Giustizia e politica, l’equilibrio perduto e la via costituzionale per ritrovarlo di Giuseppe Gargani Il Dubbio, 24 novembre 2017 Quasi non si parla più di politicizzazione dei magistrati: eppure è la chiave della loro metamorfosi da “ordine” a “potere”, a dispetto di quanto fu stabilito nella nostra Carta il fallimento di diverse inchieste avviate negli anni scorsi sulla classe politica non ha scongiurato il rischio di quella che per Robert Bork è una “rivoluzione in corso nell’intero occidente”. Un convegno nei giorni scorsi sul tema della giustizia con un titolo provocatorio, “Giudice bocca della legge o giudice etico”, ha rilanciato un interrogativo che è sempre presente nella mente dei cittadini ma anche degli addetti ai lavori. L’interrogativo si ripropone da tempo e per certi aspetti è senza una risposta convincente perché l’evolversi della giurisdizione ha reso possibile che il giudice fosse interprete della legge ma al tempo stesso soggetto alla legge. I costituenti del 1948 ritenevano che se il giudice avesse interpretato “creativamente” il diritto, si sarebbe sovrapposto alla legge perché “se venisse meno la certezza del diritto, la funzione giurisdizionale non sarebbe più garanzia di libertà ma strumento di oppressione della libertà. Sono parole pronunziate all’Assemblea Costituente dall’onorevole Dominedo, ma corrispondevano al pensiero di tutti i suoi protagonisti. Il dibattito nel convegno citato si è svolto tra il presidente della Associazione nazionale magistrati Albamonte, l’avvocato ed ex presidente delle Camere penali Valerio Spigarelli, l’onorevole Mastella, il presidente Violante e il sottoscritto, ed è stato moderato da Errico Novi. Il tema si riferiva alla funzione del giudice e del magistrato, al processo storico che la giustizia ha subito in questi anni, seguito con molta superficialità da tutti gli operatori e dalla classe politica, e non compreso dai più. Credo sia arrivato il momento di valutare insieme l’influenza che la politica ha avuto sui magistrati, il condizionamento che ha determinato. Spetta a noi in questo campo come in tanti altri, dare un contributo di verità, orientare chi si incaricherà in futuro di valutare il comportamento e la funzione che le istituzioni hanno avuto per evitare interpretazioni falsate o non rispondenti alla verità. Il confronto nel convegno è stato realistico e veritiero ma non ha risposto crudamente alla domanda. Suggerisco a un giornale come Il Dubbio, che ha a cuore questi problemi in quanto ragione di fondo della sua preziosa presenza nella comunicazione italiana, di aprire un grande dibattito per fare luce sul rapporto tra la politica e la giustizia, sul comportamento della magistratura, sul ruolo che essa ha avuto nel determinare alcune scelte politiche. La magistratura per tanti anni, dal dopoguerra in poi, è stata interprete fedele della legge, e quindi ha costituito fino gli anni 70/80 un “potere neutro” rispetto al potere politico esercitato principalmente dalla Dc. Riconosco che la magistratura, pur proteggendo gelosamente la propria indipendenza, ha subito in quegli anni l’invadenza dei partiti e in particolare della Dc. I partiti non hanno prevaricato ma hanno condizionato, hanno fatto sentire il loro potere e la loro invadenza nella società e nello Stato, perché erano la novità del dopoguerra, la fonte e la garanzia della democrazia, e il Parlamento, rappresentante effettivo del Paese, aveva il suo fascino e il suo riferimento democratico che affascinava tutti e anche la magistratura. L’equilibrio dei poteri si è attuato in questo modo e la magistratura è stata un “ordine”, come la Costituzione aveva stabilito, “indipendente dagli altri poteri”, ma non un “potere”. Intorno agli anni 80 la magistratura ha avuto una evoluzione: la giurisprudenza si è imposta come riferimento principale, come faro per i giudici, la certezza della legge si è attenuata, le norme incerte, incapaci di regolare i rapporti sociali, hanno consentito che il legislatore delegasse tutte le interpretazioni e le decisioni al magistrato, e l’”ordine” ha lasciato il posto al “potere”. Io ritengo che si sia trattato di una evoluzione inevitabile, e che “l’ordine autonomo” era anacronistico anche nel 1948 perché risentiva della concezione del vecchio Statuto Albertino. I costituenti hanno avuto paura di usare la parola “potere”, anche se lo Statuto belga un secolo prima già individuava il “potere” della magistratura! Quindi, anche per le spinte interne alla stessa magistratura - da parte soprattutto della corrente di sinistra di “Magistratura democratica”, che non aveva remore a indicare la nuova funzione del “giudice di lotta” e di controllo degli altri poteri dello Stato - la magistratura ha maturato un ruolo diverso dovuto a una funzione nuova e diversa, che non solo in Italia ha caratterizzato e caratterizza il potere giudiziario, del quale bisogna prendere atto. Chi “lotta” fa politica, non applica il diritto ma fa giustizia e diventa il riferimento etico per garantire la legalità e per stabilire che cosa è bene e che cosa è male, anche fuori dalle fattispecie giuridiche. Questo il punto controverso. Il Pci, dopo anni di opposizione e di contestazione alla maggioranza di governo, negli anni 90 fece sua la questione morale che Berlinguer aveva denunziato nel 1982 e che costituiva un grande richiamo al rigore e alla correttezza politica, per riuscire, attraverso una strategia giudiziaria, a sconfiggere i partiti della maggioranza non essendo riuscito a vincere con il confronto elettorale. Di conseguenza il Pci non solo ha influenzato la magistratura ma ha avuto con essa un collegamento costante, utilizzando appunto la nuova “funzione” soprattutto del pubblico ministero, che gli consentiva di contestare e processare il potere, il sistema. Venne fuori la più grande inchiesta del secolo che fu battezzata Tangentopoli per dimostrare che il sistema era corrotto e che quindi andava liquidato. Le indagini furono rivolte appunto a contestare il “sistema” nel suo complesso, il comportamento dei partiti, più che ad indagare sui singoli fatti e sulle responsabilità personali. La magistratura pigliava atto che ad essa erano stati devoluti dalla legislazione una serie di compiti che non erano suoi propri e che investivano la funzione politica più che quella giurisdizionale, e di conseguenza il suo controllo giurisdizionale si trasformava di fatto in controllo politico e incideva sulla vita politica dello Stato. Queste le teorizzazioni di “Magistratura democratica”! Dobbiamo riconoscere che questo ruolo della magistratura non appartiene alla tradizione dello Stato di diritto del nostro Paese, e dunque il significato nuovo della giurisdizione ha di fatto superato il dettato costituzionale. La politica priva di autorevolezza aveva perduto il primato, per cui il potere giudiziario ha finito per essere il riferimento politico e morale di tanta parte di opinione pubblica. La questione morale fu confusa con la questione penale e il panpenalismo ha avuto il sopravvento! Il Parlamento approvò l’abolizione dell’articolo 68 della Costituzione, cioè eliminò le “guarentigie” dei membri del Parlamento che garantivano appunto la sua autonomia e in tutti questi anni ha approvato leggi incerte che hanno reso i magistrati arbitri finali di tutte le controversie sociali, fino ad arrivare e votare leggi come la cosiddetta “Severino”, a inventare il reato di traffico di influenze, inconsistente e aleatorio, che mette in difficoltà un magistrato scrupoloso, fino a stabilire la confisca dei beni agli indiziati di corruzione assimilando la corruzione alla mafia. Una continua delega in bianco alla magistratura! Il “Dubbio” dedica ampio spazio a questa problematica e critica i singoli comportamenti e le decisioni dei giudici quando sono vistosamente contraddittorie proprio perché mettono in risalto non la normale dialettica che nel processo vede contrapposti accusa e decisione del giudice: la inconsistenza dell’accusa porta a volte all’inevitabile decisione assolutoria da parte del giudice! In questo ultimo periodo vi sono state decisioni che hanno messo in evidenza queste contraddizioni e l’uso politico della giustizia come nel caso dell’onorevole Mastella e di tanti altri, dove è evidente la temerarietà dell’accusa e la sua strumentalizzazione. Un dibattito su questo tema, che è il vero tema della giustizia, può essere utile a ricostruire la evoluzione storica che la magistratura ha avuto e ad evidenziare i contrasti a volte violenti tra la politica e la giurisdizione. L’attuale squilibrio dei poteri non può durare, pena la negazione di alcuni sacrosanti diritti fondamentali. Dopo aver fatto un’adeguata analisi è urgente riconoscere, sia pure con ritardo, che la magistratura è un “potere” che, come tutti i poteri, vanno regolati, altrimenti non solo si affermerà di fatto una Repubblica Giudiziaria, paventata da tanti, ma risulterà alterato l’equilibrio democratico: la prevalenza del potere politico è il presupposto per una corretta democrazia. Robert H. Bork, nel suo libro “Il giudice Sovrano”, scrive che “se non comprendiamo il deterioramento della funzione giudiziaria a livello mondiale, non potremo capire la portata della rivoluzione politica che sta avvenendo in tutte le nazioni occidentali e che sta portando alla graduale sostituzione del Governo dei rappresentanti degli eletti con quello dei giudici nominati”. Questo dimostra che il problema è di dimensioni più vaste, per cui è necessario che vi sia una modifica alla Costituzione per esaltare l’indipendenza più che l’autonomia della magistratura e regolare il suo “potere”. È più che mai attuale quello che diceva Sciascia: “I giudici che hanno un potere delegato dal popolo debbono soffrire il loro potere invece di gustarlo”. Semplificare il sistema per rendere comprensibili le decisioni dei giudici di Andrea R. Castaldo Il Sole 24 Ore, 24 novembre 2017 La sentenza è pronunciata in nome del popolo italiano. Così almeno dispone l’articolo 125 del Codice di procedura penale, al comma 2. E a rincarare la dose, il monito della Carta Costituzionale, il cui l’articolo 101 si apre con la dichiarazione di principio che “La giustizia è amministrata in nome del popolo”. Ma se poi il popolo italiano, il legittimo destinatario, non intende il significato e si smarrisce nei meandri insidiosi del formalismo, come la mettiamo? È il dato sconfortante che si ricava da un sondaggio del Consiglio d’Europa, datato 2013 ma ancora attuale, sulla comprensibilità delle decisioni emesse dai giudici nei rispettivi Paesi. Ebbene, in Italia solo il 14% degli intervistati ammette di essere pienamente soddisfatto, contro la media europea del 46% e addirittura con un gap di 14 punti percentuali inferiore rispetto alla Nazione con il minor tasso di fiducia. Ora, se è facile individuare le cause che concorrono a generare un clima negativo, pressoché impossibile è trovare il bandolo della matassa. Proviamo allora a elencarne alcune, senza pretesa di completezza. Innanzi tutto, la normativa vigente: un ammasso di regole, stratificate nel tempo, carenti di una riforma organica che metta ordine e faccia sistema. Inoltre, la tecnica di redazione dei testi legislativi, specie nel settore penale, spesso poco comprensibile già sul piano linguistico. Un risultato tutto sommato ‘coerentè con i molteplici passaggi parlamentari e aperto alle inevitabili intese, o meglio compromessi, in vista dell’approvazione finale. Così, scelte ispirate al disincantato pragmatismo dell’obiettivo da perseguire sacrificano la purezza dei contenuti. Ma accanto a ciò si fa strada il meccanismo perverso di un legislatore che intenzionalmente delega il giudice nell’interpretazione, con il recondito fine di non impegnarsi apertamente nella soluzione di problemi politicamente scomodi, salvaguardando il proprio consenso elettorale e passando la patata bollente al potere giudiziario. Cosicché, soprattutto in aree sensibili, le norme varate sono porose, leggibili in varie direzioni, dichiaratamente esposte all’effetto riempitivo dell’applicazione giurisprudenziale. Un esempio riguarda la legislazione antiterrorismo, che punisce le condotte di partecipazione a una milizia terroristica, di arruolamento e di addestramento, consegnando nelle mani del giudice la probatio diabolica di distinguere situazioni che non trovano a monte alcuna definizione a sostegno. Dal canto suo, la magistratura italiana è ben lieta di supplire alle inerzie della politica e di alimentare le offerte votive al totem della soluzione dei conflitti sociali con un ruolo creativo. Ancora un esempio si rivela utile. Il Kirpan è un pugnaletto sacro che la religione Sikh impone ai propri seguaci di indossare come oggetto di culto. Almeno sino ad oggi non si sono registrati casi di aggressione a terzi dipendenti da esso. Ma, secondo la normativa vigente, si tratta di porto di arma impropria, come tale punito, a meno che non ricorra un “giustificato motivo”. Ebbene, il compito di fare chiarezza, in difetto di un codicillo che specificasse se i fattori culturali potessero annoverarsi quali ragioni giustificative, si è lasciato alla giurisprudenza, che in maniera ondivaga e richiamando l’adesione a presunti valori occidentali, ha deciso per il divieto di indossare il Kirpan. Ciò però genera, da un lato, l’effetto-leva dell’incremento dei procedimenti penali, il cui innesco è di frequente dettato da motivazioni poco nobili, riassumibili nell’intento di provocare fastidio e disdoro all’incolpato di turno, dall’altro comporta inevitabilmente incertezza nella pronuncia finale. Non di rado si assiste così a una girandola di decisioni contrastanti, basate sul medesimo materiale probatorio, che finiscono con l’allungare i tempi della giustizia e alimentare la sfiducia del cittadino, al quale sfugge se tali mutamenti siano frutto di errori o di differenti visioni culturali. Se allora si vuole quanto meno invertire la china, è necessario intervenire sui fattori che incidono a monte e provare a disinnescare gli automatismi che si generano, tra cui l’apertura di un procedimento penale e soprattutto l’iscrizione nel registro degli indagati, una misura nata con il lodevole scopo di garantire l’adeguata conoscenza, funzionale all’efficace difesa e trasformatasi in una gogna mediatica e nell’anticipazione di colpevolezza. In questa condivisibile direzione si muove la circolare interna del 2 ottobre del Procuratore di Roma, che, nel dare istruzioni sul quando e se iscrivere qualcuno nel registro degli indagati, smarca il pm da una visione burocratica segnalando come tale iscrizione debba avvenire formalmente attraverso un’individuazione mirata e selettiva del presunto responsabile del reato, ma sostanzialmente con un occhio alle negative implicazioni reputazionali ed economiche che produce. Violenza contro le donne. Viaggio nelle strutture che rieducano gli uomini di Viviana Daloiso Avvenire, 24 novembre 2017 Gli autori della di violenze possono cambiare: ecco gli avamposti del recupero. L’esperienza di chi tenta la strada della presa in carico dei maltrattanti, bisogna intervenire anche sul mondo maschile. Cambiare prospettiva. Cominciare anche a guardarla dall’altra parte, la violenza, nei panni di chi la commette. C’entrano, gli uomini. Eppure, anche in occasione di questo 25 novembre, soprattutto delle donne si parla: di quanti abusi subiscono, di quanto poco denunciano, del perché non lo fanno, dei centri che le aiutano. Tutto sacrosanto, e però da cambiare restano gli uomini. Al Centro di ascolto uomini maltrattanti (Cam) di Firenze questo si tenta di fare, dal 2009. “Quell’anno furono in 6 a rivolgersi a noi, l’anno scorso sono stati 50” racconta Alessandra Pauncz, anima del progetto, alle spalle del Cam una decina d’anni di esperienza a fianco delle donne maltrattate. E oggi anche presidente di “Relive”, la rete italiana che riunisce 22 centri che attuano programmi per autori di violenza di genere, dal Cerchio degli uomini di Torino alla Famiglia materna di Rovereto fino alle strutture di Padova e Genova. Una realtà in espansione, tanto che a marzo prossimo l’associazione si riunirà nel primo convegno nazionale a Trento, con dati ed esperienze da raccontare. Perché gli uomini possono cambiare. “Ovviamente si tratta di un approccio parziale alla problematica, che non pretende di esaurire tutto il bisogno che le donne hanno di essere accolte e sostenute, e tuttavia io credo sia decisivo - spiega Pauncz -. Si apre la porta agli uomini, nei nostri centri (sedi del Cam hanno aperto a Roma, Ferrara, Crema, Olbia, Sassari, ndr), perché della violenza gli uomini sono responsabili e su questo bisogna focalizzare attenzione”. Non solo quella degli operatori impegnati agli sportelli di ascolto e nei gruppi di lavoro che si creano (il percorso di “presa in carico” dei maltrattanti proprio sulla dinamica di gruppo si fonda, e dura almeno un anno), “ma soprattutto quella della società e della politica: basta mettere sulle spalle delle donne tutto, la violenza, la denuncia, la protezione dei figli - continua Pauncz. Gli uomini c’entrano”. Se un uomo è responsabile, un uomo deve guardare la violenza che compie, capirla. Succede questo, al Cam, dove a fronte di un 30% di “drop out”, cioè di uomini che si rivolgono al centro una volta e poi scompaiono, l’altro 70% degli utenti si impegna in un percorso complesso di presa di coscienza “che già dopo due mesi sfocia nella fine della violenza fisica”. È un risultato. Che si accompagna a un graduale abbassamento dell’età di chi si rivolge a questi centri. “Siamo arrivati a un 5% di studenti, una categoria che fino a qualche tempo fa non esisteva nemmeno nelle nostre statistiche”. E questo non tanto perché si sia abbassata l’età in cui si comincia ad essere violenti (dato comunque drammaticamente reale) “quanto perché è cresciuta la consapevolezza del disvalore della violenza anche quando le relazioni non sono definitive come in età più adulta”. In sostanza, mentre prima ad accorgersi che qualcosa non andava in uno strattone, o in uno schiaffo, erano soprattutto mariti e padri, ora lo fanno anche i giovani, “in alcuni casi persino i minori”. A insistere sul fronte del lavoro con gli uomini è anche il magistrato milanese Fabio Roia, già membro del Csm, dal 1991 impegnato sul fronte della violenza sulle donne: “È la Convenzione di Istanbul a prevedere l’attivazione di protocolli di intervento sugli uomini maltrattanti - spiega -: il problema è che nel nostro Paese manca un piano organico di applicazione di tali protocolli nella fase di esecuzione della pena”. In sostanza, cioè, nelle carceri - dove comunque sono ancora troppo pochi gli uomini maltrattanti, visto che i dati sulle cause parlano di appena un 60% di condanne - non esiste nessun tipo di trattamento sugli autori di violenza, “col risultato che dalla detenzione escono incattiviti e il tasso di recidiva del reato, sulla stessa donna o su una nuova, è altissimo”. Un caso a parte, l’esperienza condotta dal criminologo Paolo Giulini all’interno del carcere milanese di Bollate sugli autori di reati sessuali: la sua équipe, prima in Italia, dal 2005 a oggi ha trattato 248 detenuti con solo 7 casi di recidiva. Giulini gestisce uno sportello anche all’interno di San Vittore e, fuori, il Presidio criminologico territoriale del Comune di Milano con ben 5 gruppi di lavoro: “È importante - spiega - che questo approccio sia più conosciuto e valorizzato, che gli uomini conoscano l’esistenza di queste strutture e che si cominci a lavorare anche su di loro”. Femminicidio. Rapporto Eures: “la metà delle donne uccise aveva denunciato violenze” di Alessandra Pigliaru Il Manifesto, 24 novembre 2017 Studio sul femminicidio in Italia: nei primi 10 mesi del 2017 le vittime sono 114. Fenomeno in aumento contro le straniere. Il 92% degli assassini è italiano. Diffusi ieri, a ridosso della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne di sabato 25, i numeri dei femminicidi in Italia nei primi 10 mesi del 2017 confermano il drammatico dato dell’anno precedente. Sono 114 le donne uccise per mano maschile in Italia nel 2017, lo rende noto il quarto Studio Eures. Dopo l’aumento del 5,6% tra il 2015 e il 2016, lo scorso anno vi è stata una concentrazione al nord del paese in cui risultano 78 femminicidi, corrispondenti a più della metà dei totali e con il 30% in più rispetto al 2015. Anche al centro Italia l’incremento è del 30% mentre al sud in diminuzione. In Lombardia i casi nel 2016 sono stati 25 mentre in Veneto 17 che - quasi triplicati rispetto l’anno precedente - sono un segnale di crescita preoccupante. Il 76, 7% dei femminicidi, prosegue il rapporto Eures, sono stati consumati in famiglia. Un dato che non stupisce visto che nella maggior parte dei casi - quasi la totalità - le donne muoiono per mano di mariti, fidanzati o comunque uomini intimi e interni alle proprie abitazioni. La nazionalità degli assassini, vista la polemica pretestuosa scatenatasi qualche tempo fa sull’intersezione violenza-migrazione, è per il 92% italiana. La notizia non è che l’8% degli autori sia dunque straniero - la si può lasciare alla pruriginosa retorica di un certo populismo di destra che intende cavalcare con ogni mezzo, anche trattandosi del corpo delle donne, la propria battaglia xenofoba - quanto invece il già noto, vero rimosso, e cioè che in ogni caso sono uomini. Il tema della nazionalità risulta invece tristemente interessante quando si apprende che - sempre nel 2016 - il 25,3% delle donne uccise risultano straniere; significa che quel 5,6% in più dei femminicidi registrati l’anno scorso è una percentuale interamente coperta da donne non italiane. Nel 44,6% dei casi le donne avevano denunciato - purtroppo inutilmente, visto l’esito - gli uomini da cui avevano subito violenza o minacce. Questa della denuncia che cade nel vuoto è una delle risposte politiche peggiori che si possano dare alla vigilia del 25 novembre perché, se è vero che si tratta spesso di macchine burocratiche piuttosto complesse (ora sappiamo anche difettose), rimarca un insidioso malinteso atto al discredito della parola delle donne a cui una certa sottocultura mediatica chiede di “non stare zitte” mentre il reale riscontro è che quelle stesse donne, oltre a non essere state credute, muoiono ammazzate. Uno degli episodi più recenti è relativo alla vicenda di Noemi Durini, 16 anni, uccisa e gettata in un pozzo in Puglia non più di due mesi fa. La madre aveva denunciato le violenze subite dalla propria figlia ma anche in quel caso non è servito a niente. Ripercorrendo, per quanto possibile, le vite delle vittime di femminicidio nella maggior parte dei casi le violenze sono state ricorrenti, nel 20,7% dei casi invece si è trattato di un picco. Dal rapporto è stato scorporato il dato che attiene l’uccisione di 184 donne che esercitavano la prostituzione. Rimangono episodi sospesi, irrisolti e letteralmente lasciati ai margini della cattiva coscienza dell’opinione pubblica. Per non parlare delle vittime di transfobia, di cui poco e nulla si sa. Domani si potrà andare in piazza anche per loro, insieme alle tantissime (e, sarebbe augurabile, tantissimi) che ancora una volta ripeteranno a gran voce “non una di meno”. In nome della libertà femminile guadagnata con il femminismo e della forza di lottare contro la sopraffazione maschile che si inasprisce là dove si sente minacciata. Il fenomeno del femminicidio non è un’emergenza, è piuttosto la storia più lunga dell’impotenza degli uomini che odiano le donne e che arrivano a ucciderle. Esattamente, e in quanto donne. Migliucci: “nel decreto intercettazioni non c’è parità tra pm e difensore” di Errico Novi Il Dubbio, 24 novembre 2017 Intervista al presidente dell’Ucpi “Tutto il materiale sarà nell’archivio della procura, noi potremo solo sentire senza avere copia. E le nostre telefonate resteranno a disposizione degli inquirenti”. “È un pregiudizio, neppure sottile, che si scorge in tanti passaggi del decreto intercettazioni. Emerge con chiarezza quando si impedisce a noi avvocati di ottenere copia delle comunicazioni non ammesse dal giudice. Come se si desse per scontato che saremmo noi, di solito, a trasferirle alla stampa”. Il presidente dell’Unione Camere penali Beniamino Migliucci è contrariato per più di un dettaglio delle norme varate dal governo e ora sottoposte alle commissioni Giustizia del Parlamento. “Nell’audizione alla Camera ho ricordato che il cialtrone può esserci da entrambe le parti, ma che i fatti attestano come gli “ascolti” finiti sui giornali provengano nell’ 80 per cento dei casi dal circuito inquirente”. Obiettivo del provvedimento è impedire che conversazioni private e irrilevanti per la giustizia vengano pubblicate. “Ma tutto è concepito sulla base di un non detto: saremmo noi difensori l’elemento permeabile”. Ci dica perché, presidente Migliucci. Partirei dalla modifica dell’articolo 103 del Codice di procedura, che disciplina l’inutilizzabilità delle conversazioni tra difensore e assistito. Avevamo chiesto che fossero distrutte, se casualmente captate. In subordine, che fossero trasmesse subito al gip in modo che fosse lui a decidere se davvero sussistano motivi tali da impedirne la distruzione. Invece viene sì tutelata la riservatezza verso l’esterno, perché il divieto di trascrivere le comunicazioni del difensore sarebbe inderogabile, ma non c’è una tutela interna al procedimento. Il file esiste, la polizia lo ascolta, può riferirne al pm che a sua volta potrebbe riascoltarlo, scoprire la strategia difensiva. Così non va, tanto più che la delega viene tradita: vi si prevedeva di tutelare la riservatezza, non solo di impedirne la diffusione. E sia chiaro, qui non si tratta di privilegio, ma di sacralità della funzione difensiva. E l’Ucpi non obietta solo su questo punto. Ce n’è un altro infatti, sempre relativo alla compressione del diritto di difesa. L’avvocato non può trarre copia delle intercettazioni, può solo prendere visione di quelle trascritte o ascoltarle se non sono state trascritte. Vuol dire naufragare nel mare delle bobine alla ricerca di una conversazione che l’indagato o il teste magari ti segnalano. Senza brogliacci, e senza poter copiare i file, è impresa sovrumana. Dopodiché, se pure l’avvocato riesce a rintracciare i brani che ritiene debbano essere inseriti nel fascicolo, il gip decide a riguardo anche senza contraddittorio tra le parti. L’udienza filtro è prevista “quando necessario”. Ecco: e chi lo stabilisce? Il giudice, sì, ma su quale base? Come faccio a spiegare, fuori da un contraddittorio, le ragioni per cui chiedo di inserire un brano? Sempre come se la parità nel contraddittorio fosse un ammennicolo superfluo. Potranno pensarlo i magistrati, noi no di certo. E non è finita qui. In che senso? Immaginate cosa vorrebbe dire in un maxiprocesso, per gli avvocati, consultare e tenere a mente le intercettazioni, senza estrarne copia e quindi con la sola possibilità di prendere appunti a penna. Con decine di indagati e quindi di difensori. Gli avvocati di coloro che non possono permettersi il mega-studio con 20 dipendenti dovrebbero trascorrere mesi attaccati all’auricolare. Vorrei aggiungere un’altra cosa. Dica. Dopo l’udienza, o la “non-udienza” stralcio, se io avvocato realizzo che tra le comunicazioni ascoltate o lette dopo il deposito ce n’era una in effetti utile al mio assistito, torno nell’ufficio del pm e, a leggere la norma, pare che debba chiedergli il permesso di riesaminare il materiale custodito nel suo archivio segreto. C’è anche il rischio che lui mi chieda perché sono alla ricerca di quel brano. Dopodiché, di nuovo, non posso copiare nulla. Sempre e solo appunti a penna, o a memoria. Mi pare tutto frutto di un pregiudizio nei confronti di noi avvocati, da cui discende una chiara disparità tra le parti. Il pm continuerà ad avere tutto registrato nell’ archivio segreto, che si trova nel suo ufficio: può sentire, cercare, riascoltare quando vuole. L’avvocato deve frugare, se ci riesce. Io credo che il decreto intercettazioni avesse obiettivi anche ragionevoli ma che poi non riesca a perseguirli. Perché pone divieti ma non li accompagna con sanzioni. Il relatore del ddl penale, in cui era inserita la delega, Felice Casson, sostiene che se il pm fa trascrivere quanto non pertinente o necessario alle indagini, è passibile di procedimento disciplinare. A maggior ragione qualora fossero trascritte le comunicazioni col difensore. Bene, lo mettano per iscritto. Non va bene dire “non preoccupatevi, l’illecito sarà perseguito anche se non è esplicitamente previsto”. Sia inserito nella norma, che si tratti di sanzione disciplinare o anche penale. Del pm ma anche della polizia. Altrimenti restiamo noi avvocati a essere oggetto di pregiudizio, e i magistrati ancora una volta immuni da qualsiasi possibile conseguenza. Il ministro Orlando: “la mafia del 2000 ha preso il posto della politica” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 24 novembre 2017 Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha aperto ieri pomeriggio al Palazzo Reale di Milano il convengo che chiude gli “Stati generali della lotta alle mafie”, la pubblica consultazione sul contrasto alla criminalità organizzata. Il tema è da sempre ai primi punti nell’agenda politica di governo. Nella speranza di evitare il rischio retorica che un argomento del genere inevitabilmente porta con se, Orlando si è avvalso di sedici gruppi di lavoro tematici, composti da oltre 200 fra giornalisti, studiosi, rappresentanti delle istituzioni, magistrati, che in questi mesi hanno studiato le profonde trasformazioni del fenomeno mafioso, soprattutto in riferimento ai processi di globalizzazione e alle connessioni con il sistema economico finanziario. La presentazione del percorso degli Stati Generali è stata affidata al capo di gabinetto del Ministero della Giustizia Elisabetta Cesqui che ha introdotto il tema del primo panel su Internazionalizzazione, finanza e profili evolutivi” con i contributi di Franco Roberti (coordinatore del comitato scientifico degli Stati generali e già procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo), di Salvatore Rossi (direttore generale della Banca d’Italia), di Pier Carlo Padoan (ministro dell’Economia e delle Finanze), di Alessandro Pansa (direttore generale del dipartimento delle informazioni per la sicurezza), di Carla Del Ponte (ex procuratore del Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia) e Luigi Marini (magistrato della Rappresentanza Permanente Italiana presso l’Onu a New York). “La mafia non ha vinto ma non possiamo neanche dire che abbia perso”, ha esordito Orlando nel suo intervento introduttivo sottolineando che la mafia “non è un caso” ma è piuttosto “lo specchio della crisi sociale e della crisi politica. Le mafie sono poteri che riempiono i vuoti della crisi della politica, della crisi dei soggetti istituzionali e sociali. Le mafie giocano sull’arretramento degli Stati nazionali, dei corpi sociali, dei meccanismi di inclusione e si inseriscono nelle loro crepe, sfruttando queste fragilità per rafforzarsi”, ha aggiunto. Per il Guardasigilli rischiano di essere “gli ultimi corpi sociali sopravvissuti”, di svolgere in modo perverso e paradossale un ruolo da attori di connessione e di intermediazione. Pur volendo lo svuotamento del capitale sociale, perché questo vogliono le mafie, le mafie presidiano la società”. “La mafia si nutre di cattiva politica, di cattiva amministrazione, di cattiva società, di cattiva economia”, ha aggiunto secondo cui “la lotta alla mafia è una battaglia che devono combattere tutti, non può essere delegata a nessuno”. Per il ministro si registra poi “la crescita intollerabile di una zona grigia di contiguità con la mafia: un muro di omertà e paura che si alza in territori di nuova penetrazione mafiosa e di silenzio davanti alle minacce ad amministratori pubblici e giornalisti”. “Sul tema delle mafie ci giochiamo la visione del Paese. La lotta alle mafie è un compito di interesse nazionale e la scelta di Milano non è stata casuale: uscire dal luogo comune dell’Antimafia, da una certa retorica delle celebrazioni, da una certa ritualità di questa riflessione”, ha infine concluso ponendo l’accento sul fatto “nelle praterie digitali, oltre al linguaggio di apologia di fascismo, emerge oggi anche un linguaggio di apologia della mafia”. Primo intervento pubblico per il neo procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho che ha proposto ai procuratori distrettuali e agli organismi delle forze di polizia di “condividere i dati investigativi”. Secondo Cafiero de Raho è questo “il primo scalino della strategia della lotta” contro la criminalità organizzata. Il riciclaggio “è l’aria che le mafie respirano” perché è quello che serve per “trasformare un arricchimento illecito in un arricchimento spendibile”, per il direttore generale di Bankitalia Rossi secondo cui “i capitali sporchi non hanno un’etichetta”. “La mafia - ha osservato poi il ministro dell’Economia Padoan - ha obiettivi di rendimento e di potere. Una azione mafiosa è portatrice di più reati. E quindi, per esempio, il perseguimento di un reato di evasione fiscale può portare alla scoperta di più reati”. Per questo motivo il ministro suggerisce che “bisognerebbe riorganizzare la lotta al crimine economico in modo da sfruttare queste sinergie tra diverse criminalità”. Oggi è prevista la presenza del Capo dello Stato e la tavola rotonda dei procuratori distrettuali antimafia con il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Giovanni Legnini. Al termine la stesura di un documento finale condiviso, la “Carta di Milano per la lotta alle mafie del XXI secolo”. Un documento che verrà presentato a tutte le istituzioni impegnate su questo fronte: governo, Parlamento, Unione europea. Lotta alle mafie, arriva la Carta di Milano di Nicola Grolla La Stampa, 24 novembre 2017 Il ministro Orlando: “Nuove direttive per combattere il crimine del XXI secolo”. “La mafia non ha vinto ma non ha nemmeno perso. L’amara verità è che sta cambiando, rischiando di risultare l’unico corpo sociale che ha resistito alla modernizzazione della società. Per questo dobbiamo darci nuove direttive per battere la mafia del XXI secolo”. Con queste parole il ministro della Giustizia, Andrea Orlando ha dato inizio ai lavori degli Stati generali della lotta alle mafie, una due giorni di conferenze e tavole rotonde (23-24 novembre) al Palazzo Reale di Milano che sintetizzano il lavoro svolto sul territorio nazionale nell’ultimo anno: 16 tavoli di discussione gestiti da un Comitato scientifico di 30 esperti che hanno messo nero su bianco oltre 100 proposte. Il tutto per arrivare alla pubblicazione della “Carta di Milano”. La scelta del capoluogo lombardo è tutt’altro che casuale. Qui, nella capitale economica, la mafia mostra i vecchi e nuovi metodi del suo operare: dalla classica intimidazione alla transizione finanziaria passando per l’infiltrazione nel tessuto socio-economico. “Sappiamo che la mafia c’è ma ne facciamo un presupposto per il nostro operato”, ha ribadito il sindaco Giuseppe Sala. Un esempio? Il forte utilizzo per fini sociali degli oltre 170 beni confiscati sul territorio milanese. “Il passo successivo - ha continuato Sala - sarà estendere le buone pratiche comunali a tutta l’area metropolitana senza che queste si trasformino in medagliette di merito, ma diventino occasioni di confronto”. Perché, prima ancora della lotta alla mafia, quel che serve è una presa di consapevolezza culturale del problema: “È una chiamata di corresponsabilità”, ha rilanciato Orlando. Due i punti su cui, secondo il ministro, bisogna intervenire: “Il primo riguarda l’azione sul territorio. Il secondo passa attraverso il rilancio della cooperazione giudiziaria internazionale”. Per farlo, gli Stati Generali sono divisi in tre panel tematici. Il primo, su mafia e internazionalizzazione. Il secondo, su una nuova consapevolezza del pericolo mafioso che riesca ad andare oltre la solita retorica che separa illegalità e illegalità, Stato e antistato: “Le organizzazioni mafiose non sono isolate, si mescolano fra loro e si innestano nel tessuto socio-economico. Decidono di comune accordo chi dev’essere il comandate della barca piena di stupefacenti che parte dall’America latina e il porto in cui arriva in Italia”, ha affermato il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, Federico Cafiero De Raho. Il terzo, sull’ordinaria azione di contrasto che non vuole essere solo presenza militare, ma costante impegno culturale. Perché è giusto parlare di nazionalizzazione delle mafie di Isaia Sales Il Mattino, 24 novembre 2017 A proposito di mafie, è giusto dire che siamo in costante progresso verso il peggio? O ci sono delle novità intervenute nel corso degli ultimi decenni che ci fanno ben sperare sulla possibilità di venire a capo di questo aspetto della storia nazionale che ci accompagna da almeno due secoli? È attorno a queste domande, e a tante altre ancora, che si stanno svolgendo a Milano gli Stati generali della lotta alle mafie, voluti lodevolmente dal ministro della giustizia Andrea Orlando. Che sintesi, insomma, si può fare degli ultimi decenni di lotta alle mafie? Forse la più vicina alla realtà può essere questa: le mafie non hanno vinto, ma neanche lo Stato italiano le ha ancora definitivamente sconfitte. Mettiamola così: se la prima fase del rapporto dello Stato italiano con le mafie si è caratterizza per una sostanziale convivenza-utilizzazione (grosso modo dall’Unità d’Italia fino agli anni settanta del Novecento), se poi la seconda fase è stata invece caratterizzata da una strategia di contrasto-contenimento (perché quando si opera solo sul piano penale e della repressione non si può che ottenere una semplice “riduzione dei danni”), non si è ancora completamente dispiegata la terza fase, quella cioè che punta diritto al definitivo annientamento delle mafie. Al punto da suscitare due domande imprescindibili: si può fare? si vuole farlo? La storia degli ultimi anni ci dice che uno Stato ben motivato in tutte le sue istituzioni e in tutti i suoi rappresentanti può farcela a sconfiggere le mafie in un ragionevole lasso di tempo, ma diventa più complicato rispondere alla domanda se tutti lo vogliono fare. Quali sono, innanzitutto, i nuovi scenari in cui si colloca la lotta alle mafie? 1) È almeno da due decenni che si è verificato un cambio di gerarchia nelle criminalità di tipo mafioso presenti in Italia. La ‘ndrangheta e la camorra hanno scalzato Cosa nostra siciliana dal ruolo leader rivestito dal secondo dopoguerra fino alla seconda metà degli anni novanta del Novecento. Ciò è stato anche il risultato della stagione stragista voluta da Riina, che ha obbligato lo Stato ad elevare e affinare l’azione di duro contrasto rispetto a quella di semplice contenimento. Cosa nostra in quegli anni ha perso il controllo del mercato nazionale e internazionale di sostanze stupefacenti (a cui con grandi difficoltà sta provando a riaffacciarsi) a vantaggio dei boss calabresi e napoletani. 2) Ed è almeno da due decenni che si è completata un’azione di colonizzazione (e poi di radicamento) delle mafie meridionali nel Centro-Nord del Paese e all’estero. Una fase accompagnata da una assurda negazione da parte delle classi dirigenti politiche e imprenditoriali coinvolte. Ciò obbliga a fare i conti con domande più complesse rispetto alla semplificazione razzista che identificava le mafie con la mentalità e il contesto meridionali. Ora, ancora di più, le mafie sono un problema dell’Italia e non solo del suo Sud. Ma non ancora questa “nazionalizzazione” delle mafie è diventato problema centrale di tutta la nazione e priorità dei governi. Lo spostarsi delle mafie oltre la linea storica dei vecchi insediamenti presenta alcune differenze sostanziali: se la ‘ndrangheta trapianta il suo modello criminale nei nuovi territori, partendo però dalle zone di emigrazione calabrese e da lì estende il suo raggio d’azione verso il mondo politico e imprenditoriale locale, la camorra invece non esporta il modello organizzativo con cui opera a Napoli e in Campania ma si colloca nei posti strategici della produzione e delle rotte del narcotraffico, di altri numerosi commerci illegali o dove è possibile fare proficui investimenti, senza seguire necessariamente le rotte dell’emigrazione napoletana e campana. I camorristi si spostano, gli ‘ndranghetisti si radicano. Ma resta una domanda: come mai non c’è stata un’azione di rigetto pari alla storica tradizione civica e democratica dei nuovi territori interessati? Nel Centro-Nord i mafiosi raramente hanno la necessità di ricorrere alle pistole, impegnati più a fare affari che a presidiare quartieri, vicoli o strade come fanno al Sud. Va sempre ricordato che i mafiosi non sono un esercito straniero di occupazione, che si legittima solo con la forza della violenza. Semplicemente i mafiosi meridionali si stanno dimostrando funzionali ad alcune esigenze dell’economia centro-settentrionale. Il consenso lo ricevono dagli operatori di mercato non dal controllo del territorio. È sulla facilità con cui si sono aperte queste ampie brecce di consenso che bisognerebbe interrogarsi di più. Al Nord più che al Sud. A Milano più che a Napoli. E anche a Bruxelles. 3) Economie e mafie si stanno sempre più intrecciando. Ciò è dovuto sia agli altissimi profitti derivanti dal quasi monopolio del traffico delle droghe (mai nel corso della storia organizzazioni criminali hanno potuto godere di profitti così sproporzionati rispetto ai costi di produzione e di commercializzazione) sia al funzionamento opaco dell’economia. A volte il ricorso ai mafiosi negli affari, al raggiro delle norme e al supporto illegale, comincia a presentarsi come una risposta strutturale alle esigenze di una parte dell’economia di mercato. Ci sono degli imprenditori (in campi sempre più estesi) che beneficiano delle attività mafiose per la loro competitività. L’economia illegale e criminale è contro le leggi dello Stato ma non contro quelle di mercato. Si può fare economia e fare circolare la ricchezza anche fuori o addirittura contro la legge, perché si è fatto sempre più fumoso o poroso il confine tra legale e illegale. Soprattutto perché il mondo del crimine usa gli stessi territori e gli stessi mezzi giuridico-legali dei protagonisti dell’economia finanziaria. Come si è visto nel caso dei paradisi fiscali. Mai la droga è stata così diffusa, mai i criminali così ricchi, mai l’economia e la finanza così intrecciate con il capitalismo criminale. Il convegno di Milano, certo, non potrà dare tutte le risposte e delineare nei dettagli tutte le strategie per fare fronte a questi tre scenari completamente diversi rispetto al recente passato. Ma che il problema “nazionale” delle mafie se lo ponga un ministro della giustizia in carica è da segnalare come un fatto di assoluta importanza, pari a quello che cercò di fare in un altro periodo storico Claudio Martelli sotto la spinta di Giovanni Falcone. Resa dei conti fra magistrati e “impresentabili” di Marcello Sorgi La Stampa, 24 novembre 2017 A meno di tre settimane dalle regionali siciliane che hanno sancito la vittoria del centrodestra, ha tutta l’aria di una resa dei conti la serie di manette, domiciliari e avvisi di garanzia che stanno colpendo i cosiddetti “impresentabili”. Ultimo, ieri, quel Luigi Genovese, neo-eletto di Forza Italia, accusato di riciclaggio del patrimonio in parte illecito del padre Francantonio, già deputato Pd, condannato a undici anni. È come se la magistratura siciliana, sfidata dall’atteggiamento impunito di questi candidati, che avevano scelto di scendere in lizza malgrado il carico di attività illegali di cui si sapevano responsabili, abbia aspettato la chiusura delle urne per far calare la ghigliottina. E al contempo, per mettere la disgraziata nascitura amministrazione del “fascista per bene” Musumeci, un uomo che aveva fatto della sua onorabilità e dell’assoluta verginità giudiziaria in quasi cinquant’anni di vita politica il suo distintivo, di fronte a una difficile alternativa: dar vita al governo lasciando che della risicata maggioranza (36 contro 34) facciano parte anche gli eletti (molto votati, va detto) che devono regolare conti pesanti con la giustizia, o rassegnarsi, malgrado la vittoria elettorale, a restare in minoranza, a dover negoziare volta per volta con chi ci sta, come faceva Crocetta, l’approvazione dei provvedimenti. La scelta, insomma, è tra la padella e la brace. Dove la padella, per il povero Musumeci, vuol dire presentarsi il prossimo 11 dicembre, giorno fissato per l’insediamento della nuova Assemblea, guardando negli occhi gli inquisiti, che hanno reagito in modo chiassoso e volgare alle accuse nei loro riguardi, senza aver il diritto di dire nulla, dovendogli chiedere i voti per la fiducia. Immaginiamoci la scena: nella Sala d’Ercole del Palazzo dei Normanni agghindata come nelle grandi occasioni, seduti in prima fila, o in seconda o terza, non importa, ci saranno: il suddetto Luigi Genovese, campione di preferenze a Messina con oltre diciassettemila voti, che come si diceva deve rispondere di riciclaggio; l’Udc Cateno De Luca (il nome di battesimo non è una coincidenza del destino con gli arresti domiciliari da cui è appena stato scarcerato, ma un segno di devozione alla Madonna della Catena), accusato di associazione a delinquere finalizzata all’evasione fiscale; Riccardo Savona, Forza Italia, indagato per truffa insieme con la moglie (avrebbero messo su un traffico di case promesse in vendita a prezzi di fallimento e in realtà mai acquistate). Il quarto, Edy Tamaio, non appartiene alla maggioranza, ma potrebbe in futuro essere chiamato a farne parte, dato che è stato il primo degli eletti a Palermo, con quasi quattordicimila voti, risultati poi in parte comperati e venduti al prezzo di venticinque euro l’uno, per il partito personale di centrosinistra dell’ex ministro Totò Cardinale, collocatosi al centro e aperto alla collaborazione con Musumeci in casi di necessità. Naturalmente, per rispetto della sua storia personale e per com’è fatto, il “fascista per bene” Musumeci dovrebbe scegliere la brace della rottura con “impresentabili” e inquisiti, anche al prezzo del restare in minoranza, piuttosto che la padella della convivenza. La quale, specie se accompagnata alla solita indifferenza siciliana, o peggio ancora alla difesa aprioristica degli accusati, trasformerebbe la vittoria del 5 novembre in sconfitta, non solo personale del governatore, ma politica del centrodestra rinato nelle urne. Non va dimenticato infatti che a tallonare i vincitori in Sicilia, con un risultato clamoroso che ha raddoppiato i voti ottenuti nel 2012 e ha sfiorato la conquista della Regione, è stato il Movimento 5 stelle. Che pur avendo anch’esso avuto un candidato con problemi giudiziari, non potrà non avvantaggiarsi, nelle elezioni politiche della prossima primavera, del volto compromesso, grazie agli inquisiti, del centrodestra siciliano. Salvini non a caso ha subito chiesto a Berlusconi un patto sulla pulizia delle prossime liste nazionali sottoscritto davanti al notaio. Reazione tempestiva e indiscutibile. Ma forse il leader leghista avrebbe fatto meglio a riflettere prima di parlare: a quanto si vocifera a Palermo, infatti, il prossimo “impresentabile” a cadere nelle mani dei magistrati sarà proprio un eletto delle sue liste. Rems: la Cassazione non bacchetta lo Stato se la Regione gioca d’anticipo di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 24 novembre 2017 La Regione non può imputare una responsabilità allo Stato per la tardiva realizzazione di una struttura Rems (residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza) invece del vecchio Opg (ospedale psichiatrico giudiziario), quando sia la Regione stessa a provvedere d’urgenza a tale struttura. Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza n. 53325/17. La storia della Rems - La decisione della Corte, quindi, non lascia sul campo colpevoli e innocenti. I Supremi giudici, infatti, hanno ripercorso l’excursus storico-giuridico fatto dalla regione Veneto in merito alla struttura Rems ribadendo la competenza statale a occuparsi delle strutture di detenzione. È emerso come le Regioni abbiano in materia essenzialmente compiti di programmazione e non di diretta gestione: spetta allo Stato provvedere, essendo competente ad attivare il sistema Rems a livello nazionale, mentre la ripartizione regionale è soltanto eventuale. E il quadro - si legge nella sentenza - non è stato modificato dal Dl 211/2011 che ha previsto le Rems: la legge non ha trasferito alle Regioni la competenza in materia di sicurezza, né altri compiti dello Stato, cui, infatti, vengono assegnate le competenze necessarie, mentre le Regioni devono assumere il personale qualificato, predisporre un programma delle strutture destinate ad accogliere le persone cui è stata applicata la misura di sicurezza dell’Opg, nonché delle attività e organizzare i corsi di formazione del personale. In definitiva la Regione ha sostenuto come è lo Stato a dover disciplinare, finanziare, regolare, controllare, monitorare il nuovo sistema dell’assistenza psichiatrica ed è responsabile dell’esecuzione delle misure di sicurezza. Ora la Cassazione non si è espressa su ritardi, responsabilità e competenze, ma è stata molto concreta. Laddove, quindi, la macchina statale si muova in ritardo e, invece, la Regione giochi d’anticipo e predisponga come nel caso concreto una struttura d’urgenza non sussiste alcuna responsabilità. Conclusioni. Per concludere l’appello della regione Veneto è stato dichiarato inammissibile per carenza di interesse. Certo è che probabilmente vista l’estrema delicatezza della materia è auspicabile che in forza di una collaborazione tra Stato e Regioni si riesca a garantire un trattamento più umano agli ex internati delle Opg. Spese “pazze” dei consiglieri regionali, c’è il peculato di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 24 novembre 2017 Corte di cassazione, sentenza 23 novembre 2017, n. 53331. Peculato per il consigliere regionale che utilizza i soldi pubblici per esigenze personali già coperte da altri compensi o indennità o usa una documentazione troppo generica per giustificare l’uso del denaro pubblico. Per la Cassazione (sentenza 53331) sono da considerare una “distrazione” non solo le spese “pazze” fatte da due consiglieri dell’Italia dei Valori (costituta parte civile) ma anche quelle che in teoria, sarebbero state collegate al ruolo svolto, come vitto, trasporti e alloggi. Voci per le quali i politici locali prendevano già un rimborso forfettario mensile. La Suprema corte sul punto si muove nel solco tracciato dalla sezione controllo della Corte dei Conti. I giudici contabili, riguardo alla rendicontazione dei gruppi consiliari, hanno infatti escluso che i contributi pubblici possano “essere destinati ad attività dei consiglieri che già trovano copertura nel trattamento economico, il quale comprende la cosiddetta diaria mensile”. E nel caso esaminato c’era un’indennità mensile di 8.800 euro, oltre a un rimborso che oscillava dai 2.925 euro a 4.681 secondo la distanza tra il luogo di domicilio e il capoluogo della regione. A completare il tutto: un assegno di fine mandato, il vitaliazio e il rimborso spese di viaggio, vitto e alloggio per le missioni autorizzate dalla Presidenza. Nello specifico, in ogni caso, mancava del tutto la prova che le spese sostenute dalla ristorazione, ai viaggi, all’acquisto di beni, fossero riconducibili a fini istituzionali, per la genericità delle ricevute. Dai “giustificativi” non era possibile risalire né all’identità degli ospiti né all’occasione legata all’attività politica. I giudici respingono anche la tesi della difesa seconda la quale si poteva ipotizzare il reato di truffa. I ricorrenti si erano appropriati (concetto in cui rientra anche la distrazione) di somme che possedevano già, senza ricorrere ai raggiri necessari per la truffa. La produzione dei documenti non era lo strumento per conseguire le risorse ma per nascondere, in un secondo momento, la destinazione indebita: il che integra appunto il peculato. Traffico di influenze con doppia condizione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 24 novembre 2017 Corte di cassazione, sentenza 23 novembre 2017, n. 53332. La relazione tra mediatore e pubblico ufficiale deve essere esistente e reale il potere di influenza del mediatore sul pubblico ufficiale. Chi compra l’influenza, per essere considerato soggetto attivo e quindi sanzionato, deve essere consapevole che il potere di influenza sia esistente e altrettanto concreto il pericolo di alterazione del corretto funzionamento dei pubblici apparati a suo vantaggio. Il millantato credito invece incrimina i casi in cui il potere d’influenza non c’è, siano esistenti o meno le relazioni, ma questo potere è comunque ostentato per ricevere un indebito vantaggio da parte di chi, raggirato a sua volta, è vittima del reato. Si configura in questo modo la differenza tra il vecchio millantato credito e il nuovo traffico d’influenze introdotto dalla legge Severino. Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza 53332 della Sesta sezione penale, depositata ieri. La pronuncia chiarisce genesi e natura del nuovo reato, mutuato da quel trading in influence noto nel contesto internazionale, ma non al nostro ordinamento penale, dove la tipicità delle norme contro la corruzione non poteva essere spinta sino a comprendere quei casi di venalità della carica pubblica. Con l’introduzione del traffico di influenze si è così voluto procedere in maniera anticipata nella tutela del buon andamento della Pa e imparzialità dei pubblici funzionari, colpendo uno dei momenti anteriori a quelli dell’adozione di un atto contrario ai doveri d’ufficio. Un momento che consiste nella sollecitazione o offerta di denaro o altro vantaggio patrimoniale in vista dello sfruttamento di relazioni esistenti con il pubblico agente, “momento che normalmente costituisce il primo stadio di una trattativa illecita, rispetto alla quale rimangono irrilevanti sia l’effettivo esercizio dell’influenza sia il raggiungimento dell’esito voluto dall’istigatore iniziale”. L’articolo 346-bis del Codice penale, introdotto dalla legge Severino, non specifica il grado di intensità della relazione perché assuma rilevanza penale. Non c’è aggettivazione in merito e quindi possono essere ricompresi nell’area penale anche rapporti occasionali e sporadici come più stabili e duraturi. La relazione però deve essere esistente ed è necessario che lo sfruttamento della stessa si leghi alla dazione o promessa di denaro o altro vantaggio patrimoniale. “In altre parole, la dazione o la promessa costituiscono il corrispettivo dello sfruttamento di relazioni esistenti e tale sfruttamento in favore del compratore di influenze deve costituire la causa o il motivo determinante dell’accordo con l’intermediario”. Benevento: il Garante in vista al carcere “qui ho trovato vera giustizia riparativa” Il Mattino, 24 novembre 2017 Visita alla Casa circondariale di Benevento per il Garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello. “Ho avuto modo di incontrare i detenuti e tutti mi hanno parlato di un trattamento ottimo. Inoltre ho potuto rilevare personalmente, e con gioia, che in questa struttura, a differenza di altre, vengono proposte ai detenuti diverse attività trattamentali e lavorative. Infatti, ci sono spazi ricreativi e teatrali ed anche un laboratorio musicale gestito dai detenuti ad alta sicurezza, coloro che devono scontare numerosi anni di pena. Molti mi hanno confessato di aver avuto l’opportunità di fare delle belle esperienze insieme alla Caritas, altri hanno intrapreso dei percorsi di reinserimento nel tessuto sociale. Insomma, sono rimasto davvero colpito positivamente da questo diverso” modo di scontare la pena. Ma la cosa più importante è che, rispetto alla maggior parte degli altri penitenziari ove sussistono gravi problemi di sovraffollamento, qui ho trovato stanze dove sono presenti due, al massimo 4 persone per cella. Poi, oltre a tutto ciò, i detenuti sono seguiti da ben 7 educatori ed una psicologa; personale altamente qualificato, dunque, che quotidianamente assiste 390 detenuti di cui 67 donne; 11 persone in stato di semilibertà o articolo 21; 22 sex offender e 6 carcerati con problemi mentali”. Da Ciambriello (che ieri ha distribuito la “Guida dei Diritti e dei Doveri dei Detenuti” pubblicata insieme alla Camera Penale di Napoli) ieri sono giunte però anche due osservazioni negative, basate sulle istanze dei detenuti. La prima riguarda le eccessive lungaggini per potersi sottoporre a visite specialistiche e la seconda è relativa alla tempistica altrettanto poco celere del Tribunale di Sorveglianza. Per quanto concerne la prima richiesta, il garante ha pubblicamente chiesto all’Asl di mandare del personale medico in uno dei tanti spazi di cui dispone il carcere per poter visitare i detenuti. “In questa maniera - ha spiegato Ciambriello - si andrebbe anche a tagliare il costo degli agenti necessari per lo spostamento dei detenuti (sovente anche alla volta dell’ospedale di Avellino). Comunque, in definitiva, devo ammettere che dopo 30 anni di attività nelle carceri, a Benevento, davvero ho trovato giustizia riparativa”. Gran merito di questa gestione va sicuramente al direttore della Casa circondariale Maria Luisa Palma alla quale sono andati i complimenti del garante che ne ha estesi altrettanti anche a tutti i membri del personale e della Direzione della struttura. Ciambriello, infine, ha annunciato che alla fine del giro di sopralluoghi presso le carceri campane, pubblicherà un report ed, inoltre, a breve, dovrebbe partire anche il progetto (già finanziato) “Genitori Dentro” che, attraverso delle specifiche figure di sostegno, andrà ad aiutare ed a far recuperare un sereno rapporto tra i detenuti, che devono scontare diversi anni di carcere, ed i propri figli che li aspettano fuori: dove c’è la libertà. Benevento: cinque detenuti lavoreranno in Questura. sottoscritto protocollo d’intesa Il Mattino, 24 novembre 2017 Questura e Casa circondariale fanno squadra per il reinserimento sociale dei detenuti. Grazie al protocollo d’intesa appena firmato tra il questore Bellassai e la direttrice del carcere Palma, per cinque di loro si apriranno proprio le porte degli uffici di via De Caro, dove eseguiranno piccole opere di tinteggiatura e muratura. Il primo step di un percorso più ampio. Svolgeranno la propria attività a titolo volontario e gratuito, nell’esecuzione di progetti socialmente utili, così come previsto dall’ordinamento penitenziario. Il lavoro sarà effettuato nel pieno rispetto delle esigenze di sicurezza, segretezza e riservatezza, nei soli settori nei quali sia possibile evitare la diffusione dei dati sensibili. La Casa circondariale espleterà invece le attività necessarie all’individuazione dei detenuti da assegnare, provvedendo a redigere il piano di trattamento relativo a ciascun detenuto e formulando specifica proposta al Magistrato di Sorveglianza per l’approvazione puntuale e provvedere alle attività di controllo che rimangono demandate esclusivamente agli operatori di Polizia penitenziaria. “Il lavoro - ha tenuto a sottolineare il questore Bellassai - assume un ruolo fondamentale in ogni percorso di riabilitazione. Per questo è importante offrire ai detenuti l’occasione di uscire dalla Casa circondariale nell’orario lavorativo previsto, riprendere familiarità con l’ambiente esterno, prestarsi volontariamente allo svolgimento di lavori utili alla società piuttosto che trascorrere il proprio tempo nella struttura. È importante che ci siano una formazione e una preparazione propedeutiche al reinserimento nella società avendo chiara la scala dei diritti e quella dei doveri”. “La Casa Circondariale, la Questura e tutte le istituzioni di un territorio - ha affermato Palma - è necessario che interagiscano per evitare che un detenuto, una volta scontata la pena, torni a delinquere. È pertanto opportuno garantire loro spazi di riflessione, di formazione, di occupazione”. Milano: detenuto picchiato perché non testimoniasse, arrestato agente penitenziario La Repubblica, 24 novembre 2017 Secondo gli investigatori, voleva costringere il detenuto a non presentarsi in aula per una vicenda di ruberie a Velletri. L’accusa: intralcio alla giustizia e falso. Gli uomini del nucleo investigativo della Polizia penitenziaria della Lombardia hanno arrestato uno degli agenti carcerari di San Vittore accusati dalla procura di Milano del pestaggio del 50enne tunisino Ismail Ltaief, detenuto a Milano per tentato omicidio, che sarebbe avvenuto per “punire” l’uomo che nel 2011, quando era in cella a Velletri, aveva denunciato altri agenti per furti in mensa e percosse. Pestaggio che avrebbe avuto anche lo scopo di impedirgli di testimoniare in aula nel processo “bis” in corso davanti al tribunale della cittadina laziale sulla vicenda delle ruberie. L’ordinanza è stata firmata dal gip Chiara Valori su richiesta del pm milanese Leonardo Lesti. L’agente, che dal paese di origine in Puglia, dove è stato arrestato e dove si trovava in ferie, verrà trasferito nella sezione “protetti” del carcere di Pavia, risponde di intralcio alla giustizia e falso. La misura della custodia cautelare nei suoi confronti è stata emessa per via di presunti comportamenti intimidatori che avrebbe tenuto fino ai primi di novembre nei confronti di uno dei compagni di cella di Ltaief, un sudamericano di 30 anni, per costringerlo a non presentarsi davanti al giudice Valori per deporre come teste nel corso dell’incidente probatorio avvenuto un paio di settimane fa per “cristallizzare” le asserite vessazioni e botte denunciate dal tunisino mentre si trovava a San Vittore. Firenze: guida ai luoghi sociali della città per i detenuti a fine pena Redattore Sociale, 24 novembre 2017 Ai detenuti di Sollicciano e Solliccianino, a Firenze, sarà consegnata la guida “Dove dormire mangiare lavarsi”, realizzata dalla Comunità di Sant’Egidio. Contiene informazioni pratiche sulla Firenze solidale, è giunta alla sua decima edizione e quest’anno contiene un’apposita sezione per i reclusi in uscita dal carcere. Una guida che mostra una Firenze diversa da quella illustrata nei compendi turistici. Con una mappa che mostra i luoghi dove poter dormire, lavarsi e mangiare, ma che indica anche una serie di servizi essenziali: bagni pubblici, centri per l’impiego e di collocamento, servizi sociali, anagrafici e di assistenza sanitaria. È la guida 2017 della Comunità di Sant’Egidio, negli anni scorsi destinata soprattutto ai senza tetto e da oggi distribuita gratuitamente anche ai detenuti che si apprestano ad uscire dal carcere di Sollicciano. “Perché spesso chi esce non ha più rapporti con la famiglia né altri legami sociali, senza un posto dove andare né una direzione per ricominciare. Questa guida non risolve tutti i problemi, ma vuole essere un aiuto ad orientarsi”, spiega Beatrice Fabbri, della Comunità di Sant’Egidio, che questa mattina ha consegnato al direttore del carcere fiorentino Carlo Berdini le prime delle 500 copie che verranno donate al penitenziario (in tutto ne sono state stampate 2.500). “Un’iniziativa estremamente valida, che può creare un ponte tra il carcere, pensato sempre come un luogo isolato e di emarginazione, e la città. L’uscita dal carcere è un momento difficile, dare dei punti di riferimento è essenziale, anche perché l’impegno deve essere quello di reinserire chi è stato detenuto nella collettività”, commenta il direttore di Sollicciano. Nella mappa sono indicati 19 luoghi dove mangiare, 17 dove dormire, 6 dove lavarsi, 25 centri di ascolto, 8 luoghi dove curarsi oltre ad ospedali ed ambulatori, 9 indirizzi dove cercare consulenze legali, 17 centri per la distribuzione di vestiti, 16 per i pacchi alimentari e 6 per informazioni sul lavoro. “Un aiuto fondamentale - conclude Antonio Fullone, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria. Non dimentichiamo che recuperare le persone che escono dal carcere significa accrescere la sicurezza di tutti”. Volterra (Pi): da detenuto a chef delle cene galeotte “torno in carcere da uomo libero” di Ilenia Pistolesi La Nazione, 24 novembre 2017 La galera, quando ti resta appiccicata addosso come un’etichetta, spesso vuol dire anche reggere l’urto del passato, senza defilarsi. “Non nascondo quello che ho fatto - dice lo chef Pierino Rosace, anni passati dietro le sbarre del Maschio ed ora re dei fornelli nel ristorante, ricavato in una vecchia dimora, che ha aperto con i due figli nella sua Gioia Tauro - adesso torno a Volterra da uomo libero. Cosa provo? Lo saprò solamente quando varcherò quella porta. E chi si aspettava di fare il percorso inverso, di tornare in carcere come chef protagonista di una Cena Galeotta. Mai l’avrei immaginato quando mi trovavo là dentro”. La porta può rappresentare l’inizio e la fine di un lungo viaggio: è una quadratura perfetta dove un uomo entra da quel portone come colpevole, ne sguscia a testa alta dopo aver scontato la sua condanna e qui ritorna. Lui, che adesso ha 49 anni, ha deciso di riprendere in mano le chiavi di quella porta, usando ogni grammo di energia per creare un ponte fra il passato ed il presente. Senza vergognarsi dell’onta della reclusione. L’ex detenuto terrà a battesimo il 15 dicembre la prima serie delle Cene Galeotte come chef d’onore ospite del Maschio. Pierino non ha avuto il privilegio di una vita semplice. Certo, i guai se li è andati anche a cercare. E tanti, troppi, fanatici delle etichette avevano già bollato il suo destino come un caso perso. Eppure, fin dalla prima sosta “nel girone dei condannati”, la sua vita ha preso subito una piega diversa. Pierino, ora è diventato uno chef rinomato: cosa ricorda dell’esperienza dentro il Maschio? “Sono uscito nel 2010 e l’anno successivo ho aperto il mio locale, il “Vico Scuro”. Confesso che non pensavo certo di finire a sgobbare fra padelle e pentole. Quando dalla sezione alta sicurezza fui trasferito alla sezione comune, mi chiesero che volessi fare. Scelsi la cucina, del resto in carcere il tempo è dilatato e bisogna pur passarlo. Vede, la cucina di un carcere è un ambiente delicato. Passare da una discussione banale a finire per mettersi nei guai, in un luogo dove ci sono così tanti coltelli, è un attimo. Per fortuna non è mai accaduto”. Prima si è occupato del rancio per gli altri detenuti, poi è finito a sfamare oltre cento bocche per le Cene Galeotte. Qual è il ricordo più bello di quell’incredibile avventura? “La sensazione che ci davano le persone, gli chef che venivano a cucinare, i commensali. Quegli occhi che ci guardavano come fossimo tutti allo stesso pari. E se non fosse stato per quel progetto, non avrei neppure trovato un lavoro”. Lei infatti ha lavorato anche in un ristorante cittadino… “Sì. Pensi che ho ottenuto la libertà nell’agosto del 2010. Ma in quel momento decisi lo stesso di restare a Volterra fino ad ottobre per portare a termine la stagione turistica. Non volevo lasciare sul più bello il mio datore di lavoro”. Con quale piatto sorprenderà gli ospiti della prima Cena Galeotta? “La mia è una cucina semplice, improntata sulla qualità delle materie prime. In carcere delizierò i palati con un menù di carne. E poi, per dirla tutta, non vengo per stupire con effetti speciali. Torno in carcere, accompagnato dai miei due figli, per mandare un messaggio a tutti, soprattutto a coloro che non credono nei progetti di recupero dei detenuti. Questi progetti funzionano, e io ne sono la prova vivente. Non finirò mai di ringraziare la direttrice Maria Grazia Giampiccolo e gli agenti per l’opportunità che mi è stata data”. Palermo: un cine-convegno al Pagliarelli per i detenuti uomini maltrattanti filodirettomonreale.it, 24 novembre 2017 In occasione della giornata mondiale contro la violenza sulle Donne, l’Associazione “Un Nuovo Giorno”, con il patrocinio del Comune di Palermo promuove e organizza, all’interno della casa Circondariale Pagliarelli il cine-convegno “Spunti di cambia-Menti”. L’evento si svolgerà sabato 25 novembre alle ore 10,00 è rivolto alla popolazione detenuta maschile e femminile. Sarà un momento di riflessione all’interno del quale saranno raccolte idee e proposte in un’ottica integrata di contrasto alla violenza sulle Donne. Al convegno, che sarà moderato dall’avvocato consigliere comunale Giulio Cusumano, interverranno la psicologa Rosaria Vinciguerra, l’attore Giovanni Furnari e il presidente dell’associazione “Un nuovo giorno”, Antonella Macaluso. “L’obiettivo è quello di recuperare i valori del rispetto e della protezione nei confronti delle donne, rimuovendo retaggi culturali improntati al possesso”. Queste le parole della Dottoressa Francesca Vazzana, direttore della Casa Circondariale. L’intervento di Rosaria Vinciguerra verterà sul tema: uomini maltrattanti, rabbia problemi relazionali. Riabilitare gli uomini maltrattanti significa trovare soluzioni sulla violenza alle donne perché oltre alla tutela della vittima, occorre agire sul soggetto che causa la violenza. Frosinone: lo sport entra nelle carceri, oggi la festa è a Cassino lazio.coni.it, 24 novembre 2017 La Casa Circondariale di Cassino di via Sferracavalli ospita oggi venerdì 24 novembre, la festa finale de “Lo sport entra nelle carceri”, iniziativa legata all’accordo “Coni e Regione, compagni di sport”. Dopo Rebibbia (maschile), Rieti e Viterbo, il progetto approda anche nel carcere del frusinate dove, al termine di due mesi nel corso dei quali i detenuti hanno preso parte ad attività sportive come calcio, ginnastica e scacchi, si svolgerà la festa finale con le premiazioni e i ringraziamenti di rito. Tra i destinatari, con l’amministrazione carceraria, i coordinatori del percorso sportivo Simone Digennaro, Giampiero Orlandi, Mauro Litterio e Stefano Pelloni e gli studenti dell’università cassinate che hanno collaborato al raggiungimento del risultato finale Chiara Capaldi, Nico Lucente, Mirko Bianchi, Roberto Zeoli e Roberto Ciccarelli. Per il momento istituzionale, previsto per le ore 12, saranno presenti, tra gli altri, il direttore del carcere Irma Civitareale, il sindaco Carlo Maria D’Alessandro, il delegato Coni di Frosinone Luciana Mantua e il presidente del Coni Lazio Riccardo Viola. Sceglie il suicidio assistito in Svizzera. Il giudice di Milano: “non possiamo fermarlo” di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 24 novembre 2017 Il pm aveva chiesto l’amministrazione di sostegno per il malato psichiatrico. La giudice tutelare ha però respinto la richiesta. Ha titolo lo Stato, attraverso i suoi magistrati, per provare a fermare chi, affetto da una malattia psichiatrica cronica che gli rende intollerabile sofferenza la vita, stia per attivare una procedura di suicidio assistito in Svizzera con lucida e accertata consapevolezza? A Milano questa estate, senza che si sia mai saputo, la Procura ci ha provato. L’ha fatto nel caso di un 32enne in cura psichiatrica già da metà della sua vita, auto-isolatosi dal mondo per l’insopportabile tortura interiore arrecatagli dall’assoluta incapacità di avere qualunque relazione con le persone. E una volta verificata l’assenza dei presupposti giuridici per farlo interdire, alla ricerca di una protezione giuridica comunque limitativa della capacità dell’uomo l’ufficio “affari civili” della Procura è arrivato a chiedere al giudice tutelare del Tribunale civile di nominargli un “amministratore di sostegno”, che potesse affiancarlo nella cura della persona e in percorsi terapeutici capaci di raffreddare l’idea di suicidio assistito in Svizzera: idea che si era rafforzata da quando la sorella, pure affetta da patologia psichiatrica, si era lanciata dalla finestra, ma, senza riuscire a morire, era rimasta tetraplegica. Ma dopo aver ascoltato l’uomo e gli psichiatri, la giudice tutelare Paola Corbetta ha respinto la richiesta del pm Luisa Baima Bollone, ritenendo non ci fossero né condizioni né utilità di nominargli un “amministratore di sostegno”: sia per la piena capacità di intendere e volere attestata dagli psichiatri, sia per l’assenza di futuri miglioramenti producibili dalle terapie già accettate e in corso. Dunque non la generale affermazione di un diritto al suicidio, e tantomeno un’autorizzazione del Tribunale, ma - in un singolo e specifico caso - la presa d’atto di una autodeterminazione in mancanza delle condizioni giuridiche per comprimerla. Esaurita questa imprevista procedura che lo aveva molto irritato - perché da lui vissuta prima quasi come un “tradimento” del proprio medico (che in un dilaniante dilemma di coscienza aveva ritenuto di segnalare in Procura i sentori della trasferta elvetica anticipatigli da un familiare), e poi come una prepotente ingerenza della magistratura nell’intimo della propria scelta, a cavallo dell’estate il giovane si è davvero recato in una clinica Svizzera. E lì ha completato il proprio suicidio assistito. Evocato all’Università Statale dal pm in un confronto scientifico con il giurista Luciano Eusebi e i medici Alfredo Anzani e Mario Riccio su “La morte sfida il diritto”, l’uomo arrivava da 15 anni di cura nel centro psicosociale di un ospedale lombardo, che qui non si indicherà (come altri dati) per impedire l’identificazione dei familiari. L’invalidità civile del 100%, tra le conseguenze della diagnosi di “grave disturbo schizo-affettivo in una struttura di personalità con tratti borderline e antisociali”, era il meno: il vero macigno della malattia, da cui si sentiva schiacciato, era una “condizione psicopatologica di alienazione e grave ritiro sociale”. L’assoluta incapacità di avere relazioni con il mondo e, a causa di essa, “la profonda sofferenza” che ne martoriava l’intimo in ogni attimo nel quale “gli impediva di compiere anche gli atti quotidiani” e rendeva “necessaria una assistenza continua”. Migranti. LasciateCIEntrare a Gricignano dopo il ferimento di Bobb Alagie di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 novembre 2017 Uno dei soci del Cas ha sparato al giovane gambiano che avrebbe appiccato un incendio. Lo scorso 10 novembre, venerdì notte, Carmine Della Gatta, il 43enne imprenditore di Gricignano, socio del Centro di accoglienza straordinaria (Cas) “La Vela” di Gricignano di Aversa, spara al gambiano 19enne Bobb Alagie. Della Gatta era andato nella zona delle villette a schiera, di sua proprietà, che costituiscono il centro di accoglienza in via Da Vinci, alla periferia di Gricignano, dopo aver appreso di un incendio appiccato in un alloggio. Incendio provocato dallo stesso gambiano che, sceso in strada, si ritrova faccia a faccia con Della Gatta. A quel punto, ma sono ancora in corso accertamenti in merito a questa circostanza, i due avrebbero avuto una colluttazione e dalla pistola che l’imprenditore con se vengono esplosi due colpi, uno dei quali raggiunge al volto l’africano, restando conficcato alla gola. Dopo alcuni giorni di coma indotto al “Cardarelli” di Napoli, il 19enne si è risvegliato, per poi essere sottoposto a un’operazione chirurgica per la rimozione del proiettile. Ora lentamente si sta riprendendo. Questa è la cronaca. Ma in quale contesto è avvenuto e qual è il retroscena? Attraverso testimonianze inedite e un report esclusivo, la Campagna LasciateCIEntrare ha fatto chiarezza sulla situazione del centro e ripercorre i tragici fatti della notte. Si legge nel report che il Cas di Gricignano è gestito dall’Ati “La Vela”. Ci sono in questo luogo due palazzine: in una sono presenti 160 persone e nell’altra 50. Alagie - il ferito da arma da fuoco - viveva in una camera della palazzina dove sono alloggiati 160 richiedenti asilo. Le testimonianze raccolte da LasciateCIEntrare hanno messo a fuoco la situazione nel centro. Tutti i richiedenti asilo con i quali hanno parlato a lungo, raccontano che il centro era sovraffollato. Nel tempo ogni giorno arrivavano sempre più persone costringendo i ragazzi nelle camere ad accogliere quotidianamente i nuovi arrivati. Ci sono tre operatori, alcuni diranno otto, ma in struttura risultano presenti sempre 3 operatori e un unico mediatore di origine afghane. Il report sottolinea che i cittadini bengalesi con i quali hanno parlato non riescono mai a farsi seguire adeguatamente dagli operatori e dal personale della struttura. Lamentano diverse inadempienze, in primis la mancanza di adeguata assistenza sanitaria ed il non accoglimento delle loro richieste di cura. È una problematica che riguarda però non solo i bengalesi, ma tutti gli ospiti tra i quali lo stesso Alagie Bobb. L’abbandono in cui si sentono è denunciato da tutti. I presenti hanno lamentato alla delegazione di LasciaCIEntrare delle pessime condizioni del cibo, spesso avariato ed immangiabile. A volte, addirittura, con i vermi dentro. In questo quadro di accoglienza il report inserisce quanto accaduto a Bobb Alagie. Viene sottolineato che la responsabile del centro era stata la responsabile di una struttura mista per minori che ha funzionato così male da determinarne la chiusura. Dal racconto fornito da una delle persone collegate al centro per minori, è emerso che il centro fu chiuso perché una delle ragazzine accolte era rimasta incinta e aveva appena 14 anni. Pare che di notte alcune persone entrasse- ro nel centro, senza nessun controllo e che le minori non ricevessero nessuna tutela. Lasciate-CIEntrare ha annunciato che sta effettuando ricerche più specifiche. Il report sottolinea che aprire un Cas al posto di un centro per minori significa meno controlli, più convenienza. Soprattutto nessuna attenzione alle dovute competenze di chi deve gestire un centro di accoglienza. Veniamo al gambese Alagie. Il report racconta che circa 5 mesi fa il giovane gambiano trova lavoro presso persone di Gricignano. Alcuni riferiscono in agricoltura, alcuni nel settore dell’edilizia. Alagie si reca a lavorare dal mattino molto presto fino alle 3 del pomeriggio. Un giorno, però, alle 12.00 è esausto e chiede di finire di lavorare e di essere pagato. I suoi datori non sono d’accordo, non vogliono farlo. Alagie protesta e inizia una colluttazione durante la quale viene colpito violentemente alla testa con una bottiglia di vetro. Secondo il racconto fatto alla delegazione di LasciateCIEntrare, Alagie si sarebbe recato immediatamente alla polizia per denunciare l’aggressione, ma secondo quanto descritto gli sarebbe stato risposto che non avrebbero potuto fare nulla e di rivolgersi direttamente ai suoi datori di lavoro. Alagie è arrabbiato, torna dai suoi datori di lavoro, e comincia a scagliare pietre ai vetri delle finestre. Dopodiché decide di andare al centro di accoglienza. Arrivato al Cas chiederà alla sua responsabile di essere curato. Tutte le testimonianze raccolte da Lasciate-CIEntrare dicono che fin dall’inizio di questa vicenda Alagi non è stato adeguatamente curato. Si è continuamente lamentato e ha chiesto più volte assistenza, mentre la sua condizione fisica e psicologica peggiora nei mesi a seguire. In particolare lamenterà un dolore al braccio destro e un fortissimo dolore alla testa. Altre persone ascoltate diranno che Alagi a un certo punto non riuscirà neanche più a parlare, a comunicare con l’esterno. È depresso, è arrabbiato, è cambiato. Non sorride più e alcuni raccontano che Alagi era una persona molto allegra, faceva anche spesso scherzi agli amici. Ma il cambiamento era apparso evidente a tutti. Vuole andare via, desidera essere rimpatriato. I responsabili gli dicono che doveva aspettare e gli hanno promesso di avviare la pratica di espatrio. Il gambese però non vede succedere né cambiare nulla. Passa un’altra settimana, l’ennesima. Alagie non ce la fa più. Il giorno dell’episodio e della sparatoria, Alagie si reca all’ultimo piano dell’edificio con i suoi vestiti, le valigie, e con le sue coperte. Alcuni raccontano che va in una stanza molto piccola del centro, per altri si tratta addirittura di un bagnetto. Qui Alagie dà fuoco alla sua coperta, altri riferiscono che abbia incendiato i suoi vestiti. Un fuoco comunque piccolo. Nel report si sottolinea che per alcuni dei testimoni non si tratta di un grande incendio, infatti riportano che sia stato spento quasi subito. Gli operatori però probabilmente non avvertono i vigili del fuoco, ma chiamano invece Carmine Della Gatta. Il resto della storia la conosciamo. La nuova rotta dei migranti. Dalla Turchia all’Italia anche con le barche a vela di Marco Bresolin La Stampa, 24 novembre 2017 Per confondersi con i turisti. I trafficanti originari dei Paesi dell’Est. Per salire a bordo servono fino a seimila euro. Con uno sconto del 50 per cento riservato ai bambini. Si parte dalle coste meridionali della Turchia e poi lo skipper punta verso il Sud dell’Italia. Si sbarca in un porto minore e, se tutto va bene, si fugge a piedi. Anche i viaggi della speranza hanno una loro “prima classe”, in barca a vela nel Mediterraneo. Ma non è detto che tutti i migranti che usano questa rotta siano “ricchi”. Anzi, alcuni hanno impegnato tutto ciò che avevano per fuggire clandestinamente nel nostro Paese, un investimento alla ricerca di un futuro migliore. Con un viaggio meno rischioso di quelli sui gommoni “made in China”. Chiuso (anche se non sigillato) il portone della rotta libica, per entrare in Europa (e in particolare in Italia) si aprono altre porte. C’è la rotta tunisina, che al momento risulta essere la più dinamica. C’è quella algerina, che spesso punta verso la Sardegna. E ce n’è una terza che parte dalla Turchia e arriva fino alla Sicilia (sulle coste del siracusano), in Calabria e in Puglia. “Abbiamo registrato una diversificazione dei viaggi” ammette Pascale Moreau, direttrice dell’Ufficio Europa dell’Unhcr. Ed è proprio un report dell’agenzia Onu per i rifugiati a fare luce sul “cambiamento nelle rotte” usate dai migranti per arrivare nel Vecchio Continente e in Italia. I numeri non hanno ancora superato il livello “afflusso di massa”, ma è il trend a preoccupare. Nel terzo trimestre del 2017, complice la stagione estiva, si è intensificato il traffico di barche a vela sulla rotta turca. Un canale d’accesso che aveva iniziato ad aprirsi, piano piano, nella primavera del 2016, parallelamente alla chiusura della rotta balcanica. Ma negli ultimi mesi gli sbarchi sono aumentati. Gli agenti di Europol stanno monitorando la situazione e fanno sapere di aver già intercettato 160 imbarcazioni. E chissà quante sono sfuggite ai radar, mischiate tra i turisti. C’è un identikit preciso dei trafficanti: il business è nelle mani di gruppi criminali transnazionali. Gli skipper sono ucraini, russi, bielorussi e georgiani. In alcuni casi - dicono dall’Aja - si tratta di turchi, siriani o azeri. Il prezzo arriva “fino a 6.000 euro per passeggero”, ma varia molto. Fonti di Europol spiegano che il costo del biglietto “dipende dalla nazionalità, dal tipo di barca e dal numero di migranti a bordo”. Per questo “non si può dedurre che la rotta sia accessibile esclusivamente a migranti ricchi”. Anche per i “clienti” c’è un preciso identikit: in Italia, a bordo delle barche a vela gestite dal racket dell’Est, arrivano iracheni, pachistani, iraniani, afghani e siriani. Ma non è l’unica via di fuga dalla Turchia. Perché nonostante il patto tra l’Ue ed Erdogan sia ancora in vigore, i dati dimostrano che il sistema scricchiola. A settembre la Grecia ha registrato 4.800 arrivi, il numero mensile più alto dal marzo 2016, quando è stata firmata l’intesa tra Bruxelles e Ankara. C’è poi la rotta del Mar Nero, attraversato da chi scappa dal Nord della Turchia per andare in Romania. Nel Mediterraneo sono invece le coste spagnole a registrare l’incremento maggiore di sbarchi: +90% nel terzo trimestre di quest’anno, principalmente dal Marocco. Per quanto riguarda le partenze, il primato spetta alla Tunisia: +120%, con circa mille arrivi nel solo mese di settembre. I tunisini hanno scavalcato i nigeriani nella classifica delle nazionalità sbarcate in Italia. Ma anche l’Algeria ha fatto segnalare un aumento del 60%. È sceso invece a quota 21.700 il numero degli arrivi dalla Libia nell’arco del trimestre estivo, “il dato più basso in quattro anni per questo periodo”. Nonostante ciò, dall’inizio dell’anno il numero di morti nel Mediterraneo sfiora già quota 3.000. Migranti. Lettera aperta alle Ong: disertate il bando per “migliorare” i campi in Libia Il Manifesto, 24 novembre 2017 Martedì 29 novembre a mezzanotte scade il termine per partecipare al bando con cui il governo italiano finanzierà progetti di “primissima emergenza a favore della popolazione dei centri migranti e rifugiati” in Libia. Le Ong italiane possono accedere a un finanziamento totale di 2milioni di euro, destinati a migliorare gestione e condizione di tre “centri migranti e rifugiati” dove “risiede parte della popolazione migrante mista in Libia”. Si tratta a nostro avviso di un bando offensivo e vergognoso per almeno tre motivi: Quei centri non sono “centri migranti e rifugiati” ma sono veri e propri “campi di concentramento”, come ampiamente documentato da ormai decine di media e organizzazioni di tutto il mondo. La definizione che il bando governativo ne dà (appunto “centri migranti e rifugiati”) è talmente inesatta e ipocrita da usare il termine rifugiati in un Paese dove questa categoria non può esistere, perché non riconosce la Convenzione di Ginevra. L’intervento è previsto in “centri” dove (lo dice il bando stesso) la capacità di effettiva sorveglianza delle autorità ufficiali libiche è “in molti casi limitata”, perché in realtà sono “gestiti da milizie locali”. Le Ong italiane non hanno alcuna possibilità di agire in quei campi se non previo accordo con le milizie stesse, che ne gestiranno modalità di azione e relativo budget. Il tutto serve a un’operazione d’immagine per raddolcire o addirittura coprire le conseguenze disumane e raccapriccianti delle misure di blocco e respingimento dei migranti messe in atto da Italia e Europa a partire da agosto scorso, costate per altro 100 volte di più di queste misure di “primissima emergenza”. Tutto ciò è inaccettabile. Ci auguriamo che le Ong italiane sappiano non cedere a questo ricatto sin troppo evidente. Chiediamo alle persone, agli esseri umani che lavorano nelle Ong di avere la dignità di non partecipare a questo gioco e di unirsi a noi nel denunciare la scelta politica gravissima messa in atto dal governo italiano nell’attuare accordi con un Paese dove a governare sono milizie, violenza e razzismo. La non partecipazione delle Ong al bando sarebbe un segnale importante per chiedere ai governi europei un’inversione di rotta necessaria: la chiusura dei campi di concentramenti libici, la liberazione di uomini, donne e bambini e la garanzia di corridoi umanitari di fuga verso luoghi di reale accoglienza e sicurezza. Anche di questo parleremo il 3 dicembre a Roma al Forum “Per cambiare l’ordine delle cose”, a cui hanno aderito più di 700 persone da oltre 120 città d’Italia. Firmato: Alessandro Leogrande, Igiaba Scego, Andrea Segre e Dagmawi Yimer Stati Uniti. #FreeCyntoiaBrown, attrici e cantanti Usa in campo di Valentina Santarpia Corriere della Sera, 24 novembre 2017 Aveva sedici anni quando ha ucciso l’uomo con cui era stata costretta a prostituirsi. Temeva di essere uccisa. Da Kim Kardashian a Rihanna schierate per la sua liberazione: “È solo una vittima dello sfruttamento sessuale dei minori”. Partorita a sedici anni da una donna, figlia di uno stupro, che abusava di alcol, spacciava cocaina e ha passato più tempo in carcere che a casa, Cyntoia Brown non ha avuto una vita facile. E quella paura e la rabbia che l’hanno spinta a premere il grilletto quella notte non sono altro che il frutto di anni di soprusi e violenze. Sono queste le motivazioni che spingono la campagna #FreeCyntoiaBrown, lanciata da attrici e cantanti americane per difendere la giovanissima killer: aveva solo 16 anni quando ha commesso l’omicidio per il quale è stata condannata all’ergastolo. L’omicidio - Quella sera, racconta la Bbc, Cyntoia era in giro con il suo fidanzato, uno spacciatore violento soprannominato Kutthroat, che le chiese di procurargli un po’ di soldi. Cyntoia, per accontentarlo, accettò di fare sesso con Johnny Allen, un agente immobiliare di Nashville che la portò a casa sua, le mostrò la sua collezione di armi, dicendole che era un ex tiratore scelto dell’esercito. Cenarono, guardarono la tv, poi si misero a letto e lui la violentò. Poi Allen si voltò e allungò la mano verso il lato del letto: Cyntoia ha raccontato di essere stata presa dal panico, pensando che lui stesse cercando una pistola. Convinta di essere sul punto di morire, gli sparò alla testa con una pistola calibro 40 che lo stesso Kutthroat le aveva dato per difendersi. Il processo - Cyntoia fu arrestata - era il 2004 -e processata: i pubblici ministeri hanno sostenuto che uccise Allen per derubarlo perché fuggì con le sue pistole e il portafogli. La giuria la giudicò colpevole di omicidio premeditato di primo grado e rapina aggravata e la condannò: sarà ammessa alla libertà condizionale all’età di 67 anni. Ma la condanna ha sollevato un’ndata di proteste sui social network. Quando un’infanzia è stata rovinata dagli abusi, che tipo di valutazione deve essere fatta se poi quella persona commette un reato grave? “Il sistema ha fallito - ha twittato Kim Kardashian West. È straziante vedere che una ragazzina vittima di traffico sessuale quando poi ha il coraggio di ribellarsi deve finire in carcere tutta la vita! Ho chiamato i miei avvocati per capire se si può riparare a quest’ingiustizia”. Anche la cantante Rihanna e Cara Delevigne hanno aderito alla campagna in difesa della ragazza. “Il sistema giudiziario è arretrato - ha scritto Delevigne. Questa cosa è completamente folle”. A dare lo spunto alla protesta c’è anche un documentario del regista Daniel Birman, che ha trascorso sette anni a filmare il caso della Brown, dal suo arresto fino al processo e alla condanna per omicidio, per porre l’attenzione su come gli Stati Uniti gestiscono i giovani delinquenti. La difesa - Jeff Burks, l’assistente procuratore distrettuale che ha messo in prigione Brown, ha però notato che essere giovani e carini non è un motivo per essere scagionati: “Non è solo una donna che ha commesso un errore- dice- Era una persona molto pericolosa, le scelte erano le sue: non dimentichiamoci il suo crimine”. Durante la prigionia, Cynotia è diventata guida di altre donne e nel 2016 ha ottenuto un diploma grazie al programma di studi in carcere dell’università di Lipscomb. Il caso ha già cambiato la legge in Tennesse, che ora riconosce che non esistono prostitute minorenni: se Cyntoia fosse processata oggi, sarebbe considerata vittima del traffico sessuale. Invece è in prigione, considerata una prostituta che ha ucciso il suo cliente. La richiesta di grazia per le ha già raggiunto 186 mila firme. Il Canada è ancora il “Paese dalla porta aperta”? di Helodie Fazzalari lindro.it, 24 novembre 2017 Il sistema canadese basato sull’accoglienza “ospita” gli immigrati in veri e propri Centri di detenzione. Il Canada per anni ha dato di sé l’immagine di Paese “modello” in tema di apertura nei confronti degli immigrati. Ha sviluppato un sistema basato sull’accoglienza, in contrapposizione al Travel Ban, imposto da Donald Trump negli Stati Uniti o alle numerose politiche protezionistiche Australiane. Addirittura, il Primo Ministro canadese Justin Trudeau è stato definito come “l’uomo della porta aperta”, al contrario del Presidente statunitense etichettato ormai come “l’uomo del muro”. Trudeau scrisse su Twitter: “A coloro che scappano dalla persecuzione, dal terrore e dalla guerra, sappiate che il Canada vi accoglierà, indipendentemente dalla vostra fede. La diversità è la nostra forza”. La dichiarazione fece il giro del mondo. Ad oggi, però, lo scenario appare diametralmente cambiato. Quest’anno, secondo quanto riportato dalla BBC, oltre 11.300 persone hanno attraversato illegalmente il confine tra America e Canada, più di 3.600 solo ad Agosto, apportando disagi al sistema logistico e burocratico canadese. Il Paese nordamericano, infatti, pare non sia in grado di fornire ospitalità a tutti i nuovi arrivati; centinaia di essi si sono letteralmente ‘accampati’, come è successo nei pressi di Ontario. E ciò che emerge ad oggi è che i prossimi mesi potrebbero essere ancora più difficili. Ma non è tutto qui. Al centro della scena socio-politica canadese vi è la detenzione degli immigrati. All’inizio di questo mese, una donna di 50 anni di cui non si conosceva il nome è morta mentre era detenuta in un carcere provinciale di massima sicurezza ad Ontario. Non ha commesso alcun crimine, ma è stata imprigionata a causa del suo status di immigrata. Dal 2000, almeno 16 persone sono morte mentre erano incarcerate nella macchina della detenzione per immigrati del Canada, con quattro morti scioccanti dal mese di marzo del 2016. Ma cosa accade di preciso nel Paese dell’accoglienza? Il Governo blocca i migranti e i richiedenti asilo, non per eventuali crimini commessi ai sensi del codice penale, ma per ragioni legate all’immigrazione. La questione è stata affrontata anche da “The Conversation” nell’articolo “Migrants are dying in detention centres: When will Canada act?”, dove vengono messi in luce diversi aspetti della vita dei migranti irregolari detenuti in Canada. La maggior parte di essi vive in centri di isolamento, nient’altro che strutture che detengono i prigionieri costruite esclusivamente per gli immigrati. Un terzo di loro, invece, viene trasferito nelle carceri di massima sicurezza lontano da dove vivono i loro amici e familiari e dove si trovano ad interagire con condannati e criminali. È importante ricordare che abbiamo a che fare con una popolazione altamente traumatizzata, persone che spesso soffrono di gravi problemi di salute mentale, gente che ha subito la fuga dalla propria terra. Quando i migranti sono isolati e ulteriormente traumatizzati dalla detenzione, diventa difficile raccogliere prove per essere scagionati, sostenere i colloqui con gli avvocati e partecipare alle udienze. La detenzione di un immigrato, inoltre, viene riesaminata ogni 30 giorni dal Consiglio per l’Immigrazione, ma il luogo in cui la persona è detenuta è a discrezione esclusiva dei funzionari della Cbsa (Canada Border Services Agency) e non è soggetto a supervisione. Questo stabilisce la normativa. Un esempio è il caso di Ebrahim Toure, 46 anni, un rifugiato originario del Gambia. La sua unica condanna è legata ad un’inflazione commessa nel 2005 per aver venduto cd e dvd piratati ad Atlanta. Toure, ha trascorso ben quattro anni e mezzo in un carcere di massima sicurezza e da poco il giudice Alfred O’Marra ha ordinato che fosse trasferito in un carcere di minore entità. Una vittoria per Toure, ma una pesante sconfitta per il sistema giuridico del Paese. Il giudice O’Marra ha dichiarato in proposito: “Il signor Toure ha trascorso più tempo in una struttura di massima sicurezza rispetto a qualcuno condannato per un grave crimine”. Un gruppo di organizzazioni per i diritti umani e civili, ha presentato una dichiarazione congiunta al Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite a Ginevra, alla vigilia della revisione periodica delle condizioni e dei registri dei diritti umani in Canada. Nonostante i progressi compiuti dal Governo federale durante l’anno nell’affrontare alcune questioni tecniche con il sistema di detenzione, il gruppo ha affermato che il trattamento dei detenuti immigrati, compresi bambini e individui con problemi di salute mentale, continua a violare il diritto internazionale vincolante. Infatti, i detenuti, non sono trattenuti per un motivo di carattere penale, ma sono rinchiusi a tempo indeterminato perché considerati un pericolo pubblico, o perché la loro identità è in dubbio. La durata media della detenzione dello scorso anno è stata di 19,5 giorni, ma non c’è un limite prestabilito; in alcuni casi di tratta di anni, come nel caso di Toure. Nessun limite prescritto dalla legge ed un devastante effetto sulla psiche dei migranti. Un altro dei punti considerato dal gruppo delle organizzazioni internazionali, è il quadro giuridico canadese. Infatti, il sistema fornisce garanzie giuridiche inadeguate per giustificare la privazione di queste libertà. Molte delle garanzie legali presenti nel sistema di giustizia penale, tra cui norme e procedure probatorie necessarie per giustificare la privazione della libertà, come le condizioni di isolamento, sono assenti nel contesto di detenzione degli immigrati. Inoltre, in relazione ai detenuti con problemi psichici, la dichiarazione congiunta spiega che il Canada sta violando anche i suoi obblighi legali internazionali. In primo luogo, questo sistema viola il diritto di essere liberi da detenzioni arbitrarie ed anche quello di non essere soggetti a trattamenti crudeli, disumani e degradanti. Il Paese non riesce a fornire un’adeguata assistenza sanitaria e discrimina, in termini di libertà, anche gli individui con disabilità psicosociali. Il sistema legislativo per le udienze di revisione dei detenuti viola il diritto ad avere un processo giusto e la revisione giudiziaria di queste udienze risulta essere inefficace nella maggior parte dei casi. Altro dato allarmante riguarda i minori: dal 2013, più di 800 bambini immigrati sono stati soggetti allo stesso schema legislativo che viene utilizzato per gli adulti. Anche dove non ci sono motivi di detenzione, i piccoli vengono ospitati nelle carceri per evitare di separarli dai loro genitori. Durante la permanenza, generalmente vivono con le madri nel ‘ala della famiglià, mentre i loro padri sono nell’l’ala maschile. Chi non è collocato insieme alla mamma, viene accolto in strutture di correzione giovanile, appositamente costruite per immigrati. In ogni caso, è stato documentato che le condizioni di detenzione risultano essere inadeguate e inadatte ai bambini; le strutture per l’immigrazione assomigliano a carceri di media sicurezza con regole severe e routine quotidiane, orari prestabiliti per i pasti, per le visite, orari per svegliarsi al mattino e per andare a dormire. Non esiste la privacy ed è prevista una sorveglianza continua da parte delle guardie tramite le telecamere di sicurezza. L’accesso ai medici e alla consulenza psicologica è limitato e i bambini ricevono un’istruzione inadeguata e una scarsa alimentazione. Di fronte a questi dati, Samer Muscati, direttore del programma internazionale sui diritti umani dell’Università di Toronto, che ha guidato la presentazione congiunta all’Onu, ha affermato che è giunta l’ora per il Canada di essere all’altezza della sua reputazione sui diritti umani ponendo fine alla detenzione inutile di bambini e migranti in gravi condizioni di salute mentale. Come primo passo, il gruppo ha affermato che il Canada dovrebbe limitare la detenzione a 90 giorni e formare un organismo indipendente o nominare un ‘ombudsman’, simile all’Ufficio federale del Procuratore Correttivo, per sorvegliare ed indagare sui reclami contro l’agenzia di frontiera. Nuova Guinea. Violento raid della polizia nel “carcere” per rifugiati dell’isola di Manus di Anna Lombardi La Repubblica, 24 novembre 2017 Dichiarato incostituzionale, il famigerato centro di detenzione per richiedenti asilo nato per bloccare chi tentava di raggiungere le coste australiane, era stato chiuso lo scorso 31 ottobre: ma molti migranti avevano rifiutato di lasciarlo temendo per le loro vite. Caos e violenze sull’Isola di Manus: dove la polizia ha fatto irruzione nel famigerato centro di detenzione per richiedenti asilo che fin dal 2012 ospita i migranti che tentavano di raggiungere l’Australia dai paesi dell’Asia sud-orientale. Dichiarato incostituzionale, il centro era stato chiuso lo scorso 31 ottobre, ma centinaia di persone avevano rifiutato di lasciarlo affermando di temere per il loro futuro e la loro sicurezza. Secondo le prime notizie decine di persone sarebbero state arrestate, compreso il portavoce dei richiedenti asilo, il giornalista iraniano Behrouz Boochani. Il centro di Manus era nato in virtù di quella “Pacific Solution” firmata nel 2001 dove di pacifico c’era solo l’Oceano che i disperati tentavano di attraversare, ma che di fatto era una soluzione estrema per dissuaderli a raggiungere l’Australia. Il governo di Canberra aveva infatti firmato un accordo con la vicina Papua Nuova Guinea affinché, in cambio di aiuti economici, l’arcipelago si facesse carico dei rifugiati diretti in Australia. Nel 2012 erano nati così due centri di detenzione: quello di Manus, appunto, esclusivamente maschile e quello di Nauru per donne e bambini. Qui in teoria le persone sarebbero dovute rimanere il tempo di esaminare le loro domande d’asilo. Ma di fatto nessuna delle persone entrate è mai riuscita ad ottenere il visto d’entrata in Australia. I centri in breve tempo si sono trasformati in lager: tanto che sia Amnesty International che l’Unhcr ne avevano denunciato più volte sovraffollamento, soprusi, e violenze fra le diverse etnie, visto che nel campo c’erano iraniani, pachistani, siriani, afghani ma anche persone fuggite da Myanmar, Sri Lanka e perfino dalla Somalia. Dopo la sentenza di un tribunale di Port Moresby arrivata dopo che nel 2014 violente proteste all’interno del centro erano sfociate nell’uccisione di un migrante iraniano e la condanna arrivata perfino dalle Nazioni Unite, ad agosto 2016 i governi di Australia e Papua Nuova Guinea avevano concordato la chiusura di Manus. Una scelta diventata esecutiva solo alla fine di ottobre 2017. Su seicento rifugiati presenti, però, almeno quattrocento avevano rifiutato di lasciare il centro di detenzione lamentando che il loro futuro era troppo incerto. Poco appetibile l’offerta di essere spostati in un altro campo a Lorengau, sempre sull’isola di Manus, tanto più dopo le minacce nei loro confronti da parte della popolazione locale. E anche le altre possibilità offerte non avevano nulla di convincente visto che si parlava o di rimpatrio o di trasferimento in altri paesi come la Cambogia. “Non vogliamo altre prigioni” avevano protestato i profughi occupando illegalmente il centro. Nel raid di stanotte, denunciano i migranti attraverso foto e video postati su Facebook e Twitter, ci sono stati tafferugli, la polizia ha fatto numerosi arresti e ha distrutto i pochi beni di quelle persone affinché non avessero nulla a cui tornare. “Hanno bruciato le nostre scorte di cibo e le nostre coperte e distrutto la riserva d’acqua pulita”. Parlando alla radio poche ore fa, il ministro dell’immigrazione australiano Peter Dutton, l’evacuazione è avvenuta senza violenze, ma ha confermato la linea dura: “I contribuenti australiani hanno speso 10 milioni di dollari per una nuova struttura e vogliamo che si spostino”. Al momento la situazione sembra essere sotto il controllo della polizia: secondo quanto riportato da Tim Costello, capo dell’associazione umanitaria World Vision Australia, presente fuori dal campo “la polizia ha costretto le persone rimaste a salire su dei bus che sono poi partiti”. Polonia. Oggi il voto sugli emendamenti contro l’indipendenza dei giudici di Riccardo Noury Corriere della Sera, 24 novembre 2017 Oggi il parlamento polacco esaminerà due emendamenti alla Legge sul Consiglio nazionale della magistratura e sulla Corte suprema che minacciano l’indipendenza dei giudici. Il primo abbassa l’età del ritiro dei giudici della Corte suprema da 70 a 65 anni. Se approvato, costringerebbe al ritiro - o quanto meno a una valutazione caso per caso - la maggior parte degli attuali componenti, rendendo possibile attraverso la nomina di nuovi membri il controllo governativo sul massimo organo giudiziario. L’altro emendamento prevede che i membri del Consiglio nazionale della magistratura, organismo finora regolato da meccanismi elettivi interni, verrebbero votati dal parlamento. Così come a luglio, quando in occasione della prima discussione degli emendamenti migliaia di persone manifestarono in oltre 50 città, sono previste anche in questa occasione proteste di massa. Le proteste vennero affrontate, come sempre più spesso accade negli ultimi tempi, col pugno duro e decine di manifestanti sono ancora sotto processo. Esse ottennero tuttavia il risultato di spingere il presidente Andrzej Duda a bloccare i due emendamenti. Ventotto organizzazioni, tra cui Amnesty International Polonia, hanno lanciato un appello ai parlamentari e al presidente Duda affinché non sostengano emendamenti che metterebbero a rischio l’indipendenza della magistratura. Amnesty International monitorerà con propri osservatori l’andamento delle proteste e il comportamento delle forze di sicurezza.