Detenuti africani, speranza imprigionata di Lorenzo Rosoli Avvenire, 29 novembre 2017 Sono il 16,52% dei reclusi in Italia. Poveri, lontani dalle famiglie: per loro è più facile finire in carcere e più difficile accedere alle misure alternative. Presentato a Opera dossier di “Nigrizia”. Se sei africano, sarà più facile finire in prigione. E restarci. Forse per una “vocazione” a trasgredire e delinquere più forte fra gli stranieri che fra gli italiani, come vuole la vulgata populista e securitaria che va per la maggiore? No. La realtà delle cose dice altro. Dice, ad esempio, che “agli stranieri si applica con maggiore facilità la custodia cautelare in carcere”, in particolare per il “pericolo di fuga” o di “reiterazione della condotta illecita”. Dice, dati alla mano, che in materia di misure alternative “i detenuti o condannati stranieri hanno difficoltà ad accedervi principalmente perché non hanno radici stabili nel nostro Paese”, annota Mario Angelelli, presidente di Progetto Diritti Onlus. È, questa, una delle voci raccolte nel dossier “L’Africa dietro le sbarre”, pubblicato dalla rivista Nigrizia, storico mensile dei Comboniani. Un ritratto lucido e appassionato, quello presentato ieri nel teatro della casa di reclusione di Opera, alle porte di Milano, dall’autrice del dossier, Carolina Antonucci, alla presenza del direttore di Nigrizia padre Efrem Tresoldi e del redattore Gianni Ballarini, introdotti dal direttore di Opera, Giacinto Siciliano (che presto andrà a dirigere San Vittore) e dal cappellano don Antonio Loi, moderati dal consigliere regionale Fabio Pizzul, in dialogo con Valeria Verdolini, sociologa del diritto, presidente di Antigone Lombardia, e con le testimonianze offerte da alcuni detenuti. Come Samuel, fuggito dalla Nigeria, dove gli hanno ucciso il padre, la madre, i fratelli, le sorelle: arrivato in Italia, la combinazione micidiale di povertà, marginalità, assenza di legami e reti lo ha trascinato in una deriva che lo ha portato fino al carcere. “Per uno straniero è più facile essere fermato e arrestato. E gli sarà più difficile avere un bravo avvocato, vista la sua fragilità economica, come gli sarà più difficile accedere alle misure alternative, pensate per chi - com’è in genere per il detenuto italiano - ha famiglia, relazioni stabili, una comunità di riferimento - spiega Verdolini. Il fatto è che il carcere non corrisponde più alla realtà della popolazione carceraria odierna”. L’ordinamento penitenziario, regolato dalla legge di riforma del 1975, ha preso la sua forma attuale prima che le migrazioni internazionali sviluppassero il loro impatto, sottolinea dal canto suo Antonucci. Ed è una “criminalità di sussistenza, surrogato della possibilità di lavoro, quella che riguarda tanti stranieri: reati commessi per vivere e mangiare”, osserva l’autrice del dossier. “Non è facile costruire percorsi di reinserimento per chi non ha famiglia, non ha nessuno, e magari la prospettiva dell’espulsione dall’Italia. Eppure il carcere dev’essere utile, anzitutto per la persona reclusa”, aveva detto in apertura il direttore Siciliano. Gli studi, sia nazionali sia internazionali, si ricorda nel dossier, documentano come la pena detentiva sia la più costosa e nel contempo la meno idonea a ridurre la recidiva. Ma per investire sulle misure alternative serve una precisa volontà politica, una lungimiranza auspicata ieri a più voci, perché il carcere sia, come ha detto don Loi, un “imparare a camminare insieme, a condividere speranze”. “Nel nostro Paese sono soprattutto tossicodipendenti e migranti a finire in prigione”, si legge nel dossier. Al 30 aprile 2017 su 56.436 detenuti in Italia, gli stranieri erano 19.268. Al secondo semestre 2016, sul totale dei carcerati, gli africani erano il 16,52%. Di questi, il 37,37% erano marocchini, il 21,57% tunisini, il 9,92% nigeriani, il 7,25% egiziani e il 4,96% senegalesi. Quasi tutti maschi: il 97,6%. Misure alternative: solo il 3,1% dei reclusi marocchini ne usufruisce, quando rappresentano il 6% sul totale dei detenuti. Analoga difficoltà d’accesso per tunisini e nigeriani. Fra i problemi messi in risalto dal dossier: la povertà; la lontananza delle famiglie; i trasferimenti, più frequenti per gli stranieri che per gli italiani; la difficoltà di esercitare il diritto al culto; l’“anomalia delle sezioni etniche”, formatesi negli istituti di pena e giustificate con “ragioni di sicurezza”, ma tali da pregiudicare i percorsi di integrazione, rieducazione e reinserimento. Epatite C, il serbatoio è dietro le sbarre di Letizia Gabaglio La Repubblica Oltre il 30% dei detenuti è affetto da epatite C. Nuovi studi stimano che i malati di epatite C in Italia siano 5-600mila, pari all’1% della popolazione. Va bene avere i fondi per pagare i farmaci, d’accordo che ci vuole organizzazione per gestire un flusso sempre maggiore di pazienti, ma se si vuole davvero eliminare la circolazione del virus bisogna guardare altrove: principalmente nelle carceri e nei Sert. Il piano Marshall contro l’epatite, infatti, rischia di fallire proprio a causa dei cosiddetti gruppi a rischio. “La vera urgenza è andare là dove l’infezione si annida di più”, spiega Salvatore Petta, gastroenterologo all’università di Palermo. Quante siano le persone che sono state infettate nelle strutture di detenzione nessuno lo sa, perché non è mai stata fatta un’indagine nazionale. I medici della Società Italiana di medicina e sanità penitenziaria (Simpse) però, sono andati a vedere cosa succede in alcuni istituti. Quella della Simpse è una rete di medici che lavora in carceri che, tutte insieme, ospitano il 25% dei reclusi italiani. Tra gli istituti penitenziari dove operano i medici Simpse ci sono quelli di Sassari-Alghero, Viterbo, Genova, Milano Opera e Milano San Vittore. A partire dai dati raccolti, gli specialisti hanno fatto una proiezione: il 23-35% della popolazione carceraria è affetto da epatite C, con un tasso di infezione ben più alto di quello che si registra nella popolazione. Per di più il carcere è spesso un luogo di passaggio: si calcola che ogni anno negli istituti detentivi transitino poco meno di 103mila persone con un turn over del 50%. “Se facciamo i conti capiamo che nel giro di un decennio la popolazione che corre un alto rischio di contrarre l’infezione è pari a una città metropolitana. La metà di queste persone uscirà dalle mura del carcere e tornerà nella società”, spiega Sergio Babudieri, professore di Malattie infettive all’università di Sassari e presidente della Simpse. Per questo la tutela della salute nelle carceri dovrebbe essere un interesse di tutti. “Il carcere è un concentrato di fragilità sociale - spiega ancora Babudieri - dove si hanno comportamenti che aumentano il rischio di contrarre l’infezione: tossicodipendenza, realizzazione di tatuaggi, sesso non protetto. Lo sforzo deve essere dell’intero sistema: è fondamentale che nelle carceri vadano i medici migliori e che siano destinati dei fondi alla cura dei carcerati e alle pratiche di prevenzione”. Oltre alle carceri, il secondo fronte da presidiare è quello dei Sert: il 70% delle nuove infezioni interessa chi fa uso di droghe per via iniettiva. “Devono essere istituiti servizi di informazione e screening dentro i Sert: dobbiamo andare noi da loro perché loro spesso ignorano il rischio Hcv”, conclude Petta. Grazie ai nuovi farmaci, curare tossicodipendenti o sieropositivi è possibile e funziona: studi condotti negli Stati Uniti hanno dimostrato che il numero delle persone che contraggono il virus si abbatte anche di due terzi. Riforma del rito abbreviato: stop agli sconti di pena per i reati più gravi di Liana Milella La Repubblica, 29 novembre 2017 Su proposta della Lega la Camera esclude i reati più gravi dalle riduzioni di pena. Forza Italia si smarca. “Non si può parlare di garantismo se c’è l’assassino con il coltello in mano. Se non si è d’accordo su questo non si è d’accordo su nulla”. Parola di Matteo Salvini, il leader della Lega, contro Forza Italia. Dopo il niet a Gallitelli, in sole 48 ore, il secondo round, nell’aula di Montecitorio, si gioca sul “rito abbreviato”. La Lega propone una legge che vieta il processo rapido, con sconto di pena di un terzo, per tutti i reati gravi, da ergastolo, compresi stalking e femminicidio, ottiene i voti del Pd, di M5S e di Fratelli d’Italia, ma il partito di Berlusconi si defila. “Problemi di costituzionalità” dice l’avvocato forzista Francesco Paolo Sisto. Finisce con un’astensione che però irrita pure le donne del partito dell’ex Cavaliere. Infatti votano a favore della proposta leghista alcune deputate, tra cui Daniela Santanché, Michaela Biancofiore e Gabriella Giammanco. Che commenta: “Sì, certo, che ho votato per la legge leghista. Perché l’abbreviato è accettabile solo per piccoli reati, ma non certo per chi ha usato violenza, come nei casi di femminicidio o di stalking”. Non vota a favore, ma esce dall’aula, l’ex ministro per le Pari Opportunità Mara Carfagna. Anche se, a suggerire la bocciatura della proposta leghista, che ha poi scatenato l’ira di Salvini, in realtà è stato Nicolò Ghedini. Niente a che vedere con qualche processo particolare, come pure si mormora tra i banchi della Camera. La ragione è tutt’altra. Abolire l’abbreviato significherebbe, secondo il guru giuridico di Berlusconi, non deflazionare i processi, ma soprattutto costringere le donne a testimoniare in aula e rispondere anche a dure cross examination, e sottoporsi poi a una giuria popolare in corte di assise. Dunque una pura questione di diritto. Ma tant’è. In vista delle elezioni e dell’alleanza tra Forza Italia e Lega, quello che colpisce, a su cui il Pd non fa sconti, è la prima spaccatura tra i due partiti proprio sulla giustizia. Che in aula ha visto da una parte il leghista Nicola Molteni, colui che ha firmato la proposta, e dall’altra il forzista Sisto. “Nessuno sconto o premio ad assassini e criminali” dice Molteni, che ricorda come la norma sull’abbreviato fosse già stata approvata alla Camera nel 2015, ma al Senato fu “dimenticata” durante la discussione del processo penale. Usa parole dure Molteni: “Il Senato ha pensato vergognosamente di affossarla”. Tant’è che l’allora ministro della Famiglia Enrico Costa, che ieri ha votato a favore, scrisse ai presidenti delle Camere per recuperarla. Purtroppo, anche stavolta, il Senato sarà la tomba dell’abbreviato, nonostante l’ampia maggioranza (318 sì, 33 no, 30 astenuti) che lo ha licenziato alla Camera, perché i tempi non consentono di votare la norma anche lì. Ma resta lo scontro tra Lega e Forza Italia, su cui i Dem non risparmiano le ironie. “Se il buongiorno si vede dal mattino...” dice il renziano David Ermini, commentando il no di Forza Italia a una riforma “giusta ed equilibrata”. Il capogruppo dei Democratici in commissione Giustizia Walter Verini è netto: “Ogni giorno si registra una frana nell’alleanza tra Forza Italia e la Lega. Dopo la sconfessione di Berlusconi da parte di Salvini per il generale Gallitelli, candidato durato neanche qualche ora, eccoci allo scontro sull’abbreviato. Insomma Forza Italia e Lega stanno litigando a tutto campo”. Come dice la Pd Stefania Covello, “è un matrimonio di puro interesse finalizzato alla spartizione del potere”. Stop agli sconti di pena per i reati più gravi: la legge leghista passa, ma senza i voti di Fi di Elisa Calessi Libero, 29 novembre 2017 A giudicare il clima che c’era ieri alla Camera dei deputati tra leghisti e azzurri, è ragionevole dubitare su cosa accadrà nei prossimi mesi. Ma, del resto, il quadro è chiaro: destinati a stare insieme, nonostante le differenze siano tante, tantissime. E le diffidenze pure. Non solo sulla leadership. Si è visto ieri a Montecitorio. L’oggetto dello scontro, come già in passato, è stata la giustizia. In particolare la proposta di legge della Lega, sostenuta anche dal Pd e dall’intera maggioranza, di eliminare dal codice penale la possibilità di accedere al rito abbreviato, quindi a uno sconto di pena, per reati gravi come l’omicidio di un congiunto, lo stupro, lo stalking. Testo approvato in serata con 318 voti a favore, 33 contrari e 30 astenuti. In Commissione, infatti, Lega e Fratelli d’Italia hanno stretto un accordo con il Pd, ottenendo che la proposta, presentata dal leghista Molteni, fosse fatta propria da tutta la maggioranza, sull’onda del clamore per i reati di femminicidio. Già in quella sede, però, Forza Italia ha deciso di astenersi. E lo stesso ha fatto in Aula, trovandosi sulle stesse posizioni di M5S e Sinistra Italiana. “Se non si è d’accordo sulla cancellazione dello sconto di pena e il rito abbreviato per i colpevoli di omicidio e stupro, non si è d’accordo su nulla”, ha messo in chiaro Salvini in una conferenza stampa convocata alla Camera. A far infuriare il leader della Lega è il fatto che nella notte il partito azzurro ha presentato emendamenti soppressivi dell’intera legge, insieme a Mdp e Sinistra italiana. Da qui la sfuriata di Salvini e la minaccia di far saltare l’alleanza con Fi: “A Berlusconi chiedo serietà: un’alleanza c’è, se c’è serietà”. Scontro che segue alla presa di distanza di Salvini rispetto all’idea di Berlusconi di proporre come candidato premier del centrodestra il generale dell’Arma dei Carabinieri Leonardo Gallittelli. È la giustizia, però, che ha riacceso antichi dissapori, tornando a separare le due destre: da una parte Forza Italia, dall’altra Lega e Fratelli d’Italia. Sulla giustizia “si pone un problema politico serio”, si mormorava ieri nei crocchi leghisti in Transatlantico. “Sorprende l’astensione di Fi, spero che si ravveda: dovrebbe porsi il dubbio di come mai i loro alleati in questa battaglia sono Sinistra italiana e Mdp”, si è sfogato il capogruppo del Carroccio alla Camera, Massimiliano Fedriga. Francesco Paolo Sisto, deputato di Fi e autore di uno degli emendamenti all’articolo 1 della proposta Molteni, minimizzava: “Con la Lega non c’è nessun disaccordo, i temi della giustizia penale non sono temi politici, ma giuridici. Riguardano scelte che prescindono dalla condivisione di un percorso politico”. Per il Carroccio non è così. Sono temi dirimenti per la campagna elettorale. E la spaccatura rischia di avere conseguenze, almeno nel breve termine, se è vero che l’incontro previsto tra Berlusconi, Salvini e Meloni, dopo la giornata di ieri, è probabile sarà rinviato. Per una volta è il Pd a puntare il dito contro le divisioni altrui: si tratta, per il dem David Ermini, “di una proposta di buon senso, per questo il Pd la sostiene; lo scontro cui stiamo assistendo tra Fi e Lega è, perciò, assurdo: avviene su una riforma giusta ed equilibrata. Viene da dire: se il buongiorno si vede dal mattino”. Ed è naturale che si traggano le conseguenze sul dopo: “Assistiamo a una battaglia fra forze che pretendono di presentarsi al Paese come alleate, ma che evidentemente pensano solo a un patto di potere nel completo disinteresse dei cittadini”, ha detto la deputata dem Fabrizia Giuliani. Rito sommario nel processo civile. Boschi si “cura” gli avvocati e blocca Orlando di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 29 novembre 2017 Il contestato emendamento per estendere il rito sommario nel processo civile ritirato per il veto della sottosegretaria. In rotta di collisione il ministero della Giustizia, guidato da Andrea Orlando, leader della minoranza dem, e gli azionisti di maggioranza del governo: i renziani di Palazzo Chigi, capitanati da Maria Elena Boschi. È stata proprio la sottosegretaria che, ancora una volta, ha litigato con Orlando, avendo la meglio. Questa volta oggetto dello scontro è stato un emendamento alla legge di Bilancio ispirato da via Arenula: quello sul processo civile sommario, una sorta di processo breve per le cause davanti al giudice monocratico. L’emendamento, ritirato lunedì sera in commissione Bilancio, ha insolitamente compattato magistrati e avvocati, contrarissimi. È noto che Boschi, avvocato, è molto sensibile alle istanze della categoria e i renziani in generale sono in ottimi rapporti coi vertici della categoria. Cosa non secondaria a pochi mesi dal voto: col treno o senza il leader Pd cerca di ritrovare vecchi consensi e di procurarsene nuovi e gli avvocati in Italia sono ben 280 mila, un discreto bacino elettorale (senza eguali in Europa). Dunque Boschi si è battuta perché quell’emendamento alla manovra fosse ritirato. A firmarlo era stato Guido Viceconte, senatore alfaniano, che non fa parte né della commissione Bilancio né della Giustizia. Scrive quell’emendamento, secondo quanto risulta al Fatto, dopo essersi confrontato con la collega di partito Federica Chiavaroli, sottosegretaria alla Giustizia (un testo simile era stato presentato, e subito ritirato, dalla leghista Comaroli). Il M5S denuncia subito i pericoli di quell’emendamento: Maurizio Buccarella - senatore e avvocato - spiega che tutto il processo sarebbe affidato alla discrezionalità del giudice. Segue, domenica sera, lo scontro Boschi-Orlando, e lunedì Viceconte chiede alla collega di partito Simona Vicari, membro della commissione Bilancio, di ritirare l’emendamento. Vicari annuncia il ritiro e a quel punto il capogruppo del Pd in commissione, Giorgio Santini, ex lettiano poi renziano moderatissimo, si alza in piedi, visibilmente contrariato e chiede alla Vicari di non farlo. La senatrice però conferma: l’emendamento è ritirato. Oggi la manovra approda in aula con due giorni di ritardo dovuti anche a questo scontro nel governo: quell’emendamento di maggioranza, poi silurato da un pezzo di maggioranza, era peraltro uno stralcio della riforma del processo civile voluta da Orlando ferma da tempo in Senato. In questi giorni, peraltro, avvocati e magistrati si erano mobilitati contro il processo sommario: “La riforma in cantiere - aveva scritto l’Anm - non elimina e neanche favorisce l’efficienza del processo perché non opera sull’arretrato. Le regole del processo non sono inutile orpello ma il modo con cui le parti concorrono, con ordine, alla decisione del giudice”. Eliminare la predeterminazione di tali regole, rimettendone la scelta alla valutazione del giudice caso per caso “rischia di generare prassi applicative diversificate con sicure ricadute negative in termini di garanzia dei diritti dei cittadini”. L’Anm indica poi la via per accorciare i tempi davvero lunghi dei processi civili: “L’impiego di risorse adeguate per garantire l’operatività dell’ufficio per il processo in tutti i Tribunali, una seria revisione delle piante organiche, non solo degli uffici giudicanti, ma anche del personale di cancelleria e delle circoscrizioni giudiziarie”. Orlando: “il no all’equo compenso per gli avvocati? L’Antitrust non vede la realtà” di Errico Novi Il Dubbio, 29 novembre 2017 Il ministro della Giustizia respinge le critiche dell’authority alle norme per i professionisti: “addio mercatismo”. L’autorithy, secondo il guardasigilli, non valuta “il fatto che nelle professioni si è già determinata una profonda distorsione del mercato dovuta a soggetti che sono in grado di imporre nei fatti le tariffe”. Ecco perché, aggiunge il responsabile della Giustizia, “invitiamo l’Antitrust ad una più attenuata considerazione di questo tema”. Replica che sembra attestare la determinazione dell’esecutivo ad andare fino in fondo nel contrasto allo sfruttamento del ceto medio e alla mortificazione delle professioni. Orlando, in effetti, lo dichiara in modo esplicito: nel ricordare che “nei prossimi giorni produrremo una nostra analisi del fenomeno”, il ministro che ha predisposto, a partire dal tavolo tecnico con il Cnf, le norme per avvocati (poi estese a tutte le professioni), dice di ritenere “giusto spiegare il lavoro di riforma delle professioni, che è stato portato avanti senza cedere a logiche mercatiste e a una deregulation che non può che fare male ai professionisti e al mercato”. Una replica significativa: lascia intendere che la scelta di tutelare il lavoro autonomo non è estemporanea, e che proviene dalla presa d’atto delle distorsioni prodotte fin dalle lenzuolate di Bersani. D’altronde sull’equo compenso è l’intero esecutivo ad aver mostrato compattezza e convinzione. La decisione che ha consentito di inserire la norma nel decreto collegato alla manovra è venuta direttamente della segreteria del partito di Matteo Renzi, in particolare dalla responsabile Lavoro Chiara Gribaudo. La deputata dem ha risposto a sua volta all’attacco dell’Antitrust in una nota congiunta con il responsabile pd per la Giustizia, David Ermini: “I dubbi dell’Autorithy stravolgono la realtà, è vero esattamente il contrario: ad oggi i dati ci dicono che alcuni soggetti dotati di forte potere contrattuale, come banche e assicurazioni, riparandosi dietro la teoria della concorrenza, pagano in maniera irrisoria l’opera dei professionisti. Di fatto, è la logica del massimo ribasso applicata alla necessità e alla fame di lavoro delle persone”. Non solo: “L’Antitrust con le sue valutazioni rischia di certificare la liceità di una sorta di caporalato dei professionisti come è dato oggi riscontrare nei fatti. Il mercato deve essere libero, ma non lo sfruttamento”. Parole simili a quelle con cui lo stesso Orlando aveva presentato il ddl ordinario sulla materia, l’estate scorsa: anche lui aveva parlato del rischio di un “caporalato intellettuale”. Ed è anche il relatore di quell’originario disegno di legge, il deputato del Pd Giuseppe Berretta, a unirsi al coro di voci contrarie all’Autorità garante del mercato: “Il richiamo è immotivato perché la norma non prevede la reintroduzione delle tariffe minime” e “non si tiene conto della realtà in cui operano i professionisti, caratterizzata da un forte squilibrio del mercato”. Proprio Berretta nei giorni scorsi ha proposto la sospensione dell’esame sul ddl equo compenso con un intervento in commissione Giustizia alla Camera, in cui ha ricordato l’approvazione delle stesse norme avvenuta a Palazzo Madama, all’interno del dl fisco. E proprio ieri l’aula di Montecitorio ha respinto le pregiudiziali di costituzionalità al dl fisco, ora assegnato alla commissione Bilancio, con il democratico Giampiero Giulietti come relatore. Il parlamentare che aveva fatto da relatore allo stesso provvedimento collegato alla Manovra durante l’esame al Senato, Silvio Lai (anche lui del Pd) chiarisce perché trova “immotivato” l’allarme per una reintroduzione di fatto delle “tariffe minime” arrivato l’altro ieri dell’Autorità garante del mercato: “Il contesto è differente, il Senato ha voluto tutelare i professionisti rendendo illegali pratiche improprie e clausole vessatorie come purtroppo è invece emerso in questi anni”. Lai nota anche che, riguardo alla “estensione alla pubblica amministrazione del solo principio dell’equo compenso”, ci si richiama “ad una norma prevista all’articolo 36 della nostra Costituzione: il Senato ha voluto richiamare lo Stato ad applicare esso stesso comportamenti e pratiche richieste a terzi”. Un altro senatore che si è battuto molto per estendere il principio dell’equo compenso, Maurizio Sacconi, ricorda a propria volta come l’articolo 36 prevalga “su ogni ideologia mercatista”. Anche più aspro il commento del presidente della commissione Lavoro della Camera Cesare Damiano, che definisce “inaccettabili” le opinioni dell’Antitrust sull’equo compenso, e suggerisce ai componenti dell’Autorità di “non proteggere una logica di concorrenza malata che sta producendo scempio sociale”. Un parlamentare avvocato come il capogruppo di Ap nella commissione Giustizia di Montecitorio, Nino Marotta, si chiede “come si concilia la ratio degli studi settore, che significa una soglia minima di fatturazione da rispettare, con il regime di liberalizzazione rivendicata dall’Antitrust”. A segnalare l’attesa maturata ormai nel mondo delle professioni per le norme a tutela dei compensi è il presidente del Consiglio nazionale degli ingegneri Armando Zambrano, che guida anche la Rete delle professioni tecniche: ricorda l’evento “Equo compenso, un diritto”, che si terrà domani a Roma al Teatro Brancaccio., e parla di ingiusta “bacchettata” dall’Autorità garante. Ma è sempre il ministro Orlando a far notare che “non si tratta di una bocciatura”. Nel senso che, da parte dell’authority, “non c’è stato nessun provvedimento di carattere formale”. Solo una lettera a premier e presidenti delle Camere che, viste le repliche, non dovrebbe modificare le sorti del provvedimento. Stop agli avvocati specialisti. Bocciati l’elenco dei settori e il tetto alle specializzazioni di Gabriele Ventura Italia Oggi, 29 novembre 2017 Il Consiglio di stato conferma le pronunce del Tar impugnate dal ministero della giustizia. Il Consiglio di stato boccia il regolamento sulle specializzazioni forensi. Con la sentenza n. 5575/2017 depositata ieri, infatti, Palazzo Spada ha respinto il ricorso proposto del ministero della giustizia un anno fa avverso le pronunce del Tar Lazio, che avevano ritenuto illegittimo il dm n. 144/2015, per quanto riguarda la scelta delle materie di specializzazione e la previsione di un colloquio presso il Consiglio nazionale forense per l’ottenimento del titolo di avvocato specialista per comprovata esperienza. Il Consiglio di stato non solo ha confermato l’illegittimità dell’elenco dei settori di specializzazione e della previsione di un colloquio presso il Cnf, ma ha dichiarato illegittima anche la previsione di un numero massimo di specializzazioni e di una nuova fattispecie di illecito disciplinare, previsto per l’avvocato che spende il titolo di specialista senza possederlo. La norma regolamentare, secondo i giudici amministrativi, è infatti illegittima se vuole ampliare l’ambito delle fattispecie rilevanti, mentre è superflua e illogica se invece intende riportarsi alle condizioni già espresse dal codice deontologico forense. L’art. 3 comma 3 della legge professionale rinvia infatti al solo codice per l’individuazione dei fatti di rilievo disciplinare. Per quanto riguarda il numero massimo di specializzazioni conseguibili, secondo il Consiglio di stato è illegittimo per via “della acclarata irragionevolezza della suddivisione relativa che individua ambiti con termini e settori affini, tanto da far apparire egualmente irragionevole la limitazione impugnata. È evidente che rivisitazione dell’elenco e individuazione di un limite ragionevole e congruo dovranno andare di pari passo”. Sul colloquio presso il Cnf, il Consiglio di stato contesta invece il fatto che la norma abbia contorni “nebulosi”. “La doglianza dell’Amministrazione”, si legge nella sentenza, “a detta della quale contenuti e modalità del colloquio dovrebbero essere desunti da una visione complessiva della normativa di settore, è sostanzialmente generica”. I giudici amministrativi non contestano infatti l’adozione dello strumento prescelto dal regolamento, ovvero il colloquio, “ma la circostanza che tale strumento abbia contorni nebulosi e indeterminati, anche perché l’attribuzione di competenza in materia al Cnf “in via esclusiva” non può risolversi in una sorta di delega in bianco”. Opposte le reazioni da parte della categoria forense, che si è nettamente divisa sul regolamento specializzazioni, con l’Associazione nazionale forense che rientra tra quelle che hanno dato battaglia al decreto ministeriale. “Non ci interessa rivendicare la correttezza e la coerenza della nostra posizione, portata avanti nell’esclusivo interesse degli avvocati, ma ci preme affermare”, sottolinea il segretario generale, Luigi Pansini, “in prima battuta che le specializzazioni sono un patrimonio dell’intera avvocatura e non un territorio di caccia delle associazioni specialistiche che in questa vicenda hanno pensato unicamente al rispettivo ambito di competenza sostenendo posizioni francamente incomprensibili e demolite dal Consiglio di stato”. Le cinque associazioni specialistiche (civilisti, penalisti, giuslavoristi, familiaristi e tributaristi) hanno invece diramato una nota congiunta, affermando che “nonostante la legislatura sia al termine, noi confidiamo che sia ancora possibile completare l’iter regolamentare delle specializzazioni, l’ultimo tassello importante della incompiuta riforma della legge professionale”. Ingiusta detenzione, nessun risarcimento per chi si avvale della facoltà di non rispondere di Silvia Marzialetti Il Sole 24 Ore, 29 novembre 2017 Non può essere riconosciuto l’indennizzo per ingiusta detenzione a un padre assolto dall’accusa di aver violentato la figlia, se questi si è avvalso della facoltà di non rispondere. Se, infatti, avesse collaborato durante l’interrogatorio, sarebbero emerse immediatamente tutte quelle incongruenze che hanno poi determinato la sentenza di assoluzione. Non ha dubbi la Corte di cassazione nel respingere al mittente la richiesta di indennizzo (100mila euro) presentata da un uomo abruzzese condannato a quattro anni e due mesi di reclusione dal gip del tribunale di Vasto, ma poi assolto dalla Corte di appello “perché il fatto non sussiste”. Scagionato dall’accusa di aver abusato della figlia, l’uomo ha però presentato ricorso contro la sentenza di assoluzione, contestando il fatto di non essersi visto riconosciuto il risarcimento. Un niet che è stato avallato anche dalla Corte di cassazione, per una serie di motivazioni ben documentate nella sentenza 53560, depositata il 27 novembre. La necessità di indennizzare con un riconoscimento di natura patrimoniale un soggetto raggiunto ingiustamente da un provvedimento restrittivo della libertà personale - scrivono i giudici - si pone quando la persona in questione dimostri di essere rimasta assolutamente estranea alla vicenda delittuosa nella quale era stata ritenuta ingiustamente coinvolta. Principi non applicabili a un soggetto il quale, con il proprio comportamento, abbia creato i presupposti per indurre l’autorità ad intervenire con un provvedimento di rigore, e sia poi stato assolto - doverosamente e legittimamente - in conseguenza dell’applicazione di norme e principi che regolano specificamente ed esclusivamente il giudizio penale. I giudici si soffermano a lungo sulla possibilità di avvalersi della facoltà di non rispondere in sede di interrogatorio di garanzia: un diritto dovuto all’indagato, che talvolta può risolversi in un boomerang. Quando, infatti, il quadro di indizi raccolti a suo carico è particolarmente grave, egli farebbe meglio a fornire tutti quegli elementi chiarificatori relativi alla sua posizione e alla sua eventuale estraneità dal quadro indiziario. Nel caso esaminato dalla Cassazione, invece, gli elementi che hanno condotto la Corte di appello a pronunciare l’assoluzione, sono stati valutati solo dopo che il perito di Corte ha censurato la metodica utilizzata dall’esperto nominato in sede di incidente probatorio. Da qui i dubbi sulla capacità di testimoniare della minore, bollata come “generica” e pertanto inattendibile. Una valutazione che ha prodotto l’assoluzione per il padre. La tenuità del fatto non va davanti al giudice di pace di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 29 novembre 2017 Corte di cassazione - Sentenza 53683/2017. Il giudice di pace non decide sulla non punibilità per particolare tenuità del fatto. Le Sezioni unite (sentenza 53683) mettono il punto su un contrasto che si era creato già dalle prime applicazioni dell’articolo 131-bis, introdotto dal Dlgs 28/2015. La giurisprudenza si era spaccate, tra i favorevoli all’applicabilità del “beneficio” anche ai procedimenti davanti al giudice di pace e i contrari. La Cassazione - le cui conclusioni erano state anticipate dall’informazione provvisoria sceglie la seconda via. I giudici negano la possibilità di estendere una norma “tarata” sul rito ordinario a quello speciale, nel quale si applica la norma sulla tenuità prevista dall’articolo 34 del Dlgs 274/2000. Le Sezioni unite ricordano che, nella relazione di accompagnamento allo schema di Dlgs, si sottolineava la vocazione dell’istituto, creato per la giustizia ordinaria senza prevedere confronti o conflitti con istituti di mediazione e con la loro funzione conciliativa, essendo la nuova causa di non punibilità estranea a tale ambito. E non c’è dubbio che il procedimento di competenza del giudice di pace abbia un fine conciliativo e che attribuisca un ruolo centrale alla persona offesa, potere di veto compreso. Nel caso dell’articolo 131-bis, ispirato ad un intento deflattivo, prevale l’aspetto della depenalizzazione, che sarebbe depotenziato da un’”inibitoria” della vittima. Il diverso ruolo assegnato alla parte offesa é uno dei più significativi elementi di differenziazione tra l’articolo 131-bis del Codice penale e l’articolo 34 del Dlgs 274/2000, ma non il solo. Quest’ultimo pretende tra l’altro anche il requisito della “occasionalità” del fatto e il criterio dell’eventuale pregiudizio che l’ulteriore decorso del procedimento possa recare alle esigenze dell’indagato o dell’imputato. Un sostegno della tesi scelta é individuato nell’ intervento sul codice penale e di rito (legge 103/2017). La norma ha previsto per il codice penale una nuova disciplina dell’estinzione del reato per condotte riparatorie, che evoca quella dell’articolo 35 del Dlgs 274/2000. La novella è stata preceduta da un ampio dibattito, sull’opportunità di un coordinamento tra le norme del codice penale e di rito e quelle operative davanti al giudice di pace, in possibile conflitto tra loro. Ma il silenzio sul punto va interpretato come la volontà di tenere distinti i due ambiti. Prescrizione, risarcimento alle vittime non soggetto a revisione di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 29 novembre 2017 Corte di cassazione - Sentenza 28 novembre 2017 n. 53678. Non è suscettibile di revisione la sentenza di proscioglimento dell’imputato per estinzione del reato per prescrizione dalla quale consegua la sola conferma delle statuizioni civili, in quanto la condanna al risarcimento del danno, avente natura riparatoria, non può essere considerata sanzione punitiva e, quindi, latamente “penale”. La Cassazione, sentenza n. 53678 di ieri, ha confermato la validità di questo principio di diritto anche in rapporto alla Cedu. Infatti, prosegue la Corte, “ai sensi dell’art. 6 Cedu per sentenza di condanna deve intendersi ogni provvedimento con il quale il giudice, al di là del nomen iuris, nella sostanza, infligga una sanzione che abbia comunque natura punitiva e deterrente, e non meramente riparatoria o preventiva”. I tre ricorrenti erano stati condannati per circonvenzione di incapaci ma il reato era stato poi dichiarato estinto per prescrizione con condanna al risarcimento dei danni a favore delle vittime costituitesi parti civili. La difesa ha proposto istanza di revisione affermando che erano emerse nuove prove che avrebbero condotto alla loro assoluzione. La Corte di appello di Caltanissetta però ha qualificato come inammissibile l’istanza. A questo punto la difesa ha proposto ricorso richiamando il precedente di Cassazione (n. 46707/2016) favorevole alla revisione. Per i giudici il punto nodale, e qui è il passo avanti rispetto al precedente conforme n. 2656 di quest’anno, sta nella definizione di cosa debba oggi intendersi per “condanna”. Dopo un breve excursus della giurisprudenza della Corte Edu e della Consulta, la sentenza afferma che “va considerata sentenza di condanna non solo quel provvedimento con il quale sia inflitta una sanzione strettamente penale ma, anche quel provvedimento che, al di là del dato meramente formale con il quale è denominato, nella sostanza, contenga una sanzione latamente penale e cioè una sanzione punitiva e deterrente (come ad es. la confisca) ma non quando da esso conseguano effetti meramente riparatori o preventivi, proprio perché tali conseguenze, non rientrando nell’ambito delle sanzioni punitive, si pongono al di fuori del perimetro latamente penale”. Per cui la sentenza di prescrizione, laddove si concluda solo con la conferma delle statuizioni civili che presuppone un accertamento sulla responsabilità penale, “va ritenuta, pur sempre, non solo formalmente ma anche sostanzialmente, una sentenza di proscioglimento perché da essa non consegue alcun effetto di natura sanzionatoria o latamente penalistica”. Infatti, la condanna al risarcimento del danno a favore della costituita parte civile va ritenuta una semplice conseguenza di natura riparatoria che, quindi, nulla ha a che vedere con gli effetti sanzionatori di natura latamente penalistici. Ne consegue che, “neppure l’imputato può essere ritenuto - alla stregua dei criteri sostanzialistici della giurisprudenza Edu e Costituzionale - un “condannato” che, pertanto, abbia la legittimazione a proporre istanza di revisione”. Del resto, conclude la decisione, vi è sempre la possibilità per l’imputato che si consideri vittima di una ingiustizia, sia pure solo sotto il profilo civilistico, di rinunciare alla prescrizione conseguendo un duplice risultato: “nel caso di assoluzione (per insussistenza del fatto e per non averlo commesso), anche le pretese della parte civile sarebbero respinte; in caso di condanna, invece, avrebbe la possibilità, in presenza dei requisiti di legge, di promuovere istanza di revisione e, conseguentemente, travolgere, in caso di accoglimento, anche le statuizioni civili”. Dichiarazioni senza difensore utilizzabili nell’abbreviato di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 29 novembre 2017 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 28 novembre 2017 n. 53662. Le dichiarazioni spontanee anche se rese in assenza del difensore e senza l’avviso di poter esercitare il diritto al silenzio sono utilizzabili nella fase procedimentale, nella misura in cui emerga con chiarezza che l’indagato abbia scelto di renderle liberamente, senza alcuna coercizione o sollecitazione. Il perimetro di utilizzabilità è però circoscritto alla fase procedimentale e dunque all’incidente cautelare, ed agli eventuali riti a prova contratta, esso non hanno invece alcuna efficacia probatoria in dibattimento. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza 53662 del 28 novembre, affermando un principio di diritto. La Corte di appello di Napoli aveva confermato la condanna dell’imputato a tre anni di reclusione emessa all’esito di un giudizio abbreviato per rapina aggravata. Il ricorrente aveva eccepito, tra l’altro, che le dichiarazioni rese dall’indagato non sarebbero utilizzabili visto che era stato “già colpito da indizi di reità” essendo stato riconosciuto dall’offeso nel corso della ricognizione fotografica. La Cassazione però afferma che dalla sentenza impugnata si evince che l’imputato aveva deciso “spontaneamente” di rendere dichiarazioni alla polizia nel corso della fase di ricerca del colpevole, senza dunque subire pressioni o sollecitazioni. Ed il codice “non prevede alcuna limitazione all’esercizio di tale facoltà di interlocuzione spontanea dell’indagato con l’autorità procedente, sia essa la polizia giudiziaria che il pubblico ministero”. Per cui, una volta escluso che le dichiarazioni spontanee rese dall’imputato siano affette da inutilizzabilità patologica, il collegio ha ribadito la loro utilizzabilità nel giudizio abbreviato, posto che l’articolo 350, comma settimo, c.p.p. ne preclude l’utilizzazione nella sola sede dibattimentale. Correttamente dunque, continua la sentenza, la Corte di appello ha affermato la utilizzabilità delle dichiarazioni contestate. La Suprema corte ricorda poi che vi è un diverso indirizzo in base al quale “qualunque “dichiarazione” sia essa spontanea, che sollecitata assunta senza le garanzie previste dall’art. 64 cod. proc. pen.è radicalmente inutilizzabile in quanto la regola prevista dall’art. 63 comma 2 cod. proc. pen. ha una portata generale estensibile anche alle dichiarazioni raccolte d’iniziativa dalla polizia giudiziaria”. Tuttavia la II Sezione penale ritiene che tale orientamento vada disatteso in quanto “la lettera dell’art. 350 comma 7 cod. proc. pen. è esplicita nel prevedere l’inutilizzabilità “relativa”, ovvero solo dibattimentale delle dichiarazioni spontanee, il che impedisce di ritenere che la regola specifica in essa prevista possa essere “vanificata” dalla disciplina generale che sancisce l’inutilizzabilità assoluta delle dichiarazioni rese dall’indagato senza garanzie”. La norma, prosegue, “si configura piuttosto come un espressa eccezione a tale regola, che trova la sua la ratio nella natura eminentemente “difensiva” e “libera” delle dichiarazioni spontanee. La scelta personalissima dell’indagato di offrire la propria versione dei fatti è, infatti, tutelata dal codice di rito sia che l’accusato decida di rivolgersi alla polizia giudiziaria, sia che lo stesso si presenti al pubblico ministero”. Misure di prevenzione senza vincoli di giudicato di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 29 novembre 2017 Le sentenze dei giudici tributari non sono mai vincolanti nel procedimento per l’applicazione di misure di prevenzione reali previste dal Codice delle leggi antimafia (Dlgs 159/2011). La Prima sezione penale della Cassazione (sentenza 53636/17, depositata ieri) torna a ribadire un caposaldo della separazione dei giudizi, in particolar modo l’indipendenza del procedimento penale - e ancor più di quello di prevenzione - dal processo tributario. La libera valutazione delle sentenze irrevocabili delle Ctp/Ctr è ammissibile solo e soltanto, ricorda la Corte, in riferimento ai reati tributari, al di fuori dei quali i provvedimenti “amministrativi” non hanno alcuna incidenza. La Cassazione era stata chiamata a decidere sul ricorso relativo a un ingente sequestro di immobili, quote sociali, autoveicoli, trust e conti correnti collegati a gravi ipotesi di irregolarità nella gestione dei corsi di formazione regionale e a un giro di fatture per operazioni ritenute inesistenti, destinataria una coppia di cinquantenni romani. Respinta l’istanza di posticipare la discussione del ricorso all’esito della sentenza penale di appello per i fatti contestati - inseriti tra l’altro in un’associazione per delinquere -, confermando anche qui l’indipendenza del procedimento di prevenzione, la Prima ha poi passato attentamente in rassegna la disciplina e i precedenti giurisprudenziali sulla (asserita) interdipendenza tra i diversi giudicati. Allineandosi alla decisione dell’Appello. la Corte ha sottolineato che il verdetto delle Ctp/Ctr “non ha forza decisoria in grado di condizionare il giudizio prevenzionale, né di prevalere su quanto emerso nei processi penali” e già sottoposto ad “autonomo apprezzamento nel presente procedimento”. Da qui la conseguente “irrilevanza” del giudicato amministrativo sulla effettività delle operazioni riportate nelle fatture e sulla “corretta copertura con i finanziamenti regionali dei costi effettivamente sostenuti”. Per la Cassazione il giudizio sulle misure antimafia - cioè quelle previste dal Dlgs 159/2011) - “presenta autonomia per struttura, caratteri e finalità rispetto a qualsiasi e precedente giudizio, persino a quello penale di cognizione”, e quindi sfugge persino alla (pur) “libera valutazione” delle sentenze e decreti irrevocabili disciplinati dal codice di procedura penale. Pertanto, chiosa l’estensore, le pronunce del giudice tributario o amministrativo, anche se definitive, nel settore delle misure di prevenzione “restano soggette ad autonomo apprezzamento dei fatti ivi ricostruiti, con la conseguente possibilità di un esito decisorio difforme dalle conclusioni già espresse in altri procedimenti”. Anche perché “il soggetto dedito in modo continuativo a condotte elusive degli obblighi fiscali presenta una forma di pericolosità sociale” del tutto simile alla categoria di coloro - targettizzata dal Codice antimafia - che “vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose”. Ripristinare le pensioni e le indennità di disoccupazione ai detenuti osservatoriorepressione.info, 29 novembre 2017 Lettera aperta al ministro della Giustizia. Associazione Yairaiha e Cobas assieme chiedono il ripristino delle prestazioni disoccupazioni e delle pensioni revocate ai detenuti per effetto della Fornero. “Al Ministro della Giustizia Andrea Orlando e al Presidente dell’Inps Prof. Tito Boeri. Con l’entrata in vigore della L. 92/2012, in base all’art.2 commi 58/63, dallo scorso maggio sono state revocate le prestazioni previdenziali a circa 15.000 detenuti. Molti detenuti si sono rivolti alle scriventi per essere supportati nelle procedure legali al fine di riottenere la prestazione previdenziale revocata. Per alcuni di loro è stata presentata diffida nei confronti dell’Inps per il ripristino delle pensioni e dell’indennità di disoccupazione(Naspi) revocati in precedenza, in quanto detto provvedimento va a ledere i diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione(artt. 25 e 38) svincolati, peraltro, dal titolo del reato. In merito all’indennità di disoccupazione c’è da sottolineare che la Legge, al comma 58 dell’art.2, stabilisce che il giudice debba dimostrare la provenienza fittizia della contribuzione da cui deriva la prestazione ed anche in assenza di pronunciamenti giuridici in merito: in ciò, va evidenziato il carattere arbitrario della revoca in quanto la prevalenza dei detenuti lavora alle dipendenze del Ministero della Giustizia stesso. A seguito della recente sentenza emessa dal giudice del lavoro del Tribunale di Teramo, Daniela Matalucci, con cui si dispone il ripristino della pensione di invalidità a favore del detenuto e che costituisce un precedente importante, vi invitiamo a voler ripristinare i trattamenti previdenziali revocati sino ad oggi e a voler rivedere una norma che nello specifico pone una discriminante ulteriore su persone che stanno già scontando la pena per i reati commessi. La richiesta di un vostro intervento immediato mira a ristabilire innanzi tutto il diritto di coloro che si son visti da un giorno all’altro revocare il beneficio ; inoltre, a fronte della sentenza di Teramo volta a ribadire i principi costituzionali ignorati dalla Legge Fornero, consideriamo opportuno da parte dell’Inps evitare la valanga di ricorsi che incombe, e l’ulteriore danno erariale per il futile esborso di spese legali a carico INPS, ovvero dei suoi contribuenti lavoratori e pensionati. Certi che avvierete una riflessione in tempi brevi, vogliate gradire distinti saluti. per Associazione Yairaiha Onlus (Sandra Berardi) per Cobas Confederazione dei Comitati di Base (Vincenzo Miliucci) Toscana: il Garante “le carceri sono sovraffollate, così peggiora la qualità della vita” provincia.fi.it, 29 novembre 2017 Il Garante regionale dei detenuti Corleone apre l’incontro con il coordinamento nazionale dei garanti a palazzo Bastogi. Venerdì 1 e sabato 2 dicembre convegno “L’Università del carcere”. Il sovraffollamento, il peggioramento della qualità della vita dei detenuti, la mancanza di governo delle carceri, i decreti delegati di riforma dell’ordinamento penitenziario e del regime delle misure di sicurezza. Questi alcuni punti sui quali il garante regionale dei diritti dei detenuti. Franco Corleone si è soffermato, questa mattina, a palazzo Bastogi, in Consiglio regionale, nel corso dell’incontro con il Coordinamento nazionale dei garanti dei diritti dei detenuti. Corleone ha parlato di una “contraddizione profonda tra la fase conclusiva di riforma dell’ordinamento penitenziario, con la definizione dei decreti attuativi nei vari settori, e la realtà quotidiana che si vive nelle carceri”. “Si rileva - ha detto - una voragine tra un lavoro quasi concluso, per l’ampliamento delle misure alternative alla detenzione, e un lento, costante e inesorabile peggioramento delle condizioni, con un continuo e progressivo aumento della popolazione detenuta: al 31 dicembre 2016 in Italia i detenuti erano 54mila 653 ad ottobre 2017 sono 57mila 994”. Corleone delinea una “situazione preoccupante dal punto di vista dei numeri”. “Anche in Toscana - afferma il garante - ci sono oltre 3mila 300 detenuti e questo cambia la qualità della vita nelle carceri, in particolare a Sollicciano, Pisa, Livorno, Prato, dove il sovraffollamento causa condizioni di vita difficili e precarie”. Tra i problemi ribaditi da Corleone l’aumento dei casi di violenza da parte dei detenuti e sui detenuti, la presenza di persone con problemi di salute mentale, che richiedono nuova attenzione, la mancanza di attività didattiche e ludiche, il ritardo “inspiegabile nei lavori per la seconda residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) a Empoli” e “la situazione tragica per il governo delle carceri”. “Mancano - ha detto Corleone - direttori stabili a Sollicciano e a San Gimignano. Per fortuna è arrivato il nuovo direttore dell’amministrazione penitenziaria Fullone e mi auguro che dia impulso non solo ai lavori di ristrutturazione, ma soprattutto per un progetto di qualità della vita delle carceri in Toscana”. A conclusione dei lavori la sollecitazione avanzata da Corleone ai garanti presenti è stata quella di “smetterla di operare solo ognuno per la riduzione del danno sul proprio territorio, ma di chiedere un riconoscimento a livello nazionale come soggetto fondamentale per poter avanzare osservazioni e proposte in sede di riforma nazionale”. All’incontro del coordinamento, molto partecipato sia per numero che per provenienza, con più di 35 garanti da varie parti d’Italia, erano presenti tra gli altri il Garante nazionale Mauro Palma e i garanti regionali di Piemonte Bruno Mellano, Veneto Mirella Gallinaro, Emilia Romagna Marcello Marighelli, Marche Andrea Nobili, Lazio e Umbria Stefano Anastasia, Campania Samuele Ciambriello, Puglia Piero Rossi, il delegato per la Sicilia Piero Valente e poi i garanti di Firenze Eros Cruccolini, Prato Ione Toccafondi e Livorno Alessandro Solimano e il Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Antonio Fullone. Un nuovo appuntamento per la tutela dei diritti dei detenuti, è in programma venerdì 1 dicembre e sabato 2, con il convegno “L’Università del carcere”, all’auditorium di Santa Apollonia (via San Gallo, 25/a), dove si confronteranno istituzioni politiche, rappresentanti del mondo penitenziario e del mondo accademico, organizzazioni di volontariato, provenienti da tutta Italia. Napoli: Tribunale di Sorveglianza nel caos, penalisti in sciopero cinque giorni di Viviana Lanza Il Mattino, 29 novembre 2017 I penalisti annunciano l’astensione dalle udienze per cinque giorni. Alla protesta aderiranno le Camere penali di Napoli, Torre Annunziata, Nola, Napoli nord, Santa Maria Capua Vetere, Benevento e Avellino. Gli avvocati si asterranno dalle udienze dall’11 al 15 dicembre e si sta valutando l’iniziativa, promossa dai penalisti napoletani, di una marcia silenziosa dal Tribunale di Sorveglianza al carcere di Poggioreale. La situazione torna, dunque, a essere esplosiva negli ambienti giudiziari. La miccia è la questione relativa al Tribunale di Sorveglianza: troppi disagi, troppi rinvii, troppe criticità. A partire dai fascicoli che si fatica a completare ai ritardi con cui le informazioni arrivano alle cancellerie. I penalisti denunciano “condizioni mortificanti”, disfunzioni “che pregiudicano significativamente il diritto di difesa dei detenuti”. Avevano chiesto al ministero della Giustizia un’ispezione straordinaria, ma “non abbiamo avuto alcun riscontro” segnalano in un documento firmato dai presidenti di tutte le camere penali campane. “Con un avviso affisso fuori all’aula di udienza è stato comunicato l’annullamento di ben 11 udienze collegiali; le informazioni presso lo sportello relazioni con il pubblico sono fornite da un unico impiegato di cancelleria costringendo gli avvocati a estenuanti attese in condizioni disagevoli; le istanze di misure alternative vengono decise con ritardi inaccettabili a causa dei rinvii disposti per in- completezza del fascicolo e le istanze di liberazione anticipata vengono disposte dopo il fine pena maturato”. A tutto ciò si aggiunge l’emergenza carceri tornata a essere allarmante secondo il rapporto stilato dal Comitato prevenzione tortura del Consiglio d’Europa (47 suicidi nel solo anno in corso) e secondo i dati forniti dal Dap (7450 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare, di cui 1142 in Campania, e 20.514 detenuti in attesa di giudizio su una popolazione carceraria di 57.994 anime). Per questo gli avvocati sollecitano attenzione su Tribunale del Sorveglianza e ricorso alle misure cautelari della custodia in carcere. L’impegno del governo per la cosiddetta riforma Orlando non sembra rincuorare i penalisti. L’argomento, in occasione di un recente convegno a Napoli per la presentazione della guida ai diritti dei detenuti, era stato oggetto di un duro botta e risposta tra il sottosegretario Gennaro Migliore e il presidente della Camera penale Attilio Belloni. Oggi i penalisti tornano a riproporre le preoccupazioni. La premessa è che “l’adozione in tempi utili dei decreti attuativi della riforma Orlando sull’ordinamento penitenziario, considerato il complesso iter che presuppone e l’approssimarsi del legislatura, è quanto mai incerta”. Il timore dei penalisti è che “in mancanza dell’auspicata riforma dell’ordinamento penitenziario, soprattutto in tema di misure alternative si arriverebbe nel 2020 alla soglia record di 67mila detenuti”. Il documento è firmato dal presidente Belloni per la Camera penale di Napoli e dai presidenti Nicolas Balzano (Torre Annunziata), Paolo Trofino (Napoli nord), Romolo Vignola (Santa Maria Capua Vetere), Vittorio Corcione (Nola), Monica Del Grosso (Benevento), Giuseppe Saccone (Avellino). Paola (Cs): Radicali e Unical in visita nel carcere “Comune istituisca Garante dei detenuti” quicosenza.it, 29 novembre 2017 Gli unici problemi rilevati sono la carenza del personale della professionalità giuridico pedagogica ed il mancato riscaldamento degli spazi detentivi a causa di un guasto alle caldaie. Nella giornata odierna, una Delegazione di Radicali Italiani con quindici Studenti del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università della Calabria accompagnati dal Prof. Mario Caterini e dal Prof. Sabato Romano, entrambi Docenti di Diritto Penale, hanno fatto ingresso nella Casa Circondariale di Paola, ove sono stati ricevuti dal Direttore dell’Istituto Dott.ssa Caterina Arrotta, dal Comandante di Reparto della Polizia Penitenziaria, Commissario Capo Dott.ssa Maria Molinaro e dall’Ispettore Capo Ercole Vanzillotta, Coordinatore della Sorveglianza Generale dell’Istituto. Per i Radicali Italiani era presente Emilio Enzo Quintieri, membro del Comitato Nazionale e Valentina Anna Moretti, che unitamente al personale dell’Amministrazione Penitenziaria ha accompagnato la Delegazione visitante in tutto lo stabilimento detentivo. Nel Carcere di Paola, al momento della visita, a fronte di una capienza di 182 posti, erano ristrette 173 persone, 79 delle quali straniere, con le seguenti posizioni giuridiche: 10 giudicabili, 13 appellanti, 21 ricorrenti e 129 definitivi tra cui 5 ergastolani. Tra i detenuti 82 sono quelli che lavorano alle dirette dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria per lavori intramurari, 1 lavorante secondo quanto previsto dall’Art. 21 dell’Ordinamento Penitenziario, 18 sono i tossicodipendenti seguiti dal Servizio per le Tossicodipendenze dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Cosenza, 1 sieropositivo, 40 con problematiche psichiatriche, 1 disabile motorio e 6 affetti da epatite C. Non vi sono, invece, detenuti affetti da altre malattie infettive come la scabbia o la tubercolosi. Quanto agli “eventi critici” nel corso del 2017 si sono verificati 13 atti di autolesionismo e 2 tentati suicidi, fortunatamente sventati grazie al tempestivo intervento del personale di Polizia Penitenziaria. La Delegazione, autorizzata dal Vice Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Dott. Marco Del Gaudio, ha visitato tutti gli ambienti dell’Istituto, dagli Uffici alle Sezioni detentive, non riscontrando alcuna grave criticità, esprimendo un giudizio positivo sia per quanto concerne il trattamento riservato ai detenuti che per quanto attiene la gestione della struttura da parte della Direzione. Gli unici problemi rilevati e che sono stati oggetto di lamentele da parte della popolazione detenuta sono la carenza del personale della professionalità giuridico pedagogica (al momento prestano servizio soltanto 2 Educatori, di cui 1 anche a tempo parziale, a fronte di una pianta organica di 6 unità) ed il mancato riscaldamento degli spazi detentivi a causa di un guasto alle caldaie, per quest’ultimo comunque l’Amministrazione si è attivata e sono in corso i lavori per la sistemazione. “Debbo denunciare per l’ennesima volta - afferma il capo della delegazione Quintieri - che, nonostante le ripetute rassicurazioni fornitemi dai vertici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, non è stato ancora avviato il modello operativo della sorveglianza dinamica, nemmeno nella Prima Sezione detentiva, individuata dai Tecnici del Provveditorato Regionale per la Calabria per divenire a “custodia aperta”. Mi si continua a ripetere che debbono essere realizzati dei lavori di adeguamento e che per l’esecuzione degli stessi non sono state elargite le necessarie risorse economiche da parte degli Uffici Superiori. È più di un anno che sto insistendo per far rivedere l’organizzazione custodiale dell’Istituto di Paola e di tanti altri calabresi. Mentre in tutta Italia, già da tempo, anche i detenuti del Circuito dell’Alta Sicurezza sono a “custodia aperta” qui in Calabria si continua a praticare la tradizionale “custodia chiusa”, anche per i detenuti comuni ed a basso indice di pericolosità. Proprio all’esito dell’ultima visita fatta la vigilia di Ferragosto ho inteso sollecitare l’Amministrazione Penitenziaria chiedendo di conoscere entro quali tempi la “custodia aperta” possa trovare concreta attuazione nella Sezione individuata nel Carcere di Paola e, se eventualmente, nel prossimo futuro, tale iniziativa possa essere estesa anche ad altre Sezioni dell’Istituto. Colgo l’occasione, conclude l’esponente nazionale dei Radicali Italiani, per chiedere al Sindaco, alla Giunta ed al Consiglio Comunale di Paola, di istituire con urgenza il Garante dei Diritti dei Detenuti della Città di Paola così come hanno fatto tantissimi altri Comuni d’Italia sedi di Istituti Penitenziari.” Ragusa: “Donne a Sud”, chiude tra i detenuti la settimana del 25 novembre ragusah24.it, 29 novembre 2017 Si è conclusa la settimana di iniziative organizzate per celebrare il 25 novembre, Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne. Dopo la presentazione del libro “Viaggio nel paese degli stereotipi - Lettera a una venusiana sul sessismo” della prof.ssa Graziella Priulla, la partecipazione al momento di sensibilizzazione rivolto agli studenti del Liceo Scientifico, venerdì mattina al fianco della Polizia di Stato, e la camminata solidale che tanto successo ha riscosso domenica mattina in termini di partecipazione, ieri mattina la dr.ssa Deborah Giombarresi, psicologa del centro antiviolenza dell’associazione Donne a Sud, e la rappresentante legale avv. Rossana Caudullo hanno presentato, ai detenuti del carcere di Ragusa, il progetto “Educare alla parità”. È il terzo anno consecutivo che Donne a Sud torna in carcere, nell’ottica della prevenzione e della riabilitazione di chi ha sbagliato e che spesso non si rende conto né del come né del perché. “Il concetto di parità non è ben calibrato in questi uomini - spiega la dr.ssa Giombarresi, curatrice del progetto - perché sono cresciuti in un ambiente che li ha portati a credere nel fatto che la donna certe cose non le possa né le debba fare. Quindi va spiegato loro cosa vuol dire essere uomo ed essere donna, agire sul loro substrato culturale e, attraverso un lavoro di valutazione conclusivo, cercare di capire se è passato il messaggio dell’importanza di aprirsi al mondo guardandolo da una nuova prospettiva, dopo aver rimodulato le competenze e i sistemi percettivi della realtà”. “Educare alla parità” è ufficialmente partito ieri e, attraverso appuntamenti settimanali, si protrarrà fino in primavera. Dopo i progetti “Emozioni” e “Chi ero, chi sono, chi sarò’ si continua così a lavorare per far si che la percezione del femminile, spesso asimmetrica, torni corretta. All’iniziativa, che è servita anche per illustrare l’attività dell’associazione e del centro antiviolenza, hanno preso parte la dr.ssa Rosetta Noto, responsabile dell’area trattamentale del programma di recupero dei detenuti del Carcere, e l’attrice Tiziana Bellassai che ha letto due monologhi davvero toccanti tratti dal libro “Ferite a morte” di Serena Dandini. Due storie di donne maltrattate e uccise che hanno commosso anche i circa 40 detenuti presenti. “A conclusione di questa intensa settimana - dice la presidente Sabrina Mercante - un ringraziamento va alla prof.ssa Priulla, che è ormai un’amica di Donne a Sud, all’associazione Grotte Alte e alla comunità Il Buon Samaritano di Don Beniamino Sacco, ma soprattutto all’associazione Gambe in Spalla che ha creduto moltissimo nell’idea della camminata solidale ed è stata la prima, con i suoi istruttori, a sostenere la nostra iniziativa. Grazie a Gianni Molè e Federica Busacca, che hanno camminato al nostro fianco, e a tutti i partner privati senza i quali le nostre idee non potrebbero concretizzarsi. Già da oggi abbiamo ricominciato a lavorare nel silenzio, con impegno e dedizione, forti delle 35 donne salvate solo nell’ultimo anno, e sono dati ufficiali consegnati alla Prefettura, da situazioni di pericolo”. Firenze: carcere di Sollicciano, detenuti a scuola di presepi di Roberto Davide Papini La Nazione, 29 novembre 2017 Successo dell’iniziativa con i corsi dell’Aiap. e tra i partecipanti ci sono anche musulmani. Ci sono anche alcuni musulmani tra i detenuti che partecipano al corso di “presepismo” organizzato nel carcere di Sollicciano. Un’iniziativa che vuole essere un messaggio di pace da un luogo di sofferenza. Grazie al contributo di alcuni soci dell’Associazione italiana amici del presepi il corso fornisce ai detenuti gli strumenti tecnici per realizzare piccoli presepi da regalare alle famiglie durante le feste di Natale. C’è, però, un obiettivo più ambizioso, come spiega don Vincenzo Russo, cappellano del carcere: “È in programma la costituzione di un laboratorio permanente in cui i detenuti potranno costruire i loro presepi tutto l’anno, per raggiungere, in occasione delle festività dell’anno prossimo, l’obiettivo della costruzione di un grande presepio visitabile dai cittadini ma anche la partecipazione a concorsi ed esposizioni”. Il corso è partito da poche settimane e l’entusiasmo dei partecipanti si è mostrato in maniera crescente sin dalle prime fasi delle lavorazioni ed il grande impegno di ognuno ha portato a risultati che possono definirsi già di tutto rispetto. Le prime ambientazioni hanno iniziato a prendere forma e ben presto si trasformeranno in presepi che i detenuti consegneranno ai loro familiari: “Un modo per portare al di fuori del carcere, con il presepe, una parte di sé che potrà, nei giorni del Natale, essere presente nelle proprie famiglie, con i propri cari” dice don Russo che tiene a ringraziare la direzione e l’area educativa di Sollicciano. Significativo, come detto, il fatto che al corso per realizzare uno dei simboli della cristianità partecipino anche dei musulmani: “Questo rappresenta un messaggio di pace che va oltre ogni confine e al di là delle ideologie religiose”, conclude don Russo. Parma: diritto allo studio per i detenuti, convenzione fra Università e Istituti penitenziari unipr.it, 29 novembre 2017 Università di Parma e Istituti penitenziari di Parma insieme per garantire il diritto allo studio dei detenuti. È lo spirito di fondo della convenzione presentata questa mattina nella sede dell’Ateneo dal Rettore Paolo Andrei, dal Direttore degli Istituti penitenziari di Parma Carlo Berdini, da Vincenza Pellegrino, Delegata del Rettore ai rapporti fra Università e carcere, e da Annalisa Andreetti, Referente studenti detenuti per l’Unità organizzativa Contributi, Diritto allo Studio e Benessere Studentesco dell’Ateneo. Una convenzione nata nell’ottica di una collaborazione virtuosa e di una piena integrazione fra realtà del territorio, nella consapevolezza dell’importanza della realizzazione di un sistema integrato di opportunità formative destinate a persone detenute negli Istituti Penitenziari di Parma o in esecuzione penale esterna. Oggetto primo dell’accordo, di durata triennale, è proprio la tutela del diritto allo studio e del supporto allo studio degli studenti detenuti. Per questo l’intesa contempla per il futuro attività relative all’illustrazione dei programmi e dei materiali di studio, all’accompagnamento allo studio, all’espletamento delle prove di valutazione in condizioni e modalità consone ai diversi casi, così come alla promozione della formazione universitaria, all’orientamento della popolazione detenuta circa la possibilità di svolgere studi universitari in conformità alla normativa vigente (lauree triennali, lauree magistrali, formazione post-lauream) o in forme differenti (percorsi tematici ad hoc con riconoscimento della presenza, laboratori, etc.) certificabili congiuntamente dalle due realtà firmatarie. L’Università si mette a disposizione per funzioni di docenza, consulenza e supervisione delle attività di studio e di orientamento condotte negli Istituti Penitenziari, e si impegna a fornire nei prossimi anni supporti culturali e didattici per lo studio dei detenuti (con particolare riferimento alle disponibilità delle biblioteche universitarie e del materiale didattico), a implementare l’accesso dall’esterno alle lezioni e ai materiali di studio con l’utilizzo di piattaforme informatiche, registrazioni, ad esplorare attivamente la possibilità di canali streaming, a fornire supporto allo studio dei detenuti con forme specifiche di tutoraggio, attraverso la selezione di figure in grado di svolgere in modo adeguato l’approfondimento dei programmi. Da parte loro gli Istituti Penitenziari cercheranno nei prossimi anni di fornire supporto organizzativo sulla base delle proprie funzioni: dall’allestimento di spazi per lo svolgimento di lezioni/seminari/laboratori universitari all’entrata dei tutor e dei docenti finalizzata allo studio e al sostenimento delle prove di valutazione, dalla concessione ai detenuti dello studio negli spazi appositi delle biblioteche per un numero di ore adeguato e più ampio di quelle previste, sino al passeggio all’utilizzo delle piattaforme e-learning nelle forme consentite dalle istanze di sicurezza Tra le attività previste, concordate all’inizio di ogni anno accademico: lezioni ordinarie per i singoli corsi di studio a cui siano iscritti studenti detenuti; lezioni laboratoriali offerte da docenti dell’Università; occasioni seminariali di riflessione, dibattito, incontro che coinvolgano altri soggetti cittadini finalizzati a sensibilizzare la città; giornate dell’orientamento, cioè presentazione dei corsi universitari all’interno del carcere. In prospettiva, la convenzione potrebbe costituire un primo passaggio propedeutico all’eventuale istituzione di un Polo Universitario Penitenziario che sia in grado di rappresentare compiutamente, a livello territoriale, la realtà di studio universitario in carcere, analogamente ad altre esperienze simili già presenti sul territorio nazionale. Catanzaro: in carcere per dire “no” alla violenza sulle donne, iniziativa dell’Uici giornaledicalabria.it, 29 novembre 2017 Libere dalla paura, libere di essere con i colori dell’amore e le voci dell’anima. È stato questo il titolo dello spettacolo portato in scena dal comitato pari opportunità dell’Uici di Catanzaro nella Casa Circondariale Ugo Caridi in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Questo spettacolo, nato dall’idea della presidente Luciana Loprete per la regia di Mario Sei, ha evidenziato i drammatici dati della violenza subita dalle donne con disabilità. All’iniziativa, presentata dalla giornalista Donatella Soluri, hanno partecipato la direttrice dell’istituto, Angela Paravati, e in rappresentanza del Comune di Catanzaro, l’assessore Nuccia Carrozza. Sul palco, l’Uici ha portato in scena monologhi e storie, brani del coro e poesie per sensibilizzare al rispetto delle donne. Rispetto per il quale è necessario impegnarsi ogni giorno e non solo il 25 novembre. “Portare in un contesto così particolare come quello delle carceri, uno spettacolo che al suo interno manifesta quelle che sono le molteplici violenze nei confronti delle donne, che non sono solamente fisiche ma spesso anche sociali e psicologiche è stato per noi un momento di forti emozioni. Basta poco per far sì che il fenomeno della violenza non resti il solito seminario organizzato ad hoc. Il contesto dell’istituto penitenziario ha sottolineato come seppur quasi costretti, i detenuti presenti all’evento hanno seguito con interesse quanto rappresentato ed hanno inoltre partecipato dal loro posto intervenendo con grida di approvazione ed applausi. Sono contenta ed emozionata - ha sottolineato il Presidente Luciana Loprete - che la direzione dell’Istituto abbia accolto la nostra richiesta di esibirci con un tema così delicato. Il tema della violenza - ha aggiunto - è oggigiorno tanto diffuso quanto purtroppo sottovalutato. Ritengo sia doveroso e necessario fare una corretta informazione su ogni argomento, perché purtroppo l’eccessivo discutere di tali problematiche può spingere ad emulare atti che risultano essere poi gravi. Bisogna infatti intervenire in età precoce e scolare attraverso azioni continue e mirate”. Torino: la palla ovale che redime i detenuti di Massimo Calandri La Repubblica, 29 novembre 2017 “Libertà!”. L’urlo della squadra sale altissimo. Vola. Oltre il muro di cinta e il filo spinato, più forte delle sbarre e del rumore dei catenacci. Nel rugby è sempre così, prima del calcio d’inizio. La haka degli All Blacks neozelandesi, le cornamuse della Scozia, i francesi che intonano Allons Enfants. Ma cosa può celebrare un gruppo di detenuti rinchiuso in carcere? La libertà, appunto. Nel senso più profondo di voglia di riscatto. Solidarietà. Comprensione, amicizia. È con questo grido assordante che l’altro pomeriggio i giocatori della Drola, squadra composta dagli ospiti dell’istituto di pena “Lo Russo e Cotugno” di Torino, hanno accolto i loro avversari: i Cavalieri di San Giorgio, veterani genovesi della palla ovale venuti per conoscerli nel senso sportivo del termine, cioè per dare loro battaglia sul campo fino alla fine, secondo le regole. Così, prima è venuto il saluto dei Cavalieri. Poi il capitano ha radunato i suoi e li ha guardati negli occhi uno alla volta, invitandoli a liberare quell’urlo infinito. Ne è uscito un incontro senza sconti: tra mischie, placcaggi, percussioni, corse con un pallone pieno di vento e di emozioni. Finalmente il terzo tempo delle chiacchiere e degli abbracci, pasta al pomodoro e acqua senza bollicine nella sezione “custodia attenuata”. Una storia da raccontare. Libertà. Drola è una parola piemontese che sta per “cosa strana, bizzarra, imprevedibile”: è con questo spirito che Walter Rista, un passato azzurro con Marco Bollesan e tanti altri campioni del capoluogo ligure, nel 2011 ha cominciato la sua avventura con la squadra di rugby dell’istituto di pena che un tempo chiamavano Le Vallette. Una disciplina diversa da tutte le altre: uno sport di combattimento, duro, dove la chiave non è mai il singolo ma la squadra, e il rispetto delle norme. “Perfetto per questi ragazzi”, dice. Quali ragazzi? Quelli che fanno domanda per entrare a far parte della squadra - ma sono ammessi solo i condannati per reati contro il patrimonio: niente sex offender o assassini, tanto per chiarire - e superano i test psico-fisici. In 7 anni si sono alternati 150 giocatori, praticamente tutti con il passare del tempo scontano la condanna e lasciano la prigione: tra di loro non c’è un solo caso di recidiva. “Mai più tornati dietro le sbarre, anzi: una ventina continua in altre squadre, due fanno gli allenatori, un terzo come volontario al Cottolengo”. Sì, il rugby è una medicina che funziona. L’esempio della Drola è stato seguito da diversi altri istituti: oggi anche la Dozza di Bologna è in serie C, e si gioca con la palla ovale - grazie ad un protocollo tra la Fir, il Coni e il Dipartimento di amministrazione penitenziaria - in una ventina di strutture carcerarie italiane. Presto anche a Marassi, dicono. I Cavalieri di San Giorgio sono diventati una istituzione del rugby italiano, una delle squadre “old” - giocatori con almeno 35 anni e che hanno smesso con l’attività agonistica - più antiche d’Italia, fondata a Genova da due ‘monumenti’ come il solito Bollesan e Vincenzo Ieracitano. Una società ovale e trasversale dove c’è un po’ di tutto - meccanici e avvocati, cuochi e commercialisti, impiegati, baristi, editori, operai, contadini, medici, giornalisti: tra loro pure Enrico Mantovani, l’ex presidente della Sampdoria - a patto di azzuffarsi un paio di volte alla settimana secondo le regole. La trasferta al “Lo Russo e Cotugno” è nata come tutte le belle cose, per puro caso: i Cavalieri hanno affrontato un’altra squadra di “maturi” rugbisti dove gioca l’attuale allenatore della Drola, Mattia Basile, e l’appuntamento è stato fissato al termine dell’ennesimo brindisi nel terzo tempo. Ora, prendete 20 signori sui cinquant’anni guidati da Mauro Pizzagalli, baffoni bianchi, una leggenda vivente dello sport genovese: svegliateli all’alba di sabato con le mogli che mugugnano perché non li rivedranno fino a sera, poi tutti a Torino con un carico di abbigliamento - maglie, pantaloncini, calzettoni, scarpe e pure un bel po’ di libri - da regalare ai prossimi avversari ed amici. Le procedure macchinose ma inevitabili all’ingresso - consegna di cellulari e documenti, controlli minuziosi, e finalmente oltre il cancello. Scortati dagli agenti della penitenziaria. Mura di cemento armato che salgono fino al cielo, un percorso che pare interminabile lungo una strada asfaltata orribilmente vuota e silenziosa, gli edifici grigi e tutte quelle sbarre alle finestre. Laggiù in fondo, eccolo: il campo da gioco sembra quasi un miraggio a colori in un mondo muto in bianco e nero. Le squadre per la prima volta si vedono lì, sorrisi e imbarazzo da entrambe le parti: i ragazzi della Drola e i Cavalieri, che per età ed empatia potrebbero esserne i padri. Qualcuno si occupa di piantare sul terreno i pali delle porte, altrimenti sono lucchettati perché qualcuno potrebbe utilizzarli per scavalcare il muro di cinta. I saluti iniziali, quell’urlo da brividi. Libertà. E la partita, che è davvero libera: nel senso di aperta, avventurosa, aggressiva, felice. Si gioca con le regole dei “veterani”, i più giovani per oltre un’ora mantengono una correttezza esemplare. Contagiosa. Scontri e contatti da una parte all’altra, chi resta a terra viene aiutato a rialzarsi dall’altro. Tante mete, ma quel che conta alla fine è il fischio finale. Gli abbracci. Le strette di mano. Le lacrime di qualcuno. “Grazie”, dicono quelli che giocano in casa. “Grazie”, rispondono gli altri. Il tradizionale terzo tempo mangiando un piatto di pasta, guardando in tivù la partita dell’Italia col Sudafrica, cercando di parlare di tutto per non parlare di niente. I saluti, gli arrivederci, di nuovo rumore di catenacci, di cancelli che scorrono, serrature. “Non pretendo disciplina. E non sono duro o punitivo, perché conoscono già bene l’autorità e la violenza: scontano la loro pena. Non insegno, no. Vorrei solo che capissero, che fossero più consapevoli degli obiettivi: lo sport, la vita. Senza fretta, un passo dopo l’altro”. Mattia Basile ha scelto di passare la sua vita con questi ragazzi, che si allenano sul campo della prigione 3 volte la settimana e altre 2 sono in palestra. “Non mi interessa vincere o perdere. Prima di ogni partita dico sempre loro: potete farvi gli affari vostri, oppure giocare con gli altri. Condividere, rispettare”. Ci stanno riuscendo. Forse un altro mondo è possibile. Alessandria: “Cose recluse”, gli oggetti che aiutano ad adattarsi alla vita in carcere Vita, 29 novembre 2017 Realizzato all’interno del carcere “San Michele” di Alessandria un libro reportage racconta storie di detenuti attraverso le immagini degli oggetti e le parole di chi li ha costruiti. L’1 dicembre a Genova l’inaugurazione della mostra. “Cose recluse” è il titolo di un libro-reportage e di una mostra fotografica che raccontano la vita all’interno del carcere di San Michele di Alessandria. Il fotografo Daniele Robotti e la scrittrice Mariangela Cicero sono gli autori di un “viaggio” dove le immagini degli oggetti dei detenuti, delle celle, degli spazi comuni danno vita a spaccati di vita detentiva. “Con macchina fotografica, bloc notes e penna, - dicono gli autori, - siamo entrati nelle celle di chi ha aderito volontariamente al progetto e settimana dopo settimana abbiamo colto, attraverso le parole e le immagini, emozioni, disagi, ma anche speranze a capacità di adattarsi a situazioni in cui non è sempre facile trovare la propria dimensione”. Il progetto prende in considerazione cinque aspetti: l’ingresso in carcere, la detenzione, la riabilitazione, il lavoro, la spiritualità e la gestione del tempo. “L’intenzione, - aggiungono Robotti e Cicero, - è di mostrare come la reclusione attivi nei detenuti fantasia e creatività. Ogni oggetto fotografato e ogni intervista raccolta hanno fornito spunti originali e interessanti per raccontare, attraverso gli oggetti costruiti da chi ce li ha mostrati, spaccati di vita detentiva, dove ogni cosa cambia e va riadattata a norme, regole, necessità e bisogni”. Il prossimo 1 dicembre la mostra dedicata al progetto verrà inaugurata a Genova, con il supporto del Csv Celivo, all’interno dello spazio di Vico Angeli 21 dove si possono trovare oggetti e accessori di design realizzati con materiale di scarto nei laboratori “Creazioni al Fresco”. “La contiguità politico-mafiosa. Profili politico-criminali, dommatici ed applicativi” recensione di Vincenzo Maiello Il Mattino, 29 novembre 2017 Il tema della contiguità politico-mafiosa presenta aspetti e significati penalistici di notevole rilevanza. Gli accordi tra esponenti del mondo politico/istituzionale e membri (o rappresentanti) di consorterie mafiose possono, infatti, integrare reati gravi, molti dei quali soggetti alle regole di un regime di garanzie affievolite. Era, dunque, scontato che - nella lunga stagione di contrasto giudiziario alle collusioni con l’universo mafioso - i giuristi vi dedicassero studi e riflessioni, declinati in forme e contesti di ricerca multipli, quali saggi, articoli e commenti giurisprudenziali. A questo variegato campionario di pubblicazioni mancava, tuttavia, il registro della trattazione monografica, che affrontasse ad ampio raggio ed in profondità l’argomento, e la sua complessa dimensione di problemi teorico-pratici, senza soffrire dei limiti discorsivi imposti da analisi circoscritte. La lacuna è stata colmata, di recente, da Giuseppe Amarelli, docente di diritto penale nell’ateneo federiciano e già autore, nonostante la sua giovane età, di numerosi e considerevoli contributi dottrinali. Nel suo bel volume “La contiguità politico-mafiosa. Profili politico-criminali, dommatici ed applicativi” - ove approdano i risultati di un percorso di ricerca complesso, la cui progressione è documentata da una cospicua serie di lavori intermedi - si offre una rappresentazione completa degli aspetti di interesse di tutti le possibili forme in cui si manifesta la rilevanza penalistica della contiguità politico-mafiosa. Come si conviene ad ogni seria indagine sulla dimensione giuridica di fatti espressivi di fenomeni sociali complessi, il lavoro di Giuseppe Amarelli muove da una efficace ricostruzione dei concetti e delle problematiche che fanno da sfondo alla ricerca e ne condizionano la stessa ragion d’essere, oltre che, naturalmente, la struttura del discorso e gli esiti raggiunti. In questo milieu, si inserisce la felice scelta di descrivere l’origine e l’evoluzione della contiguità politico-mafiosa. Di essa Amarelli denuncia il ritardo che ne ha segnato l’emersione nell’ambito della coscienza sociale e del discorso pubblico, ritardo che viene collegato a fattori remoti e prossimi. Gli uni costituiti dalla “lenta presa di consapevolezza” della natura criminale della mafia; gli altri dal prevalere dei paradigmi elaborati dalle scienze sociali nell’ultimo cinquantennio. Questi ultimi - pur superando le letture minimizzanti del fenomeno mafioso, di cui hanno riconosciuto i caratteri di una vera e propria realtà criminale - hanno promosso una concezione della mafia, sottolineandone esclusivamente i caratteri ordinamentali e burocratici, in virtù dei quali essa veniva in rilievo nella sua dimensione di struttura organizzata, retta da regole di ingresso e di comportamento ed orientata all’accumulazione illecita del capitale ed all’esercizio di poteri di controllo sociale. Si tratta del modello che si è imposto nella sfera del discorso democratico e nelle linee strategiche della legislazione emanata fino ai primi anni novanta del secolo scorso, ispirando la stessa originaria formulazione dell’art. 416-bis. Quel paradigma ha utilizzato l’immagine dell’”anti Stato” che ha individuato nella criminalità di tipo mafioso “un soggetto alternativo ed antagonista rispetto alle istituzioni pubbliche, dotato di proprie istituzioni, regole, sanzioni, sistema di giustizia, strumenti di sostegno sociale”. In questa prospettiva, Amarelli osserva che il piano delle relazioni con la politica ha giocato un ruolo accessorio; lungi dal caratterizzare aspetti identitari della mafia, “è stato attratto in posizione subalterna nell’orbita delle altre dimensioni considerate prevalenti della mafia e cioè: il gruppo di potere, l’apparato burocratico, la comunità o l’impresa”. Senonché l’esperienza ha dimostrato che l’interlocuzione con la politica e con altri settori della società civile assurge ad aspetto connotativo delle strutture mafiose “costituendo una tessera indispensabile per la sua decifrazione e per lo sviluppo di appropriate risposte politico-criminali nei suoi confronti”. La conseguenza sta, allora, nel fatto che la mafia non può ridursi a mera istituzione, ordinamento, comunità organizzata ma va identificata “come un sistema di relazioni, del quale fanno parte l’entità Stato e l’entità organizzazione mafiosa”. Più appropriata - rileva Amarelli - appare l’immagine, coniata da Giovanni Fiandaca, della mafia come un “un intra-stato” che, sottolineava Giovanni Falcone “vuole approfittare delle storture dello sviluppo economico, agendo nell’illegalità”. Beninteso, non si tratta di sostituire alla realtà di organizzazioni radicate e fortemente strutturate la dimensione liquida dell’universo funzionale delle relazioni di potere, bensì di inserire queste ultime nel circuito semantico che dia una cornice di senso al fenomeno mafioso, più adeguato a coglierne l’essenza. Solo su queste basi può trovare giustificazione politico-criminale la rilevanza penale della contiguità politico-mafiosa, espressione dell’idea - coltivata con passione civile e lucidità intellettuale dal grande e compianto Alessandro Baratta - per la quale solo liberando lo Stato-apparato dalle sue relazioni funzionali con la mafia sarebbe possibile “impostare la lotta come antitesi tra Stato e mafia”. Dopo questo denso incipit, Amarelli “mette le mani nella pasta” di una materia prismatica, a tratti porosa e sfuggente. La contiguità politico-mafiosa viene affrontata mettendo ordine nel groviglio delle fattispecie criminose configurabili, di ciascuna delle quali si analizzano le mappe dei problemi a cui ognuna di esse ha dato luogo, sia in chiave di legittimazione teorica, sia sul versante pratico-applicativo. In particolare, l’indagine si occupa di una duplice tipologia di accordi politico-mafiosi, rispettivamente quella che ha originato il processo alla “trattativa” Stato-mafia e la più comune riferibile allo scambio elettorale. Della prima, Amarelli ripercorre le scansioni processuali della formulazione dell’accusa e del decreto di rinvio a giudizio ed analizza, condividendole, le argomentate critiche avanzate da un’autorevole dottrina circa la fondatezza giuridico-penale della figura di reato ipotizzata. Della seconda, opera una bipartizione, distinguendo la punibilità della contiguità politico-elettorale che fa capo a specifiche previsioni legali di reato da quella di matrice giurisprudenziale, estratta dalle potenzialità ermeneutiche delle figure criminose della partecipazione associativa e del concorso esterno. A proposito del quale, Amarelli ritiene che sia definitivamente tramontata la stagione della sua applicabilità alla materia esaminata. Secondo la sua acuta e condivisibile impostazione - che qui non sarebbe possibile sviscerare per la complessità dell’argomentazione - con la modifica dell’art. 416-ter del codice penale, lo scambio elettorale politico-mafioso avrebbe cessato di vivere quale sotto-fattispecie del concorso esterno, rientrando esclusivamente nella citata disposizione. Si tratta di una proposta che, ove accolta dalla giurisprudenza, prefigura inediti scenari, destinati a sdrammatizzare, in parte depotenziandolo, il conflitto tra politica e magistratura, che proprio in rapporto al tema qui considerato continua a riproporsi in termini ciclici e virulenti. Non poco e non male, se si tiene conto che, secondo taluni, i giuristi teorici “guardano le stelle” e indicano col dito “la luna nel cielo”. La violenza segreta delle parole di Biagio de Giovanni Il Mattino, 29 novembre 2017 Che cosa significa oggi, per un movimento politico, essere eversivo? Per definirlo tale non aspettiamoci la ripetizione della marcia su Roma del 1922 o gruppi di energumeni con i manganelli nelle strade. Non siamo più negli anni venti-trenta del Novecento di ferro e di fuoco, siamo nella società contemporanea e non ho bisogno di delinearne sommariamente i tratti per far comprendere la lontananza da quel passato. Eversione non ha più a che fare con la violenza diretta, oggi essenzialmente individuale e assente perfino nel conflitto sociale che non esiste più come tale. Ma siccome in quella parola -eversione- qualcosa di violento c’è sempre, lo dice il vocabolario che la definisce come “distruzione, abolizione”, il compito dell’analista può stare nel misurare il significato di questa parola non sull’assolutizzazione di un modello del passato, ma piuttosto sul vorticoso mutamento dei significati in società dove tutto cambia in modo accelerato. Non è un esercizio semplice, ma bisogna provarci. Eversivo, in una situazione democratica, è chi immagina se stesso, il movimento di cui è parte, come protagonista di una palingenesi. Il protagonista dice: opero in una situazione lontana da questo incomposto magma corruttivo che mi sta dinanzi, sono e resto solo, guardo tutti da una postazione dalla quale tutti gli “altri” sono coinvolti o nel malaffare o nel traffico di influenze o nel voto di scambio o addirittura nella mafiosità del potere. Tutto questo va superato, distrutto, e per poterlo fare io devo essere solo, non posso riconoscere nulla di diverso dame, al diverso dame è appiccicato il male di quelle cose. Questa visione del mondo non può non pesare nel linguaggio e nella drammatica semplificazione delle parole attraverso le quali esso si forma. Ogni visione palingenetica, di liberazione di una società dal male, parla per affermazioni secche e nude, non con la ragionevolezza anche aspra di una argomentazione, non c’è spazio per questo, ma per suoni, grida - talvolta solo nascosti da chi ha un po’ più di buona educazione e cerca di presentarsi in pubblico in giacca e cravatta - che devono render visibile il rifiuto di poter essere contaminati da quel male. La situazione ideale è offerta dalle nuove forme della comunicazione, nelle quali, espandendosi oltre ogni dire l’impossibilità di un controllo dell’affermazione che si fa o dell’attacco che si rivolge a qualcuno, tutto passa con la velocità della luce, una velocità diretta e fulminante non “rappresentata” dalla lampadina, nella testa dei molti affezionali, tutti lì in attesa. Eversiva può diventare, sta diventando un’opinione pubblica che si forma così, con questi canoni, con la “violenza” di una sola parola che vale metaforicamente, s’intende, un colpo di pistola. L’avversario o il tema sollevato è nella polvere trafitto dalle frecce della parola violenta e con lui tutto ciò che egli, magari, “rappresenta”. Ecco un’altra parola chiave dell’eversione contemporanea, rappresentanza, rappresentazione, parole solidamente insediate nel ritmo e nelle cadenze della democrazia moderna, senza le quali essa è senza volto, senza forma. Ebbene, la parola va rigettata, fa parte della visione corruttiva di un parlamento su cui si deve abbattere la palingenesi da cui tutto nasce, e che dunque è utilizzato essenzialmente come camera di risonanza di ciò che vive al di fuori di esso. La democrazia è diretta, non rappresentativa, il che contrasta con la lettera e lo spirito della costituzione dove titolarità ed esercizio del potere sono nettamente distinti, ad evitare il primitivismo democratico di cui parlava Giovanni Sartori. Ma poi si scopre, in certi casi, che questa democrazia diretta ha un suo percorso tutto particolare, e che dietro di essa non c’è un popolo, ma un blog. E, sempre in certi casi, anche qualcosa che incarna una associazione privata di comunicazione. Da tutto questo sgorga la nuova democrazia, quella palingenetica, che deve togliere il male dalla politica e possibilmente dalla storia e dall’animo umano. L’effetto eversivo non è tanto e solo nel comportamento delle élites che pure questo tipo di movimento non può non riconoscere, ma nell’effetto moltiplicatore che questo atteggiamento ha su grandi masse che nel frattempo hanno perduto le loro mediazioni politiche. Certo, questa perdita indica che molto nella democrazia rappresentativa funziona tutt’altro che bene, ma eversore, “distruttore”, è chi la assedia dall’esterno (salvo a partecipare regolarmente alle elezioni, ma questo è altro problema che anche nel passato prima ricordato si verificò), come magari qualche volta ha provato ad assediare materialmente il parlamento, quella banda di corrotti che lo abita. Ma c’è dell’altro. In questo quadro non esiste più lo spazio pubblico del dialogo ragionevole, anzi non esiste più affatto lo spazio pubblico come tale. Solo parole, parole; notizie, notizie senza controllo, le famose “false notizie”; insulti, insulti affollano la non-spazialità della comunicazione. Ci sono movimenti che fanno di tutte queste cose la loro bandiera, che hanno nel loro Dna la maggior parte delle cose indicate, in un intreccio abbastanza perverso. Questi movimenti io li chiamo eversivi. E per fare un riferimento italiano li chiamo “diciannovisti”, se pure con esiti che, ovviamente, non saranno uguali a quelli di quel tempo passato. E aggiungo che non c’è difetto grave o vera e propria crisi della democrazia rappresentativa, dato indubitabilmente attuale, che può far giudicare, come un antidoto e una risposta, un siffatto magma politico che si muove oggi in alcune società e che nella nostra rischia di diventare maggioranza, con quale futuro per l’Italia lo lascio immaginare: vivendo, il movimento, sull’assenza di ogni programma, e rigettando palingeneticamente ogni compatibilità economica. Eversione, insomma, è concetto storicamente determinato e non ho bisogno di ricordare questo agli storici. Tutto questo, per rispondere, con cenni sommari, a un editoriale di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della sera di qualche giorno fa, già commentato criticamente sul nostro giornale da Massimo Adinolfi. Gli articoli di questo storico sono sempre stimolanti per la nettezza che spesso li distingue, e che questa volta raggiunge per davvero un massimo. Forse stiamo praticando un piccolo, raro esempio di dibattito pubblico. Stefano Rodotà, la dignità sociale dell’uomo di Gaetano Azzariti Il Manifesto, 29 novembre 2017 Alle origini della riscoperta della dignità - nel secondo dopoguerra - ci fu la reazione agli orrori che avevano portato non solo ad una guerra come tante altre del passato, ma ad una guerra di distruzione contro l’umanità, contro la stessa idea di umano: l’olocausto, Auschwitz, ma anche la bomba atomica avevano oltrepassato ogni limite. Per salvare l’umanità bisognava ricordarsi che non basta sopravvivere alle tragedie. Subito dopo la guerra, nel 1947, la Costituzione italiana fu la prima al mondo ad individuare nel principio di dignità la leva del riscatto. Ne fa esplicito riferimento in tre articoli, operando un gioco di rinvii di straordinario valore. L’anno successivo la dignità aprirà la Carta dei diritti dell’Onu. L’8 maggio del 1949 sarà la volta della legge fondamentale tedesca. Da allora nessuno ha più contestato il valore della dignità umana. Un successo, indubbiamente. Non si può però tacere che, spesso - e forse sempre più - è apparso anche un successo fatto più di parole che non di concrete azioni. Tant’è che - in seguito - persino delle guerre sono state dichiarate in nome della dignità di popoli offesi, contro altri popoli ritenuti indegni. Ciò è potuto accadere perché è prevalsa la retorica dei concetti sulle istanze materiali che questi stessi concetti vogliono tutelare. Il contributo straordinario di Stefano Rodotà credo sia stato quello di aver fornito una ricostruzione della dignità antiretorica e storicamente fondata. Sottolineo solo tre passaggi della sua riflessione che ritengo possano dare il senso della profondità del suo pensiero. Uno. Per Rodotà la dignità è un mezzo per fare assumere “una rilevanza primaria alla condizione reale della persona”. Scriverà che è necessario passare dal soggetto astratto alla persona concreta. Per questo ciò che deve essere assicurato non è tanto la dignità immateriale, quanto la più specifica dignità “sociale”, così com’è esplicitamente scritto in Costituzione. Una dignità che, dunque, non può essere solo individuale, ma che deve investire per intero la vita di relazione. In tutti i suoi momenti anche - anzi soprattutto - in quelli più drammatici. Esiste una dignità del vivere, esiste persino quella del morire, ci ha ricordato in tanti suoi scritti. Due. Su quale fondamento ciò si rende possibile? Le gambe su cui si regge la ricostruzione della dignità di Stefano Rodotà sono due: la storia e la norma. È, infatti, l’attenzione alla storia che porta Rodotà ad affermare che la nuova antropologia dell’homo dignus è il frutto di una specifica evoluzione storica. Ma, al contempo, è anche il risultato di una “grande operazione giuridica”. Sono la storia e il diritto, assieme, che hanno finito per produrre una netta cesura rispetto alla diversa antropologia che aveva dominato il secolo XIX: quella dell’individualismo proprietario. Un’antropologia, quest’ultima, che aveva trovato la sua massima espressione nel Code civil, voluto da Napoleone, nel momento in cui mise fine alla rivoluzione francese. Imponendo un modello di regolazione che pose al centro del vivere civile un “terribile” diritto, quello di proprietà; e che ha configurato l’individuo come soggetto isolato. Ciò ha certamente favorito la crescita del capitalismo, forse ne è stato un suo presupposto necessario, ma ha dovuto pure dare per scontato che il lavoro potesse essere indegno, così come indegna poteva essere la vita delle persone concrete. Questo il modello dominate nell’Ottocento, che non ha retto dinanzi alla rivoluzione della dignità. Un radicale cambiamento fu reso possibile - sono parole di Rodotà - “attraverso la costituzionalizzazione della persona”. Tre. Che vuol dire, in concreto? Qual è stato il processo storico reale che ha determinato questo ribaltamento? Il punto di partenza della riflessione di Rodotà è esplicito. Lo ha sintetizzato meglio di ogni altro Luigi Mengoni, con queste semplici e lineari parole: “Il modello antropologico dell’individualismo proprietario è stato corretto dal diritto del lavoro”, volendo in tal modo indicare che la nuova antropologia è stata fissata con la scrittura dell’articolo 1 della nostra Costituzione, che qualifica il nostro ordinamento democratico in quanto fondato sul principio-valore del lavoro. Rodotà va oltre, guardando alla radice di questa trasformazione, riuscendo a fornire non solo alla dignità, ma anche al lavoro, una dimensione propriamente costituzionale. Non solo gli articoli 1 (lavoro) e 3 (dignità sociale), ma è l’intera Costituzione che si pone alla base di questo cambiamento. È qui che Rodotà ha dimostrato la sua grandezza di giurista impegnato. In quelle straordinarie pagine ove egli, in un crescendo progressivo, esamina le connessioni tra il principio di dignità e gli altri principi costituzionali. Non si limita ad esaminare - magis ut valeat - i pur fondamentali articoli che richiamano direttamente il concetto di dignità: l’eguaglianza dei cittadini come mezzo per assicurare la pari dignità sociale ai sensi dell’articolo 3; la retribuzione dei lavoratori come condizione per assicurare un’esistenza libera e dignitosa secondo le auliche espressioni dell’articolo 36; i limiti all’iniziativa economica privata che non può in nessun caso svolgersi in contrasto con la dignità umana come impone l’articolo 41. Forse già questo sarebbe sufficiente. Rodotà, però, va oltre. Egli dimostra, in uno straordinario giuoco di rinvii, come sia la Costituzione per intero a dover essere interpretata alla luce del principio di dignità. Così l’articolo 1, che rinviene il fondamento democratico della Repubblica nel lavoro. Così, ancora, l’articolo 2, sui diritti inviolabili e lo sviluppo della personalità, e così via. Come ebbe a riassumere: la dignità in sostanza porta a una “complessiva ricostruzione del sistema costituzionale”. A questa ricostruzione di fondo Rodotà ha improntata il suo lavoro scientifico, ma anche il suo impegno civile. Basta qui ricordare la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, alla cui stesura contribuì in modo decisivo. Non solo l’articolo d’apertura, ma l’intero primo capo è integralmente dedicato alla dignità. Un ultimo punto che è però decisivo. È legittimo interrogarsi se sia sufficiente proclamare la dignità perché questa sia assicurata. Voglio rispondere con le sue parole a questa fondamentale domanda: “Bisogna chiedersi, a questo punto, se la dignità non sia un fondamento troppo fragile per reggere tante sfide, indebolita dalla sua stessa polisemia, da intime ambiguità, da indeterminatezza”. Tanto è consapevole Rodotà dei rischi che si corrono che nel suo testo più significativo - il diritto di avere diritti - fa seguire al capitolo sulla dignità un altro che si intitola “Diventare indegni”. C’è però un passaggio di Rodotà che può spiegare perché, nonostante tutto, la dignità rappresenta un valore che non può essere abbandonato. “La dignità appartiene a tutte le persone”, quale che sia la sua condizione e il luogo in cui si trova. È per questo che della dignità non possiamo fare a meno. Anche se non potremmo mai darla per scontata. È una conquista da rivendicare ogni giorno. È stata l’attenzione alla vita prima delle regole che ha portato Rodotà a definire la dignità delle persone concrete. È questa la dignità sociale di cui parla la Costituzione, è questa la dignità di Stefano Rodotà. *Testo dell’intervento al convegno La vita prima delle regole - Idee ed esperienze di Stefano Rodotà tenutosi alla Camera dei deputati lunedì 27 novembre. Le notizie taciute più pericolose delle fake news di Alessandro Campi Il Mattino, 29 novembre 2017 L’allarme sulle fake news, che ha preso prepotentemente piede anche in Italia sino a diventare tema saliente di polemica tra i partiti, fosse esso stesso una colossale fake news? Insomma, un allarme ingigantito, strumentale e sostanzialmente falso? Il dubbio è ingenuo ma lecito. Anche perché le tecniche di disinformazione si sono a tal punto raffinate che quelli che ci appaiono i buoni è facile che siano invece i cattivi. Può dunque darsi benissimo che chi denuncia le bufale altrui, invocando le parole d’ordine della trasparenza e della corretta informazione, ne sia in realtà un abile e scientifico propalatore. Come escluderlo se tutto, come ci si dice, è inganno? Nella difficoltà a farsi un’opinione su questa complessa materia, e a decidere dove stia realmente il pericolo, forse possono soccorrerci il buon senso, un minimo di ragionevolezza e quel sano scetticismo che sempre dovremmo utilizzare quando ragioniamo di storia e politica. Che sono sì il regno dei valori assoluti, ma anche dell’effimero, del contingente, del reversibile e del relativo. Soprattutto del già visto e sperimentato. Se la parola è nuova (appunto fake news), la cosa, nel senso della menzogna utilizzata come arena politica, è infatti antichissima. Il potere, nella misura in cui include un nocciolo segreto e inaccessibile, lo ha fatto sempre, pretendendo persino l’impunità per questo suo modo di agire. E quando non ha utilizzato la falsificazione, è ricorso alla dissimulazione. Non si capisce dunque il senso degli allarmi odierni, se non con l’ingenuità di aver pensato che la democrazia ci avrebbe liberati da ogni opacità e immessi nel regno della perfetta trasparenza. Per capirci meglio, sempre nel segno di un prudente scetticismo. Davvero si può credere che oggi siano gli hackers e i disinformatori di professione a decidere le campagne elettorali e a scegliere chi debba comandare nelle grandi democrazie? Lo scenario è psico-orwelliano. La realtà forse è più prosaica e meno drammatica. Menzogna e propaganda, come detto, sono tecniche antiche. Così come la diffamazione pubblica, il dileggio, la creazione ad arte di paure e psicosi. La novità è che oggi tutto questo ti arriva a casa, direttamente sullo smartphone. Ma ciò non vuole dire che siamo nell’epoca dell’eterodirezione politica. L’ impressione è che si tenda ad attribuire al potere condizionante delle bufale le sconfitte che ci bruciano o ciò che non riusciamo (o vogliamo) spiegare con argomenti più razionali. Il caso americano da questo punto di vista sembra lampante: i democratici hanno fatto di Trump il pupazzo di Putin e dei suoi elettori la longa manus dei manipolatori del Cremlino, scatenando una cagnara mediatico-giudiziaria universale, solo perché altrimenti avrebbero dovuto darsi motivazioni spiacevoli sulle cause vere della loro sconfitta. Meglio prendersela con l’ ignoranza del popolo, manovrato ad arte, che con la propria supponenza intellettuale. Ma c’è dell’altro. Le false notizie di pace (visto che sono esistite, splendidamente analizzate da Marc Bloch all’epoca del Primo conflitto mondiale, le false notizie di guerra, che viaggiavano da una trincea all’altra sulla bocca dei combattenti pronti a credere anche a quelle più inverosimili, come sempre capita nei momenti di confusione collettiva) sono effettivamente un problema nella misura in cui si immettono nella discussione pubblica dati falsati, notizie non vere, giudizi velenosamente artefatti. Ma se per contrastare tutto ciò si finisce, mossi persino dalle migliori intenzioni, con il ridurre gli spazi di libertà e di parola, con l’invocare misure restrittive, col mettere nelle mani di pochi il potere discrezionale di decidere ciò che è vero e ciò che è falso, bene, il rimedio così delineato rischia di essere peggiore del male che si intende combattere. Nel senso che l’alternativa alla menzogna, che fa male alla democrazia, rischia di essere la censura, che finisce per ucciderla definitivamente. Meglio 1’ anarchia della disinformazione che l’ordine della verità di Stato. La verità è che per frenare e neutralizzare le bugie, o almeno per riconoscerle, servirebbe un’opinione pubblica vigile, critica e informata. Che è però ciò che oggi esattamente difetta. Non mancano i controlli dall’alto in vista di una verità ufficiale e certificata, mancano i controlli dal basso in vista di quella sola verità - mai definitiva o assoluta o unica o perenne - accessibile agli uomini. Ciò che andrebbe denunciato con veemenza, piuttosto che agitare fantasmi, è dunque il sommarsi di un’eccessiva credulità (ma anche questa è una costante umana, è il fascino primordiale del sapere magico) ad una crescente ignoranza di massa, che ci rende obiettivamente più vulnerabili rispetto alla massa di informazioni che riceviamo e che per sempre più persone significa non riuscire a distinguere tra il falso conclamato e il vero evidente. Ma ciò non dipende dall’abilità dei manipolatori, ma dal collasso dell’ istruzione di massa, dal rigetto della conoscenza e del sapere, che un tempo erano uno strumento di ascesa sociale, mentre oggi vengono considerati un orpello inutile. Non è la propaganda che viene da chissà quali centrali occulte che si instupidisce. semmai l’ incompetenza dilagante e crescente (peraltro sempre più orgogliosamente esibita e nemmeno più ammessa o riconosciuta come tale) che ci porta a berci ogni cosa. Beninteso, gli ingannatori esistono e vanno per quanto possibile fermati, senza però immaginare che siano una potenza occulta e sinistra come nel modo di pensare tipico dei complottisti. Ma l’isteria contro la fabbrica del falso, che rischia di condizionare a suon di accuse reciproche - falsario tu, no, tu falsario - la prossima campagna elettorale, dovremmo proprio risparmiarcela. Le prime avvisaglie dello scontro tra Pd e M5S sono purtroppo rivelatrici dell’abisso di insulsaggine nel quale rischiamo di cadere. Come se i cittadini in democrazia votassero per chi si erge a custode della verità e non per chi fa loro le promesse più ragionevoli e convincenti. Non si dimentichi in conclusione una cosa, visto che tutti dicono a parole di tenere alla trasparenza, alla correttezza dell’informazione, alla libera circolazione delle idee e alla qualità della democrazia. La forma sublime e perfetta di fake news è il silenzio: non le notizie false che si propagano, ma quelle vere che si ignorano osi nascondono. I ministri della Giustizia di 30 paesi per un mondo senza pena di morte di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 novembre 2017 Abolizionisti e mantenitori ieri a confronto alla Camera all’incontro internazionale di Roma. “Va evitato il pericolo, ora latente, che la paura di fronte a un clima di incertezza e del moltiplicarsi di atti terroristici possa far pensare in alcuni Paesi, anche in Europa, alla reintroduzione della pena di morte”. Lo ha detto il ministro della Giustizia Andrea Orlando, intervenuto ieri all’incontro internazionale, organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio e giunto alla sua decima edizione, per l’abolizione della pena di morte nel mondo. “Si corre il rischio che la questione della pena di morte diventi una battaglia dimenticata dalla comunità internazionale - ha osservato Orlando mentre deve restare una questione di primo piano”. Parliamo di un incontro internazionale per “un mondo liberato dalla pena di morte” con la partecipazione di 30 Paesi di tutti i continenti. Oltre al guadasigilli sono intervenuti i ministri della Giustizia del Marocco (Paese che recentemente ha abolito la pena di morte per apostasia), del Guatemala (una figura in primo piano nella difesa dei diritti umani) e della Guinea assieme a rappresentanti dei governi del Canada, di San Marino e della Svizzera, inviati dell’Onu, della Francofonia e l’ex presidente di Timor Est, Xanana Gusmao. Hanno preso la parola anche alcuni testimoni della campagna abolizionista negli Stati Uniti. I partecipanti al convegno provengono sia da Paesi abolizionisti, sia da Paesi mantenitori: insieme hanno discusso su come giungere a una progressiva liberazione del mondo dalla pena di morte, anche passando - come primo atto - attraverso una moratoria universale. Il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, in un messaggio alla Comunità di Sant’Egidio, ha spiegato che “sono trascorsi dieci anni dalla storica risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a favore di una moratoria universale sulla pena di morte; dieci anni nei quali questa battaglia fondamentale per i diritti umani è proseguita con risultati significativi in tutto il mondo. L’Italia, con l’Unione Europea, - continua Gentiloni continuerà a farsi promotrice di questa campagna, assieme a tutti gli altri Paesi decisi a sostenerla, per vincere insieme la sfida di un mondo finalmente libero dalla pena di morte”. Il presidente del Consiglio si è detto anche certo “che da questi due giorni d’incontri potranno arrivare ulteriori passi in avanti per rafforzare il rispetto dei diritti della persona in tutto il mondo”. Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di Sant’Egidio, uno dei soggetti promotori della campagna che ha sostenuto la risoluzione Onu per la moratoria sulla pena di morte, ha sottolineato che “lo scopo dell’incontro è esplorare ogni strada che conduca all’eliminazione della pena capitale ed esprimere la propria preoccupazione per l’aumento delle esecuzioni extragiudiziali, per il persistere dei linciaggi, per l’incremento del numero delle armi in circolazione, per accendere l’attenzione sulle pessime condizioni carcerarie in tante parti del mondo”. Impagliazzo ha ricordato i passi avanti fatti negli anni. All’Assembla generale dell’Onu la proposta di moratoria universale sulle esecuzioni iniziata nel 2007, in cui l’Italia gioca un ruolo decisivo, ha visto nell’ultima votazione, del dicembre 2016, 117 a favore, 40 contrari, 31 astenuti, 5 assenti: “Un voto molto incoraggiante - ha sottolineato il presidente della comunità di Sant’Egidio - che negli anni ha visto ridursi il fronte dei contrari del 23% passando da 52 a 40 Paesi, mentre i favorevoli sono aumentati di 18 unità”. Dalla seconda metà degli anni novanta le tenebre dei bracci della morte e la battaglia contro la pena capitale sono diventati uno dei terreni d’impegno globale della comunità di Sant’Egidio. Estrema sintesi delle violazioni dei diritti umani, la pena di morte rappresenta una forma di tortura, contraddice una visione riabilitativa della giustizia, abbassa l’intera società civile al livello di chi uccide, legittima la violenza al livello più alto e, spesso si fa strumento per colpire minoranze politiche, etniche o religiose. Oggi, dopo anni di battaglie civili e di sforzi diplomatici a diversi livelli, sono 140 i paesi abolizionisti di fatto o di diritto (97 per tutti i reati, 8 per i reati comuni e 35 sono abolizionisti de facto), mentre sono 58 i paesi che ancora mantengono la pena capitale. Anche se negli ultimi anni il numero di esecuzioni è lentamente diminuito sono ancora circa 20.000 le persone su cui pesa una condanna a morte. Nel 1998 la Comunità di Sant’Egidio ha promosso un Appello per una Moratoria Universale della pena di morte che ha raccolto oltre cinque milioni di firme in 153 paesi del mondo e ha creato un fronte morale, interreligioso e laico mondiale contro la pena di morte. L’appello è stato consegnato alle Nazioni Unite alla vigilia del voto della storica Risoluzione 62/149 dell’Assemblea Generale sul rifiuto della pena di morte come mezzo di giustizia (2007). La risoluzione per la moratoria universale, che si vota ogni due anni in Assemblea Generale Onu, vede una crescita dei voti favorevoli. Così come l’ultima risoluzione già citata. “Write for Rights”: al via la raccolta mondiale di firme di Amnesty International di Riccardo Noury Corriere della Sera, 29 novembre 2017 Amnesty International ha lanciato oggi la XV edizione di “Write for Rights”, la più grande campagna globale per i diritti umani. Da 15 anni, intorno al mese di dicembre, l’associazione chiede ai suoi milioni di sostenitori nel mondo di scrivere lettere ai governi e svolgere iniziative di solidarietà in favore di persone i cui diritti sono violati o minacciati. I risultati non sono mancati: persone ingiustamente arrestate sono state rilasciate, torturatori sono stati portati di fronte alla giustizia, detenuti hanno trovato conforto nelle lettere loro indirizzate nei momenti più drammatici della loro vita, come attesta Edward Snowden: “Vi ringrazio, umilmente e dal profondo del cuore, per il vostro costante sostegno. Oltre un milione di voi si è unito per dire insieme che la verità non può essere taciuta. Non ho parole per esprimere la mia gratitudine”. Che firmare una lettera serva lo testimoniano anche le parole di due attivisti per i diritti umani della Repubblica Democratica del Congo, Fred Bauma e Yves Makwambala, appena usciti dal carcere dopo 17 mesi di prigionia: “Ogni lettera, ogni visita, ogni singola parola ci ha rafforzato e ci ha reso più determinati in questa lunga ma doverosa lotta per la giustizia e la democrazia”. Quest’anno, per la prima volta, “Write for Rights” si occuperà anche di due persone che fanno parte di Amnesty International, sotto processo in Turchia per accuse infondate di terrorismo a causa del loro lavoro in favore dei diritti umani: Taner Kiliç, presidente di Amnesty International Turchia, in carcere dal 6 giugno 2017 e Idil Eser, direttrice dell’associazione, che insieme alla sua fondatrice Özlem Dalkiran, è stata arrestata il 5 luglio e rilasciata su cauzione dopo quasi quattro mesi di carcere. Oltre ai difensori dei diritti umani della Turchia, la campagna “Write for Rights” del 2017 si occuperà di: Hanan Badr el-Din, attivista per i diritti umani dell’Egitto, co-fondatrice dell’Associazione dei parenti degli scomparsi. Suo marito è “desaparecido” nel luglio 2013. L’ultima volta che lo ha visto in vita era in un servizio televisivo, ricoverato in ospedale per le ferite riportate durante una manifestazione. Per aver cercato informazioni sulla sorte del marito, è stata arrestata con false accuse e rischia una condanna a cinque anni di carcere. Tadjadine Mahamat Babouri (detto Mahadine), attivista online del Ciad. Nel settembre 2016 ha postato sul suo profilo Facebook una serie di video contenenti critiche nei confronti del presidente del paese. Arrestato pochi giorni dopo, è stato picchiato e tenuto incatenato per alcune settimane. In carcere ha contratto la tubercolosi. Se giudicato colpevole, rischia una condanna all’ergastolo. Il Movimento indipendente indigeno Lenca per la pace (Milpah), che si batte per il possesso delle proprie terre in Honduras contro i tentativi di sfruttamento minerario e idroelettrico. A causa dell’attaccamento alla loro fonte di vita, affrontano con grande coraggio campagne diffamatorie, minacce di morte e aggressioni di cui finora nessuno è stato chiamato a rispondere. Shakelia Jackson, il cui fratello Nakiea è stato ucciso dalle forze di polizia della Giamaica. Continua a sfidare le lentezze del sistema giudiziario del suo paese insieme alle decine di famiglie i cui parenti sono stati uccisi nello stesso modo. Le forze di polizia hanno reagito assaltando e minacciando a più riprese la sua comunità. Ahmadreza Djalali, il ricercatore dell’Università del Piemonte Orientale che è stato condannato a morte in Iran. In carcere dall’aprile 2016, per sette mesi non ha potuto incontrare un avvocato. In un audio pubblicato su YouTube, Ahmadreza afferma che, durante l’isolamento, è stato costretto per due volte a rilasciare “confessioni” di fronte a una telecamera. Djalali è stato arrestato dai servizi segreti mentre si trovava in Iran per partecipare a una serie di seminari nelle università di Teheran e Shiraz. I nostri troppi silenzi sui perseguitati di “serie b”: Rohingya, Curdi, Uiguri, Darfur di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 29 novembre 2017 I Rohingya sono i capofila dei profughi di cui in Occidente nessuno si cura. Sono i più sfortunati tra gli sfortunati, perché non una lacrima viene versata per loro. Anche se il Papa non ha fatto nomi in Myanmar per ragioni diplomatiche, il popolo dei musulmani Rohingya si è riconosciuto nell’allusione papale all’”etnia” da rispettare, massacrata nella Birmania del Nobel San Suu Kyi. Di solito il destino dei Rohingya è il silenzio assoluto, con qualche blanda, timida dichiarazione dell’Onu, sulle stragi subite, sui villaggi devastati, sulle esecuzioni capitali a centinaia, sulla pulizia etnica che sta costringendo 600 mila esseri umani, compresi i bambini e gli anziani, a una fuga spaventosa verso il Bangladesh. I Rohingya sono i capofila dei profughi di serie B di cui in Occidente nessuno si cura. Sono i più sfortunati tra gli sfortunati, perché non una lacrima viene versata per loro. Sono le vittime di orribili massacri ma anche dell’indifferenza delle democrazie che esprimono solidarietà a singhiozzo, secondo le convenienze, paladine dei diritti umani a intermittenza. Uno spettacolo indecente di ipocrisia e di retorica magniloquente. Nessun senso di orrore, per dire, per le oltre trecento vittime dell’attentato terroristico di qualche giorno fa in Egitto contro i fedeli sufi di una moschea: qualche sbrigativo comunicato di condanna, e poi il silenzio. E i curdi? I curdi sono stati i nostri coraggiosi alleati per sconfiggere gli orrori dell’Isis. Ora non servono più, e per la legge crudele di una parodia di Realpolitik il loro destino viene affidato ai loro nuovi massacratori, anche qui nel silenzio imbarazzato. Del resto i curdi sono da sempre la vittima sacrificale per eccellenza da decimare e perseguitare nell’indifferenza delle democrazie, da quelli del Kurdistan turco, nella Turchia in cui è ancora proibito parlare del massacro degli armeni) alla popolazione gasata da Saddam Hussein quando Saddam, il tiranno dell’Iraq, non era ancora il pericolo numero uno. Ma è solo il gioco macabro della sorte a determinare come e quanto l’opinione pubblica mondiale debba interessarsi a qualche persecuzione? L’interesse per la sorte delle donne yazide rapite e stuprare in massa dai feroci guerrieri dello Stato islamico è stati mediamente molto tiepido. Un popolo chiamato “Uiguri” è pressoché sconosciuto e pochissimi sanno delle deportazioni a centinaia di migliaia di esseri umani imposte dalla Cina a prezzo di immani repressioni. Del massacro del popolo dei Montagnard da parte del regime comunista del Vietnam si è occupato in Italia soltanto Marco Pannella, anche qui, come al solito, nell’indifferenza generale. Non è lecito neanche parlare del milione di morti provocato nei decenni dall’occupazione cinese del Tibet, i monasteri devastati, i monaci torturati, il Dalai Lama che non deve essere ricevuto nelle cancellerie occidentali per non mettere a repentaglio le buone relazioni economiche con Pechino. A proposito del Darfur, malgrado lo sforzo di qualche star di Hollywood, nessuno si ricorda dei 400 mila morti e dagli altri due milioni e mezzo di profughi causati dalla ferocia dei “janjawid”, le milizie musulmane spalleggiate e foraggiate dal Sudan, di cui nessuno chiede l’isolamento internazionale. Isolamento che invece viene faziosamente invocato per lo Stato di Israele con una lettura distorta e faziosa del dramma palestinese, senza mai peraltro accennare agli oltre seicentomila ebrei cacciati dai Paesi arabi dopo la nascita dello Stato di Israele e da questi ultimi accolti a braccia aperte, a differenza dei profughi palestinesi che hanno avuto vita durissima nei Paesi arabi. Oggi il dramma dei Rohingya viene messo alla luce dopo la visita del papa. Domani sarà di nuovo buio. Il buio, il voltarsi dall’altra parte, lo sprofondare nell’ipocrisia occidentale, senza vergogna. Marocco. Famiglie migranti trattenuti in Libia manifestano per chiedere rimpatrio Nova, 29 novembre 2017, 29 novembre 2017 Decine di familiari di marocchini detenuti nei centri per migranti illegali in Libia hanno manifestato ieri a Rabat davanti alla sede del ministero degli Esteri per ottenere il rimpatrio dei loro cari. I manifestanti hanno esposto foto dei loro congiunti in Libia. Fatna Kharbush, madre di un migrante detenuto in Libia, ha spiegato che suo figlio “era partito al termine dei suoi studi per cercare una vita migliore e si trova ora detenuto in una prigione libica”, riferisce il sito web informativo libico “Al Wasat”. La maggior parte dei migranti fermi in Libia provengono da Bani Mellal e Khouribga, nell’entroterra marocchino, e il loro caso è divenuto noto dopo la diffusione di un video su internet che denuncia le precarie condizioni dei migranti detenuti in Libia. Sono tra i 200 e i 700 i marocchini presenti nei centri di detenzione per migranti in Libia.