Riforma intercettazioni: archivio segreto e via quelle inutilizzabili di Marco Galluzzo Corriere della Sera, 2 novembre 2017 La stretta in un provvedimento: nei verbali i nastri necessari all’inchiesta. Nove articoli in tutto e in pratica una sorta di rivoluzione, almeno per il modo in cui si è proceduto sinora. C’era anche un tempo, durato alcuni decenni e una sequela infinita di polemiche politiche, in cui tutto quello gli inquirenti intercettavano veniva trascritto in brogliacci o in documenti processuali. Oggi il governo cambia pagina. Con un decreto legislativo introduce una nuova normativa. Il Consiglio dei ministri eserciterà una delega che ha come obiettivo quello di realizzare “un giusto equilibrio fra interessi parimenti meritevoli di tutela a livello costituzionale, sia la libertà e segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione che il diritto all’informazione”, si legge nella nota che accompagnerà il provvedimento. Via dai brogliacci d’ascolto - Nove articoli in tutto e in pratica una sorta di rivoluzione, almeno per il modo in cui si è proceduto sino ad oggi. Il procuratore generale sarà responsabile della segretezza di un archivio riservato delle intercettazioni, che verrà appositamente istituito e protetto. Gli ufficiali di polizia giudiziaria, su mandato del pubblico ministero, potranno intercettare come prima, o quasi, ma a differenza di prima non potranno trascrivere, neppure in modo sommario, se non le notizie utili ai fini dell’inchiesta, materiale probatorio su cui si esprimeranno subito sia il pm che i difensori e il gip. E dunque tutte le intercettazioni inutilizzabili - ovvero quelle contenenti dati privati, sensibili o comunque irrilevanti - non troveranno ingresso nei brogliacci d’ascolto, cioè nei verbali delle operazioni: saranno piuttosto indicate solo la data, l’ora e il dispositivo su cui la registrazione risulta essere avvenuta. Pm a garanzia della riservatezza - La delega che oggi approva il governo, dopo che il ministro della Giustizia ha avuto confronti con avvocati, magistrati, Garante della privacy e giornalisti, precisa che il pm è preposto a garantire la riservatezza della documentazione. Al suo ufficio spetta la custodia, in apposito archivio riservato, del materiale irrilevante e inutilizzabile, con facoltà di ascolto e esame, ma non di copia, da parte dei difensori e del giudice. Contestualmente il pm è tenuto a elencare le comunicazioni e conversazioni ritenute utili nella prospettiva dell’accusa, selezionando cioè fin da subito il materiale ritenuto utile a fini di prova, e dando immediato avviso ai difensori delle parti delle facoltà di esaminare gli atti. Il decreto modifica il Codice penale e quello di Procedura. Dopo il varo in Cdm, ci sarà un ulteriore passaggio alle Camere per un parere consultivo. Si prevedono anche regole più stringenti per l’uso dei virus-spia come il Trojan, utilizzati dagli inquirenti. E anche un nuovo reato: la “diffusione di riprese e registrazioni di comunicazioni fraudolente”, punito con la reclusione fino a 4 anni, per “chiunque, al fine di recare danno all’altrui reputazione o immagine, diffonde con qualsiasi mezzo riprese audio o video, compiute fraudolentemente, di incontri privati”. È in qualche modo la rivincita della privacy sull’uso indebito, e illegale, di smart-phone e social network. Non c’è punibilità se la diffusione è diritto di cronaca. Infine: per tutelare la riservatezza, pm e giudici, nelle richieste e nelle ordinanze di misure cautelari, riporteranno “ove necessario” solo “brani essenziali” delle intercettazioni. Intercettazioni nel mirino. Arriva la nuova legge che limita la pubblicazione di Grazia Longo La Stampa, 2 novembre 2017 Non finiranno negli atti quelle non attinenti all’indagine. Se la riforma voluta dal ministro Orlando sarà approvata, si eviterà che conversazioni non rilevanti ai fini delle indagini e attinenti la vita privata, possano finire negli atti processuali e da qui sui giornali. Sì alla pubblicazione di intercettazioni strettamente relative alle indagini. No a quelle che non attengono alla vicenda giudiziaria o che coinvolgono persone estranee all’inchiesta. Con la discussione, oggi al Consiglio dei ministri, del decreto legislativo (nove articoli) sulle nuove regole sulle intercettazioni si pongono dei paletti, dei limiti, alla divulgazione di notizie che finora hanno inondato i mass media. Tanto per capirci, lo sfogo “mi tratti come una sguattera del Guatemala” che l’ex ministra Federica Guidi rivolgeva al compagno Gianluca Gemelli indagato per “traffico di influenze” nell’inchiesta Tempa rossa di Potenza, non avrebbe mai avuto il via libera alla pubblicazione. Per il semplice motivo che non sarebbe stata riportata sull’ordinanza. Lo stesso vale per il colloquio privato in cui l’ex premier Matteo Renzi invitava il padre Tiziano a “non dire bugie, racconta tutta la verità su Romeo” a proposito del caso Consip. E neppure avremmo assistito alle tensioni contro l’ex consigliere giuridico dell’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, Loris D’Ambrosio, morto d’infarto poco tempo dopo che era stata diffusa la telefonata dell’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino che lamentava l’accanimento nei suoi confronti dei magistrati di Palermo che indagano sulla Trattativa Stato-Mafia. D’ora in poi, se la riforma proposta dal ministro della Giustizia Andrea Orlando verrà approvata, si eviterà che conversazioni non rilevanti ai fini delle indagini e attinenti la vita privata, possano finire negli atti processuali e da qui sui giornali. È stata però superata l’empasse di una prima bozza del decreto che preveda non i virgolettati delle intercettazioni ma solo un riassunto. “Quando è necessario, sono riprodotti soltanto i brani essenziali”, dispone ora il provvedimento. Se varato dal Cdm, ci sarà un ulteriore passaggio alle Camere per il parere delle Commissioni competenti prima dell’avallo definitivo. Limiti previsti anche per gli avvocati. “Il difensore ha diritto d’esame e non di copia dei verbali e conversazioni intercettate. Ha in ogni caso diritto alla trasposizione, su supporto idoeneo, delle relative registrazioni”. In altri termini, mentre attualmente gli avvocati che assistono possono accedere all’intero brogliaccio delle intercettazioni, con le nuove norme potranno avere solo un cd con dati esclusivamente riferiti al proprio assistito. Potranno però consultare gli atti, sotto sorveglianza dell’ufficio del pm. Qui ci sarà un archivio riservato delle intercettazioni la cui “direzione” e “sorveglianza” sono affidate al procuratore della Repubblica e il cui accesso - registrato con data e ora - sarà consentito solo a giudici, difensori e ausiliari autorizzati dal pm. Quanto ai mezzi per intercettare, si delimita l’uso dei “trojan”, che sono i captatori informatici, in pc o smartphone. Verranno usati senza particolari vincoli per i reati più gravi, come terrorismo e mafia, mentre per gli altri occorrono motivazioni esplicite. Novità anche per reati più gravi contro la pubblica amministrazione commessi da pubblici ufficiali, uno strumento per rendere più efficace il contrasto alla corruzione. E ancora: a parte il diritto di cronaca, è previsto il carcere fino a 4 anni per chi diffonde riprese audiovisive e registrazioni di comunicazioni effettuate in maniera fraudolenta per danneggiare “la reputazione o l’immagine altrui”. La discussione si annuncia animata. Ma molti correttivi sono già stati apportati dal ministro Orlando, dopo un confronto con Anm, penalisti, Garante della privacy e, prima ancora, con il Csm. Tra i ritocchi c’è un maggiore controllo sulla polizia giudiziaria da parte dei pm. È probabile che abbia pesato lo scontro tra il pm di Napoli Woodcock e il maggiore dei carabinieri del Noe Scafarto in merito ad alcune trascrizioni “taroccate” del caso Consip. D’ora in poi la polizia giudiziaria procederà ancora alla sbobinatura delle intercettazioni ma “oltre a data, ora e dispositivo intercettato, dovrà indicare anche l’oggetto dei colloqui”. Riforma delle intercettazioni. Avvocati e magistrati divisi nei primi giudizi di Gigi Di Fiore Il Mattino, 2 novembre 2017 Indiscrezioni sul decreto legislativo del ministro Andrea Orlando, che il governo discuterà oggi, di riforma sulle intercettazioni nelle indagini penali. Sulle indiscrezioni, prime valutazioni del presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Eugenio Albamonte, e del presidente delle Camere penali, Beniamino Migliucci. Entrambi precisano di “non aver letto il testo definitivo del decreto, pur avendone ricevuto anticipazioni a voce nel corso di audizioni”. E, naturalmente, danno valutazioni diverse. Sulla piena legittimazione all’uso dei famosi “captatori informatici”, ad esempio. I virus spia trojan che possono essere introdotti nei telefonini o nei pc. Il decreto limiterebbe l’utilizzo ai soli reati di mafia e terrorismo, con una deroga per eventuali reati su cui sarebbe obbligatorio l’arresto in flagranza di reato. Dice il presidente dell’Anni, Albamonte: “Mi sembra, se sarà questo il testo definitivo, che sia la parte più debole della riforma. Un passo indietro rispetto alla sentenza a sezioni unite della Cassazione, che ampliava le possibilità di utilizzare i captatori informatici. Un arretramento. Non si comprende che questo strumento tecnico serve a mettere al passo con i tempi la capacità investigativa”. E ancora: “Oggi chiunque può acquistare su Internet dei rilevatori di microspie. Dare ai pm più strumenti per intercettare serve a rendere effettiva l’efficacia investigativa”. Naturalmente, l’avvocato Migliucci la pensa in maniera diversa. E dice: “Quella deroga sui reati per cui è possibile l’arresto in flagranza di reato rende vana la limitazione generale. I captatori infornatici, in questo modo, su valutazioni affidate al pm, possono venire utilizzati in maniera ampia”. Anche il tema del divieto di trascrizione delle intercettazioni tra difensore e assistito, che farebbe parte del decreto, divide avvocati e magistrati. Dice il presidente Albamonte: “Non mi sembra che si sia abusato o sfruttato casuali intercettazioni tra difensore e indagato. Bene che sia evidenziato il divieto di trascrizione, ma si sono utilizzate questo tipo di conversazioni solo quando si è scoperta la complicità di un difensore in un reato”. Il presidente Migliucci sottolinea come, invece, un’intercettazione tra avvocato e suo assistito possa far acquisire al pm informazioni sulle strategie difensive. E aggiunge: “Non vedo come sia possibile introdurre un divieto, come quello delle trascrizioni, senza prevedere una sanzione che lo renda effettivo. Parlo anche di sanzioni procedurali”. Un’osservazione che il presidente dell’unione Camere penali estende al divieto di trascrivere intercettazioni che coinvolgano terzi non coinvolti nelle indagini, o che siano irrilevanti per le inchieste. Aggiunge, infatti: “Anche qui non c’è alcuna sanzione ed è il pm che decide la rilevanza o meno delle intercettazioni. I difensori possono intervenire, chiedendo di utilizzare qualche intercettazione dopo averle ascoltate. Non ci sarebbe, a quanto si sa, alcun contraddittorio in questa fase. In maniera frettolosa, dopo ore di ascolto, senza poter chiedere copie di trascrizioni, si può fare istanza al giudice di utilizzare parti di intercettazioni che la difesa ritiene utili”. Il presidente Migliucci parla di “diffidenza verso i difensori e assenza di effettivo contraddittorio”. Il presidente Albamonte, invece, osserva: “L’obiettivo, che noi condividiamo, era la piena tutela della privacy e della riservatezza di chi con le indagini non c’entra. Per fare un esempio, posso utilizzare una conversazione tra marito e moglie solo se sono entrambi complici di un reato. Ma certamente il loro privato non può essere rilevante. Giusto che, in questa prima fase, sia il pm in grado di stabilire la rilevanza o meno delle intercettazioni per le indagini”. E poi, sul contraddittorio tra accusa e difesa, aggiunge: “Si spera che si dia la possibilità ai difensori di interloquire sull’utilizzo di queste intercettazioni, senza rallentare le indagini. Abbiamo chiesto che i tempi siano rapidi, anche perché sulle indagini incombe la possibilità dell’avocazione nei casi di slittamento dei tempi. Bene, quindi, che ci sia un intervento di controllo dei difensori, ma nella speranza che il meccanismo procedurale non sia tale da rallentare le indagini”. Dalle prime indiscrezioni, il presidente Migliucci si sente di dare una “bocciatura con riserva” alla mini-riforma sulle intercettazioni. Parla di “pannicelli caldi, che non garantiscono in pieno l’intervento difensivo” su cui avverte “una certa diffidenza”. Il presidente Albamonte, invece, considera “apprezzabile lo sforzo della riforma”, con un solo limite: la parte che introduce l’utilizzo dei captatori informatici. La considera “limitativa e non rispondente allo spirito della giurisprudenza”. Sono solo le prime reazioni della vigilia. Si vedrà cosa accadrà a testo definitivo approvato. Femminicidio, agli orfani 8.200 euro. Le proteste: “Risarcimenti irrisori” di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 2 novembre 2017 4.800 per le vittime di stupro. Il caso dei mini indennizzi di Stato e il problema dei criteri complicatissimi per poterli ottenere: “Un’offesa”. Il governo si è impegnato, nella legge di stabilità, a “quadruplicare” i risarcimenti previsti per le vittime. Ma anche se così fosse rimarrebbero una beffa. Di fronte alle proteste delle associazioni che assistono le donne e dei responsabili dei centri antiviolenza il governo si è impegnato a “quadruplicare gli indennizzi con un provvedimento da inserire nella legge di stabilità”. Ma se anche così fosse, i risarcimenti previsti per le vittime di femminicidi e aggressioni sessuali rimarrebbero comunque una beffa. Perché la legge resa esecutiva il 10 ottobre scorso con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale prevede di elargire 8.200 ai figli di chi è stato ucciso dal coniuge e 4.800 euro a chi ha subito uno stupro. Dunque anche l’aumento ipotizzato rappresenterebbe un’inezia rispetto al danno subito. Non a caso si è già scatenata la polemica politica con il Movimento 5 Stelle all’attacco del Pd. Femminicidi e stupri - La necessità di prevedere un risarcimento da parte dello Stato per chi subisce reati violenti è resa obbligatoria “dall’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Ue”. Anche tenendo conto che più volte il nostro Paese ha subito condanne in sede europea proprio per non essersi messo in regola. Oltre un anno fa viene così varata la legge che “assicura un maggior ristoro alle vittime dei reati di violenza sessuale e di omicidio e in particolare ai figli della vittima in caso di omicidio commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa”. Per ottenere il risarcimento ci sono precisi criteri da rispettare. Oltre al reddito annuo che “non deve essere superiore a quello previsto per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato”, la vittima deve dimostrare, tra l’altro, di aver “esperito infruttuosamente l’azione esecutiva nei confronti dell’autore del reato per ottenere il risarcimento del danno dal soggetto obbligato da sentenza di condanna irrevocabile o di una condanna a titolo di provvisionale, salvo che l’autore del reato sia ignoto”. Le vittime e il “ristoro” - Due settimane fa viene pubblicato in Gazzetta Ufficiale il testo del decreto attuativo. Nel provvedimento viene specificato che i soldi necessari agli indennizzi saranno prelevati dal “Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso, delle richieste estorsive, dell’usura”. L’entità del “ristoro” appare subito inadeguata. Oltre agli 8.200 euro per gli orfani dei femminicidi e ai 4.800 euro per le violenze, si stabilisce infatti “per il reato di omicidio un importo fisso a titolo di indennizzo pari a 7.200 euro”. Per gli altri reati “di tipo violento” viene invece prevista un’elargizione “fino a un massimo di 3.000 euro a titolo di rifusione delle spese mediche e assistenziali”. Sono cifre molto lontane da quelle previste per le vittime di reati legati al terrorismo, alla criminalità organizzata, ma anche per chi ha subito i danni di un incidente stradale quando il veicolo non è coperto da assicurazione. E così insorgono le associazioni che tutelano le donne in difficoltà e i loro figli, soprattutto minorenni. Il governo cerca di correre ai ripari promettendo un aumento degli indennizzi già nella legge di stabilità che dovrà essere approvata nelle prossime settimane, mentre il ministero dell’Interno stanzia 5 milioni di euro da destinare ai centri antiviolenza. L’attacco dei M5S - Si tratta comunque di una goccia nel mare visto che numerosi centri - fondamentali per assistere e proteggere chi fugge da partner aggressivi e responsabili di atti persecutori - sono costretti a chiudere proprio perché non hanno mai ricevuto i fondi promessi dal Dipartimento delle Pari Opportunità. E adesso assistono a questo nuovo affronto nei confronti delle donne e dei loro familiari. Una situazione che scatena i deputati M5S in commissione Giustizia. La nota diffusa ieri da Vittorio Ferraresi è fin troppo esplicita: “Tragedie e crimini così odiosi non si ripagano con nulla, è vero, ma il governo ha offeso un’altra volta le vittime di reati intenzionali violenti che aspettano da troppo tempo un Fondo ad hoc per una tutela indennitaria degna di un Paese civile. È un altro schiaffo a cittadini. Come spesso accade con i provvedimenti targati Pd, la legge è nient’altro che uno spot. La presa in giro per queste vittime grida vendetta. L’Italia continua a essere inadempiente e questo vulnus accresce la sfiducia nella giustizia da parte di cittadini che soffrono già per la mancanza di certezza della pena a causa di tribunali intasati, di forze dell’ordine senza mezzi e di una prescrizione che falcidia ogni anno oltre 130 mila procedimenti penali”. Se Cosa Nostra non interessa più a nessuno di Francesco La Licata La Stampa, 2 novembre 2017 Neppure la riesumazione dell’inchiesta sulle stragi del 1992 e del 1993 e la conseguente iscrizione sul registro degli indagati di Berlusconi e Dell’Utri hanno saputo riportare in primo piano, nel dibattito preelettorale siciliano, il tema della mafia e dell’antimafia, che nelle precedenti tornate aveva sempre tenuto banco. Pochi e senza verve i commenti a difesa dei due indagati eccellenti, ancora più pallidi gli attacchi, ormai considerati troppo usurati dal tempo. Forse la politica ha scelto di seguire il vecchio detto popolare che predilige il silenzio e la prudenza: “La meglio parola è quella che non si dice”. E così la dialettica che ha caratterizzato, in passato, intere campagne elettorali basate sul tema della lotta alla mafia, sembra dissolta a favore della battaglia contro i privilegi, contro i vitalizi, tutti temi privilegiati dai “social”. Quasi sempre pochi programmi. Questo fenomeno riguarda quasi tutti i candidati, tranne Claudio Fava, che il marchio dell’antimafia lo porta sulla pelle e nel nome. L’unico scontro vero, infatti, si è registrato a Catania (città d’origine di Fava) dove ha sede il quartier generale di Nello Musumeci, leader del centrodestra. Fava è andato nel quartiere di San Cristoforo, cuore della mafia etnea, a sfidare i boss e a denunciare la presenza di candidati impresentabili nella lista di Musumeci che, a sua volta, ha minimizzato dicendo di aver appreso dai giornali dell’esistenza di quei nomi e invitando i cittadini e non votarli. Fatta eccezione per questo “duello”, il tema della mafia è rimasto al di fuori dell’agone elettorale. Neppure Gianfranco Cancelleri, candidato grillino e accreditato come possibile vincitore, ha messo le mani e la faccia nello spinoso dibattito, ma tutto è sempre “colpa dei media”. Eppure il suo movimento ha sempre cavalcato la battaglia contro gli “impresentabili”: questa volta la battaglia è stata tenuta a temperatura bassa. Poco aggressiva e “gentile” come quella di Fabrizio Micari, rettore dell’Università di Palermo catapultato, forse con grave ritardo, in una competizione elettorale difficile che pochi avrebbero deciso di affrontare “allegramente”, in rappresentanza di un partito, il Pd, in netta caduta. Tutto ciò potrebbe anticipare un cambiamento? Potrebbe significare la fine di un “sistema”, di un gruppo di potere che per anni ha fatto il bello e il cattivo tempo? Le rivoluzioni non sono fenomeni adatti alla latitudine siciliana. È vero che la mafia è in crisi e non esercita più quel controllo capillare di una volta. Ma non sono i boss di quartiere a fare la politica e a dettare le agende. Il gruppo di potere preesistente (non si parla di mafia militare ma di potere politico ed economico) non si dissolve dall’oggi al domani. I big di prima, i Lombardo, i Cuffaro, i Micciché ed altri stanno sempre lì. Un po’ dietro le quinte, come si conviene ai pupari di sempre, a fare e disfare alleanze, a promettere affari in cambio di appoggi elettorali. Certo, ci sono anche facce nuove, ma bisognerà aspettare qualche tempo prima di poter escludere che anche questi non abbiano alle spalle i loro pupari. Forse meno “conosciuti” dei Cuffaro o dei Micciché, ma pur sempre pupari. Codice antimafia alla Consulta di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 2 novembre 2017 Corte di cassazione - Sentenza 49194/2017. Sarà la Corte costituzionale a stabilire se la norma del Codice antimafia che impone l’obbligo di “vivere onestamente e rispettare le leggi” deve considerarsi abolita per effetto della “sentenza De Tommaso” della Corte europea per i diritti dell’uomo. La Cassazione (ordinanza 49194) ha sollevato d’ufficio la questione di costituzionalità dell’articolo 75, comma 2 del Dlgs 152/2011 che impone le due prescrizioni, considerate dalla Cedu generiche e indeterminate, ai soggetti sottoposti alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale. Sull’onda della sentenza De Tommaso, adottata dalla Grande Camera, si erano espresse le Sezioni unite della Cassazione (sentenza 40076) che, adeguandosi alla Cedu, avevano di fatto messo in atto un’abrogazione giurisprudenziale del reato. Per i giudici della sezione remittente però quel verdetto non basta, anche perché emesso nell’ambito di un ricorso considerato ammissibile e dunque non destinato a incidere sul giudicato. Secondo la Suprema corte, la Consulta è l’unico organo che ha la capacità di incidere sulla legge con efficacia retroattiva “e che può assegnare alla condotta prevista dall’articolo 75, comma 2, del Dlgs 159/2011, la connotazione “stabile” necessaria per garantire la prevedibilità della sanzione e il sostanziale rispetto del principio di legalità”. Per la Cassazione, la valutazione del giudice delle leggi non è evitabile. Il ricorso all’interpretazione adeguatrice della giurisprudenza di legittimità è, infatti, uno strumento “dedicato” al caso concreto, e per questo inadeguato a dare certezza quando sono in gioco condotte penalmente rilevanti o un’interpretazione abolitiva a “vocazione generale” che, in caso di un procedimento inammissibile é destinata a travolgere il giudicato. I giudici, appurata dunque l’impossibilità di comporre il contrasto per via interpretativa e attraverso l’interpretazione adeguatrice, verificano l’esistenza di un ulteriore requisito per “rivolgersi” alla Consulta: la necessità di riconoscere alla sentenza De Tommaso la natura di diritto consolidato. Una qualità - in virtù della quale scatta l’onere conformativo da parte del giudice ordinario - che il verdetto di Strasburgo possiede. Per la Cassazione, la sentenza è stata emessa dalla Grande Camera dopo attenta valutazione del diritto interno. E il principio affermato, malgrado autorevoli opinioni dissenzienti, non può essere considerato “creativo”. In Africa rischia la pena di morte: il pusher non può essere espulso di Andrea Priante Corriere del Veneto, 2 novembre 2017 La Cassazione: espulsione inapplicabile se nel paese d’origine il soggetto rischia trattamenti degradanti. La legge che consente l’espulsione dal territorio nazionale “per motivi di ordine e sicurezza interna non è applicabile alle ipotesi in cui il soggetto, se ricondotto nel paese di origine, corra serio rischio di essere sottoposto alla pena di morte (...) o a trattamenti inumani o degradanti”. Per questo motivo la Cassazione ha accolto il ricorso di uno spacciatore nigeriano che, una volta espiata la condanna a 6 anni, avrebbe dovuto essere espulso. L’uomo sostiene che, se tornasse in Nigeria, rischierebbe la pena di morte. Per almeno due anni aveva venduto cocaina ai tossicodipendenti della zona tra Canizzano e il Terraglio. Una rete di clienti trevigiani tra i 25 e 40 anni che lo spacciatore riforniva senza neppure scendere dall’auto. L’avevano soprannominato il “pusher-pendolare” perché, una volta contattato, raggiungeva il luogo dello scambio alternandosi alla guida di due vetture, tenendo in bocca la dose. Il tempo di accostare, consegnare la cocaina e incassare il denaro. Poi spariva. La vicenda risale al 2012 e alla squadra mobile di Treviso erano serviti tre mesi di appostamenti per riuscire a individuare Lucky Haruna, nigeriano di 35 anni. Era già la seconda volta che finiva nei guai: nel 2010 era stato fermato per lo stesso reato. Ma uscito dal carcere, irregolare sul territorio italiano, era tornato a spacciare diventando uno dei punti di riferimento per i consumatori di cocaina della Marca. Fino al nuovo arresto. Da allora, lo straniero sta espiando la sua pena: sei anni e otto mesi di reclusione, con termine previsto il 21 gennaio 2018. Fin qui, tutto normale. Come il fatto che, nella sentenza, il giudice avesse disposto che, una volta libero, Haruna dovesse essere accompagnato in un Cie e poi espulso: una misura di sicurezza dettata proprio dalla sua “pericolosità sociale”. Ora però, questa decisione viene ribaltata dalla Cassazione secondo la quale, una volta lasciato il carcere, Haruna potrebbe vedersi concedere il permesso di soggiorno per “protezione sussidiaria”, e in quel caso non dovrà essere espulso e potrà rimanere in Italia. Il motivo? Nella sentenza pubblicata pochi giorni fa, si spiega che la legge che consente l’allontanamento dal territorio nazionale “per motivi di ordine e sicurezza interna non è applicabile alle ipotesi in cui il soggetto, se ricondotto nel paese di origine, corra serio rischio di essere sottoposto alla pena di morte (...) o a trattamenti inumani o degradanti”. Un passo indietro. Haruna si era appellato al tribunale di sorveglianza di Venezia chiedendo di revocare la misura di espulsione, sostenendo di avere diritto al riconoscimento della protezione sussidiaria perché, se tornasse in Nigeria, rischierebbe la pena capitale in virtù delle leggi vigenti nello Stato africano. La tesi però non aveva convinto il tribunale di Venezia, che aveva respinto l’appello. E a quel punto lo spacciatore si era rivolto alla Suprema Corte. Per i giudici della Cassazione, il suo ricorso è fondato. “La Corte europa per i diritti dell’uomo si legge nella sentenza - ha stabilito (...) che in considerazione del rischio di attuazione di trattamenti inumani, è compito di ogni organo competente a deliberare decisioni che comportano trasferimenti di persone verso quel Paese, individuare e adottare, in caso di ritenuta pericolosità della persona, un’appropriata misura di sicurezza diversa dall’espulsione”. Di conseguenza “va ritenuto esistente un margine irrinunciabile di protezione (...) assoluto e preminente anche rispetto a una condizione di constatata pericolosità sociale”. Il tutto, tenendo conto che al diritto alla protezione “non assumono rilievo alcuno i reati, anche gravi, commessi dal richiedente in Italia”. Per questi motivi la Cassazione ha annullato l’ordinanza rinviando la questione al tribunale di Sorveglianza di Venezia “per un nuovo esame”, con la raccomandazione di tenere conto che, se davvero il detenuto rispedito in Nigeria corresse il rischio di finire in carcere in condizioni inumane, “il respingimento non è applicabile”. Per l’avvocato Patrick Francesco Wild, esperto di diritto dell’immigrazione, “la sentenza va a ribadire un principio di civiltà, e cioè che la salvaguardia dell’incolumità e della dignità delle persone deve prevalere sempre e comunque, e va garantita anche a coloro che si sono macchiati di un reato”. Impiego occasionale del clandestino: sì alla particolare tenuità di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 2 novembre 2017 Corte d’appello di Trento - Sentenza 189/2017. Non è punibile per la particolare tenuità del fatto chi occupa come dipendente nella sua ditta individuale, per breve tempo, il fratello extracomunitario che ha solo il “visto” turistico ma non il permesso di soggiorno. La Corte d’appello di Trento (sentenza 189 del 17 luglio) ribalta il severo verdetto del tribunale che aveva condannato il ricorrente a 4 mesi di reclusione e 3.500 euro di multa per aver violato la norma del Testo unico sull’immigrazione (articolo 22 comma 12 del Dlgs 286/1998) che punisce con la reclusione e la multa chi impiega personale straniero senza permesso di soggiorno. L’impiego illecito era stato scoperto dagli ispettori del lavoro, nel corso di un sopralluogo nell’impresa edile dove l’imputato dava lavoro ad altri tre fratelli con le “carte” in regola. Il quarto fratello, occupato da un solo giorno, aveva invece solo un permesso per turismo. La difesa ricorda che lavoratore “clandestino” aveva dato una mano ai fratelli, che svolgevano un lavoro duro, per dimostrare la sua riconoscenza per l’ospitalità. Il ricorrente attira l’attenzione dei giudici sugli obiettivi della norma: reprimere lo sfruttamento del lavoro clandestino ed evitare l’illecita concorrenza nei confronti delle maestranze regolarmente assunte. Nel caso esaminato il fratello impiegato in “nero” non era clandestino perché aveva il permesso turistico. La difesa aveva dunque invocato l’applicazione dell’articolo 131-bis, in considerazione del poco tempo per il quale si era protratta la condotta contestata e dunque la scarsa rilevanza dal punto di vista del danno cagionato da un comportamento non abituale. La Cassazione pur confermando la violazione, non scusabile dal punto di vista giuridico, la considera non punibile. La Suprema corte precisa che la norma del testo unico sull’immigrazione è violata a prescindere dalla durata breve della prestazione. La lettera dell’articolo 22 attribuisce “in modo inequivoco rilievo all’effettivo svolgimento della prestazione lavorativa piuttosto che al momento di costituzione del rapporto di lavoro”. La norma come presupposto neppure il dolo specifico del perseguimento di un ingiusto profitto, ma solo il dolo generico: basta il solo fatto di impiegare uno straniero irregolarmente presente sul territorio italiano. Non c’è dubbio dunque che, in punto di diritto, il ricorrente fosse “colpevole”. Ma a “salvarlo” ci sono sia l’entità della pena, compatibile con il tetto dei 5 anni fissati per l’applicabilità dall’articolo 131-bis sia la particolare tenuità del fatto, commesso nell’ambito di un rapporto familiare da un soggetto senza precedenti penali specifici. Il rispetto delle linee guida cancella tutte i casi di colpa medica di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 2 novembre 2017 Ormai parlare di colpa medica è quasi improprio. Perché la legge Gelli-Bianco del marzo 2017 ha introdotto una causa di non punibilità del medico che, a determinate condizioni, scatta indipendentemente dal grado della colpa. Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 50078 della Quarta sezione penale con la quale è stata annullata la condanna per lesioni colpose emessa nei confronti di un medico agli effetti penali, mentre resta aperta la possibilità del risarcimento civile. Al professionista erano state imputate le conseguenze di un intervento di lifting facciale che avevano condotto a un’estesa zona di insensibilità. La Cassazione ricorda che il nuovo articolo 590 sexies del Codice penale ha cancellato la depenalizzazione della colpa lieve prevista dalla precedente legge Balduzzi. Non esiste quindi più, pertanto, un problema di grado della colpa, con l’eccezione di quei casi in cui la legge Balduzzi si configura come norma più favorevole da applicare a quei casi caratterizzati da negligenza o imprudenza. La riforma, avverte la Cassazione, prende in considerazione solo le situazioni che si possono ricondurre all’imperizia, considerate non punibili neppure nell’ipotesi di colpa grave. È degna di considerazione, riconosce la sentenza, l’obiezione per cui in presenza di colpa grave sarebbe molto difficile ipotizzare le condizioni di impunità del medico. Tuttavia, ribadisce la Cassazione, alla colpa grave non può più essere attribuito un peso diverso rispetto a quella lieve, visto che sono entrambe comprese nell’area di applicazione della nuova causa di non punibilità; inoltre, è chiara intenzione della riforma favorire la posizione del medico, riducendo gli spazi per la sua possibile responsabilità penale, conservando invece la responsabilità civile. Si introduce così una causa di non punibilità per imperizia, la cui operatività è subordinata al rispetto da parte del medico delle linee guida oppure, in assenza di queste, delle buone pratiche clinico assistenziali e che queste raccomandazioni siano adeguate alla specificità del caso concreto. Una rinuncia alla sanzione che è fondata sulla volontà della legge di non mortificare l’iniziativa del professionista con la paura di ingiuste rappresaglie “mandandolo esente da punizione per mera valutazione di opportunità politico criminale, al fine di restituire al medico una serenità operativa così da prevenire il fenomeno della cosiddetta medicina difensiva”. “In questa prospettiva - osserva la pronuncia -, l’unica ipotesi di permanente rilevanza penale della imperizia sanitaria può essere individuata nell’assecondamento di linee guida che siano inadeguate al caso concreto; mentre non vi sono dubbi sulla non punibilità del medico che, seguendo le linee guida adeguate e pertinenti pur tuttavia sia incorso in una “imperita” applicazione di queste”. Copia privata, il Consiglio di Stato boccia Siae e ministero di Filippo Santelli La Repubblica, 2 novembre 2017 Il tribunale giudica “illegittimo” il sistema di riscossione del contributo che si paga sull’acquisto di pc, smartphone e altre memorie digitali: “Il ministero deve esentare chi li compra per uso professionale”. Accolto il ricorso di sette società del settore: i Beni culturali dovranno rivedere la normativa. Sulla copia privata la Siae gioca almeno tre ruoli. Da una parte responsabile per conto dei suoi autori della raccolta del contributo, una somma che si paga nel prezzo dei dispositivi in grado di copiare musica o film, compresi pc e smartphone. Dall’altra incaricata dal ministero dei Beni culturali di definire con i produttori di questi dispositivi le esenzioni per chi li acquista per lavoro, ed è quindi escluso dal pagamento. E infine, chiamata a valutare le richieste di rimborso presentate da professionisti e imprese. Un sistema che non assicura trasparenza e parità di trattamento, hanno protestato produttori e importatori come Samsung, Hp, Dell, Sony, Fastweb Telecom e Wind. Tesi accolta in sede europea e la scorsa settimana recepita dal Consiglio di Stato, che ha così abolito le parti contestate del decreto del 2009, in particolare l’articolo 4. Siae rimarrà responsabile della raccolta del contributo, ma dovrà essere il ministero a stabilire i criteri di esenzione dal pagamento, “ex ante”, per gli acquirenti professionali. Mentre le richieste di rimborso “ex post”, oggi limitate alle sole persone giuridiche come società o enti pubblici, dovrebbero essere aperte anche alle persone fisiche come i liberi professionisti, e agli stessi produttori. Nel frattempo però la copia privata resta in un vuoto normativo, ultima deriva di una legge molto contestata. Nel 1992, quando fu introdotto, il contributo doveva assicurare agli artisti i diritti su eventuali duplicati (legali) delle loro opere: le copie delle musicassette che i fan si producevano con il registratore di casa. Si decise di farla raccogliere ai produttori dei dispositivi, che a loro volta l’avrebbero “scaricata” sui consumatori aumentando i prezzi. Dal 2010 però il prelievo è stato esteso a tutte le memorie digitali, anche quelle installate all’interno smartphone, tablet, pc, chiavette Usb o decoder televisivi, e incrementato in proporzione ai Giga fino a 30 euro. Non proprio un’inezia. Tanto che nei bilanci 2016 di Siae gli incassi da copia privata sono arrivati a 119 milioni di euro, quasi un quinto del totale raccolto per diritti d’autore. In teoria chiunque acquista i dispositivi per uso professionale, dalle imprese alla pubblica amministrazione, dovrebbe essere esentato dal pagamento, considerato che quei pc o hard disk non verranno usati per copiare musica o film. In pratica il sistema di esenzioni e rimborsi non ha mai funzionato, come ora riconosce il Consiglio di Stato. Non funzionano le esenzioni “ex ante”: chiedere alla stessa Siae di definirle “promuovendo” dei protocolli con i produttori, secondo il tribunale, è invito “generico” e discriminante, visto che “non disciplinato da norme generali”. Deve essere lo stesso Ministero dei Beni culturali, dice la sentenza, a “individuare casi e modi di esenzione per uso esclusivamente professionale”. Ma non funzionano neppure i rimborsi “ex post”, che spetta ancora a Siae vagliare. Un sistema “chiaramente inefficace”, si legge nella sentenza di Palazzo Spada, che rieccheggia quella europea di qualche mese fa, perché limitato ai soli utilizzatori dei dispositivi dotati di personalità giuridica, società o enti pubblici, ma non accessibile ai produttori dei device o alle persone fisiche, per esempio un avvocato o un idraulico a Partita Iva. Per i rimborsi inoltre sono stati fissati “termini assai ristretti” e “obblighi non sempre giustificati”. Nel complesso un sistema “illegittimo”, che ha costretto i produttori a imporre il contributo per la copia privata anche sui device venduti per uso professionale, senza poi mettere in condizione gli acquirenti di farsi rimborsare. Una “sovra-compensazione”, come la definisce il tribunale, cioè un flusso di royalty a cui gli autori di fatto non avevano diritto e che sono stati i consumatori a pagare. Ora toccherà al ministero mettere una pezza alla normativa, definendo i criteri di esenzione. Facendo in fretta, visto che i produttori si trovano in un limbo: far pagare o meno ai professionisti la copia privata? Su questo contributo però resta anche un’altra contraddizione figlia del progresso tecnologico, più volte denunciata dall’industria di categoria e menzionata anche nella sentenza del Consiglio di Stato. Le nuove forme che musica e film hanno preso sui nostri device, dallo streaming di Netflix e Spotify ai brani comprati su iTunes, sono basate su contratti di licenza anziché di proprietà, “con conseguente calo di importanza pratica della riproduzione ad uso privato”. Gli appassionati non vogliono (o possono) più copiare film e canzoni. Pagano già, diritti d’autore inclusi, per riprodurli su tutti i loro dispositivi. Peccato che su quei dispositivi continuino a pagare pure la copia privata. Il ticket per la sosta taroccato costituisce delitto contro la fede pubblica di Mimmo Carola Il Sole 24 Ore, 2 novembre 2017 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 18 ottobre 2017 n. 48107. La Cassazione, con la sentenza n. 48107/2017, ha condannato un automobilista per l’apposizione di un biglietto falso sul cruscotto del proprio veicolo ribadendo che la falsificazione costituisce delitto contro la fede pubblica. Il fatto. Nel corso di un controllo un operatore di polizia locale richiede l’intervento della polizia giudiziaria al fine di verificare la falsità del ticket “gratta e sosta” posizionato sul cruscotto di un’autovettura. Dopo le verifiche del caso e la risultanza che il ticket apposto era falsificato, inevitabile la condanna dell’automobilista ritenuto colpevole del reato di falsità materiale commessa da privato ex articoli 477e 482 codice penale, condanna confermata dalla Corte territoriale. Avverso la sentenza ricorre l’imputato, ritenendo che i Giudici non hanno valutato appieno l’infondatezza del rilievo di grossolanità del falso contestato giacché la situazione di evidente alterazione del cosiddetto ticket “gratta e sosta” era stata evidenziata anche nella comunicazione della notizia di reato ove si parlava di tagliandi “palesemente alterati” e comunque non era rilevante la circostanza, invece argomentativamente valorizzata nell’impugnazione, della ritenuta necessità di chiamare da parte dell’operatore la polizia giudiziaria per avere conferma della intervenuta alterazione dei tagliandi. Inoltre, a giudizio del ricorrente, è anche evidente l’irrilevanza penale della condotta, atteso che i tagliandi contraffatti erano stati emessi non già dal Comune di Milano ma dalla Atm (Azienda trasporti Milano) che giuridicamente è una società per azioni e dunque gli stessi erano rappresentativi di un rapporto obbligatorio di diritto privato e non erano pertanto riconducibili al concetto di autorizzazione amministrativa. La decisione della Corte - Gli Ermellini respingono il ricorso escludendo l’ipotesi della “grossolanità del ticket”, confermata anche dal fatto che il vigile urbano ha avuto la necessità di chiamare la polizia giudiziaria per avere conferma della alterazione del tagliando per la sosta. Parimenti la Corte ritiene infondata anche la censura riguardante l’asserita inconfigurabilità del reato di cui al combinato disposto degli articoli477e 482 del codice penale per la natura privatistica del soggetto imprenditoriale emittente il predetto tagliando, atteso che, per un verso, non risulta rilevante per i fini qui di discussione la forma iuris del soggetto emittente la descritta autorizzazione al parcheggio (essendo invece rilevante, per contro, il profilo oggettivo dello svolgimento di funzioni di carattere amministrativo di gestione del suolo pubblico da parte del soggetto a ciò autorizzato dall’ente territoriale) e che, per altro verso, lo svolgimento della funzione da ultimo menzionata da parte della società privata, nel caso de quo una Spa, avviene sempre sulla base di un rapporto concessorio o comunque autorizzatorio intercorrente tra l’ente territoriale, in questo caso, il comune di Milano e la detta società, rapporto attraverso il quale si trasferisce lo svolgimento delle necessarie funzioni amministrative al soggetto imprenditoriale che gestisce il relativo servizio di utilizzazione del suolo pubblico e di parcheggio cittadino. Milano: manca il personale, i detenuti di rimangono in cella di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 2 novembre 2017 Giovanna Di Rosa, presidente del Tribunale di Sorveglianza della città lombarda, ha già cancellato otto udienze. La protesta degli avvocati: “è illegale”. Il messaggio è chiaro. Se gli avvocati hanno interesse che vengano fissate le udienze al Tribunale di sorveglianza di Milano, prima devono mettere mano al portafoglio per pagare le spese del personale di cancelleria. Giovanna Di Rosa, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano, a causa della carenza di personale ha infatti cancellato dal prossimo 6 novembre alla fine dell’anno ben otto udienze. Il provvedimento tabellare è stato già approvato dal Consiglio giudiziario. Per gli avvocati la situazione è “al limite della legalità” perché si ripercuote direttamente “sulla libertà” di chi è in carcere e si vede ritardare sempre più l’esame delle sue richieste di misure alternative alla detenzione perché i giudici e il personale amministrativo non riescono a far fronte al carico di lavoro. Per fronteggiare il momento di difficoltà, Di Rosa ha quindi chiesto agli avvocati (Ordine e Camera penale, ndr) di sostenere con le proprie risorse finanziare gli oneri per le assicurazioni e i rimborsi spese dei volontari che “potrebbero prestare la loro opera a supporto della cancelleria” del Tribunale di sorveglianza. Ma anche volendo sobbarcarsi le spese del personale amministrativo, per il presidente della Camera penale di Milano Monica Barbara Gambirasio, che ha pure scritto al ministro della Giustizia Andrea Orlando per lamentarsi di questa situazione, il problema non si risolverebbe comunque in considerazione del fatto che “a causa dei ritardi nell’esame delle domande dei detenuti, si sta andando nuovamente ad un livello di sovraffollamento delle carceri analogo a quello precedente ai provvedimenti deflattivi che negli anni scorsi hanno abbassato notevolmente la pressione all’interno degli istituti di pena”. Le carceri italiane sono infatti di nuovo sovraffollate. Il numero dei detenuti sta aumentando in maniera preoccupante, avvicinandosi ai picchi raggiunti negli anni scorsi prima dei provvedimenti “svuota carceri”. Più detenuti vuol dire maggiore carico di lavoro per i magistrati di sorveglianza che vigilano sull’esecuzione delle pene occupandosi di permessi o delle misure alternative, come l’affidamento in prova ai servizi sociali. Al 31 agosto scorso, nelle 13 carceri del distretto della Corte d’Appello di Milan erano recluse 6.723 persone, 1.553 in più della capienza, con un indice di affollamento medio del 113 % che raggiunge picchi del 184,4% a Lodi, del 172,9% a Busto Arsizio e del 142,4% ad Opera dove, a fronte di una capienza di 918 posti, ci sono ben 1.307 detenuti. Sul fronte delle toghe, l’ufficio di sorveglianza di Milano è stato oggetto nell’ultimo anno di un forte turnover. Ben cinque magistrati, sui dodici in organico, hanno fatto domanda di trasferimento. Sul punto va però dato atto al Consiglio superiore della magistratura di aver provveduto per tempo a ripianare le scoperture, destinando al Tribunale di sorveglianza di Milano anche dei magistrati di prima nomina. I cinque magistrati, deliberati nelle scorse settimane dal Csm, sono attualmente in attesa che il ministro della Giustizia disponga la loro “presa possesso” che dovrebbe quindi avvenire nei prossimi giorni. A proposito di questa vicenda, va però detto che non è la prima volta che gli avvocati per far fronte alle carenze di personale amministrativo si “autotassano”. Solo per il funzionamento del processo civile telematico, l’Ordine degli avvocati di Milano ha messo fino ad oggi sul piatto ben otto milioni di euro. Una riflessione generale sul tema delle risorse nel settore giustizia è quanto mai urgente. Pianosa (Li): la seconda vita per chi ha sbagliato riparte dalla terra di Pier Luigi Berdondini La Repubblica, 2 novembre 2017 La chiamano la casa delle mosche, è simbolo e identità di Pianosa. Una piccola casa a pian terreno, nel piccolo paese di una piccola isola. Adiacente alla vecchia stalla, era sempre satura di mosche. Oggi ha gli esterni intonacati, dipinti in giallo, persiane verdi, due stanze da letto, la cucina, un bagno perfettamente ristrutturati. I turisti, che d’estate raggiungono l’isola non ci passano davanti. È appartata, disposta per la propria funzione. Jlirjan detenuto, 42 anni, albanese. “Per sei giorni dalle 13 alle 21 ho vissuto in questa casa con mia moglie e mio figlio. Senza sorveglianza. Cucinavamo e mangiavamo insieme, poi uscivamo per strada. In quei giorni eravamo una famiglia libera”. Una condanna pesante, dieci anni già trascorsi in carcere, per la sua condotta Jlirjan usufruisce dell’articolo 21 che consente un regime di lavoro all’esterno e, dopo autorizzazione, il permesso di convivere qualche giorno con i familiari. “Il figlio non capisce più che sei in galera. La famiglia si unisce e si rafforza”. Gli occhi trasmettono una profonda emozione sul volto scavato dai segni della colpa e degli anni di reclusione. “Il coraggio di resistere si trova ogni giorno. Ma quei sei giorni mi hanno dato un nuovo coraggio, forte. Quello di andare avanti. È la forza di cambiare”. Ci sono ancora anni da scontare, ma dagli accenti delle parole traspare la determinazione di tornare un uomo libero per aver scontato la pena e libero da ogni recidiva. “Quando tornerò a Berat troverò un lavoro, sto preparandomi a questo”. Sono alcune decine i detenuti che ogni mattina escono dalle stanze di pernottamento, coltivano ortaggi, puliscono strade, quando occorre si fanno muratori, fabbri, carpentieri, cuochi, meccanici, falegnami. Trascorrono la notte nella diramazione di Sembolello, che ha ospitato Sandro Pertini, recluso in cella tra il 1931 e il 1935. Oggi sono stanze aperte e ogni detenuto ha la possibilità di avere un proprio telefono portatile e di collegarsi a internet, compresi i collegamenti skype. Un progetto unico in Italia, disciplinato dalla legge, sotto il controllo vigile, attento e sapiente di Michele, Claudio, Sandro, Arturo. Sono i poliziotti della fiducia e della prevenzione. Anni di esperienza, una forte motivazione e un fiuto che coglie il segno. “Chi rimane delinquente anche in carcere sappiamo riconoscerlo”. Chi è qui ha superato una rigorosa selezione e formazione. Per ogni detenuto la direzione stabilisce un programma conforme. Francesco D’Anselmo è dal luglio 2015 direttore della casa di reclusione di Porto Azzurro che comprende la colonia penale dell’isola. “Pianosa è parte integrante di un progetto che ha come obiettivi garantire la sicurezza e programmare il reinserimento a fine pena nella società. Su 270 detenuti complessivi, 100 sono in articolo 21, tra questi quelli di Pianosa”. Dieci chilometri quadrati pianeggianti in mezzo al mare. Cisto e ginepro fenicio abbarbicati tra rocce in una natura incontaminata nel cuore dell’arcipelago toscano. Tutelata e sostenuta con investimenti dal Parco che organizza visite guidate alle spettacolari meraviglie che l’isola conserva. Già abitata nel paleolitico superiore, poi etrusca, Planasia per i romani. L’impero inaugurò detenzioni e deportazioni con la reclusione - teatro, sauna, sale per banchetti inclusi - di Agrippa Postumo, nipote di Ottaviano e qui esiliato. Contesa tra le repubbliche di Genova e Pisa, poi depredata dai pirati. Dal 1856 colonia penale agricola per minorenni e per volontà del Granduca di Toscana. Successivamente carcere, isola di confino, ancora carcere con punte di oltre duemila tra carcerati e abitanti in un paese attivo fino al 1998, quando improvvisamente il carcere viene chiuso. Dal 2004 si offre una nuova identità ai carcerati e all’isola. “Qui vive la speranza. I casi di recidiva? In tutti questi anni si contano nelle dita di una mano”, sottolinea Massimo Morlacchi, Ispettore. Lo scopo è ricondurre, terminata la pena, a una vita di lavoro e di affetti. “È nostro obiettivo aprire una scuola e una biblioteca. È necessario affiancare al lavoro, retribuito, e alle presenze dei familiari il ruolo determinante ed educativo dell’istruzione”. Conclude D’Anselmo. Tra difficoltà reali anche legate all’isolamento non è tempo perso, nemmeno nel fuori stagione. Da metà ottobre il traghetto arriva solo il martedì, albergo e ristorante chiusi. Nell’inverno ogni giorno poliziotti sapienti e uomini che riscattano la propria pena, tra calcinacci e trattori, tra polvere e biciclette, continuano la sfida di far vivere un progetto sociale in un’isola senza abitanti, in un paese fantasma di palazzi in gran parte disabitati e fatiscenti che hanno ospitato per più di un secolo abitazioni e uffici. È sera, al tavolo Michele siede davanti al cuoco, mangiano insieme. Il poliziotto, il detenuto uno vicino all’altro. “È assaporare il vero senso della vita, è la nostra soddisfazione”, sottolinea in vibrante sottovoce Michele. Questo sapore è il futuro di Pianosa. Forlì: il M5S “Pd boccia l’istituzione del garante dei detenuti” forlitoday.it, 2 novembre 2017 È quanto affermano i consiglieri comunali del Movimento 5 Stelle di Forlì Simone Benini e Daniele Vergini. “In quasi tutti i comuni che ospitano sul proprio territorio carceri o case circondariali è presente un garante dei diritti delle persone private della libertà personale, questa figura è presente ad esempio a Rimini ma non a Forlì. Nonostante sia presente un garante regionale, sicuramente sarebbe auspicabile avere un riferimento più vicino alle carceri locali, una lacuna che avevamo pensato di colmare ben 7 mesi fa, proponendo con una nostra mozione la sua istituzione. L’esigenza si era manifestata a seguito della visita ispettiva effettuata al carcere di Forlì da parte della portavoce alla Camera dei Deputati Giulia Sarti e del portavoce in Consiglio Regionale Andrea Bertani”. È quanto affermano i consiglieri comunali del Movimento 5 Stelle di Forlì Simone Benini e Daniele Vergini. “I problemi rilevati dai nostri portavoce, oltre al consueto sovraffollamento, erano sia strutturali (un edificio fatiscente con necessità di grandi opere di risanamento e ristrutturazione), sia di risorse umane con la mancanza di organico per attuare le politiche di recupero dei detenuti e favorire il loro reinserimento nella società, evitando che ritornino alla criminalità - chiosano gli esponenti pentastellati. Ci sono inoltre pervenute numerose segnalazioni da vari genitori e parenti di detenuti, tali da rendere non solo auspicabile ma anche urgente l’istituzione di un garante anche locale”. “Nello scorso consiglio comunale abbiamo dovuto però assistere al consueto siparietto dove la maggioranza, dopo aver rinviato per 7 mesi la nostra proposta con la scusa di approfondimenti, facendoci intendere che era d’accordo sulla sostanza, alla fine l’ha bocciata, adducendo motivazioni risibili come l’improvvisa esistenza di una loro mozione più dettagliata, in realtà mai vista e non presente all’ordine del giorno - continuano Benini e Vergini. Restiamo ogni volta sempre più stupefatti del comportamento di questa maggioranza, composta da ben 20 consiglieri che non si comprende bene quale ruolo svolgano se non quello di ostacolare ogni buona idea presentata dal Movimento 5 Stelle. Di certo, semmai verrà istituito in futuro un garante dei detenuti, è giusto che i cittadini sappiano che è avvenuto unicamente grazie alla nostra sensibilità”. “Nella stessa seduta consiliare è stata bocciata anche la nostra mozione che proponeva di destinare le cifre incassate dalla restituzione dei gettoni indebitamente erogati ad un fondo per la spesa corrente delle scuole. È l’ennesimo esempio di come questa maggioranza non si smentisca mai”, concludono i consiglieri 5 Stelle. Favignana (Tp): catturati i tre evasi dal carcere, stavano fuggendo dall’isola di Romina Marceca e Salvo Palazzolo La Repubblica, 2 novembre 2017 All’una di notte, sono stati sorpresi dai carabinieri mentre provavano a rubare una barca. Caccia al covo e ai complici. Erano riusciti a segare le sbarre del carcere di massima sicurezza di Favignana “Giuseppe Barraco” e a sparire nel nulla per cinque giorni. All’una di questa notte i tre detenuti evasi, Adriano Avolese, ergastolano, Massimo Mangione e Giuseppe Scardino, sono stati rintracciati tra gli scogli della spiaggia di Punta Longa a Favignana. I tre stavano armeggiando attorno a una barca e sono stati notati dai carabinieri. Non appena hanno visto i militari si sono lanciati in acqua. I carabinieri li hanno seguiti in mare e hanno bloccato Avolese e Scardino. Mentre Mangione è stato fermato dai militari assieme alla polizia penitenziaria, stava tentando di scappare nella campagna. I tre fuggiaschi avevano tre borse, non erano armati. Dopo l’arresto è scattata una battuta sull’isola, a caccia del covo e dei complici dei fuggiaschi. I tre si erano calati dalle mura di cinta del carcere con le lenzuola, nella notte tra venerdì e sabato. Prima avevano legato e imbavagliato un quarto uomo, loro compagno di cella. Una evasione da film nell’isola in cui fu detenuto anche Renato Vallanzasca. Erano riusciti a beffare persino il sistema di videosorveglianza del penitenziario, che si è scoperto pieno di falle. E pure le telecamere della zona, la fuga non era stata ripresa. Le ricerche incessanti erano state vane ma serrate da parte dei carabinieri del comando provinciale di Trapani, coordinati dal colonnello Stefano Russo, e dalla polizia penitenziaria. In molti credevano che ormai i detenuti si trovassero chissà dove, altri sull’isola avevano il timore che si fossero nascosti nelle campagne e da giorni i residenti vivevano in uno stato di paura. Ma l’isola era comunque presidiata da una sessantina di carabinieri I tre evasi sono pregiudicati di calibro. Adriano Avolese, 36 anni, ha a suo carico un ergastolo per avere ucciso un uomo di 24 anni: una vendetta nei confronti del fratello della vittima che insidiava la moglie. Giuseppe Scardino, 41 anni, deve scontare una pena di oltre 15 anni di reclusione per una serie di rapine violente e per il tentativo di omicidio di un poliziotto a Scoglitti, frazione di Vittoria: reati compiuti tra il 2006 e il 2007. Scardino era stato complice di Massimo Mangione, 37 anni, condannato a 12 e 8 mesi, nelle rapine e con lui sparò all’impazzata nel centro di Scoglitti ferendo una donna per sfuggire a due poliziotti che l’avevano riconosciuto. Palermo: yoga all’Ucciardone, con il progetto “Liberi dentro” di Eliseo Davì giornaleisola.it, 2 novembre 2017 Ha avuto inizio il 28 ottobre il progetto “Liberi dentro” ideato, proposto e condotto dall’insegnante di yoga Antonio Vassallo. L’iniziativa intende aiutare i detenuti fornendo loro tecniche concrete per promuovere e mantenere la salute ed il benessere mentale, anche negli spazi angusti di un carcere, attraverso il lavoro esperienziale con il corpo e il respiro. Prevede, grazie alla continua e personale ricerca interiore, di aumentare la consapevolezza di sé, sviluppare il proprio potenziale umano per raggiungere il benessere psicofisico, limitare l’aggressività e contrastare la depressione; affiancare lo yoga agli strumenti attuali utilizzati dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, fornendo ai soggetti reclusi la chiave per acquisire la consapevolezza del valore della propria esistenza e migliorare la vita detentiva in termini di disagio e stress psicofisico. “Avrò degli incontri periodici con i detenuti, che nei primi anni sperimenteranno le tecniche di pranayama, di hatha yoga e di rilassamento”, spiega Antonio Vassallo, di origini capaciote ma residente a Carini, “successivamente beneficeranno anche delle tecniche di meditazione. Sabato scorso ho fatto la prima lezione nella sala grande della casa circondariale di Palermo, stracolma di detenuti che hanno dimostrato grande interesse e tanta voglia di imparare le tecniche di questa millenaria disciplina. Devo riconoscere”, aggiunge l’organizzatore, “che la burocrazia finalmente non ha rallentato i tempi, infatti in poche settimane ho ottenuto l’autorizzazione ad avviare il corso di ‘yoga della cultura dei Rishi’ il cui obiettivo è quello di aiutare i detenuti per il raggiungimento del loro benessere psico-fisico. Tutto questo, è stato possibile grazie alla professionalità, umanità e sensibilità della direttrice dottoressa Rita Barbera e del collaboratore dottor Nunzio Brugugnone che da subito si sono adoperati per ottimizzare l’iter burocratico, per niente semplice, ottenendo in breve tempo tutte le autorizzazioni necessarie”. L’obiettivo che si propone Vassallo è quello di creare una sorta di oasi di pace in un ambiente segregato che talvolta si tramuta in una gabbia esistenziale. “La costante pratica di questa millenaria disciplina stimola il detenuto che in poco tempo ha la possibilità di entrare in contatto con se stesso, di potersi guardare senza giudizio, con occhi neutri, e di poter conoscere meglio il funzionamento ed i bisogni del corpo”, spiega Vassallo, “e queste sicuramente possono essere esperienze preziose per persone che vivono rinchiuse. Prendersi cura del corpo del recluso, cercare di garantirgli un benessere fisico, è un modo per ricordargli e ricordarci che abbiamo a che fare con delle persone, con le loro responsabilità e le loro colpe, ma anche con i loro bisogni, le loro necessità, i loro diritti. Attraverso la pratica dello “yoga della cultura dei Rishi” si può raggiungere una condizione di serenità ed un profondo contatto con se stessi. Focalizzando l’attenzione sulla propria interiorità si diventa sempre più consapevoli di chi siamo e di ciò che vorremmo essere veramente. Lo yoga considera l’uomo unione di corpo, psiche e spirito. Ricercare l’equilibrio in tutte le attività della vita, far sì che l’uomo non si attacchi a persone e cose, respingere sentimenti ingannevoli che portano malessere al corpo e alla mente, possono essere alcuni degli obiettivi. Quando la mente è agitata, il respiro è agitato; quando il respiro è calmo, la mente è calma; controllando il respiro, si può accrescere l’energia vitale, tenere a bada gli stati emotivi ansiosi, raggiungere una maggiore concentrazione mentale e gettare le basi per la meditazione. Tutto il lavoro che andremo a fare”, conclude l’insegnante, “è per raggiungere il seguente obiettivo: elevare la coscienza dell’essere umano sviluppando tutto il suo potenziale”. “Dieci lezioni sulla giustizia per cittadini curiosi e perplessi”, di Francesco Caringella recensione di Maurizio Tortorella Panorama, 2 novembre 2017 Che cos’è la giustizia? Com’è possibile che giudici che hanno fatto gli stessi studi e ogni giorno fanno lo stesso lavoro applicando le stesse leggi, su uno stesso fatto e con le medesime prove arrivino a decisioni antitetiche: un’assoluzione di qua e una condanna di là? Almeno una volta nella vita, e in Italia forse più che altrove, ce lo siamo chiesti tutti. Una risposta cerca di darla Dieci lezioni sulla giustizia per cittadini curiosi e perplessi (Mondadori editore, 140 pagine, 14,50 euro), l’ultimo saggio di Francesco Caringella. Barese, 52 anni, Caringella ha fatto l’ufficiale di marina e il commissario di polizia, poi è entrato in magistratura come pubblico ministero, a Milano, ai tempi di Mani pulite: fu lui, nel 1995, a firmare il primo mandato di cattura per Bettino Craxi e, scrive oggi nel libro, “quando nel gennaio 2000 seppi che era morto, mi chiesi se la mano della giustizia non fosse stata troppo dura contro un uomo che è parte della nostra storia”. Da tempo, Caringella ha lasciato il penale per la giustizia amministrativa: è presidente di sezione del Consiglio di Stato. Ha scritto decine di saggi di diritto; prima dell’estate è uscito il best-seller “La corruzione spuzza”, pubblicato con il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone, e nel 2012 ha dato alle stampe perfino un romanzo. Probabilmente è stata proprio questa varietà di lavori a regalare a Caringella, rispetto a tanti suoi colleghi magistrati, una maggiore libertà di leggere la realtà, una più spiccata propensione all’onestà intellettuale. Perché non è facile trovare un giudice in attività disposto a parlare del suo lavoro o del suo ambiente con toni così critici. Ed è raro trovare un magistrato capace di ammettere (come invece fa Caringella) che “la mano della giustizia levata sulla testa di un uomo è di per sé una punizione per il carico di Francesco Caringella, 52 anni, è autore del libro ansie e di paure che si addensano sull’imputato e sulla sua famiglia. È una pena infinita, a causa dei tempi biblici della giustizia e delle insanabili ferite prodotte dall’esposizione alla gogna”. Davanti a quella pena infinita il magistrato medio, come il chirurgo medio davanti al sangue, resta insensibile, non ha dubbi; perché, come ammoniva Jean-Paul Sartre, “il giudice è un uomo che si fa Dio”. Il dubbio, invece, è il compagno di strada di Caringella che (diversamente da certe toghe da talk show) lo rende magistrato anomalo e interessante. Il dubbio che gli fa chiedere: “Sono giuste le sentenze che hanno deciso le vicende della politica in Italia e nel mondo? Sono giusti i verdetti che ogni giorno regolano i destini di uomini e donne?”. Il dubbio che gli propone una risposta da avvocato: “In realtà tutte le sentenze sono giuste e sbagliate, visto che la verità che ogni decisione afferma è soggettiva, relativa, e quindi fallibile”. Violenza domestica, i costi per la società di Danilo Taino Corriere della Sera, 2 novembre 2017 Si tratta di una cifra enorme che giustifica anche dal punto di vista economico, oltre che di giustizia, la necessità di organizzare politiche di intervento. Passare dalla denuncia della violenza domestica all’azione per ridurla è obiettivamente difficile. Non solo non esiste una misura singola capace di risolvere il problema; e non solo la diminuzione delle aggressioni famigliari può avvenire unicamente nel tempo. C’è anche la delicatezza di intervenire in una sfera privata, dove all’abuso tra conviventi non si può sostituire l’abuso di un’azione esterna, di Stato. Un primo passo da fare per dare una dimensione politica al fenomeno sta probabilmente nel portare la questione dalla dimensione privata alla sfera pubblica: non solo attraverso la denuncia del fenomeno. Nel 2014, Anke Hoeffler, dell’università di Oxford, e James Fearon, della Stanford University, hanno calcolato il costo della violenza che avviene tra le mura di casa, soprattutto contro i bambini e le donne. Lo studio, condotto nell’ambito dei progetti del Copenhagen Consensus, ha stabilito che il costo sociale della violenza domestica è enormemente superiore a quello delle guerre. Tenendo conto delle conseguenze dirette e indirette di lungo periodo dei diversi tipi di violenza, i due studiosi sono arrivati alle stime che seguono. La violenza collettiva - di guerra e di terrorismo - costa attorno ai 169 miliardi di dollari l’anno, lo 0,19% del Prodotto lordo (Pil) mondiale. Gli abusi sui bambini hanno costi di welfare di 3.595 miliardi di dollari, il 4,21% del Pil, ai quali si aggiungono 37 miliardi per le violenze sessuali sui minori. La violenza tra “partner intimi” arriva a pesare sulla collettività per 4.423 miliardi, il 5,18% del Pil del mondo. Per contro, gli omicidi e la violenza extra-famigliare, esclusi gli assalti sessuali, ha invece un costo di 1.245 miliardi di dollari, l’1,44% del Pil. Calcolando anche un’altra serie di aggressioni, Hoeffler e Fearon sono arrivati a stabilire che il costo sociale della violenza domestica è attorno all’11% del Prodotto lordo annuo globale, 9.500 miliardi di dollari. Una cifra enorme che giustifica anche dal punto di vista economico, oltre che di giustizia, la necessità di organizzare politiche di intervento. Queste non possono essere le stesse ovunque. I due autori calcolano però che, ad esempio, la riduzione degli assalti domestici ottenuta attraverso l’applicazione delle leggi sul consumo di alcol dia ottimi risultati: un dollaro investito ne produce 17 in benessere sociale. E così per altre politiche. Io premio Nobel vi dico: le diseguaglianze sono troppe di Joseph Stiglitz La Repubblica, 2 novembre 2017 L’aumento del divario tra ricchi e poveri non è un fenomeno inevitabile, ma la conseguenza ?di scelte politiche il cui scopo era proprio quello: l’analisi dell’economista Joseph Stiglitz. Anticipiamo qui di seguito ampi stralci della lecture che l’economista premio Nobel Joseph Stiglitz terrà a Bologna il 4 novembre prossimo, dalle 11,45, nel corso della Conferenza Internazionale sulle Diseguaglianze (2-4 novembre) promossa dalla Fondazione di ricerca dell’Istituto Cattaneo. Il mondo è sempre più diseguale ed è ormai evidente che non solo esistono elevati livelli di disuguaglianza nella maggior parte dei paesi, ma che queste disparità sono in aumento. Oggi, esse sono molto più pronunciate di quanto non lo fossero 30 o 40 anni fa. È anche chiaro che non esistono eguali opportunità per tutti: le prospettive di vita dei figli di genitori ricchi e istruiti sono molto migliori di quelle di chi ha genitori poveri e meno istruiti. Negli Stati Uniti, ad esempio, le prospettive di un giovane, pur figlio di una famiglia svantaggiata, che va bene a scuola sono molto meno promettenti di quelle di un figlio di famiglia benestante che, però, trascura lo studio. Fino a qualche tempo fa, gli economisti e gli altri studiosi delle scienze sociali cercavano di giustificare queste disuguaglianze con la teoria della “produttività marginale”, secondo cui i redditi degli individui corrispondono al loro contributo dato alla società. Tuttavia, se guardiamo anche solo superficialmente all’evidenza dei fatti, vediamo che nessuno degli individui che hanno dato i maggiori contributi alla nostra società - per esempio, attraverso le invenzioni del laser o del transistor o della scoperta del Dna - sono tra i più ricchi. Viceversa, vediamo che tra i più ricchi vi sono molti che hanno ottenuto il loro denaro grazie allo sfruttamento del loro potere di mercato e delle loro connessioni politiche. La situazione attuale degli Stati Uniti è un buon esempio per illustrare le questioni fondamentali di cui stiamo parlando. Il reddito medio, al netto dell’inflazione, del 90 per cento meno ricco della popolazione è stato sostanzialmente stagnante negli ultimi 42 anni. Allo stesso tempo, il reddito medio dell’1 per cento più ricco della popolazione è aumentato di 4,3 volte. Questo stesso andamento si è verificato nella maggior parte degli altri paesi, anche se in misura meno accentuata. Francia, Paesi Bassi e Svezia sono tre paesi in cui l’aumento della quota dell’1 per cento più ricco è stato più limitato, laddove la Gran Bretagna ha invece visto un aumento quasi uguale a quello degli Stati Uniti. L’Italia si trova in mezzo. Il reddito mediano - il valore centrale della distribuzione - negli Stati Uniti è rimasto sostanzialmente stagnante nell’ultimo quarto di secolo. Ancor più impressionante (come si è visto di riflesso nella politica americana) è che il reddito mediano di un lavoratore maschio, con un lavoro a tempo pieno, è allo stesso livello di più di quattro decenni fa. Ed è sempre più difficile per questi lavoratori “nel mezzo” ottenere posti di lavoro a tempo pieno ben remunerati. Ciò è vero anche per l’Europa, come ad esempio in Spagna e in altri Paesi, dove il reddito mediano oggi è inferiore a quello prima dell’inizio della recente crisi economica. Peggiore è poi quanto è successo negli Stati Uniti ai lavoratori con i redditi più bassi, per i quali il salario reale è ancora oggi al livello di sessanta anni fa. Per questi lavoratori, però, va detto, le cose vanno un po’ meglio in Europa, dove il salario minimo è invece più alto di quello di un tempo. Nella maggior parte dei paesi avanzati, negli ultimi decenni sono avvenuti diversi grandi cambiamenti nella distribuzione del reddito: più reddito afferisce ai più ricchi; più persone sono in povertà; la classe media si è impoverita, vedendo ridurre la sua importanza relativa; il reddito mediano è rimasto stagnante e la quota di individui con un reddito attorno a quel valore è andata diminuendo. La classe media sta sparendo e un numero sempre maggiore di persone finisce nelle “code” della distribuzione. La distribuzione del reddito viene di solito riassunta con una misura chiamata “coefficiente di Gini”: questa, nella maggior parte dei paesi, è stata costantemente in aumento negli ultimi anni, indicando un aumento della disuguaglianza. È vero che ci sono alcuni paesi che hanno resistito a questa tendenza, come la Francia e la Norvegia mentre altri, soprattutto in America Latina, hanno visto una diminuzione della disuguaglianza. C’è quindi una lezione importante che si può trarre da tutto questo: le forze economiche in gioco in tutti i paesi avanzati sono simili, ma i risultati sono notevolmente diversi. La spiegazione di tali differenze è che Paesi diversi hanno perseguito politiche diverse. Possiamo quindi dire che la disuguaglianza è stata una scelta. Se i paesi avessero perseguito altre politiche, i risultati sarebbero stati diversi. Quelli che hanno seguito il modello anglo-americano sono finiti con più disparità. Vi sono, poi, altre dimensioni della disuguaglianza, oltre a quella del reddito. Tuttavia, voglio sottolineare che i paesi che hanno scelto di avere più disuguaglianza non hanno avuto migliori performance economiche complessive. Come ho sottolineato nel mio libro “Il prezzo della disuguaglianza”, una società paga un prezzo elevato per la disuguaglianza, compresa una prestazione economica peggiore. Il reddito è solo una dimensione della disuguaglianza. Altre dimensioni sono molto importanti, come ad esempio l’accesso alla giustizia, che non è uguale per tutti, o la partecipazione alle decisioni politiche, che non è la stessa per tutti. Tali dimensioni, però, sono difficili da quantificare. Ci sono invece almeno altre due dimensioni che sono facili da misurare. Una è la disuguaglianza nella salute, come risulta dalle differenze nell’aspettativa di vita. La natura stessa porta alcuni individui a vivere più a lungo di altri. Ma se alcuni individui non hanno accesso all’assistenza sanitaria o non riescono ad ottenere un’alimentazione adeguata, allora ci saranno ancora maggiori disparità nella salute. Di grande preoccupazione, ad esempio, è che una delle principali fonti di morbilità sono le “malattie sociali”, come l’alcolismo, la droga e il suicidio. Una dimensione importantissima è l’uguaglianza nelle opportunità e qui, bisogna dire, i Paesi avanzati si differenziano notevolmente tra loro. La relazione tra uguaglianza nelle opportunità e uguaglianza mostra che i paesi con più disparità di reddito (misurata dal coefficiente Gini) hanno meno mobilità tra le generazioni - il che implica che i figli hanno meno opportunità dei genitori. I paesi con meno opportunità includono Stati Uniti, Regno Unito e Italia; mentre quelli con migliori opportunità sono i paesi scandinavi e il Canada. Le dinamiche della disuguaglianza possono essere spiegate e non è vero che le disuguaglianze non abbiano spiegazione e che siano un risultato ineluttabile dell’operare delle forze del mercato. I cambiamenti in tali dinamiche possono essere descritti in modo semplice in termini delle forze che determinano la distribuzione del reddito e della ricchezza. Negli Stati Uniti, ad esempio, il sistema educativo vede una crescente segregazione economica geografica che genera disuguaglianza nelle opportunità educative. Gli studi mostrano anche l’elevata correlazione tra opportunità educative e reddito. La riduzione della progressività del sistema delle imposte sul reddito (anzi, ora è regressivo) aumenta anche la disuguaglianza del reddito e della ricchezza. Una riduzione del tasso di risparmio riduce la disuguaglianza; una riduzione della dimensione familiare (media) aumenta la disuguaglianza. Un aumento della dispersione in una delle variabili rilevanti, inclusi i rendimenti a favore del lavoro o del capitale, aumenta il livello di disuguaglianza. Alcuni studiosi hanno anche sostenuto che il cambiamento tecnologico premia di più il lavoro qualificato, aumentando il rendimento dell’istruzione (più si studia, più si guadagna) e quindi la dispersione dei salari. Sempre più importanti sono poi le rendite, incluse le rendite monopolistiche derivanti dalla crescente concentrazione in molte industrie. L’indebolimento delle norme anti-trust e i cambiamenti nella tecnologia, nonché i cambiamenti nella struttura dell’economia verso settori che sono naturalmente meno competitivi - pensiamo ai giganti dell’high tech - hanno sicuramente contribuito ad un aumento del “potere di mercato” medio nell’economia e quindi delle rendite monopolistiche. Altre forze, poi, hanno portato ad un aumento dei redditi più alti: i cambiamenti nelle pratiche della corporate governance di molte società hanno permesso ai dirigenti di tenere per sé quote crescenti del reddito delle società. L’aumento della finanziarizzazione dell’economia, combinata con una governance aziendale più debole e una vera e propria diffusa turpitudine morale, hanno portato ad una situazione in cui molti, nel settore finanziario, sfruttano il resto dell’economia. Allo stesso modo, l’indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori - risultato sia di sindacati più deboli, che di cambiamento del quadro giuridico che della globalizzazione - hanno portato ad una riduzione del reddito dei lavoratori. Più in generale, le regole del gioco sono state cambiate a vantaggio di quelli in alto e a svantaggio di quelli in basso, aumentando la disuguaglianza. I mercati non esistono in un vuoto astratto. Vanno strutturati, regolati. Negli ultimi 30/40 anni, le regole del gioco sono state riscritte in modi che aumentano la disuguaglianza e contemporaneamente indeboliscono l’economia. L’effetto di tutto questo è che si è aperto un enorme divario tra la crescita della produttività e la crescita delle remunerazioni del lavoro (portando ad una marcata diminuzione della quota del reddito da lavoro sul reddito nazionale). Prima della metà degli anni ‘70, produttività e remunerazioni si muovevano insieme, e ciò è stato vero per molti Paesi e settori per lunghi periodi di tempo, fino ad essere visto quasi come una “legge” in economia. Poi, improvvisamente, le cose sono cambiate e non per via del cambiamento nella tecnologia o nella qualità della forza lavoro. Ci sono stati cambiamenti rapidi nelle regole del gioco. Questo è ciò che è successo, non altro: le regole del gioco sono cambiate a favore di alcuni e a danno di molti. Quali rimedi possiamo invocare? Dobbiamo riscrivere le regole dell’economia di mercato, ancora una volta, fare di meglio per ridurre il potere di mercato monopolistico, l’esclusione e la discriminazione; garantendo una minore trasmissione intergenerazionale dei vantaggi acquisiti, inclusa una minore trasmissione intergenerazionale del capitale umano e finanziario, in parte migliorando l’istruzione pubblica, aumentando la tassazione sull’eredità e reintroducendo una progressività maggiore nelle imposte sul reddito. Non è un caso che abbiamo il sistema che abbiamo, con le regole che ha. Agli “interessi particolari” piace che sia così. Potrei avere esagerato un po’, in passato, quando ho detto che gli Stati Uniti avevano un governo dell’uno per cento, per l’uno per cento e fatto dall’uno per cento, o quando ho suggerito che siamo passati da una democrazia con una-persona-un-voto ad una con un-dollaro-un-voto. Ma è chiaro che alcune delle politiche che sono state perseguite sono state fortemente svantaggiose per l’economia nel suo complesso e hanno creato, allo stesso tempo, più disuguaglianze: ci sono stati solo pochi vincitori e molti vinti. La Marina libica “invia” i migranti in Italia. Altri morti in mare di Daniela Fassini Avvenire, 2 novembre 2017 La Guardia costiera di Tripoli non riporta più a terra le persone recuperate in mare, ma le consegna ad altre navi perché poi sbarchino in Italia. Soccorsi dalla Guardia costiera libica, consegnati alle navi militari italiane, trasbordati sull’Aquarius di Sos Mediterranée. È il nuovo racconto che arriva dal Mediterraneo. Martedì sera, informa il portavoce della marina libica, l’ammiraglio Ayob Amr Ghasem, circa 120 migranti alla deriva a bordo di un gommone, sono stati soccorsi dalla Guardia costiera libica a “circa a due miglia dalla piattaforma petrolifera di Sabratha e 60 miglia a nord di Zawiya”, ha precisato il portavoce che fa riferimento a una località a circa 50 km a ovest di Tripoli. Inoltre sette cadaveri sono stati recuperati a bordo di un gommone diretto verso l’Italia al largo delle coste libiche durante un’operazione di soccorso coordinata dalla centrale operativa di Roma della Guardia Costiera. Sconosciute, per ora, le cause della morte. In totale oltre 900 migranti sono stati salvati in diverse operazioni di soccorso e recupero in acque internazionali al largo delle coste libiche. Purtroppo in una di queste imbarcazioni sono stati trovati i corpi senza vita di sette migranti. Per la prima volta, però, le motovedette libiche anziché riportare a terra i migranti, li hanno imbarcati su mezzi militari Europei e da qui trasbordati in direzione dell’Italia. I migranti, “di differenti nazionalità africane, sono stati consegnati alla controparte italiana”, ha scritto Ghasem senza fornire altri dettagli. Nella giornata di martedì la Guardia costiera libica era intervenuta in acque internazionali soccorrendo 299 migranti (tra cui 40 donne e 19 minori) a est di Tripoli. L’imbarcazione era stata intercettata dalla Guardia costiera italiana e il centro di coordinamento di Roma aveva allertato la nave Ong Aquarius per il soccorso. In quella circostanza, però, i libici avevano allontanato i volontari riportando a terra i migranti. Anche quella del 1° novembre è stata una giornata impegnativa. Sei le operazioni ancora attive a fine giornata, grazie all’intervento di navi del dispositivo Eunavformed (Andrea Doria della Marina militare italiana e un’altra irlandese) oltre all’Aquarius. Secondo l’Organizzazione internazionale per la migrazione delle Nazioni Unite, dal 1 gennaio al 24 ottobre 2017, sono stati oltre 18.800 i migranti intercettati al largo delle coste libiche. Oltre 111mila sono invece riusciti a raggiungere le coste italiane. Intanto continuano anche gli sbarchi di tunisini a Lampedusa. Ieri 50 persone sono arrivate al molo Favaloro. Si aggiungono alle novanta del giorno prima, giunte con altri tre sbarchi. Mentre una nave della Marina militare tunisina ha tratto in salvo 58 migranti a bordo di un’imbarcazione in difficoltà ad un centinaio di chilometri dalle coste di Sfax. Una volta soccorsi, i 58 sono stati trasferiti alla base navale di Sfax e poi consegnati alla Guardia nazionale. I circa 200 tunisini detenuti nell’Hotspot di Lampedusa sono in sciopero della fame da alcuni giorni. Protestano per la detenzione arbitraria, denuncia l’Arci, le espulsioni di massa e la negazione del diritto d’asilo. Un giovane è stato anche ricoverato in ospedale. “Sono detenuti senza alcuna convalida da parte di un giudice e non hanno incontrato nessuno che spiegasse loro la procedura per un’eventuale richiesta di asilo - denunciano in una nota congiunta Arci nazionale e Forum Tunisino dei diritti economici e sociali (Ftdes) - Il signor A. rinchiuso a Lampedusa da 14 giorni raggiunto telefonicamente dell’Arci ha detto. “Mi è stato negato il diritto di chiedere asilo”. Più a nord, nell’altra area calda di confine, nella notte tra martedì e ieri, un profugo di origine africana è stato travolto ed ucciso da un treno mentre camminava lungo i binari della ferrovia del Brennero a Bolzano. Il giovane sembra non fosse da solo, ma facesse parte di un gruppo. Violentissimo l’impatto, il poveretto è morto sul colpo. L’allarme è stato dato dal macchinista del convoglio. È il secondo incidente di questo tipo in pochi mesi. Ecco perché i migranti saranno sempre di più e l’Italia perde la loro parte migliore di Fadi Hassan* La Repubblica, 2 novembre 2017 Pressione demografica e offerta retributiva dei Paesi occidentali rendono ineludibile il problema. Serve un Ministero dell’Immigrazione e dell’Integrazione Culturale per trasformarlo in una risorsa. Nei Paesi dove l’immigrazione è “di qualità”, i benefici sono tangibili per i cittadini grazie alla maggior concorrenza. Nel 1950 nei paesi che oggi compongono l’Unione Europea c’erano 380 milioni di persone, nel 2050 arriveranno a 500 milioni. Se guardiamo all’altra sponda del Mediterraneo ed ai paesi poco di là del Sahara, le persone erano 128 milioni nel 1950 e saranno 1 miliardo e 120 milioni nel 2050. Già nel 2005 è avvenuto un sorpasso storico. Per la prima volta da molti secoli gli europei sono in minoranza rispetto agli abitanti delle zone più vicine (alla fine Roma è più vicina a Tripoli che a Londra, Madrid è più vicina a Timbuctu che a Helsinki). Inoltre i nostri vicini, oltre ad essere più numerosi, sono anche più giovani ed in età lavorativa. A questo fatto aggiungiamo che se prendiamo un cittadino dell’Etiopia con un reddito medio del suo paese (non il più povero) e lo trapiantiamo in Italia dandogli il reddito mediano di uno straniero (16.000 euro contro i 24,000 di un italiano), il suo reddito, a parità di potere di acquisto, sarà 12 volte più alto che nel paese di origine. Per avere un raffronto storico, all’alba delle migrazioni di massa verso gli Stati Uniti della fine del 1800, il divario tra il salario in Italia ed il salario potenziale che un immigrato poteva ricevere negli Usa era di 4 volte; ben inferiore al divario che ora separa il potenziale salario italiano da quello dei paesi di origine degli immigrati. Il punto essenziale che questi dati ci dicono è che è naturale aspettarsi un aumento delle pressioni migratorie nei prossimi anni, che ci piaccia o no. Quindi pensare di bloccare completamente l’immigrazione o discuterne in base a sentimenti di pancia è controproducente. È importante imparare a gestire i flussi migratori in maniera attiva e lungimirante, anziché subirli in modo passivo ed approcciarli come una continua emergenza. Questo è il modo migliore per rendere l’immigrazione una risorsa e non una minaccia. Facciamo due esempi legati 1) ai richiedenti asilo e 2) al livello di istruzione degli immigrati. In Italia ci sono circa 148.000 rifugiati (2,4 ogni 1000 abitanti). Nel 2016 abbiamo ricevuto 123.000 richieste di asilo ed il 60% delle domande processate è stato rigettato. Per un paragone in Germania ci sono 670.000 rifugiati (8.1 ogni 1000 abitanti) e nel 2016 hanno processato 720.000 richieste di cui il 30% è stato rigettato. Il problema è che, per vedersi riconosciuto lo status di rifugiati, le persone devono prima arrivare clandestinamente in Italia rischiando la vita, subendo violenze, stupri, e pagando migliaia di euro. In questi anni pochissime persone (circa 600) sono venute in Italia attraverso il programma di reinsediamento delle Nazioni Unite (Unchr) che, ad esempio, permetterebbe ad un Siriano di fare domanda di asilo dalla Turchia ed, una volta accettato, potrebbe tranquillamente venire in Italia in aereo. Negli ultimi due anni negli Stati Uniti sono entrate oltre 160.000 persone con questo programma, in Canada 66.000 ed in Norvegia 5.000 (su 12.000 nuovi ingressi). Questo è un canale d’immigrazione che dovrebbe essere sfruttato meglio. Invece assistiamo passivamente alle sevizie cui molte persone sono sottoposte prima di applicargli uno dei nostri diritti costituzionali (il diritto di asilo è sancito dall’articolo 10 della Costituzione). Permettere alle persone di fare domanda di asilo da un paese terzo, senza dover arrivare qua, ci permetterebbe di gestire meglio i flussi migratori legati ai rifugiati. Ci sono molti aspetti che potrebbero essere migliorati anche nella gestione dei migranti economici, ossia le persone che vengono per migliorare la propria condizione di vita. In Italia questo tipo d’immigrazione è regolata dal decreto flussi che ogni anno determina il numero di persone che possono essere ammesse nel territorio italiano per motivi di lavoro o di ricongiungimento famigliare. Tuttavia questo sistema viene utilizzato principalmente per regolarizzare lavoratori stranieri che già risiedono e lavorano in Italia (e che sono arrivate clandestinamente), ma non è un sistema virtuoso di selezione di immigrati all’origine. Una delle conseguenze di quest’approccio è che l’Italia ha la quota più bassa di immigrati laureati dell’Unione Europea. Se prendiamo la popolazione tra i 25-54 anni, la fascia più attiva nel mercato del lavoro, solo il 12% degli immigrati è laureato (fra gli italiani siamo al 21%). In Germania invece gli immigrati laureati sono il 25%, in Francia il 33% e nel Regno Unito il 54%. Una politica d’immigrazione volta a selezionare ed attrarre talenti sarebbe un vantaggio per tutti. Ad esempio, a Londra avevo un bravissimo dentista nigeriano (con laurea inglese) che per otturazioni ed altre questioni dentali costava 50-80 euro in meno che un dentista a Roma o a Pavia. Allo stesso modo un oculista od altri tipi di prestazioni professionali, spesso fornite da stranieri, costavano meno e la qualità era quantomeno la stessa che in Italia. Uno dei motivi è proprio l’abbondanza di offerta di professionisti, grazie anche al contributo degli immigrati. Ci sono tanti aspetti legati all’immigrazione che meriterebbero una discussione come l’integrazione, la criminalità, gli effetti sul mercato del lavoro e quello sulle finanze pubbliche. Il lavoro di molti ricercatori ci dice che spesso ci sono più luci che ombre riguardo a questi temi. Il punto di fondo è che l’immigrazione sarà uno dei fenomeni più importanti di questo secolo. Al momento il nostro dibattito è fermo allo Ius Soli, ma è probabile che l’immigrazione sarà un tema di campagna elettorale così come lo è stato in Francia, Germania ed Usa. Speriamo che il dibattito non sia uno scontro ideologico del “tutti fuori” o “tutti dentro”, ma che si parli della visione di lungo periodo e di come elaborare un assetto istituzionale e legislativo che ci permetta di affrontare al meglio questi fenomeni. Le leggi principali che regolano i flussi migratori come la Bossi-Fini o la Turco-Napolitano sono di oltre 15 anni fa. È necessario istituire un “Ministero dell’Immigrazione e dell’Integrazione Culturale”, perché un fenomeno così complesso e rilevante, necessita d’attenzioni specifiche affinché possa essere una risorsa per il Paese. *L’autore è docente di economia presso il Trinity College Dublin e research associate del Center for Economic Performance della LSE Egitto. Omicidio Regeni, le bugie di Cambridge sui rischi di Giulio di Carlo Bonini e Giuliano Foschini La Repubblica, 2 novembre 2017 Il ricercatore confessò le sue paure: “La tutor è un’attivista”. Ma l’università ha taciuto. I Pm: adesso deve collaborare. Un’inchiesta di Repubblica e documenti inediti - conversazioni Skype ed email - documentano che la professoressa Maha Abdel Rahman, tutor di Giulio Regeni all’università di Cambridge, ha mentito su alcune delle circostanze chiave relative al suo rapporto accademico con il ricercatore italiano, sull’oggetto della ricerca e sulla scelta del docente che lo avrebbe accompagnato nella sua ricerca partecipata in Egitto. Stasera la proiezione del docufilm a Cambridge - Venti mesi dopo il suo sequestro, tortura e omicidio avvenuto al Cairo il 3 febbraio del 2016, per mano degli apparati del Regime di Al Sisi, l’inchiesta sulla morte di Giulio Regeni torna a chiedere conto delle reticenze dell’Università di Cambridge. Il 9 ottobre scorso la procura di Roma ha trasmesso una nuova richiesta di rogatoria alle autorità giudiziarie inglesi chiedendo formalmente che venga interrogata la tutor di Giulio dopo che, per un anno e mezzo, si è volontariamente sottratta a ripetute richieste di testimonianza da parte dei giudici italiani. Repubblica è entrata in possesso della rogatoria, un documento di 12 pagine, e nella sua inchiesta svela dettagli che pongono ora le autorità inglese, di Governo e accademiche, di fronte a un bivio: dire la verità o continuare a tacerla e dissimularla. Tra i fatti accertati da Repubblica, la circostanza che vede Giulio Regeni consegnare alla sua tutor Maha Abdel Rahman i dieci report oggetto di una prima parte della sua ricerca sui sindacati indipendenti il 7 gennaio 2016. Diciotto giorni prima di essere sequestrato dagli uomini degli apparati egiziani, lo stesso giorno in cui per conto della National security, il servizio segreto civile del Regime, Mohammed Abdallah, allora leader del sindacato degli ambulanti, lo tradì registrando di nascosto conversazioni e immagini che avrebbero dovuto accreditare la menzogna che voleva il nostro ricercatore spia e sovversivo. Un veleno oggi definitivamente fugato dalle parole dei magistrati romani nella loro rogatoria all’Inghilterra. “È pacifico come non vi sia nessun elemento che autorizzi a ritenere che Giulio Regeni avesse altri interessi lavorativi o attività nel Regno Unito che non fossero la sua attività di ricerca”. Egitto. la realpolitik di casa nostra tra Regeni, Libia, Al-Sisi e inchini di Guido Rampoldi Il Fatto Quotidiano, 2 novembre 2017 In forse l’intesa tra presidente egiziano e leader libico su cui abbiamo puntato. Proprio quando la Realpolitik all’italiana pareva ormai riuscita a ovattare l’assassinio di Giulio Regeni, così da attutirne lo scandalo e il clamore, ecco una serie di avvenimenti proporre un dubbio: era davvero necessario e conveniente normalizzare i rapporti con l’Egitto? A quanto pare abbiamo sopravvalutato il feldmaresciallo Al-Sisi e il suo vassallo libico, il generale Haftar, nessuno dei quali pare temibile o riconoscente come ci immaginavamo. Di sicuro capitolare non ci ha reso nulla, a parte una figura indecente. La sequenza che conduce a queste conclusioni si apre con il massacro di un’unità d’élite egiziana, la settimana scorsa nel deserto a ovest del Cairo. A sterminarla è stata un gruppo guerrigliero arrivato dalla Libia. Così ora è evidente che la mischia libica potrebbe tracimare in Egitto, formando a cavallo del confine un’area di crisi mista, chiamiamola Egibia o Libitto, nella quale si salderebbero due guerriglie in ascesa, contro Haftar e contro al-Sisi. Due eventi successivi hanno confermato questa prospettiva. Due giorni dopo il massacro lo stato maggiore egiziano ha convocato al Cairo il libico Haftar, per discutere iniziative militari. Haftar e le sue bande controllano la gran parte del territorio libico per conto degli egiziani, che forniscono appoggio aereo, intelligence e strategia. Anche per questo i metodi di Haftar e dei suoi protettori al Cairo sono identici. Domenica, a poca distanza da una prigione libica controllata dalle milizie di Haftar, sono stati trovati 36 cadaveri torturati (esporre i corpi degli uccisi come trofei è appunto il metodo Al-Sisi: vedi Giulio Regeni). Che si trattasse o meno di una teatrale vendetta per la strage dei militari egiziani, da Tripoli gli avversari di Haftar hanno sollecitato la Corte penale internazionale ad aprire un’indagine sul generale, già noto a quel tribunale per i massacri di prigionieri compiuti da un suo luogotenente. Quanto ha a che fare tutto questo con l’Italia? Parecchio. In agosto il governo italiano aveva deciso che le circostanze imponevano di rimandare un ambasciatore al Cairo, chiudere di fatto il contenzioso con Al-Sisi e blandire Haftar, ricevuto a Roma. Il governo italiano perseguiva vari obiettivi. Voleva convincere Al-Sisi a mollare la presa sulla Libia e imporre ad Haftar un compromesso con il governo di Tripoli: non è successo. Voleva rientrare nel giro degli appalti in Egitto: ma anche le ultime commesse belliche sono andate alla Francia, che incasserà in tutto 10 miliardi di euro (e la riconoscenza di Haftar, protetto da caccia egiziani di fabbricazione francese). Però la settimana scorsa al Cairo il ministro egiziano della produzione militare ha annunciato un accordino con una società italiana di macchine utensili, la Monzesi. Grata, la Monzesi ha annunciato un forum (Mila- no, 1-3 dicembre) dove si affratelleranno ministri egiziani e interlocutori italiani. Si parlerà di tutto tranne che di faccende minori come le migliaia di assassinati dal regime, i 60 mila detenuti politici, i 434 siti bloccati, le ong bandite; riferimenti a Regeni saranno evitati. Almeno Parigi ha venduto la dignità per una montagna di denaro. Infine e soprattutto, ormai è chiaro che Al-Sisi non potrà mai stabilizzare la Libia, così come speravano fino a ieri governi europei tanto creduli quanto cinici. La strategia egiziana è chiara: alimentare il caos e poi lanciare Haftar su Tripoli, meglio se senza plateali offensive, nel calcolo che una popolazione stremata lo saluterebbe come il male minore. Ma gli avversari di Haftar e di Al-Sisi dimostrano di sapergli resistere, e addirittura di portare la guerra civile in Egitto, in casa dei burattinai. E adesso? Il negoziato Onu che si trascina a Tunisi produrrà solo esercizi di futilità diplomatica. Romano Prodi suggerisce di coinvolgere le principali tribù libiche ma l’impresa pare complicata. Probabilmente il futuro sarà deciso da eventi sui quali gli europei hanno scarsa influenza. Alcuni finirebbero per interferire con la normalizzazione dei rapporti tra Italia ed Egitto. La Procura di Roma potrebbe accorgersi che i magistrati di Al-Sisi barano ed emettere ordini di cattura contro spioni egiziani intervenuti nell’arresto di Regeni. Inoltre sono nell’aria boicottaggi di merci egiziane, o di compagnie turistiche che omettono di segnalare alla clientela quali inferni carcerari sono nascosti nell’ombra delle piramidi. Detto altrimenti: con buona pace dei tanti che brigano per cancellarne la memoria, Giulio Regeni è ancora tra noi e chiede giustizia. Medio Oriente. I meriti dimenticati del popolo curdo di Paolo Mieli Corriere della Sera, 2 novembre 2017 I “peshmerga” sono stati fondamentali per contrastare l’Isis, ma ancora una volta noi occidentali li stiamo lasciando al loro destino di perseguitati. Nelle ore in cui il mondo intero (e noi con esso) si commuove per le vittime dell’attentato terroristico di Manhattan, ci sembra doveroso - per comprendere se non ci siano falle o anche soltanto opacità nel nostro impegno contro il radicalismo armato degli islamisti - fermarci a riflettere sulla tragedia che sta vivendo il popolo curdo. Quei curdi che, dopo aver aiutato per tre interminabili anni l’America e l’Occidente intero a debellare i terroristi di Daesh, sono stati lasciati in preda alle milizie sciite Hashd al-Shaabi guidate dal sanguinario Qasem Soleimani. E, con lui, a chiunque nella regione intenda approfittare del loro esser sfiniti dalla lunga guerra contro il Califfato per poterli sbranare una volta per tutte. Un tradimento orribile, il nostro. Quel popolo che, al prezzo di inimmaginabili sacrifici in vite umane, ci ha consentito di far saltare la centrale del terrorismo mondiale (senza che con ciò gli estremisti islamici, a ogni evidenza, possano esser considerati definitivamente debellati) proprio in questi giorni viene dato in pasto ai carnefici venuti dall’Iran e dall’Iraq. Mentre il loro presidente, Massoud Barzani, anche perché tradito da un raggruppamento rivale, è costretto alle dimissioni con parole piene di dignità che tra qualche anno finiranno nei libri di storia. Anche i curdi, negli stessi giorni della Catalogna, avevano promosso un referendum per sancire la propria indipendenza. Il mondo non ha riservato attenzione a questo passaggio della loro vicenda storica. Pur se, a differenza dei seguaci di Puigdemont, il popolo di Barzani aveva titoli speciali di legittimità morale per procedere in tal senso. Come - per fare un esempio di fantasia (sottolineiamo: di pura fantasia) - li avrebbe avuti il popolo catalano se, nei primi anni 40, fosse rimasto da solo sul terreno a combattere contro le armate naziste. Ai catalani non è capitata l’occasione di far valere questo genere di meriti. Ai curdi sì. Ed è una colossale ingiustizia che l’intero mondo occidentale adesso non voglia onorare il debito morale che dovrebbe sentire nei loro confronti. E che, di fronte al dramma di questa gente, giri la testa da un’altra parte. La storia non è nuova a questo genere di orribili voltafaccia. Basta andare con la memoria - prendendone uno a caso - al trattato di Campoformio, che prese il nome del paesino friulano nel quale il 17 ottobre del 1797 Napoleone Bonaparte consegnò all’Austria la città di Venezia, orgogliosamente autonoma da oltre mille anni. Venezia, con la propria neutralità, aveva fino a quel momento favorito l’Armata francese in Italia e le si era addirittura consegnata. Dopodiché il generale francese l’aveva ripagata con Campoformio. Quel cinico gesto di Bonaparte provocò sdegno tra gli intellettuali della penisola nonché, da quel momento in poi, diffidenza estrema nei confronti di Napoleone. È sufficiente leggere qualche pagina delle Ultime lettere di Jacopo Ortis per misurare l’intensità di quei sentimenti di riprovazione. Ma adesso per quel che riguarda i curdi non c’è neanche (salvo rarissime eccezioni) qualche Ugo Foscolo che si curi del loro destino. Quella curda è una storia lunga e travagliata. Per stare solo agli ultimi 150 anni, i curdi furono strumentalizzati dai turchi nella guerra contro i russi tra il 1877 e il 1878. Ma quando, capeggiati da Ubayd Allah, chiesero di ottenere l’autonomia che era stata loro implicitamente promessa, furono brutalmente repressi dai turchi stessi (con il tacito consenso degli inglesi). Poi vennero utilizzati dagli ottomani, nel 1915, nell’olocausto armeno, l’unica, indelebile, macchia sul loro passato. E anche stavolta non ottennero nulla. Tra il ‘16 e il ‘18, furono eccitati contro l’impero della Sublime Porta prima dalla Russia zarista, successivamente, nella fase conclusiva della Prima guerra mondiale, dalla Gran Bretagna che promise anche a loro come ad arabi ed ebrei un “focolare” nazionale. Nel dopoguerra, 1920, con il trattato di Sèvres, ottennero soddisfazione e fu finalmente definito sulla carta geografica uno Stato del Kurdistan. O almeno così sembrò: il sogno durò pochissimo e fu mandato in frantumi dalle offensive del turco Mustafa Kemal (ma non solo). Trascorsero tre anni e con il Trattato di Losanna (1923) la comunità curda venne smembrata tra Turchia, Siria, Iraq e Iran. Da quel momento il gioco delle potenze circostanti fu quello di aizzarli gli uni contro gli altri. In ciò fu assai efficace la Turchia, ma ancor più, dagli anni Ottanta, l’Iran degli ayatollah. All’inizio dei Novanta, dopo la prima guerra del Golfo (1991), gli Stati Uniti diedero segni di ravvedimento e imposero una no-fly zone sui territori curdi iracheni fin lì martoriati da Saddam Hussein. Ne derivò una sorta di autogoverno afflitto però dalla lotta tra fazioni curde rivali (particolarmente sanguinose quelle tra il 1994 e il 1997). Passarono altri quattordici anni - con la seconda guerra a Saddam (2003) - e dal 2005 fu istituita una regione curda semiautonoma nel Nord dell’Iraq. Un’altra simile fu creata, dal 2012, nel Nord-Est della Siria, quella Siria in cui era iniziata la rivolta contro Assad. Poi, nel 2014, venne la stagione di Califfato e ai curdi fu affidata la missione di combatterlo sul terreno laddove gli eserciti, irakeno e siriano, erano stati travolti proprio dagli uomini di Al Badgdadi. I peshmerga si sono battuti con un coraggio e una tenacia che all’inizio nessuno avrebbe immaginato. Americani e russi diedero il loro contributo dai cieli, ma a dissanguarsi sul terreno contro quei terribili taglia-teste c’erano loro e pressoché soltanto loro: i curdi. Noi occidentali avevamo promesso che, nel caso questa battaglia fosse stata vinta, mai li avremmo lasciati in balia delle milizie sciite armate da Bagdad e da Teheran. E loro ci hanno creduto. Diciamo la verità: all’epoca nessuno, neanche il più cinico di noi, avrebbe potuto immaginare che (dopo averli impegnati per tre interminabili anni in un combattimento corpo a corpo, metro per metro) li avremmo abbandonati al loro destino. E che, anzi, avremmo spianato la strada ai loro carnefici. In un battibaleno, tra l’altro. Invece è accaduto. E adesso? Gli Stati Uniti se ne infischiano di loro. L’Europa, come sempre, si mostra distratta al cospetto di questo genere di tragedia. Tranne, forse, Parigi dove stasera, al cinema Le Saint-Germain al 22 di rue Guillaume-Apollinaire, si terrà una manifestazione di solidarietà nei confronti di quel popolo eroico: si intitolerà “Avec le Kurdes, plus que jamais!” e parteciperanno Bernard Kouchner, Kendal Nezan, Caroline Fourest, Bernard-Henri Lévy, il generale Hajar Aumar Ismail, Anne Hidalgo e Manuel Valls. Nell’occasione si potranno ascoltare parole di ammirazione per combattenti reduci dall’aver dato un contributo fondamentale all’impresa che ha mandato in frantumi la tirannide dell’Isis. E, nel contempo, di denuncia - leggiamo dal manifesto di convocazione per l’evento a Le Saint-Germain - dei “carri armati statunitensi Abrams che hanno consentito alle divisioni irakene e alle milizie iraniane venute da Teheran di impadronirsi di Kirkuk”. È poco? Sì, è poco. Pochissimo. In ogni caso da noi, qui in Italia, non ci sarà neanche un cinema che ospiterà una serata del genere. Medio Oriente. Strage saudita in Yemen. Gentiloni: “Riyadh stabilizza” di Chiara Cruciati Il Manifesto, 2 novembre 2017 Bilancio di 29 morti, colpiti un mercato e un hotel poco ore dopo l’incontro con la delegazione italiana. Il primo ministro in visita: “Aumentare gli scambi con i Saud”. Il bilancio dell’ennesima strage saudita in Yemen è al momento di 29 morti: un raid nella provincia settentrionale di Saada ha centrato un mercato e un hotel. Come il 23 agosto, quando le bombe di Riyadh fecero collassare un albergo nella capitale Sanàa, uccidendo 60 persone. Saada è territorio dei ribelli Houthi, a poca distanza dal confine nord con l’Arabia saudita, ripetutamente colpito e di nuovo ieri teatro di massacro. Chi era presente racconta la devastazione: non c’è più nulla, solo macerie, pezzi di metallo mescolati a brandelli di corpi, cadaveri sfigurati e impossibili da riconoscere. Le stesse parole usate per ogni strage delle decine, centinaia che hanno costellato gli ultimi due anni e mezzo di guerra in Yemen. A capo della coalizione sunnita anti-Houthi c’è proprio Riyadh: poche ore prima del raid, l’ambasciatore saudita in Yemen, Al Jaber, diceva all’inviato delle Nazioni Unite, Ismail Ould Cheikh Ahmed, che la petro-monarchia è impegnata nella ricerca di una soluzione politica alla “crisi”. L’unica vera soluzione è interrompere il flusso di armi che dall’Europa e gli Stati uniti piovono su Riyadh. Eppure l’Occidente continua a fare la fila fuori dalle porte del regno. In questi giorni è toccato all’Italia: nel suo tour asiatico e mediorientale il primo ministro Gentiloni è passato martedì per Riyadh per raggiungere ieri Emirati arabi e Qatar. Dalla corte di re Salman Gentiloni ha espresso l’enorme interesse italiano a sviluppare maggiori rapporti commerciali, soprattutto in vista del piano di riforme Vision 2030, fortemente voluto dal nipote di re Salman, Mohammed. È lui che Gentiloni ha incontrato insieme all’ad di Leonardo Profumo, quello di Eni De Scalzi e di quello di Finmeccanica Bono. “Un progetto di questa ambizione non può che interessare l’Italia”, ha detto il primo ministro che ha poi citato il piano di costruzione di una nuova città, Neom, a cui sono interessate (onda lunga della normalizzazione occulta) anche aziende israeliane: “Un luogo di concentrazione per la robotica, la logistica e il trasporto compatibile sul piano ambientale. Qualcosa che l’Italia non può ignorare”. Ma gli elogi sono andati davvero oltre: Riyadh ha un ruolo di primo piano nella stabilizzazione politica del Mediterraneo, ha detto Gentiloni. Poche ore dopo, un hotel e un mercato sparivano sotto le bombe saudite. Olanda. Amnesty: in carcere violati i diritti umani dei sospettati di terrorismo 31mag.nl, 2 novembre 2017 L’amministrazione li tratta come criminali anche se non hanno ancora subito processi. Le condizioni degli internati nelle carceri di massima sicurezza dell’unità anti-terrorismo sono disumane e violano apertamente i diritti fondamentali dell’essere umano. È questa la denuncia fatta da Amnesty International e dagli esponenti del programma Justice Initiative della Open Society Foundation, in un report pubblicato lo scorso giovedì a seguito di indagini congiunte. Le due organizzazioni hanno raccontato come spesso i detenuti delle unità anti-terrorismo di Rotterdam e Vught vengano tenuti in disparte per così tanto tempo da poter parlare di vero e proprio isolamento a lungo termine: un trattamento che viola il diritto internazionale umanitario. I detenuti sarebbero frequentemente spogliati e sottoposti a ripetute perquisizioni corporali complete. Un terribile abuso specialmente se si considera che, come sottolinea il report, molte delle persone internate sono in realtà ancora in attesa di regolare processo e non rispondono di alcun reato. “Chiunque sia sospettato di coinvolgimento in attività terroristiche viene immediatamente etichettato come terrorista e trattato come tale, alla pari di chi ha commesso reati gravi. Questo tipo di procedura mina il principio di presunzione di innocenza, un diritto fondamentale di qualsiasi sospettato” denunciano le due organizzazioni nel report, spiegando come un semplice sospettato possa essere recluso per 72 mesi prima di essere sottoposto a regolare processo. Una donna, internata lo scorso anno nel centro di detenzione di Vught per più di cinque mesi e alla fine assolta da tutti i capi d’accusa, ha raccontato ai ricercatori di come sia stata costretta a vivere in isolamento totale per dieci settimane e poi altre tre settimane consecutive. Secondo le due organizzazioni, le autorità dovrebbero prima valutare quanto grande sia la minaccia che i sospettati rappresentano per la società prima di decidere di spedirli nelle carceri speciali. I detenuti ancora in attesa di giudizio non dovrebbero essere messi in isolamento o sottoposti a perquisizioni delle cavità corporee prima della condanna, a meno che un simile trattamento non sia reso estremamente necessario dalle circostanze. “La mancata riforma delle policy e delle misure implementate all’interno reparto antiterrorismo (TA) solleva grandi preoccupazioni per quanto riguarda la violazione dei diritti umani dei detenuti e l’effettiva capacità di prepararli alla vita post-detenzione” continua il report. “Stanti così le cose è possibile che un individuo, sospettato di un crimine non violento come postare qualcosa online e non ancora giudicato colpevole, venga arrestato e tenuto in isolamento 22 ore al giorno per l’intera durata della sua permanenza, senza avere il permesso di tenere in braccio il proprio bambino o avere un qualsiasi altro tipo di contatto con il mondo esterno”. Un portavoce del Ministero della Giustizia ha risposto all’emittente NOS che le condizioni all’interno delle unità speciali anti-terrorismo rispettano gli standard internazionali. Nonostante questo, pare che alcune riforme siano attualmente in cantiere. Ad esempio, ciascun detenuto sarà preso in esame individualmente per determinare se sia sensibile a cambiamenti d’opinione o irrimediabilmente influenzato dagli ideali jihadisti, così da creare due gruppi distinti. Messico. L’impegno dell’italiana Laura Scalfi, volontaria nelle carceri di Giuliano Beltrami L’Adige, 2 novembre 2017 Conoscete un Angelo degli ultimi? A Preore ne hanno uno. È Laura Scalfi (Laurita per i suoi ultimi degli ultimi, come li avrebbe definiti Madre Teresa di Calcutta) che presta servizio di volontariato in un carcere. Non italiano. Eh no, ragazzi, Troppo facile: messicano. E uno si chiede: perché proprio là? La data d’inizio è lontana, ma il percorso è semplice. 2003: Laura parte con un’amica, zaino in spalla, per girare il Messico. Programma: rimaniamo tre mesi, perché poi non torneremo più. Per farla breve ci resta un anno e mezzo. “Il popolo messicano è tanto accogliente; abbiamo conosciuto moltissime persone”. Ride con l’aria sbarazzina della ragazzina. Vestiti sgargianti e capelli rasta. Diresti che è un po’ fricchettona. E probabilmente lo pensarono anche le autorità carcerarie quando la videro per la prima volta. Ma andiamo avanti per tappe. Fra i tanti amici del soggiorno “zaino in spalla” messicano c’è Lalo, con il quale Laura si tiene in contatto al suo rientro in Italia. “Ci eravamo detti che nel 2006 avremmo fatto un pellegrinaggio in Portogallo, insieme ad un’amica belga e ad altri amici”. Già, perché parrebbe fricchettona, ma è retta da una incrollabile spiritualità, e lo senti dalla sua serenità. Senonché riceve una telefonata: “Lalo è stato arrestato. È in carcere”. Il pellegrinaggio non salta, come non salta il lavoro (provvisorio) all’Anffas: Laurita è educatrice professionale. Prese le ferie, all’inizio del 2008 vola in Messico per trovare Lalo. “E lì è cambiata la mia vita, perché non ho saputo rimanere indifferente alla realtà di un carcere. Tornando in aereo, ho pianto tutto il viaggio. Ho finito il lavoro all’Anffas e nel gennaio 2009 ho detto: vado a trovare Lalo, a fargli sentire un po’ di calore umano. I primi mesi andavo a trovare l’amico. Così è nato l’amore per il carcere”. Un carcere, in Messico. “C’è il male ma c’è anche il bene”, sorride Laurita. “La città in cui vivo (Cuatacualcos, Stato di Vera Cruz, porto sul golfo del Messico) è violentissima. Una sera ero in casa e ho sentito una sparatoria: hanno ucciso due persone. Assassini e sequestri sono all’ordine del giorno. Chi può se n’è andato: ha messo il cartello vendesi sulla porta ed è scappato. Ma ci sono persone accoglienti”. Laura segue le peregrinazioni di Lalo, trasferito in carceri speciali, finché viene liberato e se ne va in giro per il mondo. “Ma io avevo capito fin dal 2009 che il mio posto era lì, quindi non mi sono più mossa: sono concentrata in quel carcere”. Che si chiama (quando si dice l’ironia delle parole) Cereso, Centro di reinserimento sociale. “Avevo cominciato dando lezioni di yoga alle carcerate. La criminologa mi chiese di continuare, ma io non me la sentivo, perché non ero preparata. Ha insistito, perciò sono andata avanti. Nel frattempo mi sono agganciata al servizio di psichiatria, quindi ho iniziato ad occuparmi degli anziani del carcere, delle donne coi bambini”. Sono 1.900 i detenuti, di cui 100 donne. C’è di tutto: da chi ha rubato un cellulare al trafficante di armi, dal piccolo spacciatore al narcotrafficante, dall’omicida al sequestratore di persona. “Grazie al Cielo mi danno la possibilità di entrare tutti i giorni. Do lezioni di italiano, faccio assistenza agli ammalati, seguo le donne in gravidanza e quelle che hanno bambini”. Accettata? “Più dai detenuti che dalle guardie penitenziarie. Non capiscono perché una donna, che evidentemente non ha altro da fare, venga a perdere tempo in carcere. Fuori ho trovato gente che ha fiducia, che mi dà qualche vestito, giocattoli per i bambini”. I bambini: le vere vittime? “Purtroppo sì. Promiscuità, prostituzione, violenza, solitudine. Ne vedono troppe in un carcere”. Cosa spinge una persona a spendersi totalmente e gratuitamente per gli altri? “Non mi considero una religiosa, ma intrattengo una conversazione continua con Dio. Mi reggono una forza spirituale, insieme all’amore ed alla fiducia nell’essere umano: ho fiducia in un suo cambiamento. Avrà fatto delitti crudeli, ma una parte buona c’è. Se un sorriso migliora la giornata di una persona privata della libertà sono felice. E poi si deve lavorare sulla comunità, perché chi esce dal carcere va accolto, non respinto”. Ma come sostiene i costi? “Ho creato un’associazione civile, per dare un aspetto giuridico al mio essere lì. Si chiama Satia Seva che in sanscrito significa verità e servizio. Finora le donazioni vengono dall’Italia”. Diffidenze? “Ma sì, c’è chi mi dice: Ma perché vai in Messico? Di carceri ce ne sono anche qua. E poi perché aiuti chi ha ucciso, rubato e sequestrato? Guarda i bambini, gli anziani, gli ammalati!. A parte che in carcere c’è di tutto, i carcerati sono proprio gli ultimi degli ultimi, quando entrano e quando escono, abbandonati a livello sociale”. Un ritorno? “Non escludo di tornare, un giorno o l’altro, ma intanto il mio servizio è lì e voglio andare avanti lì finché la Santa Provvidenza mi aiuterà”. Lo racconterà martedì prossimo ai paesani che vogliono ascoltarla: appuntamento a Casa Mondrone di Preore, alle 20,30.