Serve una “rieducazione sentimentale”, e non solo in carcere Il Mattino di Padova, 27 novembre 2017 Che cosa si può fare in carcere per combattere la violenza contro le donne? Si potrebbe fare molto più di quello che pensiamo, se solo si smettesse di vedere la galera solo come punizione, come esclusione. Alessandra Kustermann, ginecologa in prima linea nella lotta contro tutte le violenze, sostiene che “serve una sorta di rieducazione sentimentale. Altrimenti non ci sarà mai un lieto fine, perché un uomo maltrattante, pur condannato a una pena detentiva, continuerà a pensare di aver subito una condanna ingiusta, dato che la cultura diffusa gli insegna che in fondo non ha fatto niente di male”. Il carcere solo punitivo non risolve il problema, ma si limita a nasconderlo per un certo periodo. Le due testimonianze che seguono, di una persona che ha finito di scontare la sua pena e di una persona detenuta, dimostrano però che proprio dal carcere si può iniziare a riflettere sulla violenza contro le donne, e a mettere in atto quella “rieducazione sentimentale” di cui parla Alessandra Kustermann. Nessuno è proprietario della vita di un altro Il 25 novembre è stata la giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Fino a pochi mesi fa ero detenuto nella Casa di reclusione di Padova e ricordo che l’anno scorso, assieme a molti compagni detenuti, aderimmo al minuto di silenzio che fu proposto come silenzio mondiale. Quel silenzio lo interpretai come un momento di solidarietà e vicinanza nei confronti delle donne, ma anche di bisogno di riflessione. Mi ricordo che ripensai ai miei rapporti con le donne e arrivai alla conclusione che, pur non avendo mai usato violenza fisica su una donna, ero stato più volte violento verbalmente e avevo avuto altri comportamenti scorretti. Sono cresciuto in un ambiente dove la mentalità dominante era quella che insegnava a vedere l’uomo come soggetto forte, che in casa era l’unico a ricoprire un ruolo decisionale su ogni cosa. Una cultura che limitava fortemente la libertà della donna. Io, da ex detenuto, so riconoscere l’importanza che ha la libertà in un essere umano, ancora di più quando l’essere umano non ha nessuna responsabilità nel vedersi la propria libertà sottratta, non solo quella fisica, anche quella di pensiero. Sono convinto che è la nostra cultura che deve essere modificata e questo deve accadere fin da piccoli, nelle scuole, e poi anche nei luoghi come le carceri, da cui oggi la società tende a distaccarsi come se fossero qualcosa di estraneo, che non la riguarda. Ma è proprio dove si ritrovano gli autori di questi reati che bisogna lavorare, dando un vero supporto psicologico per capire cosa non ha funzionato nella persona per spingerla ad assumere un atteggiamento violento. Nella mia esperienza carceraria ho conosciuto uomini che avevano commesso questo tipo di reato, e ho capito che non tutti sono uomini che hanno maltrattato e usato violenza verso le loro compagne. Ho vissuto con alcuni di loro per parecchi anni e li ho conosciuti come persone miti, come persone che non avevano atteggiamenti violenti. Un ex direttore di banca, un chirurgo, un professore, tutti uomini che avevano una posizione nella società più che rispettabile, persone che nella loro vita non erano mai state violente, ma qualcosa non ha funzionato. Spesso queste persone vengono ristrette nelle carceri in sezioni isolate da tutto, con poche attività rieducative e risocializzanti, e scarso spazio per un lavoro su se stesse. Non bastano e neanche servono leggi più severe, bisogna lavorare per un cambio di mentalità e si deve partire da carceri e scuole. Con il progetto “Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere” di Ristretti Orizzonti si lavora anche su questo, su un cambio di mentalità che riguarda entrambe le parti che si incontrano usando lo strumento del confronto. A volte è proprio la persona che ha commesso un reato in famiglia a raccontare il peggio di sé senza alibi, con la piena consapevolezza che ha di fronte centinaia di occhi innocenti e che il proprio racconto potrà per lo meno insegnare a chiedere aiuto in momenti difficili della propria vita, cosa che tanti di noi non hanno fatto. I ragazzi ascoltano in silenzio per poi fare domande per cercare di capire cosa può portare un uomo a non rispettare la donna che magari era la persona che più avevano vicina, che avrebbero dovuto trattare da essere umano, e non da loro proprietà. Però purtroppo siamo ancora molto lontani da una situazione in cui questo cambiamento culturale possa concretizzarsi, ma ho fiducia che si cominci a dare importanza a quello che noi, che abbiamo avuto un’esperienza di carcere, spesso non abbiamo capito: che nessuno è proprietario della vita di un altro. Lorenzo S. Quel senso profondo di abbandono che non ho saputo controllare Ogni volta che si legge dell’uccisione di una donna, nell’ambito di quel che resta di una relazione sentimentale, viene spontaneo chiedersi cosa porta un uomo a compiere un atto cosi estremo e orribile allo stesso tempo. Come autore di questo reato anche nel mio caso si è provato a dare una risposta a questa domanda, in fase di istruttoria del processo sono stato esaminato da esperti in materia, che hanno diagnosticato “un disturbo della personalità di tipo narcisistico”, da cui avrebbe avuto origine il comportamento omicida messo in atto. Certi uomini, e io sono fra quelli, non si limitano a mostrare disappunto nei confronti di alcune scelte della compagna, vanno ben oltre mettendo in atto comportamenti irrimediabili. Da quando si sono rotti certi schemi di ruoli all’interno della coppia, e prima ancora nella famiglia, è richiesta una capacità di adattamento a questa nuova impostazione delle relazioni, e chi non riesce a metterla in pratica rischia di intraprendere un viaggio costellato di dolore emozionale, una forma di dolore solo apparentemente più controllabile di quella fisica, ma che in realtà può facilmente sfuggire a ogni controllo. Provo a trasferire quanto detto finora nel mio caso. Mi trovo a crescere in un contesto dove sviluppo una specie di sindrome di insoddisfazione; non trovo altri termini per definirla. Tutto nasce da mancanze vissute durante il primo periodo di vita, che mi hanno portato al terrore di essere abbandonato. La vicenda che mi ha visto protagonista in negativo può riassumersi come tragica conseguenza di un tracollo emozionale. Tutto è stato generato da una scelta fatta dalla persona con cui avevo condiviso gli ultimi sette anni di vita in libertà, di non continuare la nostra relazione. Dapprima, a malincuore, da me accettata. A questo è seguita la decisione di rimanere comunque vicino a lei, volendo continuare nella condivisione dell’attività professionale che avevamo assieme costruito. Niente di più errato, avrei dovuto mollare totalmente, chiudendo anche quello che avevamo fatto in sette anni di impegnativo e appassionato lavoro. Il dolore del distacco da quella realtà sarebbe stato la scelta del male minore, e io confidavo in una mia personale capacità di distacco emozionale da una situazione decisamente impegnativa da gestire. Ma la conseguenza è stata un vero e proprio crollo emotivo che mi ha portato a vedere, alla fine di questo ciclo mentale perverso, la mia ormai ex partner come responsabile unica del profondo stato di prostrazione in cui vivevo. Uno stato d’instabilità mentale così forte da distorcere la percezione della realtà. La scelta di lei di rompere la relazione sentimentale, comprensibilissima, provocò in me quel senso profondo di abbandono, già dolorosamente provato nell’infanzia. Mi sentivo come un bambino abbandonato alla disperata ricerca di qualcuno che potesse comprenderlo. Serviva un distacco totale da lei, bastava forse applicare quel proverbiale lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Oppure, cercare in qualche modo un’altra relazione, come salvagente emozionale, avrebbe evitato la tragedia. Probabilmente sì, ma nessuno potrà mai dare una risposta certa. Così sono arrivato, spinto da queste emozioni negative, ad identificare la mia partner come causa del profondo malessere esistenziale che stava marcando quel momento della mia vita. Un’escalation emozionale terribile che poteva solamente essere interrotta dall’esterno. Bastava decidere di recidere quella corda a cui ero attaccato in modo ingiustificato e assurdo: chiunque da fuori sarebbe arrivato ad una conclusione del genere. In casi di questo tipo è indispensabile un riferimento esterno, serve una persona vicina a te, che ti aiuti a staccarti dalla realtà distorta che hai costruito in preda al dolore emozionale. Un amico, quello con la A maiuscola, sarebbe stato in grado di aiutarmi e fermarmi. Solo che personalmente non permettevo a nessuno di diventarmi davvero amico, ero troppo selettivo e lunatico con in più una ridotta capacità di aprirmi al prossimo, mentre oggi ritengo non possa nemmeno essere concepita un’amicizia senza una grande capacità di reciproca condivisione del proprio intimo. L’unica cosa certa è che per l’atto che ho commesso ho irrimediabilmente segnato il proseguo della vita di una famiglia e profondamente condizionato l’esistenza dei miei famigliari. Da questo quadro tragico provo, raccontando la mia esperienza, a cercare di dare un senso a quanto mi resta da vivere, convinto che anche dal male si possa trarre qualcosa di buono per sé e per gli altri. Andrea Gli Stati generali antimafia e quel veto dei pm: “non toccate il 416bis!” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 27 novembre 2017 All’iniziativa voluta da Orlando è emersa, più di tutto, la diffidenza dei procuratori capo nei confronti del legislatore: no alla proposta di Legnini su una revisione del reato di associazione mafiosa. Nella “Carta di Milano” presentata dal ministro “trasparenza della Pa e più Stato sociale” Stop all’attuale antimafia e alla rincorsa a nuove norme. Altrimenti il sistema non funziona. Volendo fare un bilancio degli “Stati generali della lotta alle mafie” voluti dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, il giudizio delle toghe sull’attività di contrasto alla criminalità organizzata è alquanto negativo e, sempre secondo i magistrati, l’Italia sarebbe un Paese più vicino alle realtà delinquenziali sudamericane che a quelle europee. Lo scenario, per molti versi inquietante, è emerso durante la tavola rotonda con i procuratori di venerdì scorso, a suggello della due giorni di Milano che ha concluso l’iniziativa. Ospiti d’onore i pm più noti d’Italia: il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, di Milano Francesco Greco, di Napoli Giovanni Melillo e di Roma Giuseppe Pignatone. Un parterre di prestigio che ha però annichilito tutti gli intervenuti, sollevando dubbi sulla reale efficacia delle strategie di contrasto, legislative e non, poste in essere dallo Stato in questi decenni. “Dobbiamo interrogarci sul fatto che, nonostante le leggi approvate e le tante risorse investite, il fenomeno mafioso non è stato sconfitto”, ha detto Scarpinato. Anzi, “attualmente il numero delle denunce per il reato di estorsione è lo stesso del 1991” e “pur arrestando 200 mafiosi, in poco tempo altri 200 sono pronti a prenderne il posto”. La mafia esiste da prima dell’Unità d’Italia ed è ogni anno sempre più forte, ha affermato Gratteri. “Il voto di scambio c’è sempre stato. Nel 1869, dopo le prime elezioni a Reggio Calabria, i potenti dell’epoca ringraziarono i picciotti per il sostegno avuto”, ha aggiunto. Su come contrastare le mafie, le ricette dei magistrati sono varie e per certi aspetti in contrasto con gli indirizzi del governo. Nessuna Superprocura europea antimafia e antiterrorismo su cui insiste non solo Orlando ma anche il ministro dell’Interno Marco Minniti. Secondo Gratteri sarebbe una sciagura, in quanto l’Italia “conta molto poco a livello internazionale” ed in Europa ci sono sensibilità diverse. Anche rispetto all’opportunità di modificare le leggi attuali, i pareri divergono. Se il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Giovanni Legnini ha sottolineato la necessità di fare “un tagliando all’articolo 416 bis del codice penale, preservandone il cuore, ma intervenendo per estenderne la portata”, Pignatone ha supplicato il Parlamento di non toccarlo e di non fare “ulteriori leggi in materia di mafia”. Critiche sull’organizzazione degli uffici di Procura da parte di Greco: “Gran parte delle Procure sono organizzate in maniera piramidale e feudataria. Negli uffici vi è la monade della Direzione distrettuale antimafia, rigidamente separata dagli altri dipartimenti perché così è stata concepita ed elaborata: gli uffici inquirenti, invece, devono essere in rete e la Dda deve interloquire con tutto il resto”. E ancora critiche alla geografia giudiziaria. Ancora Gratteri sostiene sia fondamentale un “Tribunale specializzato distrettuale per l’antimafia”. Inoltre “è necessario che il prossimo Parlamento abbia una maggioranza più forte per chiudere più Corti di appello e Tribunali che non servono, e in cui i magistrati non hanno fascicoli da trattare”. Una visione liquidatoria che sembra in contrasto con l’idea di un Paese attento a non desertificare le periferie. Ma il procuratore di Catanzaro è drastico su qualsiasi tema. La sua vera ricetta antimafia consiste in “meno sconti ai detenuti per mafia e una stretta sui tribunali di sorveglianza”. Più “sociale” l’approccio di Scarpinato, convinto che “c’è bisogno di un piano Marshall per il Sud, in particolare per la Sicilia, una delle regioni più povere d’Europa e per questo terreno fertile per le mafie”. Giovanni Melillo ha una visione più analitica, e ritiene invece si debba insistere sulla “organizzazione delle Procure”. Un mea culpa è venuto da Gratteri: “Non è vero che la gente è omertosa, la gente non sa con chi parlare, perché noi non siamo credibili, dobbiamo essere più coerenti tra quello che diciamo e che facciamo: se la gente non denuncia evidentemente c’è qualcosa che non funziona”. Messaggio subito recepito da Orlando, che ha chiuso la manifestazione alla presenza del Capo dello Stato. Nella Carta di Milano, il documento conclusivo, “ci saranno tutte le misure, prevalentemente non penali, di interventi di contrasto alla mafia: la mafia si contrasta facendo funzionare bene i servizi, con una pubblica amministrazione trasparente, costruendo uno Stato sociale e facendo in modo che la giustizia abbia gli strumenti organizzativi adeguati. Non più nuove norme”, ha concluso, “perché oggi la magistratura ci ha detto che quelle esistenti sono adeguate”. Il denaro non ripara lo stalking di Claudia Morelli Italia Oggi, 27 novembre 2017 Le donne vittime sono 3 milioni e mezzo. Il dl fiscale elimina la possibilità di estinguere il reato pagando una somma. Reato di stalking: niente più pagamenti di denaro alla vittima per “riparare” alla propria condotta persecutoria ed escludere la condanna. Il Senato, in occasione della conversione in legge del decreto legge fi scale 148/2017 collegato alla manovra di Bilancio 2018 (approvato da palazzo Madama il 16 novembre scorso e ora all’esame della camera), è corso ai ripari sugli effetti della norma sulla estinzione del reato tramite riparazione del danno da parte del colpevole, applicata al delitto di atti persecutori, lo stalking appunto. Non sarà più possibile ottenere l’estinzione del reato (e dunque impedire la condanna penale) semplicemente “elargendo” alla vittima una somma di denaro. Un pasticciaccio parlamentare a cui si è dovuto rimediare per le preoccupazioni e le polemiche scaturite all’indomani dell’approvazione dalla norma originaria. Un ripensamento che è caduto proprio alla vigilia della celebrazione della giornata contro la violenza sulle donne, sabato 25 novembre. Le donne vittime di stalking, secondo i dati Istat, sono 3 milioni e mezzo, di cui 2 milioni vittime di ex partner. La norma sulla riparazione del danno ed estinzione del reato era stata introdotta ad agosto dalla riforma Orlando. Reato di stalking: niente più pagamenti di denaro alla vittima per “riparare” alla propria condotta persecutoria ed escludere la condanna. Il senato, in occasione della conversione in legge del decreto legge fi scale 148/2017 collegato alla manovra di Bilancio 2018 (approvato da palazzo Madama il 16 novembre scorso e ora all’esame della camera), è corso ai ripari sugli effetti della norma sulla estinzione del reato tramite riparazione del danno da parte del colpevole, applicata al delitto di atti persecutori, lo stalking appunto. Non sarà più possibile ottenere l’estinzione del reato (e dunque impedire la condanna penale) semplicemente “elargendo” alla vittima una somma di denaro. Un pasticciaccio parlamentare a cui si è dovuto rimediare per le preoccupazioni e le polemiche scaturite all’indomani dell’approvazione dalla norma originaria. Un ripensamento che è caduto proprio alla vigilia della celebrazione della giornata contro la violenza sulle donne, sabato 25 novembre. Le donne vittime di stalking, secondo i dati Istat, sono 3 milioni e mezzo, di cui 2 milioni vittime di ex partner. La norma sulla riparazione del danno ed estinzione del reato era stata introdotta ad agosto dalla riforma Orlando del processo e della procedura penale e nel nuovo articolo 163-ter del codice penale prevede la possibilità di estinguere il reato (qualsiasi), perseguibile a querela soggetta a remissione, con una forma di riparazione del danno tramite restituzione o risarcimento ed eliminando le conseguenze dannose o pericolose del reato. Il giudice deve dichiarare l’estinzione del reato, sentite le parti e la persona offesa. Ma è possibile che il risarcimento del danno sia riconosciuto anche in seguito a offerta reale formulata dall’imputato e non accettata dalla persona offesa, ove il giudice riconosca la congruità della somma offerta a tale titolo; offerta reale che significa che l’ufficiale giudiziario o il notaio presentino materialmente il denaro a titolo di risarcimento presso il domicilio della persona offesa. Una previsione voluta dal guardasigilli per deflazionare il carico penale ma che mal si presta a una applicazione a reati così sottilmente ma gravemente invasivi nella psicologia dei soggetti più deboli e delle donne, che sono le vittime più frequenti. Lo stalking, che è reato contro la persona, è perseguibile a querela a rimessione di parte processuale, ma la querela diventa irrevocabile se sono state perpetrate minacce reiterate e aggravate. C’è da segnalare che contro la violenza sulle donne il governo ha anche rifinanziato le azioni di contrasto con fondi stanziati della legge di Bilancio 2018: 60 miliardi nel triennio 2018-2020. Ma il contrasto alla violenza sulle donne in Italia è un quadro a luci e ombre. Infatti, pur se l’Italia è tra i 14 paesi Ue che hanno ratificato la convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa (con la legge 119/2013), ci sono molti aspetti ancora mancanti: per esempio l’Italia è l’unico paese Ue che non prevede una indennità statale nel caso in cui il responsabile della violenza non abbia liquidato il danno; non ha previsto una specifica fattispecie penale volta a punire le condotte di violenza psicologica (art. 33 della Convenzione), di matrimonio forzato (art. 37) e di molestia sessuale, quando perpetrata in forma esclusivamente verbale (art. 40), cosiddetto sexual harrasment verbale che è violazione dei diritti umani ed è una forma di discriminazione contro le donne alla stregua delle altre fattispecie. Sentenze senza un pezzo. Il “non luogo a procedere” è quasi sparito di Marzia Paolucci Italia Oggi, 27 novembre 2017 Il caso a Milano. Migliucci (Ucpi): “Tornati indietro negli anni”. In pochi resistono alle richieste di rinvio a giudizio della procura ed ecco che inizia il lungo corso del procedimento penale ad oggi senza quasi più sentenze di “non luogo a procedere”. La notizia arriva dalla cronaca milanese che riporta il caso di una giudice delle indagini preliminari, Sofi a Fioretta che, invitata a parlare a un evento formativo organizzato per gli avvocati dalla Camera penale di Milano, conferma l’epilogo triste dell’articolo 425 del codice di procedura penale, quello dedicato alla sentenza di non luogo a procedere: pochi, pochissimi i giudici delle udienze preliminari che oggi respingono una richiesta di rinvio a giudizio della procura. “La notizia arriva da Milano ma il dato è generalizzato, segno nella maggior parte dei casi di un’errata interpretazione del ruolo dell’udienza preliminare”, risponde per le Camere Penali, Beniamino Migliucci, raggiunto al telefono da Italia Oggi Sette. L’avvocato a capo dell’Ucpi - Unione camere penali - si sorprende dei dati riportati dal magistrato: a Milano un centinaio di proscioglimenti in un anno quelli in base al primo comma, cioè i proscioglimenti inevitabili per motivi formali. E addirittura nessuna sentenza di non luogo a procedere come da terzo comma dell’articolo 425 cpp, quello che dà al giudice il potere di sindacare se gli elementi addotti dalla pubblica accusa sono “insufficienti, contraddittori o comunque inidonei a sostenere l’accusa in giudizio”. Una situazione in cui davanti alla possibilità di dar seguito alle tesi dell’accusa, spesso accade che il giudice dell’udienza preliminare proceda sempre anche laddove basterebbe una sentenza di non luogo a procedere a fermare il precipitare di memorie, perizie, controperizie, incidenti probatori e quant’altro. “Nel 1999”, ricorda Migliucci, “il legislatore aveva modificato l’articolo conferendo maggior valore all’udienza preliminare, vera e propria fase del procedimento penale fino ad allora concepita come mera udienza filtro. Ebbene, oggi sembra di essere tornati indietro negli anni perché l’udienza preliminare è dai più concepita ancora come tale. Un po’ per colpa di una sorta di pigrizia mentale che porta il giudice dell’udienza preliminare a pronunciarsi per il rinvio a giudizio scaricandosi della responsabilità sull’onda del “se non lo faccio io, lo farà qualcun’altro” e dall’altro per una sorta di adesione acritica alla tesi del pubblico ministero a cui, da collega, non si vuol togliere la possibilità di sostenere l’accusa in giudizio”. Per il penalista, le conseguenze di questa prassi appaiono più che scontate: “Se il giudice non interpreta correttamente il ruolo che nel 1999 il legislatore ha assegnato all’udienza preliminare, finisce per trascinare dal primo grado in su un giudizio che poteva essere chiuso dall’inizio senza ulteriore spreco di risorse e di tempo”. E qui Migliucci ritorna a bomba con un tema caro alle Camere penali e all’opinione pubblica generale: quello della terzietà del giudice e della separazione tra le carriere di magistrato giudicante e requirente per la quale l’Ucpi ha il merito di una proposta di iniziativa popolare che ha raccolto 70mila firme di cui oltre 60mila depositate alla Camera il 3 ottobre scorso. “La notizia della quasi totale scomparsa della sentenza di non luogo a procedere”, conclude, “ci riporta alla necessità di rendere ineludibile la fi gura di un giudice terzo e imparziale, separato dal ruolo di chi accusa. Ci sarebbe anche una diversa cultura della prova. Quanto più i controlli del giudice sull’operato del pm, sono effettuati da un giudice terzo, tanto più sono effettivi ed efficaci”. Stop a processi civili interminabili, emendamento alla Manovra abbatte la durata del 60% di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 27 novembre 2017 Una cura da cavallo per il processo civile. In grado di tagliarne drasticamente i tempi. E con effetti tali da fare passare l’Italia, nella classifica Doing Business sui termini di durata dei giudizi, dalla 111esima posizione alla 42esima. Queste le conseguenze possibili dell’emendamento alla manovra, di fonte parlamentare, ma appoggiato dal ministero della Giustizia e da Palazzo Chigi, al voto nelle prossime ore, che interviene per estendere l’applicazione del rito sommario di cognizione a tutte le cause di competenza del giudice unico, la stragrande maggioranza delle controversie civili. La misura rappresenta uno stralcio della più ampia riforma del Codice di procedura civile che da tempo langue al Senato, senza grandi prospettive di approvazione in questo scorcio finale della legislatura. Era stata, tra l’altro, inserita l’anno scorso nel decreto legge che prorogò la permanenza in servizio dei vertici della Cassazione, ma venne poi accantonata insieme con le disposizioni per affrontare lo stock di controversie fiscali in giacenza sempre in Cassazione. L’intervento in cantiere potrebbe incidere immediatamente sulla durata dei procedimenti civili, visto che dalle rilevazioni statistiche emerge che nel 2014 la durata media dei procedimenti civili introdotti con rito sommario di cognizione è di 385 giorni contro una durata media del procedimenti introdotti davanti al tribunale con rito ordinario di cognizione pari a 840 giorni. Si introduce con l’emendamento, che rivede il Codice di procedura civile, una radicale semplificazione del rito di primo grado davanti al tribunale in composizione monocratica, nel rispetto del principio del contraddittorio, accantonando l’obbligatorietà di scadenze temporali prefissate per lo svolgimento delle attività processuali: si evita la previsione astratta di termini obbligatori che nel concreto possono non essere giustificate da reali esigenze difensive e, quindi, risolversi in un inutile appesantimento della procedura. Più margini di manovra del giudice, quindi, nella gestione del procedimento. Il procedimento si concluderà, già al termine della discussione, comunque con una sentenza, e non con un’ordinanza, che potrà consistere anche solo nell’esposizione sintetica delle ragioni di fatto e di diritto alla base della decisione. Il rito ordinario di cognizione, contrassegnato da forme rigide e predeterminate, resta riservato alle cause, più delicate, in cui il tribunale giudica in composizione collegiale. Come funzionerà il nuovo procedimento? Nel dettaglio, la domanda è proposta con ricorso al tribunale competente. Il ricorso, sottoscritto a norma dell’articolo 125, deve contenere alcune indicazioni dell’atto di citazione. Dopo la presentazione del ricorso il cancelliere forma il fascicolo d’ufficio e lo presenta senza ritardo al presidente del tribunale, che nomina il magistrato cui è affidata la trattazione del procedimento. Il giudice designato fissa con decreto l’udienza di comparizione delle parti, assegnando il termine per la costituzione del convenuto, che deve avvenire non oltre 10 giorni prima dell’udienza; il ricorso, insieme al decreto di fissazione dell’udienza, deve essere notificato al convenuto almeno 30 giorni prima della data fissata per la sua costituzione. Il convenuto deve costituirsi con deposito in cancelleria della comparsa di risposta, nella quale deve proporre le sue difese e prendere posizione sui fatti posti dal ricorrente a fondamento della domanda, indicare i mezzi di prova di cui intende avvalersi e i documenti che offre in comunicazione, nonché formulare le conclusioni. A pena di decadenza deve proporre le eventuali domande riconvenzionali e le eccezioni processuali e di merito che non sono rilevabili d’ufficio. Se il convenuto intende chiamare un terzo in causa deve farne dichiarazione nella comparsa di costituzione e chiedere al giudice designato lo spostamento dell’udienza. Il giudice provvede a fissare la data della nuova udienza assegnando un termine perentorio per la citazione del terzo. Alla prima udienza il giudice, sentite le parti, ammette i mezzi di prova proposti e, evitata ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione e provvede, con sentenza, come detto, semplificata. Appello entro 30 giorni dalla pronuncia della sentenza in udienza. Processo civile. Magistrati contro l’estensione del rito sommario di Enrico Bronzo Il Sole 24 Ore, 27 novembre 2017 “Abbiamo appreso che il Senato si appresterebbe ad approvare un emendamento alla manovra economica per generalizzare il rito sommario facendolo diventare il rito ordinario per la trattazione dei procedimenti civili”. Lo rende noto l’Anm, che “non può che ribadire la ferma contrarietà all’intervento riformatore già espressa nel corso dei lavori parlamentari, in questo del tutto concorde con gli altri operatori del diritto”. “La riforma in cantiere - sottolinea una nota - non elimina e neanche favorisce l’efficienza del processo perché non opera sull’arretrato esistente. Le regole del processo non sono inutile orpello ma il modo con cui le parti concorrono, con ordine, alla decisione del giudice”. Eliminare la predeterminazione di tali regole, rimettendone la scelta alla valutazione discrezionale caso per caso, “rischia - sostiene ancora l’Anm - di generare prassi applicative diversificate con sicure ricadute negative in termini di garanzia dei diritti dei cittadini, di conflittualità tra le parti ed aumento delle controversie interpretative, le quali andrebbero a ripercuotersi sulle Corti d’Appello, già in affanno”. L’Anm torna a ribadire che “una seria riforma della giustizia civile deve porsi il vero problema del c.d. collo di bottiglia, rappresentato dal momento della decisione, il cui spazio, spesse volte, per la complessità e delicatezza delle vicende processuali, non tollera di essere soffocato da tempi contingentati se non a scapito della qualità della risposta alla domanda di giustizia”. “L’efficienza del processo civile può essere assicurata solo attraverso l’impiego di risorse adeguate”. In questo senso “la via da percorrere è quella, di recente intrapresa, dopo anni di stallo, di operare sulle risorse. L’efficienza del processo civile, infatti, non può essere assicurata da continui interventi sul rito, a costo zero, ma solo attraverso l’impiego di risorse adeguate per garantire l’operatività dell’ufficio per il processo in tutti i Tribunali, una seria revisione delle piante organiche, non solo degli uffici giudicanti, ma anche del personale di cancelleria, e delle circoscrizioni giudiziarie”. Giustizia alternativa: superano quota 100mila le mediazioni nelle Camere di commercio giornaledellepmi.it, 27 novembre 2017 Sono 112 mila i procedimenti di mediazione depositati in 6 anni presso gli Organismi delle Camere di commercio. Uno su tre è stato presentato presso gli sportelli camerali del Nord est. Per arrivare alla risoluzione delle controversie ci sono voluti in media 46 giorni e il valore dei procedimenti definiti si è attestato mediamente su 113mila euro. E quando le parti interessate si sono sedute intorno a un tavolo, l’accordo si è raggiunto nel 32% dei casi. È il bilancio dell’attività di mediazione del sistema camerale da aprile 2011 a giugno 2017 presentato presso la Camera di commercio di Cosenza insieme a un focus sulla realtà locale a conclusione della XIV Settimana della conciliazione, il tradizionale appuntamento promosso da Unioncamere e realizzato dalle Camere di commercio per informare sulle novità ed i vantaggi della mediazione attraverso iniziative specifiche realizzate sui territori. Lombardia, Veneto e Emilia Romagna sono le regioni che nel periodo considerato hanno maggiormente fatto ricorso alla mediazione delle Camere di commercio per dirimere le liti. 2 domande su 5 provengono infatti da queste aree geografiche. Il numero di procedimenti depositati presso le Camere di Commercio ha registrato una crescita media annua dell’0,6%. Tuttavia lo scorso anno per la prima volta, dopo la sospensione tra gennaio e settembre del 2013 della condizione di procedibilità, il numero delle domande depositate presso gli sportelli camerali ha registrato una flessione passando da 20.728 nel 2015 a 19.332 nel 2016. Tuttavia nonostante la riduzione dell’attività del 2016 rispetto a quella del 2015, complessivamente le mediazioni camerali registrate sono state dello stesso livello di quelle del 2012, anno dell’introduzione della mediazione obbligatoria anche per materie con alto livello di litigiosità come il risarcimento del danno da veicoli e natanti escluso successivamente dal “decreto del fare”. Questo calo si inserisce in un quadro di generale ridimensionamento delle domande gestite nel 2016 presso tutti gli organismi di mediazione iscritti nel registro del ministero della Giustizia che sono diminuite del 6%, come evidenziato dal recente rapporto Isdaci. “Le Camere di commercio sono rimaste un punto di riferimento importante per le procedure di mediazione, nonostante il calo fisiologico che lo scorso anno abbiamo registrato del numero degli organismi camerali preposti e dei procedimenti gestiti. È quanto ha sottolineato il vice segretario generale di Unioncamere, Tiziana Pompei, che ha aggiunto “su questa flessione ha influito negativamente sia l’incertezza generata dalla riforma del sistema camerale e degli accorpamenti previsti sia una diffusa quanto errata convinzione che le Camere non potessero più gestire mediazioni. Malgrado ciò nel 2016 gli sportelli camerali hanno gestito il 10,5% delle oltre 183mila domande complessive rivolte a tutti gli organismi di mediazione iscritti nel registro”. Elezioni, induzione indebita per funzionario-candidato che ottiene voti minacciando sanzioni di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 27 novembre 2017 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 22 novembre 2017 n. 53117. Commette il reato di induzione indebita il funzionario dell’Agenzia delle Entrate che, prospettando una pesante sanzione a seguito di ispezione fiscale, sfrutti lo stato di soggezione del cittadino, al fine di ottenere una prestazione indebita a suo vantaggio. Ai fini della configurabilità del reato di cui all’articolo 319-quater c.p., poi, non rileva il fatto che la sanzione da irrogare fosse effettivamente più lieve, ma solo lo stato di “sudditanza” del destinatario del controllo fiscale. Questo è quanto emerge dalla sentenza 53117 della Cassazione, depositata il 22 novembre. I fatti - La vicenda vede come protagonista un funzionario dell’Agenzia delle Entrate, candidato alle elezioni per la nomina del Consiglio comunale locale, il quale era accusato del reato di “Induzione indebita a dare o promettere utilità”, per aver indotto il proprietario di un bar a promettergli il suo voto e quello dei suoi familiari alle imminenti elezioni comunali, al fine di evitare una sanzione fiscale per le presunte irregolarità riscontrate nel locale. In particolare, circa un mese prima delle consultazioni elettorali, il pubblico ufficiale-candidato aveva effettuato una verifica fiscale presso l’esercizio commerciale da cui era emersa una serie di irregolarità, prospettando una possibile sanzione di 100mila euro. Lo stesso funzionario era poi riuscito a far evitare il pagamento della sanzione in cambio della promessa dei voti. Dinanzi ai giudici, il pubblico ufficiale si difendeva sostenendo che, in realtà, egli non aveva effettuato alcuna ispezione o verifica, ma semplicemente un accesso volto a verificare la congruità dei ricavi del bar con gli studi di settore e che, a ogni modo, al titolare del bar non poteva essere applicata una sanzione di 100mila euro per eventuali irregolarità. Sia Tribunale che Corte d’appello, tuttavia, ritenevano integrati gli estremi del reato di cui all’articolo 319-quater c.p. sottolineando il fatto che il dipendente dell’Agenzia delle Entrate avesse “sfruttato in maniera insidiosa e subdola la sua qualità e i suoi poteri” di funzionario dell’ente fiscale. La decisione - E lo stesso fa la Cassazione che conferma la condanna dichiarando inammissibile il ricorso, perché volto a ottenere un riesame nel merito della vicenda, non ammesso in sede di legittimità. La Corte sottolinea che dalle testimonianze rese in dibattimento e dalle intercettazioni emerge un chiaro quadro probatorio che non dà scampo al funzionario pubblico. Quest’ultimo, infatti, “abusando della sua qualità e dei suoi poteri all’interno dell’Agenzia delle Entrate, facendo inizialmente emergere una situazione negativa scaturente dal controllo da lui diretto e ventilando l’ipotesi di una soluzione bonaria in cambio di un sostegno elettorale”, ha approfittato dello “stato di angoscia” del titolare del bar per l’eventuale sanzione fiscale, ottenendo così “la promessa, poi mantenuta, di voti in suo favore nelle imminenti elezioni comunali”. E a nulla rileva il fatto che la sanzione concretamente applicabile per le irregolarità riscontrate fosse inferiore a quella prospettata dal funzionario: ciò che conta è lo stato di soggezione in cui si è venuto a trovare il proprietario dell’esercizio commerciale. Sì al matrimonio dei minorenni se “liberi” da deficit cognitivi e condizionamenti esterni di Selene Pascasi Il Sole 24 Ore, 27 novembre 2017 Tribunale di Caltanissetta, decreto del 26 ottobre 2017. Al minore con più di 16 anni, maturo e responsabile, l’autorizzazione a sposarsi va negata solo se si accerta che la sua volontà è stata condizionata da deficit cognitivi o da altri fattori esterni. Altrimenti, i suoi desideri devono essere valorizzati. Lo sottolinea il Tribunale per i minorenni di Caltanissetta, con decreto del 24 ottobre scorso (presidente e relatore Porracciolo). La questione - È una coppia di giovani, prossimi ai 17 anni, a chiedere e ottenere dai giudici il nulla osta a sposarsi. L’articolo 84, comma 2, del Codice civile- ricorda il collegio - ammette il matrimonio di chi abbia compiuto almeno 16 anni, purché se ne accerti la maturità psico-fisica, si ritengano fondate le ragioni addotte a sostegno della domanda e vi siano gravi motivi per concederla. E se la nozione di “gravi motivi”, si precisa, va interpretata restrittivamente, il contenuto dispositivo della norma deve, invece, essere applicato in maniera ampia, con conseguente diniego di autorizzazione soltanto in casi estremi. Tra questi - come già annotato dalla Corte d’appello di Caltanissetta con decreto del 26 ottobre 2006 - l’aver accertato che il minore abbia subìto un serio condizionamento della propria sfera intellettiva e/o volitiva, tale da far ritenere che la scelta di sposarsi sia stata viziata e, quindi, non possa essere apprezzata dal giudice. Ma se la decisione di contrarre matrimonio risulta consapevole e libera, il vincolo deve essere autorizzato. Del resto, il punto di vista dei minorenni, se non è influenzato da patologie mentali o da altre cause, va sempre tenuto in debito conto. Non è un caso che l’articolo 3 della Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei minori di Strasburgo, ratificata in Italia con la legge 77/2003, imponga al giudice di acquisire, mediante audizione e nei procedimenti che li riguardino, l’opinione dei minorenni di qualsiasi età, purché capaci di discernere, ossia di “intendere il significato e la rilevanza della decisione”. Il via libera del Tribunale - Il Tribunale per i minorenni ha autorizzato, valorizzandone la volontà, il matrimonio dei ricorrenti intanto perché la coppia, quasi diciassettenne, non poteva più dirsi adolescente, avendo acquisito, a prescindere dalla formale collocazione nella categoria dei soggetti minorenni, un “sufficiente grado di maturità”. Maturità confermata, implicitamente, anche dai rispettivi genitori che, dicendosi favorevoli al rilascio dell’autorizzazione, hanno riconosciuto la capacità dei figli “di svolgere adeguatamente” i compiti derivanti “dalle nuove responsabilità, genitoriali e di coppia”. Nessuno dei due ragazzi, poi, risultava affetto da disturbi di personalità, anomalie del carattere o patologie della sfera neuro-psichica idonee a escludere o ridurre sensibilmente le capacità intellettive e/o volitive. La loro, quindi, era una scelta libera e cosciente, che il collegio non poteva non assecondare, dando il via libera alla celebrazione del matrimonio. Ascoli: “Scarpette rosse in carcere”, proiezioni e dibattiti contro la violenza sulle donne di Teresa Valiani Redattore Sociale, 27 novembre 2017 Ad Ascoli l’iniziativa che ha coinvolto detenuti, operatori e volontari. Confronto sul modo migliore per prevenire gli episodi di violenza. Due paia di scarpe rosse spezzano l’immobilità del luogo e campeggiano cariche di luce e significato sotto la targa che separa a chiare lettere il mondo dei liberi da quello dei reclusi, indicando la Casa circondariale di Ascoli Piceno. Le scarpe stanno lì a rappresentare la giornata nazionale contro la violenza sulle donne e, per rimarcare il messaggio, altre lettere, a fianco, sottolineano da una locandina che “la violenza è l’ultimo rifugio degli incapaci”, citando Isaac Asimov. È così che anche il carcere, luogo per eccellenza preposto a contenere ogni tipo di sopraffazione, si fa carico di una spinta che mai come in questi anni sente il bisogno di emergere. Anche l’istituto di Ascoli Piceno, come moltissimi in Italia, ha aderito all’iniziativa nazionale “Scarpette rosse in carcere” promossa dal Comitato pari opportunità della polizia penitenziaria (Cpo) che ha invitato carceri e sedi di Uepe, Prap, Dap e Isspe a partecipare alla giornata di sensibilizzazione “con una azione simbolica rivolta all’esterno delle mura”. “Tante targhe - si legge in una nota della scorsa edizione - sono state viste dai passanti come segno che l’amministrazione penitenziaria partecipa a questa battaglia di civiltà. L’iniziativa è vissuta come occasione di incontro fra il personale, nella consapevolezza del ruolo decisivo che tutti gli operatori e anche la polizia penitenziaria svolgono attraverso il trattamento per il recupero sociale degli uomini violenti, dei sex offenders (persone detenute per reati di natura sessuale ndr), per prevenire la recidiva e tutelare le vittime e l’intera collettività da questi gravissimi reati”. Quest’anno, il Cpo ha promosso anche la tavola rotonda “Percorsi per una rete contro la violenza sulle donne” che si è tenuta giovedì scorso nell’Aula Minervini del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Aderendo all’invito nazionale, ogni istituto, poi, ha promosso iniziative ed eventi interni. Ad Ascoli Piceno è stata anche organizzata una proiezione a tema seguita da un dibattito e dalla discussione sul delicato argomento. Detenuti, operatori e volontari si sono confrontati sul modo migliore per prevenire e affrontare situazioni che spesso partono proprio dall’ambiente familiare. L’associazione “Blow Up”, attiva al Marino da molti anni, ha proposto la visione di “North country - storia di Josey”, di Niki Caro (Usa 2005), con Charlize Theron, tratto da una storia vera. “Crediamo - ha commentato la direttrice del carcere, Lucia Di Feliciantonio - che queste giornate siano molto importanti per non abbassare mai la guardia e continuare a sensibilizzare giovani e meno giovani su un tema che ci riguarda tutti, da vicino. Molto più di quanto possiamo immaginare”. Roma: docu-film con le detenute di Rebibbia contro la violenza sulle donne La Repubblica, 27 novembre 2017 “Salviamo la faccia”. Dodici detenute raccontano la loro storia: dall’amore all’inferno delle violenze patite fuori e dentro casa. Alcune arrivate in Italia con l’inganno e costrette poi a prostituirsi. Altre attirate con il miraggio di una famiglia serena precipitate nell’abisso della sopraffazione quotidiana. Altre che da un’esistenza tranquilla sono state intrappolate in una rete di gelosie e vendette. Girato nell’azienda agricola del carcere, è una testimonianza cruda e diretta della sofferenza femminile. La regia è di Giulia Merenda, il montaggio di Simona Paggi con la fotografia di Giovanni Piperno e il suono di Fabio Santesarti. Il docu-film “Salviamo la faccia”, con le donne del carcere di Rebibbia, verrà presentato alle 15,30, in occasione della Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne, alla Protomoteca del Campidoglio, su iniziativa del Garante dei detenuti di Roma Capitale. Trapani: “Non toccate Eva”, dal carcere il no alla violenza sulle donne gdmed.it, 27 novembre 2017 “Non toccate Eva”, questo il titolo dell’incontro-dibattito svoltosi alla Casa circondariale di Trapani in occasione della “Giornata internazionale contro la violenza sulle donne”. A conversare sul tema con i detenuti, dopo i saluti del direttore Renato Persico, sono stati la sociologa Ignazia Bartholini, la responsabile del circolo Udi di Trapani Valentina Colli, il giornalista e scrittore Maurizio Macaluso, monsignor Liborio Palmeri, direttore del Museo “San Rocco” e delegato vescovile per il dialogo culturale, e la psicologa e psicoterapeuta Fabrizia Sala. “Si è trattato - spiega la giornalista Ornella Fulco, organizzatrice e moderatrice dell’incontro - di una occasione per riflettere tutti insieme, ospiti e detenuti, sulle cause e sulle conseguenze, di vario tipo, della violenza sulle donne. L’idea era quella di cercare il confronto e stimolare il dibattito con le persone recluse e non di andare a impartire “lezioni” e, con il contributo di tutti, ci siamo riusciti”. I detenuti hanno espresso le loro opinioni, partendo anche dal loro vissuto personale e culturale - tra loro anche alcuni stranieri - mentre gli ospiti hanno offerto elementi di riflessione a partire dal proprio osservatorio professionale. Dai dati statistici sulla violenza contro le donne in Italia - ancora tristemente alti - all’influenza della religione nella visione del ruolo della donna, dall’importanza dell’azione delle associazioni femministe al ruolo della collettività nel costruire una società in cui la diversità uomo-donna trovi accoglienza e valorizzazione e non sia, invece, origine di conflitto, sono stati variegati i contributi offerti nelle oltre due ore di incontro. Al termine della manifestazione, a cui hanno partecipato anche il comandante di Reparto della Polizia Penitenziaria, commissario Giuseppe Romano, il responsabile dell’Area educativa, Antonio Vanella, e la magistrata di sorveglianza Chiara Vicini, oltre che alcuni educatori. la presidente Fidapa di Castellammare del Golfo e docenti che operano nel carcere trapanese, sono stati consegnati come omaggio agli ospiti alcuni oggetti in ceramica realizzati dai detenuti che hanno seguito uno dei corsi di formazione che vengono attivati presso la Casa circondariale. Cagliari: spazio all’aperto per gli incontri tra i detenuti dell’Ipm e i loro familiari vistanet.it, 27 novembre 2017 “Da le celle alle stelle” è un progetto di autocostruzione di uno spazio all’aperto per gli incontri tra i detenuti dell’Istituto Penale Minorile di Quartucciu e i loro familiari. La speranza è che i momenti liberi siano resi più lieti da spazi costruiti su misura per le loro esigenze. Inoltre, poiché il progetto sarà realizzato anche con le loro mani, saranno incrementati sia il senso di appartenenza che la voglia di prendersi cura di qualcosa di proprio. I rapporti familiari sono considerati di vitale importanza dall’Ordinamento penitenziario. Per tutta la durata del processo, i detenuti saranno supportati e aiutati dai volontari di Artefacendo, associazione culturale no profit nata a Cagliari nel 2017 con lo scopo di ricreare il legame che esiste tra l’idea e l’azione. Sarà stimolato anche lo spirito di collaborazione tra detenuti, tra volontari e tra detenuti e volontari. È Alice Salimbeni, studentessa di Architettura e co-fondatrice di Artefacendo, a voler dar vita, per la sua tesi di laurea, a tutto questo. Con l’aiuto della professoressa Barbara Cadeddu - che definisce sua guida in questo percorso difficile -, si è messa all’opera. “La creazione di ambienti adeguati, simili a quelli non carcerari, contribuisce a far mantenere ai giovani detenuti il contatto con il mondo esterno, e allevia l’esperienza della reclusione che anche i parenti affrontano recandosi periodicamente nella struttura per i colloqui programmati” spiega l’ideatrice del progetto. Nella pagina Facebook “Da le celle alle stelle: uno spazio auto costruito al carcere minorile” si troveranno tutti gli eventi a cui si potrà aderire per contribuire alla raccolta fondi per l’acquisto del materiale. Per chi fosse impossibilitato a partecipare agli eventi ma volesse comunque dare un contributo, è disponibile un Iban. Per prima cosa, ci sarà una rassegna musicale (Dai diamanti non nasce niente) che finirà con un concerto finale (il 10 dicembre). Il progetto tiene conto dell’analisi delle dinamiche relazionali che coinvolgono i detenuti. “Più nel dettaglio, considerando che negli aspetti riabilitativi della pena si ritiene che il mantenimento degli affetti sia fondamentale, assume particolare importanza il momento nel quale i ristretti incontrano i propri cari” continua Alice Salimbeni. Ferrara: progetto “Galeorto”, i detenuti coltivano la terra La Nuova Ferrara, 27 novembre 2017 L’associazione Viale K e la società di agricoltura sociale “Laudato sì” stanno partecipando ad un bando presso Confagricoltura nazionale che si intitola “Galeorto”. “Già da un anno - dice l’associazione - il terreno di tre ettari tra la rete e il muro di cinta della Casa Circondariale di Ferrara è coltivato da alcuni detenuti grazie all’accordo tra l’ amministrazione carceraria e Viale K -Laudato Sì con l’aiuto esterno di alcuni imprenditori agricoli. Abbiamo coltivato zucche violine igp con buoni risultati. Partecipando al bando che mette in palio 40.000 e potendolo vincere abbiamo la possibilità di acquistare alcuni strumenti indispensabili come un trattore, un carrello, una fresa, l’impianto di irrigazione per continuare l’attività del “Galeorto”. Contiamo così di impegnare ogni anno circa 8 detenuti con misure di detenzione attenuata dando loro un riconoscimento economico e soprattutto la possibilità di mettere in pratica ciò che la scuola di agraria Vergani-Navarra insegna loro nei corsi all’interno del carcere”. Il bando prevede che, in una prima fase di selezione, il progetto “Galeorto” riceva il “mi piace” via mail del maggior numero di sostenitori entro e non oltre il 29 Novembre 2017. Per questo è importante lanciare l’appello”. Trento: progetto di formazione di inserimento lavorativo per le donne detenute agenziagiornalisticaopinione.it, 27 novembre 2017 Carcere di Trento: un progetto per il lavoro femminile. Decisione della Giunta su proposta del vicepresidente Alessandro Olivi. Casa circondariale di Trento: sta per partire un progetto di formazione in inserimento lavorativo per le donne detenute, che vede coinvolti Agenzia del lavoro, il Servizio per le Politiche sociali della Provincia e la cooperativa sociale Venature di Trento. Due gli obbiettivi: innanzitutto offrire alle destinatarie un’opportunità per accrescere le proprie competenze e sviluppare una maggior consapevolezza personale e sociale. Inoltre, sperimentare un’attività lavorativa anche nella sezione femminile del carcere per arrivare, se i risultati di questa fase sperimentale fossero positivi, all’avvio di un’attività imprenditoriale di lavanderia da parte della cooperativa sociale Venature. La decisione è stata ratificata oggi dalla Giunta provinciale su proposta del vicepresidente e assessore allo sviluppo economico e lavoro Alessandro Olivi, accogliendo una specifica richiesta del responsabile dell’area educativa della Casa circondariale di Trento. Il Progetto riguarda l’attivazione di un servizio di lavanderia anche presso la sezione femminile, sul modello già presente nella sezione maschile. Le detenute verranno assunte dalla casa circondariale e saranno impiegate per tre ore al giorno dal lunedì al venerdì. Si prevede una rotazione su un periodo di tre mesi, con la possibilità però di proroga del rapporto di lavoro o l’assunzione a tempo indeterminato a titolo di premialità e di accrescimento della motivazione. Le lavoratrici hanno comunque la necessità di essere formate, sostenute e coordinate e il carcere non ha risorse per affiancarle. Per questo la cooperativa sociale Venature, che già da anni gestisce il servizio di lavanderia maschile all’interno della Casa circondariale, si rende disponibile attraverso l’impiego di un proprio dipendente, il cui costo lavoro verrà riconosciuto da Agenzia del Lavoro. In parallelo, questo percorso formativo/lavorativo è integrato da un progetto più articolato - un’attività di acquisizione di nuove competenze e di sostegno per le donne ristrette nella sezione femminile al fine di promuovere elementi di maggior benessere personale e relazionale - finanziato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Pesaro: convegno “La medicina difensiva in carcere, aspetti medico-legali e psicologici” di Paolo Montanari pesaronotizie.com, 27 novembre 2017 Si è svolto nella sala provinciale Pierangeli un interessante e affollato convegno dal titolo: La medicina difensiva in carcere, aspetti medico-legali e psicologici, a cura della dottoressa Maria Grazia Luzzini responsabile U.O.S. formazione Av 1 Asur Marche, che ha diretto questo corso-convegno indirizzato a medici, infermieri, educatori e psicologi e del dottor Pierluigi Fraternali, responsabile scientifico del corso, dell’Organizzazione di Servizi sanitari di base cure adulti. La Riforma della Medicina Penitenziaria delinea una Medicina di iniziativa e di opportunità, relegando in spazi assolutamente marginali la Medicina cosiddetta d’attesa e la Medicina difensiva. La Medicina Penitenziaria deve comportare non soltanto applicazione di conoscenze, di nuove tecnologie, ma anche la capacità di saper fronteggiare una situazione umana specifica. Di queste problematiche ne hanno parlato, magistrati, medici del lavoro, psichiatri, educatori carcerari, in una full immersion che ha previsto la riflessione da vari punti di vista. La sanità in carcere alla luce dei nuovi ordinamenti: il punto di vista della Regione Marche; la sanità in carcere alla luce dei nuovi ordinamenti: il punto di vista dell’Amministrazione Penitenziaria; l’organizzazione sanitaria e salute in carcere; la gestione del rischio clinico nella sanità penitenziaria, la salute mentale in carcere, la presa in carico in carcere del paziente affetto da disturbo mentale, I percorsi e trattamenti dei detenuti alla luce dei principi dell’ordinamento penitenziario: il ruolo del magistrato di sorveglianza e del ruolo del garante dei diritti dei detenuti. Dall’incontro è emerso che deve essere rimossa la visione meccanicistica della Medicina che porta a vedere l’uomo come una macchina dai mille ingranaggi, dimenticandosi che l’uomo è anche psiche con le conseguenti implicazioni esistenziali, affettive e culturali. Dunque necessita un dialogo fra detenuto e medico. La professione del Medico penitenziario è complessa e vi convivono una dimensione clinica e tecnica, organizzativa-gestionale e una dimensione culturale e di ricerca. Napoli: gli studenti di Sant’Arcangelo in visita a Nisida al carcere minorile lasiritide.it, 27 novembre 2017 Il 23 novembre abbiamo partecipato ad un’uscita didattica presso il carcere minorile di Nisida. Abbiamo passato una giornata molto interessante sotto la guida del dottor Gennaro Imperatore, che ci ha assistito durante tutto il nostro percorso e fornito importanti informazioni riguardanti l’ambiente e le condizioni di vita del luogo oggetto della nostra visita. Appena arrivati a Napoli siamo stati accolti dal dottor Imperatore che ci ha accompagnati ad un convegno riguardante la violenza di genere presso l’istituto ‘Salvatore Di Giacomò a San Sebastiano al Vesuvio. Ci siamo fermati lì per alcune ore nelle quali abbiamo assistito a vari interventi, tra cui una toccante testimonianza di una donna che era stata oggetto di violenza del marito. La parte più interessante della giornata è arrivata di pomeriggio, quando abbiamo avuto la possibilità di entrare in contatto con realtà a noi sconosciute, visitando zone di Napoli come Scampia. Questo ci ha portato ad una riflessione sulle nostre condizioni di vita, che ci offrono maggiori possibilità. Successivamente ci siamo recati all’Istituto penale minorile di Nisida, uno dei più grandi d’Italia, che ospita circa 66 ragazzi dai 14 a i 25 anni. Una volta arrivati nella struttura adibita all’accoglienza abbiamo partecipato a una discussione con il direttore del carcere, Gennaro Imperatore, un’educatrice e un ragazzo che aveva passato del tempo nel carcere minorile. L’incontro è stato molto ben strutturato, una parte che ci ha permesso di apprendere il funzionamento di un istituto minorile e una seconda parte che ci ha permesso di soddisfare la nostra curiosità attraverso domande mirate. È stata un’esperienza molto positiva che ci porteremo dentro per sempre e per questo bisogna ringraziare chi a scuola ha organizzato il viaggio (le professoresse Antonietta Di Giacomo, Marilena Palermo e Rosanna Pirotto) e chi vi ha preso parte migliorandolo. Un ringraziamento particolare alla dirigente Lucia Lombardi. Cosenza: tra filosofia, mito e realtà, la giustizia di Gustavo Zagrebelsky di Michele Presta laltrocorriere.it, 27 novembre 2017 L’ex presidente della Corte Costituzionale al Premio Sila. “Viviamo in un mondo di contraddizioni e abbiamo la responsabilità di capirlo”. E sulla politica “Chi ride della vittoria elettorale non sa le responsabilità che lo attendono”. Il simbolismo, la leggenda, la natura giuridica della mitologia legata alla giustizia sembrano essere tutti racchiusi nella forma sferica che le mani del giurista Gustavo Zagrebelsky compongono in modo simmetrico. Le scompone per qualche frazione di secondo giusto per sfogliare le pagine della sua lectio magistralis. Il premio alla carriera dell’edizione del Premio Sila 2017 va a lui. Non si sottrae alla platea e suggerisce ai liceali che lo ascoltano di partire dalla domanda: quid est iustizia? “Partiamo da una distinzione netta: il governo è sempre rappresentato da un uomo, la giustizia da una donna”. Tre sono i simboli: la benda, la bilancia la donna, ma ce n’è un altro: “In molti - aggiunge Zagrebelsky - non considerano il ginocchio nudo”. E proprio la rappresentazione della dea, quasi spudorata nel mostrare una parte del corpo tabù fino agli anni 70 dà l’idea di giustizia, che oltre a essere giusta ha anche i tratti misericordiosi. “Il ginocchio nudo della giustizia si presta a due interpretazioni: una positiva e una negativa. Quella negativa è di una giustizia che mette a nudo il suo corpo. Quasi come se fosse pronta a vedere le sue funzioni, una giustizia prostituta. Poi c’è la visione positiva, dell’uomo in cerca di giustizia che abbraccia le ginocchia del potente si umilia ed è pronta ad accettare il suo verdetto”. Quella dell’ex presidente della Corte Costituzionale assume i contenuti e i tratti di una vera e propria lezione di filosofia del diritto. Una riflessione capace di spaziare dai testi fondamentali del diritto del primo medio evo all’antologia di Spoon River di Edgar Lee Master. Una digressione sulla simbologia della giustizia che smonta i luoghi comuni e cerca di decifrare l’ambiguità che si nasconde dietro una parvenza di giustizia giusta, imparziale, giudicante in modo asettico i fatti. “Gli occhi della dea sono bendati. Ascolta dalle due orecchie e decide pesando i fatti e le norme sulla sua bilancia, ma anche qui mi tocca porvi davanti ad una visione diversa. Nelle poesie dello Spoon River la benda nasconde il marciume della giustizia, la corruzione, le angherie perpetrate a quelli che Gramsci definiva subalterni”. Insomma una dea giustizia a due facce: quella di una donna corrotta e quella di una donna misericordiosa. E il tema ricorrente della giustizia come “Mater Misericordiae” è ripreso Zagrebelsky anche nell’esempio di un vecchio giudice francese. “Nella Francia del primo 500 c’era un giudice molto famoso. Non sbagliava una sentenza. Un giorno però il parere del togato fu errato al punto che in molti si chiesero come avesse fatto a giudicare per tutti questi anni. Lui, messo alle strette, risposte di essersi affidato per tutta la sua carriera al lancio di una moneta, confidando nel fatto Dio avrebbe fatto il resto”. A Zagrebelsky, il racconto serve da introduzione al ruolo rivestito dai giudici, vera voce della dea. Le loro braccia si sostituiscono ai bracci della bilancia e messi in posizione centrale hanno il compito di giudicare. “Si usa la bilancia a due braccia perché questa misura il peso relativo, quella con un solo braccio misura il peso assoluto, se non si usassero due pesi non avrebbe senso avere un giudice e parlare di giustizia”. È schietto sul finire, imparziale visto l’argomento nel dire: “Viviamo in un mondo di contraddizioni e abbiamo la responsabilità di capirlo. C’è un passo della Bibbia nel libro del Siracide che recita “Sotto il sole non c’è nessun uomo che facendo del bene non faccia anche del male”. E non manca anche la nota politica. L’impegno nell’ultima battaglia sul referendum costituzionale ha acceso su Gustavo Zagrebelsky dei riflettori ai quali non era abituato. Riparte proprio dalla contraddizione che ci circonda e sulle notti insonni del giudice che riflette sulla spada del governante. Come nel Leviatano di Hobbes in cui il governante con la spada in mano decide sui sudditi. “Quando vedo i leader di coalizioni dopo le elezioni apparire in tv sorridenti capisco che non si rendono conto di quello che sta per accadere alle loro vite, ci sarebbe veramente poco da ridere vista la responsabilità che li attende”. Bollate (Mi): teatro-carcere, il dramma dei migranti nella cornice del carcere di Guido Buttarelli corrieredellospettacolo.net, 27 novembre 2017 È certamente una regista che ama le sfide, Michelina Capato Sartore. Una sfida è la direzione della cooperativa teatrale E.S.T.I.A. che dal 2006 svolge le proprie attività di produzione e laboratori con detenuti all’interno della Casa di Reclusione (sì, la prigione) di Milano Bollate, approfondendo le tecniche di teatro-danza e di uso della voce. Si tratta di un carcere che rappresenta un riferimento europeo. Al suo interno si realizzano percorsi di inserimento in un ampio spettro di attività: tipografia, falegnameria, computer e video, panetteria e pasticceria, sartoria, floricultura. Dal 2015 inoltre è attivo il ristorante inGalera, accessibile su prenotazione da avventori esterni al carcere. Il lavoro teatrale della cooperativa teatrale E.S.T.I.A. poggia su un progetto educativo di reinserimento sociale coronato da successo, visto che le statistiche registrano una percentuale di recidiva più bassa della media (il 6%) fra chi ha seguito i corsi teatrali. Come ci ha fatto osservare la regista, gli ambienti sociali di provenienza della stragrande maggioranza dei detenuti hanno offerto loro scarsissime possibilità di affermazione. Per questo, più che offrire una “seconda possibilità”, il teatro è uno dei percorsi di formazione che rappresentano la prima concreta chance di inserimento positivo nella società. La seconda sfida è stata produrre in pochi mesi lo spettacolo Ormai interamente senza parole. Affidato ai gesti, ai rumori, alle musiche. (Non poteva certamente sfuggire questa insolita ambientazione teatrale ad Alberica Archinto e a Rossella Tansini, curatrici della rassegna Stanze, rappresentazioni teatrali in luoghi non convenzionali: case private, musei e case-museo, studi professionali, legali e di architetti, laboratori, magazzini. In questo caso, una casa di reclusione). Gli attori protagonisti di Ormai sono sette: quattro uomini ora in carcere e un ex detenuto, mentre i due personaggi femminili sono attrici esterne. I costumi, realizzati da due studenti del corso di Fashion Design dello Ied, sono di estrema sobrietà. Suggeriscono una nudità disadorna, ma, utilizzando anche accessori ortopedici come ad esempio fasciature e cavigliere, rimandano alle ferite esistenziali dei protagonisti. (Alcuni degli attori esibiscono con orgoglio fisici statuari, suscitando più di un pensiero tra il pubblico femminile). L’ampia sala teatrale che accoglie lo spettacolo è stata realizzata dai detenuti stessi. In un grande ambiente quadrato, rappresentazione del mare, cinto da grandi reti da pesca che assumono via via i significati più svariati, sette migranti dividono il ristretto spazio di un barcone. Non pronunciano parola, affidando il racconto a gesti di rara e costante armonia. Si narra di migranti, di disperazione, di vite difficili e sofferte. (Abbiamo chiesto alla regista, Michelina Capato Sartore, come fosse riuscita a ottenere da ciascuno degli attori movimenti così precisi e calibrati. “In realtà” ci ha risposto “il vero lavoro del laboratorio di teatro-danza è stato far emergere da ciascuna persona i movimenti più naturali, secondo i propri ritmi interiori”). Si susseguono scene di vita, ordinarie e drammatiche, con il solo corredo scenico delle reti con cui giocare, fustigare, imprigionare. Oppure rappresentare l’abito da sposa di un matrimonio in mare, che non avrà luogo per il rifiuto dello sposo. La lunga convivenza sul barcone fa emergere i comportamenti più cupi e dolorosi. Lo sfruttamento delle posizioni di potere per ottenere servigi. Ma anche il flagello degli stupri. La morte di un migrante, con le braccia in croce di un Cristo moderno e disperato. Il parto drammatico di un bimbo che avrà una rete per culla. A tratti suoni di sirena scandiscono il tempo, riportando tutti alle posizioni di scena originarie. A turno tutti finiscono imprigionati nella propria rete individuale, metafora della impossibilità di uscire dai limiti delle nostre visioni. Alla fine dello spettacolo, una nuova rete, grande e fitta cala come parete divisoria tra il pubblico e le esistenze disperate dei migranti. Gli applausi al termine dello spettacolo sono il riconoscimento sincero di una prova di grande intensità fisica ed espressiva. Il dramma delle spose bambine nelle baraccopoli di Roma papaboys.org, 27 novembre 2017 Non serve cercarli lontano. In Paesi in cui la “tradizione” giustifica i matrimoni precoci delle bambine. Basta infatti spingersi nei pressi del Grande raccordo anulare, nella periferia abbandonata della Capitale per trovare percentuali di spose bambine simili all’Africa. Nelle baraccopoli che si sviluppano ai confini della città di Roma, infatti, il tasso di unioni precoci è del 77%, “un numero inaspettato e scioccante”, che supera il record mondiale detenuto dal Niger (pari al 76 per cento) e di gran lunga il tasso più alto detenuto in Europa, ben distante da quello di Stati come la Georgia (17 per cento) e la Turchia (14 per cento). A rivelarlo, in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, l’Associazione ‘21 lugliò nel report Non ho l’età. I matrimoni precoci nelle baraccopoli della città di Roma. E così le bambine si sposano in giovane età perché povere, non istruite, disoccupate. Da questa indagine sul campo, durata due anni (2014-2016) in sette insediamenti spontanei e un’occupazione all’estrema periferia della Capitale in cui vivono più di 3mila persone, è emerso infatti che in queste baraccopoli ci sono 71 matrimoni precoci. Un “risultato shock”, lo definisce l’Associazione “21 luglio”, soprattutto se si pensa che tra chi si è sposato ancora minorenne 7 volte su dieci il giorno delle nozze aveva un’età compresa tra i 16 e i 17 anni, mentre nel 28% dei casi non superava i 15 anni ed era però maggiore di 12. In questo contesto, è il passaggio successivo della ricerca, “il genere incide in maniera determinante sulla precocità del matrimonio”, visto che una ragazza su due si sposa tra i 16 e i 17 anni e una su 5 tra 13 e 15 anni”. Costrette dai genitori a matrimoni combinati, in circa la metà dei casi, o conseguenza di un percorso scolastico fallimentare, il matrimonio in giovanissima età diventa “l’esito di un disagio a cui le istituzioni tutte - scolastiche, comunali, sanitarie - non sono state in grado di rispondere”. Ed è così che, spiega il presidente dell’Associazione 21 luglio Carlo Stasolla, “Roma sta diventando come Mumbai, c’è un processo di indianizzazione con gruppi umani in periferia totalmente abbandonati che si tendono a chiudere in se stessi”. Non c’è però nessun legame con etnie particolari, vista “la trasversalità dei matrimoni precoci”, ma i numeri provano come “la questione dipenda dalle condizioni socio-economiche” in cui versano le famiglie piuttosto che dalle specificità culturali dei singoli gruppi. Fattore determinante è perciò l’inserimento sociale e soprattutto scolastico dei bambini, “che avviene in appena il 19% dei casi in città - continua Stasolla - anche perché le scuole di periferia non hanno gli strumenti adeguati per favorire l’inserimento”. Assenza di stimoli esterni, alto tasso di disoccupazione (soprattutto femminile) fanno del matrimonio “un’opportunità per investire tempo, energie e capacità”. Perciò la pratica dei matrimoni precoci - “favorita dallo svantaggio socio-economico e dal condizionamento della collettività di uno spazio ristretto e densamente abitato” - si combatte, secondo Stasolla, con “una lotta alla povertà a 360 gradi, che significa interventi sulla scuola, sulla casa, politiche sulla salute e sul lavoro”. La situazione attuale, infatti, è “frutto di un trentennale disagio di alcuni gruppi marginalizzati e dimenticati”. E si risolve partendo dal garantire i diritti dell’infanzia, continua, e “promuovendo un sano sviluppo delle bambine e dei bambini”, “cambiando rotta nel nostro Paese” con il superamento delle baraccopoli presenti nelle principali metropoli italiane, “luoghi di segregazione che impediscono il godimento dei diritti dei più piccoli e dei più basilari diritti umani”. Germania. Caso Vettorel, ancora inghippi. La madre: “Silenzi e dubbi sulla cauzione” Corriere del Veneto, 27 novembre 2017 “Fabio Vettorel deve essere scarcerato”. Venerdì la Suprema corte di giustizia tedesca era stata chiara e aveva respinto l’ennesimo ricorso della Procura per mantenere detenuto il giovane feltrino, arrestato il 7 luglio scorso durante le manifestazioni contro il G20 di Amburgo. Secondo i suoi avvocati Vettorel dovrebbe essere scarcerato domani però, a ieri, non c’era ancora certezza. Nessuno ha confermato la liberazione. “Ho sentito Fabio oggi pomeriggio (ieri, Ndr) e dal carcere non gli hanno detto nulla - racconta Jamila Baroni, la madre di Fabio. È strano che non abbiano ricevuto alcuna notizia dal Tribunale. Forse perché la scarcerazione non è ancora esecutiva”. Secondo i giudici, Vettorel potrà uscire dal carcere solo se rispetterà tre condizioni: vivere con la madre ad Amburgo per l’intera durata del processo; fare una firma in Questura tre volte a settimana; versare 10.000 euro in contanti a nome suo come cauzione. L’ultimo punto rischia di rallentare la scarcerazione. I soldi erano già stati versati a nome della madre. Gli avvocati hanno rassicurato la famiglia affermando che sarà sufficiente una correzione formale, in modo da far risultare il bonifico a nome del figlio. Intanto domani il processo a Vettorel riprenderà alle 9.30. L’idea della madre e degli avvocati è di preparare tutte le carte e quindi risolvere l’intralcio burocratico prima dell’inizio del processo. Ma i tempi saranno stretti. “Vedremo lunedì la disponibilità da parte del Tribunale - conclude la madre. Neanche gli avvocati sanno come agire in questo caso, se cambiare la firma della cauzione o se farne un’altra e quindi riversare 10.000 euro in contanti”.