Il Ministro Orlando: “entro l’anno concluderemo la riforma delle carceri” Askanews, 26 novembre 2017 “Penso che ci siano assolutamente tutti i termini perché la riforma delle carceri sia conclusa entro fine anno questo è anche il sistema per affrontare in modo strutturale una questione, che più volte abbiamo dovuto affrontare in passato, che è quella del rischio di condanne del nostro paese da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo”. Così il Ministro Orlando intervenuto a “Storiacce” di Raffella Calandra, su Radio 24 si esprime in merito alla riforma delle carceri e aggiunge: “La prima trance dei provvedimenti è già alla Presidenza del Consiglio, quindi compete al Presidente del Consiglio definire l’ordine del giorno. Il Ministro poi prosegue: “Io non credo che si debba temere in termini di consenso perché penso che si debba e si può spiegare all’opinione pubblica che un carcere che funziona male è un carcere che genera insicurezza, dove aumenta la recidiva e dove alla fine i soldi spesi dai contribuenti rischiano di alimentare più la spirale criminale che non un percorso di rieducazione e di reinserimento”. Andrea Orlando poi spiega: “Naturalmente ci vuole anche una capacità di riconoscere quando c’è un ravvedimento, quando c’è una capacità di rimettersi in gioco e quando non c’è e questo è l’impianto che abbiamo cercato di dare alla riforma, quindi nessun elemento di cancellazione della responsabilità, ma viceversa una più forte definizione delle responsabilità del detenuto, ma anche di chi deve valutare il suo comportamento e io credo che sia un elemento di civiltà che viene ad essere conquistato, ma è anche un elemento a tutela di una comunità che deve essere sicura e per questo deve poter esigere un carcere che funziona meglio” Lo Stato si distingue dalla mafia col rispetto dei diritti fondamentali - “Penso che lo Stato si debba distinguere dalla mafia anche per il modo in cui tratta gli individui rispetto ai diritti fondamentali della persona che non sono soppressi neppure quando ci si trova di fronte al più esperto dei criminali”. Con queste parole, il ministro della Giustizia - Andrea Orlando - intervistato per la trasmissione Storiacce - rivendica la decisione di concedere un permesso speciale ai familiari di Riina, per poterlo raggiungere poco prima della morte. “Nel momento in cui ci si avvicina al momento della morte credo che l’elemento dell’umana pietà debba caratterizzare l’azione dello stato democratico, non solo perché è giusto ma anche per distinguersi appunto da chi pietà non l’ha avuta nel corso di tutta la sua esistenza” 41bis non funziona? Assurdo - Sull’allarme lanciato da un sindacato di Polizia penitenziaria, ora che si discute della successione di Riina, che i boss facciano uscire dal carcere messaggi, il Ministro commenta: “Stiamo parlando di una cosa assurda perché o il 41 bis non funziona, e allora andava denunciato quando non funzionava, ma non è che rischia di funzionare meno dopo la morte di Totò Riina” e sottolinea: “Noi non abbiamo elementi per dire che il 41 bis sia diventato più permeabile rispetto al passato. È uno strumento che sta funzionando, è uno strumento che ha consentito di isolare i boss all’interno del carcere. Dobbiamo semplicemente manutenerlo e mantenere quell’impianto, non abbiamo specifiche misure da assumere in ragione di un fatto” e prosegue sottolineando che “Nessuna indagine mette in evidenza questa eventualità che è stata denunciata, tra l’altro, soltanto da una sigla sindacale. Il 41 bis è pensato, studiato e gestito in modo tale da evitare anche che situazioni di stress lo possono mettere in discussione, quindi noi non abbiamo nessuna segnalazione del fatto che il 41 bis in qualche modo sia diventato meno efficace rispetto al passato e né che vada in crisi sulla base di eventi di carattere straordinario”. Per il ritorno in libertà dei mafiosi possiamo solo controllare con le forze di polizia - “È un tema reale che mi è stato posto anche dalla magistratura palermitana, cioè il fatto che dopo aver scontato la pena, alcuni importanti capi di caratura criminale molto elevata si ritrovano sul territorio. Bisognerà vedere se hanno mantenuto ancora quella forza che avevano quando sono andati in carcere. Però è anche vero che non c’è nessuno strumento, se non quello dell’attività di prevenzione di controllo sul territorio, che ci consenta in qualche modo di privare della libertà una persona che ha espiato la sua pena. Semmai c’è da chiedersi se le pene sono adeguate, noi in alcuni casi siamo intervenuti per aumentarle”. Così il Ministro della Giustizia Andrea Orlando, in merito alla questione del ritorno in libertà dei mafiosi e aggiunge: “È un tema reale che non si può risolvere con un provvedimento specifico, bisogna utilizzare tutti gli strumenti di cui disponiamo quindi l’attività delle forze di polizia, la magistratura in funzione di attività di prevenzione e quant’altro prevede il nostro ordinamento”. La nostra festa per sconfiggere la violenza di Linda Laura Sabbadini La Stampa, 26 novembre 2017 Ieri 25 novembre, 1400 donne riunite alla Camera. Ero lì. Vedere la Camera così piena di donne sembrava un “film di fantascienza”, come detto da Serena Dandini. Una giornata piena di energia positiva, di sorellanza, di solidarietà vera, le une con le altre, di voglia di dire basta alla violenza di genere contro le donne. Un gesto simbolico e politico insieme, quello della Presidente Laura Boldrini. Il rischio era che le testimonianze scivolassero nel vittimismo, ma si è capito già dai primi interventi che non sarebbe stato così: ieri è stato un giorno di proposte, di riflessione, di iniziative che si annunciano concrete. Eravamo tutte commosse, forti dell’arricchimento dell’esperienza delle une e delle altre. Alle parole istituzionali di Laura Boldrini e Maria Elena Boschi hanno fatto eco, fuori dall’Aula, le donne che hanno manifestato in tante piazze, con cortei pacifici e colorati. Le donne dicono basta al silenzio. E lo dicono a fronte del fatto che nel nostro Paese le vittime di rapina sono credute, le vittime di violenza no. Il sistema patriarcale resiste ancora. Ce lo ha detto la Corte di Cassazione sulla questione del doppio cognome, quando affermò che è un residuo del sistema patriarcale e non è un caso che quella legge non riesca ancora a trovare una formulazione soddisfacente. Il fatto che sulle violenze alle donne ci sia ancora troppa confusione lo dimostra il fatto che ampio è stato il numero di uomini, che in più o meno buona fede ha ritenuto giusto puntare il faro sulla “moralità” delle donne che denunciavano, obiettivamente lasciando nell’ombra i molestatori, anche quando erano accusati da decine di donne. La congiura del silenzio si articola nell’ombra e sul non detto, per cui chi detiene un potere mediatico, imprenditoriale, o di altro tipo, e sono in grandissima maggioranza uomini, si può sentire in diritto di esercitare impunemente ricatti sessuali, molestie o perfino violenze, certi dell’ impunità. Un sistema di potere, di cui questi casi rappresentano solo l’estrema deriva, ma che opera attraverso la marginalizzazione delle donne dal lavoro, per cui devono valere e lavorare il doppio di un uomo per poter guadagnare meno di lui a parità di mansione, lasciare il lavoro quando hanno una gravidanza, e farsi carico anche del lavoro domestico. Ma soprattutto è fondamentalmente un sistema che opera attraverso l’esclusione delle donne dai centri del potere, quel “soffitto di cristallo” per cui il potere, ai massimi vertici, in azienda come nell’ufficio pubblico, in banca come in facoltà, è ancora troppo spesso nelle mani di uomini, con pochissime eccezioni. Il risultato - lo dicono ormai un gran numero di studi internazionali - è una carenza di giustizia e di efficacia (anche economica), perché fa prevalere i privilegi acquisiti per “nascita” a quelli di merito. Il progresso di questo Paese, di tutto il Paese, dipende anche dalla fine di questo sistema maschilista che è la cornice entro cui i più spregiudicati, i più primitivi, i più egoisti, i più violenti, molestano, ricattano, ossessionano, picchiano e, al fine,uccidono le donne. Ma attenzione, ci sono coloro che minacciano le donne che osano svelare i nomi di chi le ha molestate sessualmente o ricattate, ma ci sono tanti uomini che prendono decisamente le distanze e questa è una grande e importante novità. Il patriarcato è in crisi, e sarà travolto dalla battaglia delle donne e degli uomini che basano il loro sistema di vita sulla cultura del rispetto e della differenza. La battaglia contro la violenza si combatte ogni giorno, con pazienza e determinazione, certo grazie a meccanismi di solidarietà tra donne, ma anche, al di là delle appartenenze politiche, sul lavoro di squadra con gli uomini che vogliono unirsi. Femminicidi, il dramma degli orfani di Maria Pirro Il Mattino, 26 novembre 2017 La Giornata internazionale contro la violenza sulle donne è stata l’occasione per fare un bilancio su quel che resta da fare per raccogliere l’appello lanciato dal capo dello Stato Mattarella, che ha incontrato una delegazione di vittime e familiari riunite dalla presidente della Camera Boldrini. Al primo punto ci sono le misure a sostegno per gli orfani di femminicidio, oltre 1600. Per assi curare loro tutele più forti è stata presentata una proposta di legge che la Camera ha già inviato alla Commissione giustizia al Senato. Ha una macchia nera sul cuore. Da quando mamma Stefania è stata ammazzata, papà Carmine, incarcerato per l’omicidio, è ritratto così dal figlio di 5 anni: nei suoi occhi la tragedia non finisce, ed è quella che nessuno è riuscito a impedire, nonostante la legge contro il femminicidio approvata tre anni prima, a ottobre 2013, che ha portato a un aumento di arresti. Ma il “fenomeno” resta “oscuro e incomprensibile” e “ricorrenti” le “gravissime violazioni dei diritti umani”, avverte il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. “In Italia viene uccisa una donna ogni due giorni e mezzo. Lo dice l’Istat. Ed è un dato spaventoso. Uno sfregio alla società, gli uomini non restino a guardare”, ribadisce la presidente della Camera, Laura Boldrini. “È una vergogna”, interviene da Tunisi il premier Paolo Gentiloni. Ma, denunciare “non basta”, avverte il capo dello Stato. La giornata internazionale contro la violenza sulle donne istituita dall’Onu, con oltre mille eventi in Italia, diventa così l’occasione per fare un bilancio su quel che resta da fare per raccogliere l’appello lanciato da Mattarella, che ha incontrato al Quirinale una delegazione di vittime e familiari riunite ieri a Montecitorio dalla Boldrini. Al primo punto ci sono le misure sostegno per gli orfani di femminicidio. Come M. e suo fratello di 2 anni. “Entrambi affidati definitivamente ai nonni materni, i genitori di Stefania Formicola”, spiega l’avvocato di parte civile, Libera Cesino. “Il tribunale dei minori di Napoli ha anche disposto il divieto di visita per il padre e i suoi parenti; a differenza del caso Parolisi, si è evitato qualsiasi contatto subito dopo il delitto. Ma questi bambini ora sono figli dello Stato, che deve essere chiamato a provvedere alle loro necessità, innanzitutto sostenendone l’educazione”. Un obiettivo, aggiunge l’avvocato, “possibile con la prima legge regionale, appena approvata, di cui sono stata promotrice in Campania”. Più lento l’iter in Parlamento. Tutele forti per il sostegno scolastico, medico e psicologico sono indicate nella proposta di legge inviata dalla Camera alla commissione giustizia al Senato. “È decisivo che le norme siano licenziate entro fine della legislatura”, interviene Anna Baldry, psicologa e docente dell’Università Vanvitelli, che ha istituito il primo osservatorio nazionale sugli orfani, oltre 1600 censiti dal Duemila. “Bimbi e adolescenti che si ritrovano senza diritti e senza aiuti”, sottolinea la professoressa, citando un paradosso: “Il coniuge, pur se è l’assassino, diventa erede del patrimonio”. Non solo: “Per cambiare cognome, i figli devono chiedere sempre al genitore l’autorizzazione”. Qualcosa si muove nella data carica di simboli. Un fondo di 2,5 milioni all’anno per il triennio 2018-2020 è previsto in un emendamento alla manovra firmato dalla presidente della commissione d’inchiesta sul femminicidio, Francesca Puglisi, e “accolto con adesione immediata e molto solidale di tutti i gruppi”. “Quando si usa violenza sulle donne si distruggono intere famiglie”, ribadisce su Twitter Arma Finocchiaro, ministra per i rapporti con il Parlamento. Tra i fondi per gli orfani, quelli per l’assistenza legale. “Ma resta il nodo delle risorse destinate ai centri antiviolenza”, interviene Antonella Bozzaotra, presidente dell’Ordine degli psicologi in Campania, che spiega: “I finanziamenti vengono stanziati anno dopo anno. Serve maggiore stabilità nei progetti”. Sono 84 gli omicidi di donne nei primi nove mesi del 2017, in calo rispetto ai 109 nello stesso periodo del 2016. La Polizia di Stato segnala 31 casi di femminicidio. L’ultima aggressione, per gelosia, davanti alla figlia di 4 anni a Frignano, in provincia di Caserta. In dieci anni, nonostante una diminuzione degli omicidi volontari, quelli delle donne sono rimasti invariati: 150 vittime nel 2007, 149 nel 2016. Il 73 per cento tra le mura domestiche e la metà delle volte l’assassino è il partner o l’ex. “Abbiamo numeri da guerra”, lancia l’allarme anche il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, riepilogando le contromisure scattate nei pronto soccorso, con il Codice Bianco o Rosa che accompagnale vittime: si sta cercando di indirizzarle verso i Centri antiviolenza. “Stando al monitoraggio Istat, una vittima del partner su tré dice che, quando si è rivolta al pronto soccorso per avere aiuto, il personale sanitario ha minimizzato o addirittura non ha raccolto la testimonianza”, avverte Elvira Reale, responsabile del centro Dafne aperto nel più grande ospedale del Sud, che ha intercettato 144 referenti medici solo nel 2017. Trovato il coraggio, le donne si scontrano poi con altri ostacoli. “Manca un sistema più efficiente che garantisca tempi certi tra la denuncia di una donna e le indagini della magistratura”, afferma il presidente Udc Antonio De Poli. “Spesso le donne sono state massacrate anche dopo le denunzie mentre erano in attesa che qualcuno le aiutasse”, incalza l’avvocato Giulia Bongiorno, commentando su Twitter il calo di denunce. L’ex deputata, impegnata da dieci anni nella difesa delle donne vittime di stalking con l’associazione Doppia Difesa, solleva un’altra questione: “Ad agosto hanno svuotato lo stalking con una legge vergognosa”, scrive sui social, riferendosi alla estinzione del reato per sanzione riparatoria nel ddl di riforma del processo penale. Pesa, infine, un ritardo culturale. Oggi i diritti delle donne “sono apparentemente garantiti e paritari, anche se nella pratica non è spesso così”, dice Concetta Raccuia, la mamma di Sarà Di Pietrantonio, uccisa dal suo ex la notte del 29 maggio 2016. Alle vittime “dico sempre : è importante superare la rabbia. Il dolore è reale, è una cosa vera. Al dolore bisogna rispondere con fatti concreti”, afferma l’avvocato Lucia Annibali, sfregiata con l’acido da due sicari mandati dall’ex fidanzato. Orfani del femminicidio: subito il fondo, ma la legge è ancora ferma al Senato di Maria Novella De Luca La Repubblica, 26 novembre 2017 Con la Finanziaria 7,5 milioni in tre anni. Resta però l’attesa per la norma sulle vittime di crimini domestici. Li abbiamo chiamati nel tempo orfani del femminicidio. Orfani speciali. Figli di madri uccise dai loro mariti o compagni. Maschi assassini che però di quelle bambine e bambini erano anche i padri, finiti poi in carcere o morti suicidi. Lasciando in case ormai vuote migliaia di giovanissimi, non soltanto spezzati dentro ma privi anche di ogni sostegno materiale. Una generazione che da tempo chiede aiuto e tutela a quello Stato che spesso non ha saputo proteggere le loro madri. Ieri però, nella giornata mondiale contro la violenza sulle donne, sembra che la politica abbia fatto un passo concreto. La commissione Bilancio di Montecitorio ha infatti approvato un emendamento da inserire nella manovra finanziaria che istituisce un “Fondo per gli orfani di femminicidio”. Uno stanziamento di 2 milioni e mezzo di euro all’anno fino al 2020. Soldi che dovrebbero aiutare i “sopravvissuti” di queste stragi familiari a rialzare la testa. Soldi per vivere, per curarsi, per avere sostegni psicologici, per poter continuare a studiare. L’emendamento, presentato da Francesca Puglisi, presidente della Commissione d’inchiesta sul femminicidio del Senato, è stato approvato all’unanimità ieri in commissione, adesso dovrà passare il vaglio dell’aula. Qualcosa. Non molto ma un vuoto che comincia a riempirsi. In attesa che la legge complessiva sulla tutela degli “Orfani dei crimini domestici”, approvata alla Camera nel marzo scorso, ma ferma al Senato, esca dalle secche parlamentari. Con una differenza però, come spiega Francesca Puglisi. “Questo fondo la cui approvazione mi rende felice è dedicato a tutti gli orfani del femminicidio, e non soltanto alle vittime di crimini domestici, commessi cioè nell’ambito della famiglia. Pensate ad esempio a Ester Pasqualoni, l’oncologa che fu uccisa a Teramo dal suo stalker. I suoi figli, se non avessimo allargato la possibilità di fruire del fondo a tutti i figli di donne assassinate in quanto donne, e non soltanto da mariti o compagni, non avrebbero avuto sostegni. Adesso aspettiamo il via libera dell’aula alla legge di Bilancio e il fondo per le vittime di femminicidio sarà effettivamente realtà”. Ma è soltanto il primo passo. Nella legge ferma al Senato sono previste invece altre tutele fondamentali per le vittime. Perché un femminicidio non è soltanto l’assassinio di una donna, ma porta alla devastazione di un intero nucleo familiare. E infatti la legge prevede, ad esempio, l’impossibilità per il padre omicida di accedere alla reversibilità della pensione della donna che ha ucciso. Come invece incredibilmente è successo. Toghe in politica, i partiti fanno campagna acquisti. E la riforma slitta di Liana Milella La Repubblica, 26 novembre 2017 L’invito di Mdp a Roberti, i 5Stelle su Di Matteo. Ma con la legge in discussione sarebbe difficile candidare magistrati in ruolo o a riposo da poco. “Sliding door” per le toghe in politica? No, grazie. Al 99% se ne riparlerà nella prossima legislatura. Perché in questa ormai le chance di approvare una legge che disciplini l’ingresso e l’uscita dei magistrati dal Parlamento, ma anche nelle amministrazioni locali, pare sfumata. Ma se passasse, diventando subito operativa, potrebbe mettere in crisi pure l’eventuale candidatura dell’ex procuratore Antimafia Franco Roberti - che a Repubblica dice “sto valutando l’ipotesi” - perché nella versione votata alla Camera impone due anni di congelamento tra la pensione (lui è appena andato) e la corsa elettorale. “Ce la potremmo fare ad approvare la legge solo se le Camere avranno tempo di lavorare sino al 20 gennaio” dice a Milano, agli Stati Generali sulla mafia del Guardasigilli Andrea Orlando, il senatore Pd Beppe Lumia. Accanto a lui il vice presidente del Csm Giovanni Legnini, che non vede il cronista alle spalle, si lascia scappare: “Il testo della Camera è pessimo, quello è meglio che non passi, va cambiato”. La pensano così pure al Senato, ma se il testo della Camera cambia, la possibilità di approvarlo si estingue. Chiaro il consiglio di Legnini, cambiate il testo, che già il Csm aveva criticato chiedendo una stretta più severa. Eh già, facile a dirsi, complicato a farsi. Per via della rivalità tra Camera e Senato, che vede magistrati con opinioni diverse. Convinti gli uni, come la Presidente della commissione Giustizia di Montecitorio, la Pd Donatella Ferranti, che “i paletti ci vogliano, ma dev’essere garantito sia il diritto di candidarsi, sia quello di conservare il posto di lavoro, come per tutti gli altri lavoratori”; all’opposto sicuri gli altri - come il bersaniano Felice Casson e i forzisti Nitto Palma e Giacomo Caliendo - che le porte girevoli vadano ridotte a uno spiraglio. Con l’obiettivo di chiuderle. Chi va in politica non può tornare più indietro. È la drastica soluzione del grillino Alfonso Bonafede, il cui partito vede nel pm antimafia Nino Di Matteo un possibile ministro. Ma lo stesso Di Matteo sostiene che una volta smessa la toga deve essere per sempre. La guerra degli emendamenti ha rallentato i tempi del ddl, nato da una proposta di Nitto Palma, ma condiviso da Casson. Obbligo di astenersi per sei mesi dal lavoro se ci si vuole candidare (Emiliano non avrebbe corso per fare il sindaco 15 anni fa); divieto di 5 anni a presentarsi nello stesso luogo dove il candidato ha fatto il giudice o il pm; rientro senza fare né il pm, né tantomeno il capo di un ufficio, ma con un ruolo collegiale. Nell’ultima raffica di modifiche un ultimo boccone indigesto per le toghe: dovranno astenersi, o potranno essere ricusate, se in un collegio si crea una situazione imbarazzante. Proposta ribattezzata “Sinisi” per via della polemica tra Augusto Minzolini che in Appello si ritrovò di fronte Giannicola Sinisi, ex parlamentare della Margherita, ma rientrato in magistratura da oltre 5 anni. Ora il ddl passa o no? Lo spiraglio parlamentare è sottile e la volontà politica poca perché, come dice il capogruppo Pc al Senato Luigi Zanda, “ci sono già molti ddl importanti in coda” e una finestra minima per votarli. Tra il 4 e il 20 dicembre pare impossibile per via di ius soli e biotestamento, ma anche regolamento del Senato, testimoni di giustizia e orfani del femminicidio. La finestra si apre se Mattarella scioglie le Camere più tardi. Ma non basta ancora, perché i falchi vogliono cambiare il testo della Camera, dove non ci sono più spazi per un nuovo voto. La colpa? Per Casson è tutta del governo che un mese sa ha bloccato il testo e “ non ha più fatto sapere cosa vuol fare”. Un dato è certo: il ddl toghe in politica sembra già sul binario morto. Rifondare l’antimafia, per sfidare i clan globali di Attilio Bolzoni La Repubblica, 26 novembre 2017 “Stati Generali” contro il disfattismo di chi non riconosce la sconfitta dei Totò Riina e contro chi crede che sia tutto finito nel 1992. Per parlare di mafie intanto è stata scelta Milano e non Palermo. E a Palazzo Reale non c’è stata un’esibizione, la solita passerella e i soliti discorsi un po’ bolliti. Gli “Stati Generali dell’Antimafia” hanno lasciato un segno, la traccia di qualcosa che si sta muovendo per rompere il muro dei luoghi comuni e della retorica intorno a mafia ed antimafia. Per la prima volta dopo venticinque anni - il riferimento temporale è sempre alle stragi Capaci e di via D’Amelio del 1992 - tutto lo Stato si è raccolto per guardarsi sì indietro ma soprattutto per tentare di decifrare il futuro e attrezzarsi per affrontarlo. Sfida molto impegnativa. Ma prima o poi bisognava cominciare. Voluti dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, dopo un lungo percorso di riflessione e di studio, gli “Stati Generali dell’Antimafia” si sono rivelati un passo decisivo per riprendere in Italia il dibattito sulla “questione criminale”. Dopo anni di silenzio e di predicazioni sterili, in una città simbolo della “colonizzazione” dei boss per farlo c’era tutto lo Stato - dal Presidente Mattarella al Presidente Grasso, da mezzo governo ai capi delle più importanti procure d’Italia (Pignatone, Gratteri, Melillo, Scarpinato, Greco), dalla presidente Bindi ai direttori delle agenzie di sicurezza e ai generali dell’Arma - a interrogarsi su cosa è stato fatto e cosa tanto altro c’è da fare per un contrasto a tutto campo - e non esclusivamente di repressione poliziesco-giudiziaria - alle nuove emergenze mafiose. Non più Sicilia e Calabria, ma anche le regioni del Nord, il Sudamerica, l’Australia, il mondo intero. Due giorni sono serviti per ridisegnare un “perimetro” diverso delle mafie italiane e straniere, per inseguire gli spaventosi scenari della globalizzazione e i condizionamenti sui mercati, per iniziare a discutere di una rifondazione dell’antimafia che non può - e non deve più - avere la sua identità nella divisione manichea fra “buoni” e “cattivi”. Gli “Stati Generali” per scavalcare schemi antichi, per avviare un confronto aperto (e non riservato solo a pochi soggetti) per “sdoganare” le analisi su mafia e antimafia anche in ambienti dove di queste cose non se n’è mai parlato volentieri. Significativa a Milano la presenza del ministro dell’Economia Padoan e quella del direttore generale della Banca d’Italia Rossi. C’è sempre la mafia che spara come l’altra notte ad Ostia, ma c’è soprattutto una mafia quasi mai aggressiva e quasi sempre collusiva. Così è cambiata dalle uccisioni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, da quelle di Pio La Torre e di Carlo Alberto dalla Chiesa. La rivolta dei Comuni sciolti per mafia: “così uccidete la democrazia” di Gaetano Mazzuca La Stampa, 26 novembre 2017 I sindaci: “Vittime dei poteri forti, andiamo a Roma”. Cinque Comuni sciolti per infiltrazioni mafiose in un solo giorno e altre cinque amministrazioni che potrebbero subire a breve la stessa identica sorte. È questo il quadro poco rassicurante degli enti locali in Calabria. Dal Nord al Sud della regione, ieri nei Comuni di Marina di Gioiosa Ionica, Lamezia Terme, Cassano allo Jonio, Isola Capo Rizzuto e Petronà le aule dei consigli comunali si sono chiuse e nelle stanze dei sindaci si sono insediati i commissari prefettizi. Storie differenti, eppure questa volta si è levata alta e con toni inusuali la protesta. Il sindaco di Lamezia Terme, città di 70mila abitanti al suo terzo scioglimento, Paolo Mascaro, già in sciopero della fame ha commentato: “Oggi muore la democrazia”. Il primo cittadino socialista di Cassano, Gianni Papasso, quasi non ci crede: “Ma quale scioglimento, i mafiosi mi hanno sputato in faccia”. Intimidazioni - “Assassini di democrazia”, sono state invece le parole usate dal sindaco di Marina di Gioiosa Ionica, Domenico Vestito, subito dopo aver appreso la decisione del ministero dell’Interno di sciogliere il Comune per infiltrazioni mafiose. Un colpo durissimo per lui, ex vicepresidente dell’osservatorio antimafia “Avviso pubblico”, vicino all’associazione Libera, vittima di pesanti intimidazioni anche perché circa un anno e mezzo fa con la sua amministrazione aveva approvato una norma per l’esenzione dai tributi comunali per i cittadini vittime di usura ed estorsione. La restituzione delle fasce Proprio attorno a Vestito si sta creando un movimento di amministratori locali che vorrebbe rimettere mano alla norma sullo scioglimento dei Comuni. In testa alla protesta si è schierato Domenico Lucano, il sindaco di Riace, il paese dell’accoglienza. Secondo Lucano, “dire di essere solidali con il sindaco del Comune di Marina di Gioiosa e con tutti gli amministratori non deve essere solo un atto dovuto. Non basta, occorre fare altro”. Per questo il primo cittadino di Riace lancia un appello all’assemblea dei sindaci per andare a Roma a “consegnare le nostre fasce nelle mani del ministro dell’Interno che è anche della nostra terra”. “Non abbiamo bisogno di personalità e raccomandazioni della politica per essere ricevuti - sottolinea - solo le nostre facce e l’orgoglio di rappresentare una terra offesa e spesso umiliata dalla ‘ndrangheta ma anche dai poteri forti e deviati di uno Stato che soffoca gli ultimi baluardi di democrazia rappresentati dalle comunità locali. Non ci sono solo le emergenze sanità e criminalità organizzata, c’è anche un’emergenza democrazia”. E poi conclude: “Dobbiamo fare i conti con poteri forti occulti e invisibili che umiliano e decidono il destino della nostra gente che nonostante tutto continua a credere in un’altra Calabria possibile”. Il fronte si allarga Ma il fronte potrebbe essere molto più ampio. Anche la Cgil calabrese ritiene che occorra “un’evoluzione del quadro normativo”. Ma c’è chi si è spinto oltre come la deputata del Partito democratico Enza Bruno Bossio, membro tra l’altro della commissione parlamentare antimafia, che in una dichiarazione ha voluto esprimere vicinanza a uno dei sindaci delle amministrazioni sciolte per mafia: “L’unica cosa che voglio dire con certezza ancor prima di aver letto le carte, poiché conosco Papasso personalmente, è che il sindaco di Cassano allo Ionio è una persona perbene”. Pd, pronta una legge anti fake-news di Francesca Schianchi La Stampa, 26 novembre 2017 Renzi apre la battaglia: “Vedrete, è una scelta che pagherà”. E annuncia un’azione civile contro la moglie di Brunetta, che dichiarò di essere l’account twitter “Beatrice Di Maio”. La proposta di legge è già pronta. Entro pochi giorni, forse già in settimana, il testo contro le fake news a prima firma Luigi Zanda, il capogruppo del Pd, verrà presentato in Parlamento. Una delle risposte che i dem vogliono dare al dilagare di bufale on line, annunciata ieri alla Leopolda, nell’affollatissimo tavolo tematico dedicato all’argomento, moderato dai deputati Matteo Richetti e Alessia Rotta. Un provvedimento che difficilmente potrà arrivare all’approvazione, considerato che siamo a fine legislatura, ma che vuole stimolare ad accendere un dibattito su cui Renzi ha deciso di puntare dopo aver commissionato un report sulla questione: “Un posizionamento strategico che pagherà”, ripete a chi affronta con lui l’argomento. “Nei giorni scorsi è diventata virale una foto della Boschi e della Boldrini a un funerale, spacciato per quello di Totò Riina, una evidente bufala: vi racconto la reazioni di due ragazzi che ho conosciuto - spiega Richetti a una piccola folla di fan della Leopolda assiepati attorno al tavolo 42, e due passi da quello coordinato dal ministro Pinotti sulla difesa - uno ci ha creduto: non l’ha diffusa, ma l’ha assunta. L’altro mi ha detto: so che è falsa, ma la condivido per farvi perdere voti”, sospira. Il problema è nella testa del segretario da tempo, non a caso ha deciso venerdì sera di aprirci la kermesse della sua corrente, annunciando un’azione civile contro la moglie di Renato Brunetta, che ha dichiarato di essere la vera identità di Beatrice Di Maio, account Twitter che pubblicò foto diffamatorie contro esponenti del Pd. Qualche settimana fa, il segretario Pd ha chiesto un report specifico: si è rivolto ad Andrea Stroppa, giovanissimo ex hacker del gruppo Anonymous, già ingaggiato in passato dal grande amico Carrai nella sua azienda di cybersecurity. In un paio di settimane, Stroppa ha prodotto una decina di pagine allarmate, in buona parte finite in un articolo del New York Times di due giorni fa: in particolare, ha raccontato come il sito ufficiale Noi con Salvini condividerebbe i codici utili per tracciare le visite e per la pubblicità con un sito di propaganda pro Cinque stelle. Codici condivisi anche con pagine a favore di Putin. Ma ci sarebbe altro: “Ci sono altri network di cui ancora non parlo perché vanno approfonditi”, dichiara il giovane consulente di sicurezza informatica. Già tentato dall’idea di partire all’attacco sul tema, Renzi si è definitivamente convinto. Parlandone nei post su Facebook, in giro tra la gente, e anche in Parlamento: con una legge che ricalca fedelmente quella approvata pochi mesi fa in Germania. “L’obiettivo - spiega la senatrice Rosanna Filippin che ci ha lavorato, presente ieri al tavolo della Leopolda - non sono gli autori dei post, ma è responsabilizzare i gestori di social network”. Dinanzi a un reclamo, i giganti del web sono invitati ad attivarsi per valutarlo entro 24 ore se si tratta di “contenuti manifestamente illeciti”, altrimenti entro sette giorni. Se nulla succede alla scadenza del tempo, si può ricorrere al Garante della privacy: se anche dinanzi a una sua disposizione il social network decide di far finta di niente, scattano sanzioni pesanti, da 500mila a un milione di euro. “Quello che vorremo riuscire a fare è obbligare i gestori delle piattaforme ad accettare e valutare i reclami in tempi brevi, per evitare il fenomeno della condivisione”. Il rischio è quello di incorrere in una sorta di censura: “Non è nostra intenzione: l’abbiamo copiata dalla legislazione tedesca che non è certo un Paese autoritario”, giura la Filippin. A breve dovrebbe essere depositata. Obiettivo, aprire una discussione con gli altri partiti, dove pure il tema è riconosciuto: ieri il candidato premier M5S Luigi Di Maio ha proposto di invitare l’Osce a monitorare le prossime elezioni politiche. Ma difficilmente qualunque provvedimento potrà intervenire prima delle elezioni previste da qui a pochi mesi. Ascoli: violenza contro le donne, iniziative dentro il carcere Corriere Adriatico, 26 novembre 2017 Una particolare installazione e la visione di “North Country”. Osservato un minuto di silenzio. Un paio di scarpe rosse da donna e sullo sfondo le sbarre e la targa della casa circondariale di Ascoli con una frase del grande scrittore Isaac Asimov che recita: “La violenza è l’ultimo rifugio degli incapaci”. Così il carcere di Marino del Tronto ha voluto celebrare la “Giornata internazionale contro la violenza sulle donne”. “Il dipartimento ci ha invitati ad azioni di sensibilizzazione e allora abbiamo pensato a questa istallazione con il simbolo della Giornata e la frase di Asimov. Un’immagine simbolica che rimarrà lì tutta la giornata” spiega Lucia Difeliciantonio, direttrice della struttura penitenziaria ascolana, che ha pubblicato la foto sul suo profilo Facebook. Altre iniziative erano in programma ieri nel carcere ascolano. È stato osservato un minuto di silenzio al quale hanno partecipato i detenuti ed il personale. Nel pomeriggio, a cura dell’associazione Blow Up, è stato proiettato un film simbolo sul tema violenza alle donne, “North Country”. La protagonista è Charlize Theron che interpreta una donna costretta a lavorare in miniera e oggetto di violenze. Nel carcere di Ascoli non c’è una sezione femminile, ma una sezione protetta dove sono in custodia uomini che si sono macchiati di reati a sfondo sessuale. Larino (Cb): nel carcere “la voce delle donne”, riflessioni contro la violenza primonumero.it, 26 novembre 2017 Essere donna, con le difficoltà e le sfide che si presentano nella quotidianità. Nel lavoro e nella vita privata. Storie al femminile, raccontate con spontaneità e semplicità, per sensibilizzare sull’eliminazione della violenza di genere. Esperienze a confronto, di fronte alla platea degli studenti detenuti, allievi della sede carceraria dell’Ipseoa “Federico di Svevia”. Così la “Voce delle donne”, evento promosso dall’istituto didattico, ha dato vita a una serie di riflessioni, per celebrare la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. “L’impegno è che le attività intraprese in occasione di questa Giornata pongano le basi per un mutamento radicale su un tema essenziale alla nostra convivenza civile”, le parole della dottoressa Brigida Finelli, funzionario giuridico-pedagogico della casa circondariale di Larino, ad apertura dei lavori del convegno nella mattinata di venerdì 24 novembre, seguite dal messaggio di saluto della dirigente scolastica dell’Ipseoa Maria Chimisso, che ha evidenziato il valore fondamentale del rispetto. Sono poi intervenute, introdotte dal moderatore Giuseppe Marotta, docente dell’Ipseoa di Larino, l’avvocato Claudia Santella, la ricercatrice universitaria Maria Cipollina, le costumiste Alessandra e Mariateresa Benaduce, la biologa e consigliere comunale Tiziana D’Adderio, la docente della sede carceraria dell’Alberghiero Magalì Denambride. Tanti spunti al centro della tavola rotonda, che ha spaziato nel fornire uno spaccato del mondo femminile, dalle difficoltà lavorative, che spesso non consentono alle madri di poter conciliare la professione scelta con passione e dedizione e la famiglia, alle esperienze anche sportive, in attività che solitamente sono ritenute prettamente maschili, come il calcio e la voga. Molto toccanti le parole scritte da una donna in una testimonianza anonima letta durante il convegno. In seguito, spazio ai pensieri e ai versi composti dagli stessi detenuti studenti, riportati sui cartelloni, preparati con cura e partecipazione per arredare a tema la sala. “Abbiate cura della vostra amata perché è la colonna portante della vostra casa, e il frutto della vostra vita, non calpestate l’amore che avete seminato, anzi, accrescete il sussurro del vostro cuore”, “la verità è che questo splendido essere racchiude la vita, un po’ come il nostro Dio, pertanto dovremmo rispettarlo donandogli amore e ringraziandolo quotidianamente di esistere”, alcune delle frasi coniate, accompagnate dalla lettura recitata del testo della canzone “La fata” di Edoardo Bennato. E ancora, “La donna è amore, e un giorno, quando ognuno di noi diventerà padre, potrà capire il vero valore di una donna”, “Ora potete prendere per la coda una cometa e girando per l’universo ve ne andrete con il rimpianto di avere amato l’uomo sbagliato. Insicurezza, gelosia, possesso, crudeltà, femminicidio: è questo il percorso di un amore malato”. L’evento è proseguito con le prelibatezze del buffet preparato dagli studenti guidati dai docenti delle materie tecnico-pratiche dell’Ipseoa, e con l’omaggio, alle ospiti, di un portachiavi con una scarpetta rossa realizzato dai detenuti della falegnameria del carcere. Siracusa: violenza contro le donne, dibattito al carcere di Brucoli srlive.it, 26 novembre 2017 In occasione della giornata mondiale contro la violenza sulle donne, presso L’Auditorium “ Enzo Maiorca” della Casa di Reclusione di Brucoli, ha avuto luogo l’evento “ Nei loro panni” realizzato in collaborazione tra la casa di reclusione e Naxoslegge, festival della cultura, della narrazione e del libro. Ha aperto l’incontro il Direttore della casa di reclusione Dott. Antonio Gelardi ringraziando e dando il benvenuto agli intervenuti. Mariada Pansera, referente di Naxoslegge ad Augusta poi spiega perché la data del 25 novembre è stata scelta come giornata mondiale contro la violenza sulla donna una piaga, questa, che sta assumendo un aspetto sempre più allarmante anche in Italia. Il femminicidio è l’atto estremo ed irreversibile di come può essere esercitata la violenza su una donna; una violenza che può prima manifestarsi sotto forma di violenza verbale, di violenza economica, di violenza psicologica e, ormai, anche social portando quest’ultima spesso al suicidio; importante è dunque riconoscerne i sintomi e denunciarli immediatamente. Per questo motivo presenti tra i relatori figure del mondo della giurisprudenza, della medicina e delle pari opportunità che hanno trattato il problema ognuna per le proprie competenze. La psicologa Marilena Oriolo, con il suo intervento, ha di fatto relazionato sulle “Diverse forme di violenza”; l’avvocato Sonia Licciardello è intervenuta sulla “Violenza di genere nell’attuale sistema di tutela penale”; Fina Maltese, consigliere di pari opportunità ha relazionato circa il “Concetto di pari opportunità tra teoria e pratica” ed infine l’avvocato Giuliana Colavecchio, referente dell’associazione L’Altra Metà, è intervenuta su” Esperienze di intervento contro la violenza in Sicilia, il caso dell’altra metà a Taormina”. A seguire protagonisti i detenuti alcuni dei quali hanno letto quattro brani tratti dal libro “ Ferite a morte” di Serena Dandiniper poi cimentarsi in un corposo ed assai efficiente dibattito con i relatori. Particolare le testimonianza di A.M. detenuto, maltrattato dalla propria convivente, che ha raccontato la propria storia ed ha chiesto all’uditorio un minuto di silenzio e di raccoglimento. Il dibattito è stato poi arricchito dalla testimonianza del Maresciallo Cassia, comandante della stazione carabinieri di Augusta che ha raccontato della propria esperienza lavorativa alla luce anche della evoluzione degli strumenti normativi ed ha espresso apprezzamento per l’attività svolta dalle associazioni che fanno da ponte con le istituzioni ed incoraggiano le donne abusate. In conclusione dell’incontro l’inaugurazione di “Posto Occupato”, il progetto nato dalla volontà di Maria Andaloro che, partito da Rometta Marea il 29 Giugno 2014, ha in pochi mesi riscosso enorme interesse diffondendosi sull’intero territorio nazionale italiano. “Posto Occupato” prova a mantenere viva la memoria di tutte le donne vittime del femminicidio dedicando loro “un posto” in un teatro, in un cinema, in una scuola, addirittura tra gli scranni di alcuni consigli comunali, provinciali e regionali; “un posto” vuoto dedicato a tutte le donne che non potranno più svolgere il loro ruolo, non potranno più occupare un posto nella società. Madrina dell’inaugurazione di “Posto Vuoto” Fulvia Toscano, direttore artistico di Naxoslegge che, dopo avere letto una lettera di ringraziamenti della stessa Maria Andaloro, insieme al Direttore Gelardi pone su una sedia rossa la locandina di “Posto Occupato” ed un mazzo di fiori rossi e bianchi. Per la prima volta in Italia, adesso, Posto Occupato avrà la sua sedia in ricordo delle donne vittime del femminicidio anche all’interno di un carcere. All’incontro hanno partecipato oltre ai detenuti comuni e di alta sicurezza autorità, dirigenti scolastici, studenti dei licei cittadini. Il personale femminile della casa di reclusione ha inoltre, in onore alla giornata posto davanti all’ingresso del penitenziario una panchina rossa con fiori e targa commemorativa. Bologna: “Vestirsi dentro”, raccolta di abiti per i detenuti della Dozza Corriere di Bologna, 26 novembre 2017 Un’auto piena di vestiti è arrivata al carcere della Dozza. Merito di “Vestirsi dentro”, un’iniziativa finalizzata a dare indumenti ai detenuti, molti dei quali non ne hanno. Presto ne arriveranno ancora grazie agli oltre 900 euro raccolti. “Noi tutti pensiamo che, al di là degli errori commessi, la dignità umana debba essere sempre preminente su altri valori ed esigenze”, spiegano gli organizzatori. Coordinatore dell’iniziativa è il magistrato Mirko Margiocco. Si chiama “Vestirsi dentro” l’iniziativa promossa da Comune, Regione, Camera penale, Anm e altre associazioni e ha già raccolto un’automobile di indumenti e 900 euro per acquistarne altri. “Padrino” della raccolta che si proseguirà il 27 e il 28 novembre l’attore Alessandro Bergonzoni. Nonostante gli errori commessi “la dignità umana deve essere sempre preminente su altri valori ed esigenze”, fanno sapere gli organizzatori. Coordinatore dell’iniziativa, il magistrato Mirko Margiocco. In particolare gli indumenti di cui c’è maggior bisogno sono tute, felpe, maglioni, T-shirt, jeans, calze, biancheria intima, scarpe e ciabatte oltre a lenzuola, asciugamani e teli da bagno. “Puliti e puniti, è fondante poter parlare con la parte normativa - ha detto ai microfoni di Bologna Today Bergonzoni - è il cittadino che deve fare il grande cambio, il primo giudice, io sono per la pena certa, ma la condizione è fondamentale, quindi è necessario un cambio di dimensione, certo è una questione di soldi, una modifica che chiedo ai partiti che non se ne sono interessati sino ad ora perché se parla di queste cose non acquista voti”. Padova: cori, carabinieri e volontari per i detenuti della Casa di reclusione di Agnese Moro La Stampa, 26 novembre 2017 In un momento in cui patiamo tante divisioni e scontri è bello vedere che c’è chi cerca di costruire e condividere mete. La cosa è anche più inattesa quando le organizzazioni coinvolte partono da luoghi e tipi di attività molto diversi tra di loro. Un bell’esempio di avvicinamento e di collaborazione è quello che, in questo periodo, vede impegnati nell’organizzazione per il prossimo 8 dicembre di un concerto e di una raccolta fondi la Cooperativa sociale “Giotto” che gestisce attività lavorative interne ed esterne alla Casa di reclusione Due Palazzi di Padova. L’associazione di volontariato “Amici della Giotto” a lei collegata, “I Polli(ci)ni” l’orchestra giovanile del conservatorio Pollini di Padova; e da Porto Viro - cittadina del delta del Po nella provincia di Rovigo che accoglierà l’iniziativa - l’Oratorio salesiano “San Giusto”, la parrocchia della Visitazione, la sezione locale della Associazione Nazionale Carabinieri, il Banco di solidarietà “Beata Madre Teresa di Calcutta”. Oltre alla raccolta di fondi da devolvere alle opere di carità di Papa Francesco la giornata dell’8 è anche l’occasione per trascorrere insieme, con chi vorrà aderire, delle ore serene. Alla giornata parteciperanno anche alcuni familiari dei detenuti del carcere Due Palazzi e gli operatori con le famiglie. “Questa volta - dicono gli organizzatori - sarà un pezzettino di carcere ad uscire”. Come è nata la scelta di collaborare? chiedo. “Siamo stati trainati da uno dei soci fondatori dell’associazione Amici della Giotto, Sandro, che è anche membro della sezione di Porto Viro della Associazione Nazionale Carabinieri. Ha voluto con forza che la Giotto conoscesse e incontrasse la bellissima realtà dell’Oratorio Salesiano “San Giusto” di Porto Viro, vissuta e trainata da un instancabile “Comunità Salesiana”. Ci siamo conosciuti, incontrati, guardati, prima nell’oratorio e poi con una visita nel carcere di Padova. Da incontro nasce incontro e di posti a tavola se ne sono aggiunti più di uno”. È un ruolo prezioso quello di mettere in rapporto tra loro realtà vive, ma ignote le une alle altre. Soggetti un po’ inaspettati - come in questo caso l’Associazione Nazionale Carabinieri di Porto Viro - sono a volte quelli che hanno più possibilità di riuscire a stabilire nuovi contatti e nuove sinapsi tra realtà che altrimenti non si incontrerebbero mai. E sarebbe davvero un peccato. Padova: sinodo in carcere, il coraggio di “mettersi a nudo” laddove nulla è scontato di Madina Fabretto La Difesa del Popolo, 26 novembre 2017 Il percorso del gruppo sinodale nato in seno alla parrocchia del carcere. Il gruppo è guidato da Maddalena Tonello, che descrive questa esperienza particolare, e fra Stefano. È il momento degli incontri nei gruppi. Una fase cruciale, per il sinodo dei giovani, anche per tutte quelle emozioni, paure e sorprese che inevitabilmente ogni incontro porta con sé. E tra gli oltre 700 gruppi che si incontrano nei patronati, nelle case o altrove, ce n’è uno del tutto particolare: quello del carcere. Particolare non soltanto per la sede, ma anche perché incontrarsi vuol dire anche scoprirsi, ascoltarsi, fare un tratto di strada fianco a fianco. Non è mai una cosa semplice, ma qui lo è ancora meno. Ciò che nel mondo di fuori viene dato per scontato, qui dentro non lo è. Non è facile parlare con un detenuto senza giudicarlo e non è facile per un recluso fidarsi di un altro, all’interno della realtà carceraria. La “parrocchia” del carcere, guidata da don Marco Pozza, coinvolge una quindicina di volontari tra catechisti, diaconi, suore e due frati conventuali, che gestiscono il catechismo del sabato pomeriggio e la messa della domenica mattina. Il gruppo sinodale è guidato da fra Stefano e Maddalena Tonello, che fa volontariato in “parrocchia” e va in carcere tre o quattro volte la settimana, per accompagnare i detenuti lungo un percorso di fede o semplicemente per incontrarli ed ascoltarli. E così è nata l’idea del gruppo sinodale del carcere di cui fanno parte Jacopo, Eddy, Armand Davide, Carlo, Ashot, Nicola e Enjiell, tutti tra i 25 e i 40 anni. Gli incontri si sono svolti di giovedì pomeriggio. “A differenza degli altri gruppi, che possono incontrarsi la sera e poi magari andare a mangiare un pizza - racconta Maddalena - noi ci riuniamo nella cappella del carcere, il pomeriggio. Un giorno Nicola ha pensato di portare un dolcetto per ognuno di noi, perché anche nel nostro gruppo ci fosse quell’aspetto conviviale che c’è negli altri. Può sembrare banale, ma ciò che fuori si dà per scontato, qui proprio non lo è”. Un altro esempio: durante un incontro si è parlato delle cose belle della vita e molti hanno citato la famiglia, che per qualcuno invece è soltanto fonte di rabbia e dolore. “Quello che mi ha stupito - prosegue Maddalena - è che fossero veri. I detenuti non si conoscono tutti tra loro e in carcere non è facile parlare di se stessi davanti agli altri. Vivono il vangelo come un messaggio semplice, non banale, diretto e attuale”. In più, oltre il 60 per cento dei reclusi è musulmano e dichiarare la propria fede cattolica vuol dire avere il coraggio di esporsi in qualche caso a derisione e disprezzo. Eppure apprezzano il fatto di sentirsi anche loro, come parrocchia del carcere, parte della diocesi. Un sentimento al quale ha dato slancio speciale la visita del vescovo Claudio Cipolla. “Ha ascoltato la loro voce e ha dato voce anche a loro. Anche per me è stato un momento importante. Mi sono ritrovata a pregare con persone che non conoscevo, ma sapevo che avevano fatto del male. Ho imparato ad ascoltare le persone che sbagliano, senza giudicarle. Mettere a confronto il mio punto di vista e il loro è stato forte, perché ti rendi conto che da entrambe le parti ci sono dubbi, fragilità, paure. E quella porta della misericordia, aperta in carcere due anni fa, si è aperta anche per me”. “Storia di Antonia. Viaggio al termine del manicomio”, D.S. Dell’Aquila e A. Esposito Il Mattino, 26 novembre 2017 La cultura per riappropriarsi del Santa Maria Maddalena. Sarà anche l’occasione per discutere di assistenza psichiatrica dopo i tragici avvenimenti di Parete. La cultura e la ricerca scientifica come strumenti per riappropriarsi dell’ex manicomio Santa Maria Maddalena, e l’occasione, anche a fronte dei recenti e tragici avvenimenti di Parete, per discutere di cura e assistenza psichiatrica sul territorio. Il Centro Studi “Le reali case dei matti” e Il Comitato civico “La Maddalena che vorrei” si prefiggono questi obiettivi con la presentazione, domani dalle 10,30, del libro “Storia di Antonia. Viaggio al termine del manicomio”, frutto del lavoro di ricerca, durato oltre 2 anni, di Dario Stefano Dell’Aquila e Antonio Esposito, edizioni Sensibili alle foglie. Il volume ripercorre la tragica vicenda di Antonia Bernardini, morta nel 1974 a causa delle ustioni riportate per l’incendiò del letto di contenzione sul quale era legata da 43 giorni nel manicomio criminale di Pozzuoli. “Ci legavano come Cristo in croce”, è questa una delle ultime frasi pronunciate al pubblico ministero da Antonia, internata a seguito di un banale litigio con un carabiniere in borghese, in attesa di un processo che non si sarebbe mai svolto e, come tante altre donne di cui pure viene ricostruita la storia nel libro, vittima di prassi e logiche manicomiali ancora attuali. Secondo gli autori, infatti, “quella di Antonia è una storia che parla al presente, ponendo temi tutt’oggi cruciali nell’universo della sofferenza psichica: l’assenza di diagnosi certe e cure appropriate, la contenzione fisica, l’imputabilità di chi commette un reato e viene riconosciuto folle, la strutturazione dei manicomi giudiziari prima e oggi delle Rems e delle sezioni psichiatriche nelle carceri”. Al dibattito, moderato dal direttore del Centro Studi, Nicola Cunto, interverranno gli attivisti de “La Maddalena che vorrei” e lo psichiatra Giuseppe Ortano, esponente di Psichiatria Democratica e direttore dell’uosm 23 dell’asl di Caserta. ù Per l’incontro apertura straordinaria al pubblico del chiostro di San Bernardino, con le sue volte affrescate, dove, sui muri del più antico manicomio del sud, ancora si conservano le scritte e i disegni degli ultimi internati del Santa Maria Maddalena. “Più libero di prima”, di Adriano Sforzi. La prigionia di Tomaso, disavventura in India Corriere di Bologna, 26 novembre 2017 Il regista, Adriano Sforzi, è amico del protagonista e sarà in sala “Racconto la storia di un ragazzo ventiseienne - dice - di una piccola provincia dell’occidente che va in India per cercare se stesso e finisce per diventare un uomo in carcere”. In una notte di sette anni fa la vita del giovane Tomaso Bruno cambia per sempre. Il viaggio in india, con gli amici Francesco Montis ed Elisabetta Boncompagni, si trasforma in tragedia quando Francesco viene trovato agonizzante nella sua stanza d’albergo a Varanasi. La morte dell’amico darà il via a un autentico calvario che porterà Tomaso ed Elisabetta nelle carceri indiane per cinque anni, tra colpi di scena, udienze cancellate e accuse legate alla droga. Il regista Adriano Sforzi, amico d’infanzia di Bruno, ha deciso di ripercorrere tutta la vicenda, fino alla scarcerazione avvenuta due anni fa, nel documentario Più libero di prima, che verrà proiettato da Kinodromo domani alle 21,15 al Cinema Europa di via Pietralata 55. Prima, alle 19.30 nel Loft di via San Rocco 16, ci sarà l’incontro con il regista e il produttore Ivan Olgiati di Articolture. “Io e Tomaso - ha raccontato Sforzi - ci siamo conosciuti da bambini in Liguria dove io, che sono un po’ più grande, allenavo bimbi più piccoli come lui. Ci siamo poi ritrovati qualche anno dopo a Bologna, dove io mi ero trasferito e dove lui era venuto a lavorare prima di spostarsi prima a Londra e poi in India per un viaggio che voleva fare da tempo”. La storia che ha portato Tomaso Bruno in prigione inizia proprio in India nel 2010 quando lui ed Elisabetta Boncompagni, sua compagna di viaggio, vengono arrestati con l’accusa di omicidio intenzionale di stampo passionale ai danni di un terzo italiano, Francesco Montis, dopo un’inchiesta a dir poco lacunosa. Dopo due condanne in primo e secondo grado, è arrivata la sentenza liberatoria della Corte suprema indiana. “Sono partito - ha detto Sforzi - dalle lettere scritte da Tomaso in risposta ai tanti che lo hanno contattato perché mi è sembrato uno straordinario romanzo di formazione. La storia di un ragazzo ventiseienne di una piccola provincia dell’occidente che va in India per cercare se stesso e finisce per diventare un uomo in carcere”. Sforzi, erede di un’antica famiglia circense con cui ha girato l’Italia sino ai quindici anni e laureato al Dams di Bologna, ha vinto nel 2011 il David di Donatello per il miglior cortometraggio. Dal tribunale dell’Aja condanne politiche di Michele Marchesiello Il Secolo XIX, 26 novembre 2017 La sentenza con cui il Tribunale dell’Aja per i crimini commessi nelle guerre Jugoslave ha condannato Ratko Mladic alla pena dell’ergastolo potrebbe essere l’ultima pronunciata da quel tribunale, istituito dalle Nazioni Unite nel lontano 1993, ma potrebbe anche essere l’ultima del suo genere pronunziata da un tribunale penale internazionale “ad hoc”. Bisogna riconoscere, ormai, che i processi celebrati dai tribunali penali internazionali a partire da quelli ormai lontani di Norimberga e Tokio - devono esser fatti rientrare nell’ambigua categoria dei processi politici “travestiti” dal processi giudiziari. Processi, come si è soliti dire, intentati dai “vincitori” o dai più forti nei confronti degli sconfitti o dei più deboli: categorie che spesso si sovrappongono. Ma, anche quando le “forze del bene” finiscono col prevalere, è troppo forte la tentazione di imprimere anche processualmente sulla vittoria il sigillo della giustizia (che a sua volta, come la verità secondo Simone Weil, “fugge dal campo dei vincitori”). Nel lontano 1997, da poco assegnato alla Procura del Tribunale dell’Aja, avendo cominciato a scartabellare tra le montagne di documenti raccolti in quell’ufficio - mi precipitai al cospetto del Procuratore Capo dell’epoca per segnalargli che secondo me c’erano elementi sufficienti per chiedere l’arresto di Slobodan Milosevic. Il Procuratore dopo avermi rivolto uno sguardo pieno di benevolo compatimento, mi licenziò molto cortesemente con una scusa. Il novellino non aveva ancora capito che l’azione penale non era, in quel tribunale, obbligatoria (come vorrebbe la nostra Costituzione), ma del tutto facoltativa e dipendente soprattutto dalla situazione politica contingente: in particolare dalle esigenze della politica americana. Ci volle una procuratrice di ferro come l’italosvizzera Carla Del Ponte a vincere le resistenze, nel 2004, convincendo i Serbi a consegnare al Tribunale dell’Aja Slobodan Milosevic, già Presidente della Repubblica Serba, tra i principali responsabili degli orrori che le guerre jugoslave avevano prodotto. Milosevic doveva morire provvidenzialmente in carcere nel 2006, così liberando il tribunale da un processo tra i più imbarazzanti dal punto di vista della politica e della giustizia internazionale. La vera cartina al tornasole che rivela la natura genuinamente politica di un processo giudiziario, è costituita dal fatto che in quest’ultimo deve essere sempre possibile - sull’orizzonte così peculiare della verità processuale - iscrivere l’ipotesi di una assoluzione dell’imputato. Provate a immaginare: sarebbe stata possibile l’assoluzione dei criminali nazisti o di un Saddam Hussein? A cosa servono allora i processi internazionali contro i responsabili di crimini di guerra o contro l’umanità? Più che ad affermare il trionfo di una improbabile giustizia, credo, essi svolgono un servizio prezioso: servono a rendere impossibili oblio e revisionismo, testimoniando, attraverso la ricostruzione minuziosa dei fatti, vicende tanto atroci quanto esposte al lavorio della storia. Opera necessaria che dà nomi e volti a fatti e personaggi dei quali sarebbe anche troppo facile perdere o distorcere la memoria: purché non ci si illuda - piamente - che si tratti di opera di giustizia in senso proprio e, soprattutto, non si creda che quei processi valgano in modo significativo a impedire o esorcizzare genocidi, pulizie etniche, stupri ed eccidi di massa, cui si limitano in genere ad attribuire un nomen juris. Proprio come gli ultimi anni si sono incaricati di dimostrare con tragica abbondanza. Ecco la fine del mito di WikiLeaks di Federico Rampini La Repubblica, 26 novembre 2017 Un benefattore dell’umanità, un combattente per le nostre libertà, magari anche l’inventore di un “nuovo giornalismo”? (Versione 2010). Oppure un burattino manovrato da Vladimir Putin? (Versione 2017). La seconda è più aggiornata. Il mito di Julian Assange crolla un pezzo alla volta con l’indagine sul Russiagate. Gli ultimi sviluppi arrivano più vicini a Donald Trump: il super procuratore Robert Mueller si interessa al figlio Donald Junior, alla triangolazione che lui ebbe con WikiLeaks e coi russi nell’autunno del 2016. Non è la prima volta che WikiLeaks e “servizi segreti russi” appaiono nella stessa inchiesta. Ormai è difficile stabilire dove comincia uno e dove finisce l’altro, i ruoli si confondono in questa vicenda. Nelle ultime tappe dell’indagine di Mueller sul Russiagate - cioè sull’ingerenza di Mosca per sabotare la campagna elettorale di Hillary Clinton - vediamo Trump Jr che contatta WikiLeaks perché aiuti il padre pubblicando segreti infamanti su Hillary e sul partito democratico. Il fango arriva puntuale, la fonte sono gli hacker del governo russo. Donald Jr “ispira” il babbo che in un tweet fa esplicita pubblicità… ad Assange: “I media disonesti - tuona il candidato repubblicano - non stanno divulgando le rivelazioni di WikiLeaks”. Ma che il confine tra Assange e Putin fosse labile, Trump senior sembrava averlo intuito da tempo. Il 27 luglio 2016 in una conferenza stampa in Florida - in contemporanea con la convention democratica di Philadelphia - il candidato repubblicano lancia davanti alle telecamere questo appello inaudito: “Russia, se mi stai ascoltando, spero che riuscirai a trovare le 30.000 email di Hillary!”. I media non riescono a credere che un candidato alla Casa Bianca chiami in aiuto il nemico storico dell’America in modo così sfacciato. Pochi si stupiranno invece, quando a esaudire il desiderio di Trump sarà WikiLeaks, fattorino abituale delle consegne in arrivo da Mosca. Torniamo indietro di sette anni. Novembre 2010: le rivelazioni di WikiLeaks scuotono il mondo. Italia inclusa. La fonte, la “gola profonda” Chelsea Manning, è un militare americano che passa ad Assange - fra le altre cose - 250.000 comunicazioni top secret (“cable” o dispacci diplomatici) fra le ambasciate Usa del mondo intero e il Dipartimento di Stato a Washington. Il botto italiano lo fanno i giudizi segreti dell’ambasciata di Via Veneto sulla “torbida connection” (definizione della diplomazia Usa) tra Silvio Berlusconi e Vladimir Putin. L’allora presidente del Consiglio in un dispaccio dell’ambasciatore Ronald Spogli, repubblicano, è sospettato di avere “rapporti di guadagno personale”, e di essersi trasformato in un “portavoce di Putin”, cioè del capo di una “nazione mafiosa” come viene descritta dagli americani. Ma la vicenda italiana è poca cosa in confronto a quel che accade in altre parti del mondo. Per esempio in Nordafrica: le missive della diplomazia Usa svelano informazioni dettagliate sulla corruzione di alcuni autocrati. È una delle scintille che accendono le rivolte in Tunisia, in Egitto, l’origine delle Primavere arabe. È il momento della massima popolarità di Assange. L’informatico australiano, fondatore di WikiLeaks nel 2006, è osannato come un eroe della trasparenza, un combattente per i diritti umani, da tutto il mondo progressista. Quando viene arrestato dalla polizia inglese il 7 dicembre 2010 e detenuto per dieci giorni, tra le celebrity che raccolgono fondi per pagargli la cauzione c’è il regista Michael Moore. Parte una campagna sui social media, capeggiata da Anonymous, per farlo nominare uomo dell’anno sulla copertina di Time. Un segnale sospetto arriva nel 2013, quando l’altra “gola profonda” Edward Snowden per sfuggire agli inquirenti americani trova rifugio a Hong Kong, sotto la protezione del governo cinese. Mentre è lì, Assange gli consiglia di trasferirsi in Russia (dove si trova tuttora). A lanciare un allarme nel 2013, in un’intervista a Repubblica, è il precursore di Assange e Snowden. L’ottantenne John Young, un decennio prima aveva creato Cryptome, deposito di 70.000 documenti riservati, forniti da “gole profonde” e messi a disposizione del pubblico. Pluri-indagato dall’Fbi, ma contrario a trasformarsi in un martire e in una star, Young quattro anni fa mi dice: “La trasformazione (di Assange) in celebrity è manipolazione e controllo”. Su Snowden rifugiato in Russia: “Ambizioso, ingenuo, strumentalizzato, una marionetta”. All’epoca comincia ad avere dei ripensamenti Bill Keller, che era stato direttore del New York Times quando il quotidiano decise di ospitare le rivelazioni di WikiLeaks. Intervistato da Repubblica, Keller disse: “La pressione per pubblicare la notizia subito può far commettere errori”. La penultima puntata va in scena nell’estate del 2016, la fragorosa divulgazione di email segrete rubate dai database del partito democratico Usa. Denunciata, forse troppo tardi, da Barack Obama. L’intelligence Usa raccoglie prove che puntano in una direzione: il materiale che WikiLeaks fa circolare, lo hanno rubato i russi. Un mese prima del voto, il New York Times mette insieme un dossier di accuse che stavolta è rivolto contro il “mito” Assange. Gli rinfaccia di essere un divulgatore di segreti a senso unico. Mai nulla che possa disturbare la Russia, la Cina… o Donald Trump. Assange si difende blandamente, spiegando di non avere mai ottenuto segreti degni di qualche interesse sulla Russia o sulla Cina o su Trump. In effetti WikiLeaks ha pubblicato tante notizie su stragi americane in Iraq, zero sui bombardamenti russi in Siria. E per sapere qualcosa sulle immense ricchezze del clan di Xi Jinping bisogna leggere i reportage di Bloomberg, Wall Street Journal, New York Times: che verranno castigati duramente dalla censura cinese. Assange su questo fronte non produce. Pur senza ammettere nulla sulla provenienza delle email rubate, lui dichiara: “Anche se la fonte dei segreti fossero i servizi segreti russi, li pubblicherei”. La parola fine in questa storia non è stata scritta. L’indagine di Mueller sul Russiagate proseguirà per mesi, forse anni. Se arriverà a incolpare l’attuale presidente degli Stati Uniti di collusione con Putin, è presto per dirlo. Ma i cori che inneggiavano all’eroe della trasparenza Julian Assange si sono ammutoliti. Migranti. La Guardia Costiera sul caso Mered: “il trafficante era a Dubai l’estate scorsa” di Ilaria Sesana altreconomia.it, 26 novembre 2017 Durante l’udienza del processo contro il “Generale” dei trafficanti, un ufficiale della guardia costiera ha riferito nuovi elementi che potrebbero confermare l’ipotesi dello scambio di persona. Il giovane attualmente detenuto a Palermo, infatti, ha sempre dichiarato la sua innocenza. E a provarlo ci sono anche l’esame del Dna e un saggio fonico sulle telefonate intercettate del vero trafficante. “Fino all’estate 2016, Medhanie si trovava a Dubai”. Lo ha riferito venerdì, durante un’udienza di fronte alla Corte d’Assise di Palermo, riunita nell’aula bunker dell’Ucciardone, il sergente Samuel Sasso del Nucleo speciale di intervento della Capitaneria di porto. A fornire l’informazione agli inquirenti italiani (che stavano indagando su una cellula romana dedita al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina su mandato della Procura di Roma) è stata la polizia olandese. Sasso è stato chiamato a testimoniare durante il processo contro il presunto trafficante di uomini Medhanie Yedhego Mered, arrestato a Khartoum (Sudan) nel maggio 2016. Un processo su cui pesa il sospetto di uno scambio di persona: l’uomo detenuto nel carcere “Pagliarelli” di Palermo, infatti, ha dichiarato fin dal momento dell’arresto di chiamarsi Medhanie Tesfamariam Berhe. E di essere totalmente estraneo al business della tratta. La fotografia che ritrarrebbe il vero trafficante all’interno di un bar di Dubai nell’estate 2016 aggiunge un ulteriore tassello a questa complicata vicenda. Sono gli uomini della guardia costiera a spiegare - tramite il materiale raccolto durante migliaia di intercettazioni telefoniche - che Medhanie Yedhego Mered stava progettando di investire il denaro guadagnato con la tratta di esseri umani negli Emirati Arabi. Per farsi un’idea di quanto valesse la sua attività di trafficante, basti pensare che solo nel periodo compreso tra luglio e settembre 2014 e solo per quanto riguarda i pagamenti arrivati dall’Italia, il trafficante ha incassato circa 60mila dollari. Dalla deposizione di Sasso sono emersi poi altri elementi relativi all’età del trafficante (34-35 anni) e il suo aspetto fisico, ricostruito dagli uomini della Guardia Costiera attraverso una mole impressionante di intercettazioni telefoniche. L’uso delle intercettazioni telefoniche e l’analisi dei vari profili Facebook intestati al presunto trafficante hanno permesso di ricostruirne la rete familiare del trafficante: il fratello, la sorella, la moglie (Lidya Tesfu, che vive in Svezia con il figlio) e l’amante (che vive in Israele e da cui Mered ha avuto una figlia). Il fratello del trafficante, Mehrawi, rifugiato politico in Olanda, è stato interrogato dalla polizia olandese e il verbale di quell’interrogatorio, trasmesso agli uomini della Guardia Costiera assieme a una serie di fotografie. Oltre a quella che ritrarrebbe il trafficante a Dubai nell’estate 2016, ce ne sono altre estratte dal telefono di Mehrawi, che ritraggono il fratello. Medhanie Yedhego Mered, soprannominato “il Generale”, è considerato uno dei principali responsabili del traffico di esseri umani lungo la rotta che collega la Libia all’Europa. Nel maggio 2016, un’operazione della polizia sudanese (in collaborazione con la National crime agency) ha portato all’arresto di un uomo, indicato come Medhanie Yedhego Mered, successivamente consegnato alla polizia italiana. Ma fin dal suo arrivo in Italia, il giovane arrestato ha dichiarato di chiamarsi Medhanie Tesfamariam Berhe e di essere un semplice pastore, totalmente estraneo al business della tratta. Ma per gli inquirenti di Palermo, questo nome sarebbe solo uno dei molti alias usati dal trafficante. In questi lunghi mesi di processo, la tesi dello scambio di persona ha accumulato un numero sempre più consistente di prove. Tra le più recenti e più rilevanti, c’è l’esito dell’esame del dna a cui si è sottoposta Meaza Zerai Weldai, un’anziana donna eritrea che ha dichiarato di essere la madre del ragazzo detenuto a Palermo. “La signora Meaza Zerai Weldai è la madre biologica di Medhanie Tesfamariam Behre. La probabilità di maternità è pari al 99,9999999998%”, si legge nella relazione di consulenza tecnica presentata dall’avvocato difensore, Michele Calantropo. Il 16 novembre, invece, la Procura e la difesa si sono confrontate su quella che per i Pm di Palermo rappresenta la “prova regina”: il riconoscimento fonico dell’imputato. Per la difesa “nessuna delle voci anonime riscontrate nelle intercettazioni esaminate è compatibile con il saggio fonico rilasciato dall’imputato con un livello di confidenza del 99%”, scrive nella sua relazione Milko Grimaldi, fonico forense e direttore del Centro di ricerca interdisciplinare sul linguaggio dell’Università del Salento. Più vago il parere del perito incaricato dalla Procura Marco Zonaro: “Non posso confermare che sia lui, ma non posso nemmeno escluderlo con certezza”. Russia. “I mass-media come agenti stranieri”, Putin firma la legge bavaglio di Anna Zafesova La Stampa, 26 novembre 2017 Chiunque riceve finanziamenti dall’estero potrà essere censurato. Vladimir Putin aveva promesso di reagire alle pressioni subite negli Usa dai media affiliati al Cremlino, e la rappresaglia è stata immediata. In pochi giorni la Duma ha approvato (subito in tre letture), il Senato ha ratificato e il presidente ha firmato la legge che permette di dichiarare “agenti stranieri” qualunque media estero. Il criterio per venire considerati “agenti stranieri” è semplice: basta ricevere finanziamenti o assistenza da enti, governi, società o cittadini privati dall’estero. I media “agenti” dovranno sottostare alle stesse norme restrittive che già dal 2012 vengono applicate alle Ong internazionali. In caso di rifiuto, potrebbero venire oscurati, come già accadeva ai tempi sovietici con le radio occidentali. L’eco del Russiagate ha spinto il dipartimento di Giustizia di Washington a richiedere la registrazione come agenti stranieri di Russia Today America e Sputnik, e il provvedimento firmato da Putin sembra diretto in primo luogo contro i media americani, un ennesimo scambio di colpi con Donald Trump, con il quale il capo del Cremlino peraltro condivide lo scetticismo verso l’indipendenza dell’informazione. Ancora prima dell’approvazione della legge il ministero della Giustizia russo - cui spetterà applicare la nuova legge e decidere chi proclamare “agente” - aveva inviato un ammonimento alle radio finanziate dal governo americano Voice of America e Radio Free Europe/ Liberty, che trasmettono in russo e in altre lingue dell’ex Urss. I deputati in aula però hanno menzionato tra gli altri possibili candidati alla lista nera la Bbc, la Deutsche Welle e la Cnn. Ma la lista, almeno teoricamente, potrebbe includere chiunque. Qualunque testata non russa infatti non può che avere ricavi (anche di banale pubblicità) all’estero, e infatti la portavoce del ministero degli Esteri Maria Zakharova ha dichiarato che la legge potrebbe avere un “effetto preventivo” anche in Europa, dove molti Paesi vogliono arginare i canali della propaganda del Cremlino. La repressione della libertà di stampa è una delle critiche che sono state rivolte a Putin fin dall’inizio della sua carriera di presidente. Le campagne contro le tv russe indipendenti - quando il capo del Cremlino negava qualunque intenzione di voler controllare l’informazione, e sosteneva che la libertà di stampa “è come una bella donna, tutti ci provano, ma lei deve conservare la virtù” - hanno portato la televisione, principale media consumato dai russi, sotto il controllo più o meno diretto del governo. Dall’inizio del terzo mandato di Putin, nel 2012, il campo di battaglia si è esteso anche su Internet e i social media. L’informazione su numero di argomenti sempre maggiore - dalla droga ai suicidi, agli omosessuali - è limitata da varie leggi, e l’accusa di “estremismo” potenzialmente punisce qualunque altra critica alle autorità. Un’altra misura restrittiva è stata l’imposizione agli stranieri di possedere non più del 20% delle testate russe, decisione che ha eliminato dal mercato molti editori che non dipendevano da Mosca. “Adesso è arrivata l’ora di soffocare le voci dall’estero”, commenta Amnesty International: la legge approvata ieri da Putin è estremamente vaga, e potrebbe, secondo alcuni giuristi, colpire chiunque, anche gli stessi media russi dotati di strutture o attività commerciali estere. Non è chiaro, per esempio, se anche i popolari siti di rassegne stampa internazionali, che traducono per i russi notizie e opinioni che non trovano spazio sui media nazionali, rischieranno l’oscuramento. Turkmenistan. Lavorare per i diritti umani, una missione impossibile di Riccardo Noury Corriere della Sera, 26 novembre 2017 Il Turkmenistan è uno dei paesi più chiusi e repressivi al mondo. Il governo non tollera alcuna forma di dissenso, perseguita i giornalisti indipendenti e i difensori dei diritti umani, arresta e minaccia le voci critiche e si spinge persino a intimidire le famiglie degli oppositori in esilio. Ecco quanto accaduto negli ultimi mesi. Ad agosto, un gruppo di donne mai identificate ha circondato e insultato Natalia Shabunts, una delle poche persone che si occupano di diritti umani rimaste in Turkmenistan, urlando slogan razzisti e “invitandola” ad andare in Russia. A ottobre, nella città di Dashoguz, sconosciuti hanno assaltato l’abitazione della mamma 76enne di Farid Tukhbatullin, ex prigioniero di coscienza e leader in esilio dell’Iniziativa turkmena per i diritti umani. Il 14 novembre, nella capitale Ashgabad (che si traduce, ironicamente, in “Città dell’amore”) due uomini in borghese hanno pedinato Soltan Achilova (nella foto), 68 anni, giornalista indipendente, collaboratrice di Radio Azatlyk, servizio di lingua turkmena di Radio Free Europe / Radio Liberty, insultandola e minacciandola ripetutamente. Achilova non ha desistito e si è recata dove voleva andare: un negozio di frutta e verdura dove la gente, come al solito, era in fila fuori in attesa di comprare qualcosa, se qualcosa fosse rimasto. Uno sconosciuto l’ha strattonata urlandole: “Se non la smetti, prendo un sasso e ti colpisco alla testa. Se continui a fare fotografie, vi faccio a pezzi te e la tua macchina fotografica. Chiuditi dentro casa e non farti più vedere, altrimenti sei morta!” Achilova e i suoi colleghi di Radio Azatlyk subiscono costantemente minacce e intimidazioni. Lei è sorvegliata e isolata dal mondo: il collegamento a Internet è giù, la linea telefonica fissa e il telefono cellulare sono stati bloccati. Il giorno dopo, il 15 novembre, è toccato a Galina Kucherenko, attivista per i diritti degli animali e collaboratrice del sito in lingua russa odnaklassniki.ru. L’hanno chiamata, da una stazione di polizia, pretendendo che si presentasse in relazione alla presunta denuncia di un’attivista che l’avrebbe accusata di averla costretta a “scrivere per riviste americane”. Quindici minuti dopo la telefonata, hanno citofonato al suo appartamento. Lei ha rifiutato di aprire. Ne è nato un serrato dialogo durato 25 minuti: lei che rifiutava di uscire di casa in assenza di un mandato formale, loro che pretendevano che si presentasse comunque alla stazione di polizia. Alla fine se ne sono andati, senza lasciare alcun documento. Ovviamente è emerso che l’attivista, che Kucherenko conosce bene, non aveva sporto alcuna denuncia. Ma da quel giorno lei è barricata in casa. Congo. “City of Joy”, il Centro in gestito dalle ragazze vittime di violenze di Stefania Ulivi Corriere della Sera, 26 novembre 2017 Non è un momento facile, in molti paesi l’orologio dei diritti sembra andare all’indietro. “La liberazione non è mai una traiettoria dritta, perché il patriarcato è un virus ostinato e persistente” spiega la drammaturga e attivista Eve Ensler al Corriere. “Ma in questo processo stiamo senza dubbio andando avanti”. La scelta di trasformare i Monologhi in una piattaforma di lotta contro la violenza è venuta naturale, racconta. “Dopo ogni replica incontro tantissime donne che mi raccontano le loro storie. All’inizio mi sembrava bellissimo, ho ascoltato storie di desiderio e soddisfazione sessuale ma nel 90 per cento dei casi erano storie di stupri o abusi. Lo spettacolo ha catalizzato memorie che avevano bisogno di essere condivise. Io stessa sono una sopravvissuta ma non avevo idea delle proporzioni sistemiche del fenomeno. Ho capito che dovevo fare qualcosa”. Tra le cose realizzate, quella di cui va più fiera è City of Joy, il centro a Bukavu in Congo - capitale mondiale degli stupri - raccontato dal documentario di Madeleine Gavis, che sarà oggi in anteprima italiana a Milano grazie a OBR, 27 ora e We World. “City of Joy è a Bukavu il mio posto preferito sulla Terra. In Congo negli ultimi 14 anni sono morte oltre 8 milioni di persone, tra l’indifferenza generale. Contro le donne c’è stata una sistematica opera di distruzione fisica e non solo”. Terrorismo sessuale, viene definito nel doc. “City of Joy, diretto da Christine Shuler Deschryver, è un luogo dove le donne trasformano il dolore in forza”. Eve Ensler è in prima linea anche nella denuncia dello scandalo delle molestie. “Quello che sta succedendo può essere un punto di svolta per un vero cambiamento culturale ma lo tsunami dei racconti delle donne deve trasformarsi in un’azione concreta irreversibile, dalla rivelazione alla rivoluzione”. È agli uomini che vuole parlare. “Dove sono gli uomini per bene e cosa stanno facendo? Non credo certo che ogni uomo sia uno stupratore o molestatore. Ma questa non è mai stato una questione femminile, non ci stupriamo da sole. Se gli uomini ponessero al centro della loro esistenza la fine della violenza contro le donne, finirebbe in una notte. Cosa vi trattiene uomini? Cosa state aspettando?”.