpatri” di Carlo Lania Il Manifesto, 30 novembre 2017 Prima l’annuncio di un’operazione euro-africana per liberare i migranti tenuti prigionieri nei centri di detenzione in Libia. Poi la promessa di un cospicuo investimento per le piccole e medie imprese africane. L’impressione è che in questi giorni in Costa d’Avorio si stiano svolgendo due vertici paralleli. Quello annunciato tra Unione europea ed Unione africana e un altro, imprevisto, tra gli stessi leader africani ed Emmanuel Macron, deciso a giocare un ruolo da protagonista assoluto. Il presidente francese ieri ha fatto precedere il suo arrivo ad Abidjan, dove si svolge il summit, da un messaggio che deve essere stato particolarmente gradito ai leader africani come l’intenzione di creare un fondo da un miliardo di dollari a favore delle piccole e medie imprese del continente. Fondi messi a disposizione dalla Banca francese di investimenti e dall’Agenzia francese di cooperazione. “L’obiettivo - ha spiegato Macron prima di lasciare il Burkina Faso diretto in Costa d’Avorio - è moltiplicare questi fondi per dieci, facendo appello ai nostri alleati europei e ad altri finanziatori privati, europei e non”. Non è detto che il protagonismo dell’Eliseo sia visto con piacere dai leader europei. Anzi. Insieme ad agricoltura, sviluppo digitale, città sostenibili ed energia, le Pmi africane sono una delle cinque aree sulle quali l’Ue ha deciso di puntare offrendo sviluppo per le economie africane in cambio di sicurezza per gli europei. Dove per sicurezza si intende massima collaborazione nel blindare le frontiere interne, ma anche nel riprendersi quanti hanno attraversato il Mediterraneo riuscendo ad approdare in Europa. Disperati che nella dichiarazione finale del vertice sono indicati come protagonisti di una “irregular migration”. Gli annunci di Macron rischiano adesso di relegare in secondo piano il lavoro svolto nei mesi passati dalla Ue, accreditando il presidente francese come principale leader europeo in un momento di difficoltà per la cancelliera Merkel e con la Gran Bretagna sul binario di uscita dall’Unione. Un esempio è proprio la proposta di evacuare i migranti dalla Libia, un obiettivo al quale sta già lavorando l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, come ha confermato ieri al consiglio di sicurezza dell’Onu il direttore dell’Oim William Lacy Swing. Il piano prevede quattro voli a settimana per i rimpatri volontari di 20 mila migranti, un’operazione che richiederà diversi mesi di tempo senza però essere risolutiva. Come ammesso dallo stesso funzionario dell’Oim si procederà infatti all’evacuazione dei 30 centri governativi, senza toccare quelli - e sono la maggioranza - gestiti dalle milizie. Ai partner africani, ieri l’alto rappresentante della politica estera della Ue Federica Mogherini ha chiesto comunque di “fare la loro parte” nel riprendere indietro i propri cittadini. Ua prima risposta è arrivata dal presidente della Nigeria, Muhammadu Buhari, che ha annunciato il ritorno in patria e “la riabilitazione” di tutti i nigeriani bloccati in Libia e “in altre parti del mondo”. Buhari si è detto anche scioccato dalla immagini della Cnn con “alcuni nigeriani venduti all’asta come capre per pochi dollari in Libia”. Peccato che il rigore che l’Ue chiede agli Stati africani per quanto riguarda i rimpatri, non lo adotti anche verso gli Stati membri per garantire ingressi legali in Europa, l’unico modo per togliere davvero i migranti dalle mani dei trafficanti. “L’argomento non è popolare tra i partiti europei - ha ammesso la Mogherini -ma se domani mattina tutti i migranti dovessero sparire dall’Europa, interi settori della nostra economia collasserebbero da un giorno all’altro”. Droghe. L’abuso di marijuana o alcol da adolescenti riduce le probabilità di riuscire nella vita di Tina Simoniello La Repubblica, 30 novembre 2017 A sostenerlo una ricerca presentata al Meeting annuale dell’American Public Health Association ad Atlanta. Esagerare con alcol e marijuana da teenager riduce le probabilità di sposarsi, di ottenere un diploma universitario, un lavoro sicuro e una buona condizione economica da adulti. Non si tratta delle parole di minaccia di genitori esasperati da figli adolescenti sorpresi tra canne e bicchieri di super alcolici, ma dei risultati di uno studio presentato al Meeting annuale dell’American Public Health Association, ad Atlanta. Gli autori, ricercatori dell’UConn Health dell’Università del Connecticut, sono arrivati a queste conclusioni analizzando un campione molto alto di persone: circa 1200 giovani uomini e donne raccolti nello studio Coga, Collaborative Studies on Genetics of Alcoholism. Il Coga è un progetto del National Institute of Health statunitense, avviato nel 1989 e ancora in corso, che indaga il peso della genetica nello sviluppo delle dipendenze da alcol in particolare nelle famiglie in cui l’alcolismo è più presente.Lo studio della UConn ha riguardato per la precisione 1.165 maschi e femmine le cui abitudini ed esperienze di vita sono state valutate a partire dai 12 anni e a intervalli di due anni fino ai 34. Poco istruiti. I risultati sono chiari: coloro che durante gli anni dell’adolescenza abusavano di sostanze hanno raggiunto in media livelli più bassi di istruzione, hanno avuto meno accesso a impieghi a tempo pieno, si sono sposati e realizzati meno sul piano socio-economico di quanto mediamente abbiano fatto quelli che nel corso della loro adolescenza, e anche dopo, hanno seguito diciamo stili di vita diversi. “Questo studio - ha detto Elizabeth Harari, psichiatra alla UConn e autore dello studio - ha dimostrato che l’uso cronico della marijuana in età adolescenziale si associa negativamente al raggiungimento di traguardi importanti”. La consapevolezza di questi effetti potenzialmente dannosi andranno studiati meglio, ha continuato l’esperta, “data l’attuale tendenza negli Usa di legalizzare la sostanza sia per uso medicinale che eventualmente ricreativo”. Maschi più a rischio. L’uso cronico di marijuana ha ricadute diverse a seconda del genere: sarebbero i maschi a pagare prezzi più alti alle dipendenze precoci. In questo studio sono infatti i giovani uomini a fallire più spesso in tutti e quattro i “traguardi” (relazioni sentimentale stabili, educazione universitaria, lavoro a tempo pieno e potenziale socioeconomico) considerati. Le donne, anche se addicted, hanno sì meno probabilità di ottenere diplomi universitari e di accedere una buona condizione socio-economica, ma si sposano e lavorano a tempo pieno come le loro coetanee diciamo più virtuose. Lo studio è tuttora in corso. Il prossino passo di Harari e dei suoi colleghi sarà capire perché le dipendenze precoci provocano effetti diversi a seconda dei sessi, e definire eventuali differenze tra uso cronico di alcol o di marijuana nella capacità di influenzare il raggiungimento di obiettivi futuri. #Cyberesistance: in un video la legge contro i cyberbulli spiegata dagli youtuber di Lucia Tironi La Repubblica, 30 novembre 2017 Favij, LaSabri e decine di altri youtuber che macinano milioni di visualizzazioni con i loro video hanno deciso di impegnarsi ancora contro il cyberbullismo e l’odio in rete, consapevoli della grande influenza che hanno sulle masse di giovanissimi. È stata lanciata oggi, a Milano, da palazzo Lombardia (la Regione appoggia l’iniziativa) la nuova fase della campagna #Cyberesistance, lanciata lo scorso giugno in concomitanza con l’entrata in vigore della legge Ferrara 71/2017 che ha l’obiettivo di contrastare il fenomeno. L’idea brillante è nata dalla collaborazione di Web stars Channel, la prima Creator Media Company che gestisce 40 creator, ovvero coloro che producono contenuti sul web, la Casa Pediatrica dell’Ospedale Fatebenefratelli, diretta dal prof. Luca Bernardo, che è centro di riferimento nazionale contro il cyberbullismo e l’avvocata Marisa Marraffino, esperta di reati informatici. Un’unione che ha prodotto un video di quattro minuti e mezzo in cui attraverso un cartone animato, realizzato da Daniele De Luca, professore di lettere a Torino e youtuber, in arte Fandoniah, si spiegano i reati in cui si può incorrere in rete e le nuove possibilità offerte ai giovanissimi dalla legge Ferrara. Il video, messo in rete alle 14 di questo pomeriggio, verrà condiviso sui canali youtube delle star del web con l’intenzione di raggiungere una vastissima platea di ragazzi. “Ho aderito al lancio di questa campagna con grande entusiasmo. Fa parte di me dare ai fan con-tenuti educativi. Il Web per i giovanissimi è divertimento, intrattenimento ma non può esimersi dal trasmettere messaggi positivi. Noi, come Creators, abbiamo una grande responsabilità. En-triamo in contatto con chi ci segue e creiamo uno stretto rapporto di fiducia. Dobbiamo quindi, per quanto ci è possibile, guidarli verso una direzione giusta, lontana da percorsi pericolosi e ne-gativi” - ha raccontato LaSabri. Una campagna questa di #Cyberesistance che è una rivoluzione del linguaggio per arrivare all’obiettivo di informare i più giovani anche su contenuti ostici come può esserlo un provvedimento di legge. “È una sfida, non solo per i Creators, ma anche per gli avvocati, i magistrati, gli educatori in genere ai quali questo progetto vuole assegnare una missione: quella di abbattere le barriere e avvicinarsi davvero ai ragazzi, senza riserve e senza pregiudizi” ha sottolineato l’avvocata Marraffino. “Dal mese di giugno milioni di ragazzi sono entrati in contatto con questa Campagna e ora sanno che possono difendersi e parlare, senza paura e vergogna. Il web è un meraviglioso mondo ma occorre, a volte, attraversarlo con attenzione. Quello che abbiamo fatto è aver dato loro una rete di protezione e sicurezza. Abbiamo detto che siamo con loro, accanto a loro” ha detto Luca Casadei, Ceo di Web Stars Channel. Infine il dottore Luca Bernardo, da cui è partita tutta l’operazione dice: “Per una volta il mondo del web, attraverso le sue star, ci mette la faccia, sostenendo la nostra attività, mentre le multinazionali che operano nel settore guardano ai ragazzi come meri consumatori”. Afghanistan. Condanna a 24 anni per i killer di Maria Grazia Cutuli di Emanuele Giordana Il Manifesto, 30 novembre 2017 La cronista del quotidiano milanese fu uccisa il 19 novembre 2001 in Afghanistan assieme all’inviato di El Mundo Julio Fuentes e a due corrispondenti dell’agenzia Reuters, l’australiano Harry Burton e l’afghano Azizullah Haidar. Sono stati condannati a 24 anni di carcere Mamur e Zar Jan, i due afgani che la prima Corte d’Assise di Roma ha messo sotto accusa per l’omicidio della giornalista del Corriere della Sera Maria Grazia Cutuli. La cronista del quotidiano milanese fu uccisa il 19 novembre 2001 in Afghanistan assieme all’inviato di El Mundo Julio Fuentes e a due corrispondenti dell’agenzia Reuters, l’australiano Harry Burton e l’afghano Azizullah Haidari. I due imputati, in carcere nel loro Paese, erano già stati condannati in Afghanistan a 16 e 18 anni di carcere. Il pm Nadia Plastina aveva chiesto per gli imputati la pena di 30 anni di carcere. In Italia erano sotto processo sia per concorso in omicidio sia per concorso in rapina (per essersi impossessati, insieme con altri ancora non identificati, di una radio, un computer e una macchina fotografica appartenuti a Cutuli). I loro avvocati ricorreranno in appello. Se non si chiude il capitolo del dolore per la perdita di una giovane collega che il lavoro aveva spinto in prima linea (verso la Kabul da cui erano scappati i talebani), non si è purtroppo nemmeno chiuso il capitolo di una guerra iniziata proprio allora per “liberare” il Paese e che si protrae ormai da 16 anni. Una guerra infinita che sta vivendo una nuova escalation purtroppo solo sotto gli occhi degli afgani. È stato Trump a dare il via libera a quella che sembra ormai - oggi assai più di ieri - completo appannaggio di generali e 007. Trump ha dato ascolto alle sirene più guerrafondaie del Pentagono e autorizzato la Cia ad estendere le sue operazioni segrete lasciando del tutto in secondo piano il lavoro dei suoi diplomatici, il cui unico mantra attuale è accusare il Pakistan di essere uno dei maggiori responsabili della guerra, blandendo l’India, ritenuta un contraltare chiave per osteggiare le mire di Islamabad. L’effetto appare per ora solo quello di imbaldanzire Delhi e deprimere Islamabad, i due fratelli-coltelli cui servirebbe un mediatore forte e non certo un colosso che prende le parti di uno solo dei contendenti. Quanto alla guerra sul terreno, i dati parlano da soli: secondo fonti statunitensi citate dalla stampa afgana, al 31 ottobre di quest’anno l’aviazione americana avrebbe sganciato 3.554 bombe in Afghanistan contro le 1.337 dell’anno scorso e le “sole” 947 del 2015. L’Us Air Force ha dunque triplicato le operazioni dall’aria su obiettivi talebani o dello Stato islamico (compresa la madre di tutte le bombe, un ordigno da 11 tonnellate di esplosivo, sganciato l’aprile scorso). Al dato ufficiale va poi aggiunto il dato ufficioso: le operazioni coperte con droni dell’esercito e della Cia (che ora ha luce verde per bombardare anche in Afghanistan oltreché in Pakistan). L’effetto è per adesso quello di aver fatto salire almeno settimanalmente il numero delle vittime civili causate da bombardamenti chirurgici solo per definizione. L’ultimo (cinque morti tra cui tre bambini) è solo di qualche giorno fa. Ma c’è di più. Il generale John Nicholson, diventato il vero (e praticamente l’unico) portavoce della guerra, non perde occasione per spiegare la nuova strategia americana che normalmente dovrebbe essere resa nota dal presidente o dal suo segretario di Stato. Nicholson, cui si deve sia la scelta di aumentare le truppe sul terreno, sia la nuova escalation di bombardamenti, ha spiegato anche che adesso nel mirino ci sono i laboratori che raffinano oppio e lo trasformano in eroina. Poiché i dati dicono che la produzione aumenta, Nicholson sembra aver deciso in completa autonomia che bisogna smetterla con la diversificazione della produzione - offrendo ai contadini incentivi per terminare di coltivare il redditizio papavero - ma che conviene bombardare. Una strategia che già si è dimostrata fallimentare sia in Afghanistan sia altrove (Colombia). L’ingegnoso generale ha anche informato l’opinione pubblica che non si perderà più tempo a incendiare i campi coltivati a papavero ma che le bombe punteranno direttamente sui laboratori. Tribunale Internazionale dell’Aja: il generale Praljak, condannato, si uccide in diretta di Andrea Morigi Libero, 30 novembre 2017 Il croato Praljak beve veleno per protestare contro la sentenza dell’Aja a vent’anni di carcere per crimini di guerra. Invece della mitica capsula di cianuro, l’ex generale croato Slobodan Praljak si era procurato una boccetta di vetro marrone piena di veleno. Un metodo più prosaico di quello utilizzato dai gerarchi nazisti a Norimberga, ma altrettanto potente, per passare alla storia come una vittima della giustizia dei vincitori. Se l’è bevuto tutto d’un fiato, intorno alle 11.30 del mattino, alla salute del Tribunale penale internazionale per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia. Riunita per confermare una condanna del 2013 a vent’anni per la pulizia etnica a Mostar, la Corte dell’Aja si trova improvvisamente catapultata, da quel sorso finale, sul banco degli imputati. L’ultima parola, prima di stramazzare al suolo, l’ha urlata lui: “Non sono un criminale!”. La sentenza che, dopo undici anni di processo, doveva essere definitiva, ora è carta straccia. Ne aveva già scontati due terzi e avrebbe potuto essere liberato già da ieri. Ma in gioco non c’era mica la libertà. C’era l’onore. Per un militare sta sopra ogni altro valore. Anzi, è il valore guerriero per antonomasia. Lo fu per i samurai giapponesi che si immolavano con il rituale del seppuku. L’ultimo a inscenarlo fu lo scrittore Yukio Mishima, che il 25 novembre 1970 si squarciò il ventre per protestare contro l’umiliazione del Giappone, sconfitto nella Seconda Guerra Mondiale. Si può legittimamente dubitare che, suicidandosi, si riscatti il destino di una Patria. Il gesto di Praljak, deceduto nel primo pomeriggio in un ospedale dell’Aja, comunque, un effetto politico lo ha già ottenuto. Il parlamento di Zagabria ha interrotto una sessione e il presidente della Repubblica, Kolinda Grabar-Kitarovic, ha sospeso la visita in corso in Islanda per rientrare con urgenza. Parlando in conferenza stampa, il premier croato, Andrej Plenkovic, giudica l’esito tragico del processo come la dimostrazione della “profonda ingiustizia morale commessa” dal Tribunale penale internazionale dell’ex Jugoslavia “contro i sei croati di Bosnia e il popolo croato” e ha poi rivolto “le più sentite condoglianze alla famiglia del generale”. Per ottenere l’indipendenza, gli eredi degli ustascia hanno versato il sangue. Quel che non volevano perdere era la dignità. Nonostante che nel 2011 le assoluzioni di alcuni generali come Ante Gotovina avessero sollevato dalle responsabilità la Croazia, nel 2013 l’ex presidente Franjo Tudjman era stato giudicato politicamente colpevole e, con il verdetto di ieri, quel giudizio è stato confermato. Gli altri imputati, riconosciuti colpevoli di 22 capi di imputazione, sono l’ex leader dei croati di Bosnia Jadranko Prlic, ex presidente del Consiglio di difesa croato e successivamente a capo del governo dell’entità autoproclamata in Bosnia fra il 1992 e il 1994, l’Herzeg-Bosnia, condannato a 25 anni di detenzione. Bruno Stojic, Milivoj Petkovic, Valentin Coric e Berislav Pušic, invece, avevano ricevuto a pene comprese tra i 16 e i 20 anni di reclusione. Erano stati accusati di aver messo in atto un’operazione di pulizia etnica per espellere i non croati da alcune aree del territorio della repubblica di Bosnia Erzegovina, da annettere poi in una “grande Croazia”. Per farlo commisero crimini nei confronti dei musulmani e di altri non-croati che comprendevano omicidi, aggressioni sessuali e stupri, distruzione di proprietà, detenzione e deportazione, recitava l’atto di accusa del tribunale ad hoc dell’Onu che li aveva condannati in primo grado. Il Tribunale, nell’atto d’accusa, si concentrava sui crimini commessi in otto municipalità, tra cui Mostar, capitale bosniaca, dove “i crimini non vennero commessi da alcuni soldati indisciplinati, ma furono al contrario il risultato di un piano elaborato dagli accusati per allontanare la popolazione musulmana”. Fin qui la ricostruzione delle carte giudiziarie. La storia, invece, ricorda che i croati combattevano contro i veterani dell’Afghanistan che proprio in Bosnia Erzegovina avevano dato vita ad Al Qaeda. Fra loro, anche Ayman Al-Zawahiri, il luogotenente di Osama Bin Laden. Slobodan Praljak era un loro nemico. Siria. Le prigioni di Damasco, il racconto degli orrori di due giornalisti di Sara Strippoli La Repubblica, 30 novembre 2017 Shiyar e Raafat sono sopravvissuti ad anni di prigionia nelle carceri di Assad: “Due morti ogni giorno”. Ora vivono a Parigi, ma il loro incubo non è finito: “Il regime e gli islamisti cercano di accedere alle nostre informazioni”. Mentre in Siria restano 300 mila detenuti. Le prigioni di Damasco sono l’incubo che non se ne va. Shiyar Khaleal, 32 anni, giornalista, parla di un rito macabro. Due morti ogni giorno per i due anni di prigionia: “Centodieci persone in un spazio di due metri per due”. Raafat Alomar Alghanim, 33 anni, giornalista e cameraman, ricorda il colore del sangue, cita il rapporto di Amnesty International che parlava di “mattatoio umano”. “Era davvero un mattatoio, che altro? Sangue dappertutto. Le carceri in Siria sono un Olocausto”, s’infervora il giovane giornalista e cameraman nato ad Aleppo, che a Torino alza gli occhi verso il soffitto a cassettoni di Palazzo Ceriana, sede dell’Ordine dei giornalisti e li paragona a quelli della sua città mentre parla degli orrori delle carceri siriane: “Sono terribili, nulla a che vedere con quelle dell’Arabia Saudita”. Raafat è stato in queste e quelle, nel 2009 in Arabia Saudita, e nel 2011 e 2013 nelle carceri di Damasco. Scrive i nomi: Al Amn Al gaumi, Amn Al Dawlah, Al Amn Alsiasy, Al Amn Al Asskavi. Di fianco indica i giorni passati fra quelle mura: 14, 6, 4, 58. Shiyar Khaleal racconta il suo arresto nel 2013: “Ero a una manifestazione. Hanno preso me e una ragazza, una collega che era con me. Mi hanno minacciato. Mi hanno detto che avrebbero fatto del male a lei se non avessi detto pubblicamente che ero un terrorista. Ho dovuto farlo. Non avevo scelta”. Nonostante il tribunale antiterrorismo avesse ordinato la sua liberazione dopo pochi mesi, in carcere ci è rimasto sino al 2015. Raafat e Shiyar vivono a Parigi, ospiti della Maison des journalistes dove i reporter siriani sono adesso circa venti: “Restiamo sei, sette mesi. Poi di solito si va via per lasciare posto ad altri”. Sono In Italia per la prima volta, a Torino per il convegno “Quante guerre si combattono in Siria? Il racconto giornalistico fra censura e fonti di guerra” organizzato dal Caffè dei giornalisti per il ciclo “Voci scomode. Storie di chi sfida il potere”. Con loro ci sono la direttrice de la Maison des journalistes Darline Cothière e Mazen Darwish, giornalista e avvocato siriano, fondatore del Centro siriano per l’informazione e la libertà di espressione, autore di una reportage su Adra e considerato ufficialmente nemico del regime. Shiyar è cofondatore dei giornalisti curdi siriani, e più di recente, del gruppo di lavoro per i detenuti siriani. È stato corrispondente per Sky News Arabia. Raafat racconta di essere entrato nel mirino dei controlli come blogger: “Ci sono 14 apparati di sicurezza. Appena esci dal carcere entri subito nel prossimo radar”. Entrambi scrivono per il sito web della Maison des journalistes, Shiyar collabora con MediaPart. “I contatti con la Siria sono costanti. Sappiamo tutto quello che succede. Il canale sono i social” raccontano. Sempre più controllati. “Inizialmente era solo il regime che cercava di avere accesso alle nostre informazioni. Ora lo fanno anche gli islamisti”. Raccontare all’Occidente cosa sta succedendo nel loro Paese è il modo migliore per fare arrivare la verità, dicono: “In Siria non aveva più molto senso. Ci sono 300 mila detenuti nelle carceri. Qui in Europa si riesce ad avere contatti con le istituzioni, ci sono reti e possono nascere gruppi di lavoro”. Shiyar dice che la Siria non ha futuro se ci sarà ancora Bashar al Assad: “Deve andare via, ma serve la liberazione dei detenuti e serve un governo transitorio. Solo così è possibile avere un margine di successo”. Argentina. 48 condanne al maxi processo per i crimini durante la dittatura La Stampa, 30 novembre 2017 Su 54 imputati, 29 sono stati condannati all’ergastolo e 19 hanno ricevuto pene di minore durata. Si è chiuso dopo 5 anni con 48 condanne il maxi processo per i crimini commessi durante la dittatura militare che insanguinò l’Argentina tra il 1976 e il 1983 e per i voli della morte. Su 54 imputati, 29 sono stati condannati all’ergastolo e 19 hanno ricevuto pene di minore durata. Tra i dissidenti politici gettati vivi in mare dagli aerei durante i cosiddetti voli della morte, anche una cara amica di Papa Francesco, la dottoressa Esther Carega, nota attivista popolare socialista e marxista. Venne uccisa insieme ad altre 11 persone nella notte del 14 dicembre del 1977. I due piloti del volo della morte della Carega, Mario Daniel Arrù e Alejandro Domingo D’Agostino, figurano tra i condannati all’ergastolo al processo che riguarda 789 vittime ed è il terzo più grande mai tenuto per i casi di rapimenti, torture e omicidi che si sono consumati all’interno dell’Esma (Escuela de Mecanica de la Armada), la scuola tecnica della marina a Buenos Aires negli anni del regime, dove passarono oltre 5.000 prigionieri politici e la maggior parte di loro morì o scomparve. Tra i condannati all’ergastolo anche Alfredo Astiz, oggi 67enne, noto come l’angelo della morte. Era un agente sotto copertura del regime che in quegli anni si infiltrò in gruppi di attivisti, compresa l’associazione delle Madri di Plaza de Mayo, le madri dei desaparecidos. La Careda è stata arrestata dei militari dopo aver denunciato la scomparsa di sua figlia, Ana Maria, allora sedicenne e incinta. Stati Uniti. In carcere da innocente per quasi 40 anni viene liberato grazie a un detective di Giacomo Perra Il Messaggero, 30 novembre 2017 Ha trascorso quasi quarant’anni in carcere da innocente con un’accusa infamante: quella di aver ucciso la compagna e il figlio. Adesso, però, Craig Coley può (finalmente) sorridere: da qualche giorno, infatti, questo settantenne di Los Angeles, che ha passato dietro le sbarre più della metà della sua vita, è un uomo libero. A salvarlo, tirandolo praticamente fuori di prigione, è stato Mike Bender, un detective molto ostinato e coraggioso che ha sempre creduto nella sua non colpevolezza. La triste odissea di Coley ha inizio nel 1978, quando viene accusato degli omicidi della fidanzata Rhonda Wicht e del loro unico bimbo Donald, morti in una casa di Simi Valley, rispettivamente, per strangolamento, seguito a un pestaggio e a uno stupro, e soffocamento. Dopo il primo processo conclusosi senza verdetto, in appello Craig, che non ha mai smesso di dichiararsi estraneo ai fatti contestatigli, viene condannato all’ergastolo. Caso chiuso? Neanche per sogno. Nel 1989, infatti, succede qualcosa di importante: mentre Coley dal carcere continua a proclamarsi innocente, Mike Bender, determinato e valido detective del dipartimento di polizia di Simi Valley, inizia ad appassionarsi alla sua vicenda. L’investigatore apre fortuitamente il fascicolo riguardante il duplice delitto ascritto a Craig e, visionando l’incartamento, capisce che qualcosa non torna. “Appena ho cominciato a leggere, ho compreso che la sua era una brutta faccenda”, ha ricordato il detective al Los Angeles Times. Sempre più convinto di trovarsi di fronte a un caso di malagiustizia, Bender parla di Coley con i colleghi, uno dei quali gli rivela che nello stesso dipartimento di Simi Valley molti ritenevano la condanna di Craig un tragico errore, con i procuratori, con alcuni membri del Congresso, con l’associazione no profit Progetto Innocenza e nel 2015, infine, organizza una petizione per chiedere la sua liberazione. Dopo tanto clamore, finalmente la Polizia riapre il caso e, constatata l’assoluta mancanza di prove a suo carico - nei cadaveri della compagna e del figlio non è stato trovato il suo Dna, giovedì scorso, nel giorno del Ringraziamento, un giudice di Los Angeles decreta l’immediata scarcerazione di Coley in quanto innocente. “Da quando mi hanno arrestato - ha dichiarato l’uomo a CBS Los Angeles - io ho detto alla Polizia: “Fatemi quello che volete, ma continuate a cercare l’assassino. Non fermatevi, avete qui l’uomo sbagliato”. Assolto e finalmente libero, Craig ha festeggiato l’uscita dal carcere con il suo angelo custode e amico Mike Bender, che, giusto per non smentire la sua fama di salvatore, ha deciso di fargli un altro favore: su gofoundme.com, piattaforma di crowfounding, il detective ha infatti lanciato una raccolta fondi in suo sostegno; i soldi racimolati serviranno a Coley per affrontare la sua nuova vita con più tranquillità.