Il ministro Orlando: “mafia in politica, ecco come fermarla” di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 23 novembre 2017 Da oggi a Milano gli Stati generali. Il ministro: “Impermeabili alle cosche solo con una rivoluzione culturale. Fabbricare gli anticorpi che proteggano imprese, partiti, istituzioni dalla infezione mafiosa, a cominciare dal Nord”. “Fabbricare” gli anticorpi che proteggano imprese, partiti, istituzioni dalla infezione mafiosa, a cominciare dal Nord: è la terapia della radicale operazione culturale che studieranno da oggi a Milano gli Stati generali della lotta alle mafie (domani alla presenza del Capo dello Stato Sergio Mattarella) voluti dal ministro della Giustizia Andrea Orlando. Ministro, l’immaginario comune a stento riconosce la presenza della mafia a Milano e in Lombardia, le indagini della magistratura dimostrano che il fenomeno spesso è sottovalutato... “Lo è da tempo, il problema è che c’è stato un ritardo a riconoscerlo e questo ha aperto spazi alle mafie che dobbiamo chiudere. Credo che riconoscere che la mafia non è ormai solo nelle regioni di insediamento tradizionale, che agisce utilizzando gli strumenti finanziari, che si introduce nell’economia, nei partiti e nella società anche in realtà diverse è un utile segnale di consapevolezza. La mafia è diventata una grande multinazionale con rapporti con le criminalità di altri Paesi. Abbiamo bisogno di strumenti anche nuovi per contrastarla”. Quali? “Gli Stati generali sono un modo importate per individuarli, a essi daremo seguito con momenti di approfondimento in tutto il Paese. È importante il lavoro delle forze dell’ordine e della magistratura, ma altrettanto importante è l’attività di contrasto sul fronte sociale, economico, finanziario e politico. Se la mafia non avesse addentellati in questi ambiti, sarebbe criminalità comune”. Le mafie oggi si mimetizzano per non allarmare la gente, investono nelle imprese al Nord per riciclare il denaro. Come si interviene? “Con il codice antimafia abbiamo potenziato gli strumenti di aggressione ai patrimoni illeciti che continua a essere a mio avviso il principale fronte e abbiamo introdotto il reato di auto riciclaggio che consente di intervenire anche quando l’accumulazione del capitale è molto risalente nel tempo. Però, siamo sempre nell’ambito della repressione”. E non basta? “Quello che è emerso dalla discussione (16 tavoli di lavoro e un comitato scientifico hanno operato per più di un anno, ndr) è che va rovesciata completamente la prospettiva”. In che modo? “Non preoccupandoci solo di come si contrasta la mafia, ma di come si costruiscono dei soggetti sociali, economici e politici, istituzionali e professionali che siano impermeabili alla mafia. Gli anticorpi non valgono solo per la mafia, ma anche per altri fenomeni come la corruzione, strumento attraverso il quale sempre di più la mafia entra nelle istituzioni. Per esempio, credo sia fondamentale una legge che regoli il funzionamento dei partiti politici e delle lobby”. Attualità politica: come giudica la decisione di Mdp di correre da solo e l’attività di mediazione di Fassino? “Speriamo che la dannazione divisiva storica della sinistra non si riproponga ancora. Non mi pare che dobbiamo semplicemente costruire un polo dell’alternanza, siamo in un momento in cui dovremmo costruire un fronte contro una destra dalle venature fasciste”. È più un problema di spaccatura tra singoli o tra idee? “C’è una differenza di analisi che va rispettata e su cui bisognerebbe confrontarsi. Se si ritiene che siamo di fronte a un lepenismo transitorio che poi verrà assorbito da una destra di stampo europeo, allora si può fare finta di niente. Se invece si ritiene, come io penso, che si tratti di un fenomeno che rischia di essere egemone nella destra, allora le contromisure devono essere diverse. L’idea che la partita si giochi tutta sulla primazia nel campo di centrosinistra non fa i conti con questo tema. Oggi bisogna andare oltre il centrosinistra perché c’è da costruire un fronte che abbia le caratteristiche della reazione democratica a questo fenomeno”. Più intercettazioni, meno bavagli. La libertà secondo i giornalisti di Simona Musco Il Dubbio, 23 novembre 2017 Fnsi e Odg contro le “norme liberticide” contenuto nel nuovo decreto del governo. Bavaglio e precarietà. Sono queste le parole chiave della manifestazione organizzata dalla Federazione nazionale della stampa a Montecitorio, dove ieri un nutrito gruppo di giornalisti ha manifestato, con in testa il presidente dell’ordine Carlo Verna e il segretario della Fnsi Raffaele Lorusso, contro “un attacco concentrico all’informazione”, rappresentato soprattutto dal nuovo decreto intercettazioni. Un decreto, è stato detto ieri in piazza, che non solo limiterebbe la libertà d’informazione, rendendo “inaccessibili numerose informazioni di interesse generale e di chiara rilevanza sociale”, ma che espone anche i giornalisti al rischio del carcere in caso di pubblicazione di materiale coperto da segreto. Un rischio che ordine e sindacato non sono disposti ad accettare, lamentando il passo indietro di un governo che, a inizio legislatura, si era impegnato a cancellare il carcere per i giornalisti ma che, di fatto, si chiude “con il rafforzamento delle norme che prevedono la condanna dei giornalisti alla reclusione”. I tempi per approvare almeno uno dei provvedimenti che tendono a rafforzare la libertà di stampa, dice Verna, sono ormai stretti. I rappresentanti dei giornalisti hanno quindi garantito di voler dare battaglia fino a fine legislatura, contro quello che rappresenterebbe l’ennesimo bavaglio. Verna e Lorusso, ieri, hanno incontrato i presidenti di Senato e Camera per spiegare il senso della manifestazione, rappresentata dallo slogan “Libertà precaria, lavoro precario, vite precarie”. “Il decreto contiene dettagli molto pericolosi soprattutto sul tema della rilevanza sociale della notizia - ha poi spiegato Verna in Commissione giustizia alla Camera parlando di intercettazioni. Siamo portatori del diritto dei cittadini a essere informati correttamente. La normativa dovrebbe riguardare il rafforzamento della libertà di stampa”. Altro tema sul quale la politica si è dimostrata assente, secondo i vertici di ordine e Fnsi, è quello delle querele temerarie. Argomenti per i quali è necessario, ha evidenziato Lorusso, “un delicato bilanciamento dei diritti in campo”. E proprio in questo senso va il parere presentato dall’ordine in Commissione, a firma della professoressa Marina Castellaneta, secondo il quale il decreto sulle intercettazioni “sembra andare al di là di quanto inizialmente previsto dalla delega”. Una norma che comprime il diritto del cittadino ad essere informato correttamente, denuncia Verna, che ha trovato sponda nelle dichiarazioni di Felice Casson, senatore di Articolo1-Mdp e vicepresidente della Commissione giustizia. “Il testo non tiene conto infatti delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo che riconoscono il diritto/ dovere dei giornalisti a pubblicare notizie di interesse generale e di rilevanza sociale e il diritto dei cittadini ad essere informati. Il decreto poi non recepisce in alcun modo e anzi contraddice un punto specifico in tal senso della legge delega”, ha evidenziato. “La stampa italiana è sotto attacco perché non solo si moltiplicano gli episodi di minacce ai cronisti - ha aggiunto Lorusso - ma anche perché sono stati messe in campo proposte di legge che tendono a limitare il diritto a pubblicare notizie che hanno interesse pubblico e sociale”. La pubblicazione di notizie coperte da segreto, anche se di rilevanza pubblica, potrebbe infatti comportare il processo per il giornalista, col rischio di una condanna fino a tre anni di reclusione. “Questo non soltanto non è degno di un paese civile - ha sottolineato ancora Lorusso, ma non è assolutamente in linea con quello che è l’indirizzo consolidato della Cedu”. Una tempesta perfetta, incalza Verna, che impedisce ai giornalisti di svolgere serenamente il proprio lavoro. Una situazione aggravata dalla precarietà, in un mondo dove “gli editori chiedono ai giornalisti precari di fare esattamente quello che fanno i giornalisti dipendenti”, ha evidenziato Lorusso. Tema rimarcato anche dalla presidente della Camera Laura Boldrini, che ha accusato gli editori di “miopia”. Quasi totalmente assente, in piazza, la politica. “A fronte di questo immobilismo - ha urlato con megafono in mano Giuseppe Giulietti, presidente della Fnsi, suonano come messaggi di facciata le attestazioni di solidarietà ai colleghi aggrediti o minacciati dalla criminalità, giunte da esponenti del governo e del Parlamento”. Se 80.000 negozianti prendono la pistola di Fausto Carioti Libero, 23 novembre 2017 I commercianti ritengono inefficaci le leggi che contrastano i criminali, così come le pene. Si sentono meno sicuri quando lavorano, per questo vogliono dotarsi di un’arma di difesa. C’è un esercito senza divisa, in Italia, pronto a prendere un’arma e a usarla per difendersi. Chiamarlo così non è un’esagerazione: si tratta di più di 80mila persone, poche meno dei 96mila militari oggi in servizio. Sono l’11% dei commercianti non ancora dotati di armi. È la parte più stufa e arrabbiata della categoria: diffusa in tutta la Penisola, ma radicata soprattutto nel Nordest e tra le categorie dei tabaccai e dei gestori dei pubblici esercizi. Si sentono abbandonati dallo Stato, sono convinti che i criminali che li perseguitano restino impuniti. E allora intendono procurarsi una pistola o un fucile per garantirsi, da soli, quella tutela che non riescono ad avere in cambio delle tasse che pagano. È il dato più importante che emerge dall’indagine realizzata per Confcommercio dall’istituto di ricerca Gfk, diffusa in questi giorni, alla quale hanno partecipato 4.500 aziende. Fotografia di un paese molto diverso da quello che raccontano il governo e i partiti di maggioranza. Numeri e dati che chiamano in causa il parlamento, il quale in questa legislatura ha dedicato gran parte del proprio lavoro a provvedimenti dal forte impatto ideologico (come si è visto con la normativa sulle unioni civili, delle quali nel primo anno ne sono state celebrate appena 2.800, con il codice antimafia e con molte altre leggi), trascurando però il banale bisogno di sicurezza dei cittadini. Eppure circa un terzo dei commercianti, avverte l’indagine, ha percepito nel 2017 un peggioramento nel livello di sicurezza rispetto all’anno scorso e un esercente su quattro ha avuto esperienza diretta o indiretta con la criminalità (rispetto al 2016 c’è un balzo di quattro punti percentuali). Tra i tanti reati ritenuti in crescita ci sono i furti (in aumento per il 47% degli interpellati) e le rapine (per il 33%). Niente di strano che il 59% chieda maggiore protezione da parte delle forze dell’ordine. Al senso di vulnerabilità si abbina la convinzione che i colpevoli restino impuniti. Otto negozianti su dieci sono convinti che le pene per i reati commessi non vengano poi regolarmente scontate. La quasi totalità di loro (il 92%) ritiene inefficaci le leggi in vigore che dovrebbero contrastare la criminalità; per questo motivo, una quota analoga (il 91%) chiede un inasprimento delle norme e il 73% vuole che lo Stato faccia valere il principio della certezza della pena. In attesa che da Roma arrivi un segnale, a tanti di questi imprenditori non resta che rimboccarsi le maniche e fare da soli: l’81% ha adottato almeno una misura di difesa nei confronti della criminalità. Chi installa telecamere e impianti di allarme (48%), chi stipula assicurazioni (36%), chi sporge denuncia (28%), chi arruola vigilanti privati (25%). Il passo successivo è la difesa fai-da-te. Il 7% dei commercianti risulta possedere già un’arma da fuoco: si tratta di circa 56mila individui (le aziende di vendita al dettaglio attive oggi in Italia sono poco più di 797mila). Ma l’11% di quelli che oggi sono disarmati non vuole restarlo a lungo e si dice intenzionato a dotarsi di una rivoltella o di una carabina. Ci sarebbero così altri 81.500 italiani armati, che magari si uniranno al numero, sempre maggiore, di coloro che ogni anno chiedono la licenza per uso sportivo o per la caccia, anziché quella per tutela personale, più difficile da avere. La percentuale di chi intende fare questo passo è più alta tra i tabaccai (16%), gli ambulanti (15%), i titolari di bar, ristoranti e altri pubblici esercizi (13%) e i benzinai (12%). Il Triveneto è un caso a parte: qui la percezione di abbandono da parte dello Stato e la spinta a proteggersi da soli sono più forti che altrove e quindi è più alta la quota di chi chiede certezza della pena e leggi più dure. Soprattutto, è elevato il peso di chi intende dotarsi di un’arma: il 22% dei commercianti del Friuli-Venezia Giulia, il 19% di quelli del Trentino-Alto Adige e il 15% dei veneti medita l’acquisto in un prossimo futuro. Maurizio Zazzeron, titolare di tre supermercati a Trieste, ha spiegato al quotidiano Il Piccolo il cambiamento che ha spinto tanti altri nella sua regione ad alzare il livello d’allarme: “Quando si fanno delle operazioni di cassa non si può mai stare tranquilli. Chi sceglie di armarsi lo fa a ragion veduta, anche per risparmiare sui costi delle guardie giurate”. Domiciliari, no al ricorso fai da te di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 23 novembre 2017 L’impossibilità di fare ricorso personalmente in sede di legittimità, prevista dal nuovo Codice di rito penale, vale anche per le misure personali e reali. La Cassazione (sentenza 53203 depositata ieri) risolve un punto controverso della legge 103/2017 e, in particolare, quello relativo al modificato articolo 311 del Codice di procedura penale. Sulla portata del divieto di adire la Corte di legittimità in prima persona la giurisprudenza ha manifestato opinioni divergenti, facendo sorgere dei dubbi che le Sezioni unite sono state chiamate a chiarire (ordinanza 51068/2017). Ma la V sezione ritiene di poter decidere senza attendere il responso. Con la pronuncia di ieri i giudici si discostano dall’orientamento assunto nell’ordinanza di rinvio favorevole “alla persistente ammissibilità del ricorso personale in materia di misure cautelari personali”. La sentenza 53203 condivide infatti la tesi divergente (sentenza 42062/2017) che esclude la legittimazione personale dell’imputato o dell’indagato anche nei casi delle misure cautelari. Nel caso esaminato la Suprema corte ritiene dunque inammissibile il ricorso personale proposto contro la misura cautelare degli arresti domiciliari, dopo l’entrata in vigore della legge 103/2017. Prima di spiegare le ragioni della scelta, i giudici precisano che riguardo al principio della legge vigente al momento dell’atto, va considerata la data della presentazione del ricorso e non quella della pronuncia del provvedimento impugnato. Detto questo, il collegio nega che la riforma del 2017 non abbia inciso sulle disposizioni dell’articolo 311 relative alle misure cautelari personali e neppure su quelle contenute nell’articolo 325 relativo alle misure cautelari reali. E lo fa guardando all’intenzione del legislatore che, come si evince dalla relazione illustrativa del Ddl e dagli atti parlamentari, era di scongiurare il proliferare di ricorsi “fai da te” destinati a non superare il filtro di ammissibilità per mancanza di requisiti di forma e contenuto. Un altro obiettivo era evitare l’uso strumentale del ricorso personale da parte dei difensori non abilitati al patrocinio in Cassazione. Da un punto di vista tecnico la Cassazione afferma che i nuovi articoli 571 e 613 contrappongono al principio generale della legittimazione personale all’impugnazione, la regola generale, sia pur settoriale, della necessità della difesa tecnica. Il legislatore non è intervenuto direttamente nel testo degli articoli 311 e 325 non per lasciare all’imputato “un’isola” di legittimazione, ma perché non lo riteneva necessario a fronte di una disciplina generale. La strada prescelta non è in contrasto né con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo né con la Costituzione perché il diritto di difesa non è violato ma anzi rafforzato dalla previsione della difesa tecnica. La Cassazione, anche a seguito dell’entrata in vigore del nuovo ordinamento forense, ha escluso l’autodifesa nel processo penale anche per gli avvocati, in assenza di una previsione di legge che la legittimi. Questo senza entrare in rotta di collisione con la Cedu che concede allo Stato la possibilità di limitare il diritto all’autodifesa, prevedendo la presenza di avvocati davanti ai propri tribunali, per assicurare una buona amministrazione della giustizia. Omicidio stradale aggravato, no domiciliari se familiare l’ha agevolato di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 23 novembre 2017 Corte di Cassazione - Sentenza 22 novembre 2017 n. 53170. No ai domiciliari per il reato di omicidio stradale aggravato se in famiglia c’è qualcuno che ha aiutato il colpevole nella fuga. La Cassazione, sentenza 53170 di mercoledì 22 novembre, ha dichiarato inammissibile il ricorso di un uomo di origine straniera contro la misura della custodia in carcere decisa dal tribunale della libertà di Venezia. L’imputato aveva lamentato il vizio di motivazione relativamente alla inidoneità del domicilio per il “coinvolgimento” del fratello. La Cassazione dopo aver ribadito che la valutazione del giudice di merito, se correttamente motivata, non è sindacabile, ha affermato che nel caso specifico essa “non può dirsi incongrua o manifestamente illogica”, poiché il fratello convivente “in ben tre occasioni, aveva fornito all’indagato i veicoli di cui era titolare e alla guida dei quali era stato fermato; inoltre, lo aveva agevolato nella fuga e nell’ottenimento di prestazioni mediche in regime di anonimato”. Il tribunale dunque ha legittimamente valutato “l’elevato pericolo di reiterazione, la peculiarità del fatto contestato e la negativa influenza del fratello” ritenendo “inadeguata la detenzione domiciliare, anche con l’ausilio del braccialetto elettronico, valutando unicamente adeguata la custodia inframuraria”. Più in generale, osserva la Cassazione, il ricorrente pretende una “inammissibile rivalutazione nel merito del compendio indiziario e della situazione cautelare del prevenuto, svolgendo considerazioni anche in ordine alla “portata” della segnalata violazione delle prescrizioni attinenti alla misura domiciliare in atto, circostanza la cui valutazione ai fini cautelari è rimessa alla competenza esclusiva del giudice di merito, laddove sia congruamente e logicamente motivata, come avvenuto nel caso di specie, non potendosi impedire al Tribunale di valorizzare una simile circostanza nell’ambito del giudizio in materia di esigenze cautelari, che implica una necessaria analisi dei comportamenti processuali ed extraprocessuali del soggetto interessato”. Rischia il carcere senza condizionale il padre che non mantiene i figli di Lucia Izzo studiocataldi.it, 23 novembre 2017 Per la Cassazione il giudice può subordinare la sospensione condizionale della pena all’obbligo della restituzione delle somme dovute, valutando le capacità economiche solo se emergono situazioni di difficoltà. Infatti, il giudice che subordina la concessione della sospensione condizionale della pena alla restituzione integrale delle somme dovute (ex art. 165 c.p.) non è tenuto a una preventiva verifica delle condizioni economiche dell’obbligato, a meno che non emergano indici della sua difficoltà ad adempiere o questi siano forniti dall’interessato. La vicenda - È questa la linea dura scelta dalla Cassazione, sesta sezione penale, nella sentenza n. 52730/2017 (qui sotto allegata) che ha respinto il ricorso del condannato a 4 mesi di reclusione e 400 euro di multa ex art. 570 c.p. (Violazione degli obblighi di assistenza familiare) per aver omesso di corrispondere la somma stabilita quale contributo di mantenimento per i tre figli minori. La Corte territoriale aveva stabilito che l’imputato potesse beneficiare della sospensione condizionale della pena solo se avesse integralmente corrisposto le somme dovute a titolo di mantenimento entro tre mesi dal passaggio in giudicato della sentenza. Secondo la difesa, tuttavia, il giudice a quo avrebbe omesso una preventiva e motivata verifica, sia pure sommaria, delle condizioni economiche dell’uomo e, dunque, della sua concreta possibilità di sopportare l’onere del risarcimento pecuniario. Gli Ermellini evidenziano l’esistenza di due orientamenti giurisprudenziali sulla subordinazione da parte del giudice della sospensione condizionale della pena al risarcimento del danno (ex art. 165 c.p.), in particolare quanto alla sussistenza o meno di un preventivo accertamento da parte del giudice sulle condizioni economiche dell’imputato e sulla possibilità di adempiervi. Il primo indirizzo ermeneutico sostiene che tale valutazione da parte del giudicante vada effettuata, seppur sommariamente, mentre l’orientamento contrapposto e maggioritario, al quale la Cassazione sceglie di aderire nel caso di specie, sostiene il contrario. Secondo tale interpretazione, il giudice della cognizione non è tenuto a svolgere alcun accertamento sulle condizioni economiche dell’imputato nell’ipotesi di cui all’art. 165, comma primo, c.p., ciò a meno che non emergano situazioni che ne facciano dubitare della capacità economica di adempiere oppure tali elementi vengano forniti dalla parte interessata in vista della decisione. Dunque, la formulazione della norma (art. 165 c.p. come modificato dalla L. 145/2004) non subordina la concessione della sospensione condizionale condizionata al risarcimento del danno a un preventivo accertamento del giudice di merito sulle condizioni economiche del prevenuto. Tuttavia, precisa la Cassazione, tale verifica preliminare sulla sussistenza delle condizioni economiche dell’imputato per far fronte al risarcimento del danno, cui sia appunto subordinata la sospensione condizionale della pena, pur non sostanziandosi in una formale conditio sine qua non per l’accesso al la beneficio, risulta comunque imprescindibile in alcune situazioni. Il giudice, chiarisce il Collegio, sarà tenuto all’accertamento se dall’incartamento processuale e, a maggior ragione, dalle stesse deduzioni e/o produzioni documentali dell’interessato, emerge una situazione di impossibilità o di rilevante difficoltà all’adempimento pecuniario. Una simile “eccezione” è giustificata da esigenze di economia processuale oltre che da considerazioni di buon senso: risulterebbe, infatti, inutile e irragionevole adottare un provvedimento che, già al momento in cui sia disposto, appaia inadempibile dal destinatario e sia, pertanto, inesigibile nei suoi confronti a causa delle sue condizioni economiche. Nel caso di specie, tuttavia, i principi come delineati non sono risultati violati: dal fascicolo processuale, infatti, è apparso che il ricorrente, in appello, aveva censurato la subordinazione della sospensione condizionale al risarcimento del danno, ma non in relazione alla sua incapacità economica, bensì quanto alla necessita di ridurre a sette le dieci mensilità inizialmente indicate dal giudice come dovute, attaccando quindi il solo quantum debeatur a titolo risarcitorio. In conclusione, poiché l’imputato non aveva sottoposto al giudice d’appello una questione di impossibilità assoluta ad adempiere l’obbligazione ex art. 165, comma 1 c.p., la Corte territoriale, in assenza di evidenze in tal senso, non era tenuta ad operare alcuna preventiva verifica sulla capacità economica del prevenuto. Il ricorso va, pertanto, respinto. Stato di abbandono di minore: detenzione genitore non è causa di forza maggiore transitoria Il Sole 24 Ore, 23 novembre 2017 Minori - Stato di abbandono - Stato di detenzione del genitore - Causa di forza maggiore di carattere transitorio - Esclusione - Eccezione. Il diritto del minore a essere educato nella propria famiglia di origine incontra i suoi limiti ove questa non sia in grado di prestare, in via non transitoria, le cure necessarie, né di assicurare l’obbligo di mantenere, educare e istruire la prole, con la conseguente configurabilità della situazione di abbandono, la cui sussistenza non può essere esclusa per il solo fatto che il genitore si trovi temporaneamente in stato di detenzione, trattandosi di una circostanza che, in quanto imputabile alla condotta criminosa del genitore stesso, non integra gli estremi della causa di forza maggiore di carattere transitorio idonea a giustificare la mancata assistenza. È possibile, comunque, conferire rilievo, ai fini dell’esclusione della predetta situazione, al fatto che il genitore, nonostante la detenzione, si sia preoccupato di assicurare al minore la necessaria assistenza morale e materiale, affidandolo a parenti in grado di prendersene cura • Corte di cassazione, sezione VI civile, sentenza 9 novembre 2017 n. 22624. Minori - Stato di abbandono - Stato di detenzione del genitore - Irrilevanza - Presupposti. Il diritto del minore a crescere ed essere educato nell’ambito della famiglia di origine, considerata l’ambiente più adatto per un armonico sviluppo psicofisico, pur dovendo essere garantito anche mediante la predisposizione d’interventi diretti a rimuovere situazioni di difficoltà e disagio familiare, incontra i suoi limiti in presenza di uno stato di abbandono, ravvisabile allorché i genitori e i parenti più stretti non siano in grado di prestare, in via non transitoria, le cure necessarie, né di assicurare l’adempimento dell’obbligo di mantenere, educare e istruire la prole con la conseguenza che la rescissione del legame familiare costituisca l’unico strumento idoneo a evitare al minore un più grave pregiudizio e a garantirgli assistenza e stabilità affettiva. La configurabilità di tale situazione, come costantemente ribadito dalla Suprema corte, non può essere esclusa in virtù dello stato di detenzione al quale il genitore sia temporaneamente assoggettato, trattandosi di una circostanza che, in quanto imputabile alla condotta criminosa del genitore stesso, volutamente posta in essere nella consapevolezza della possibile condanna e carcerazione, non integra gli estremi della causa di forza maggiore di carattere transitorio individuata dall’articolo 8 della legge n. 184 del 1983 quale causa di giustificazione della mancanza di assistenza. • Corte di cassazione, sezione I civile, sentenza 2 ottobre 2015 n. 19735. Minori - Stato di abbandono - Stato di detenzione del genitore - Forza maggiore transitoria - Esclusione. In tema di stato di abbandono del minore lo stato di detenzione del genitore non può configurare la situazione di forza maggiore di carattere transitorio di cui all’art. 8 della legge 184 del 1983, in quanto tale stato è imputabile alla condotta volutamente posta in essere nella consapevolezza della possibile condanna e carcerazione. • Corte di cassazione, sezione I civile, sentenza 10 giugno 1998 n. 5755. Minori - Stato di abbandono - Stato di detenzione del genitore - Causa contingente e reversibile non imputabile ai genitori - Esclusione. Lo stato di detenzione del genitore, in quanto imputabile alla condotta criminosa da questi volontariamente posta in essere nella consapevolezza della possibile condanna e carcerazione, non integra la situazione di “forza maggiore di carattere transitorio” - intesa come causa contingente e comunque reversibile estranea alla condotta dei genitori - in presenza della quale è giustificata la mancata assistenza del minore, e legittima la dichiarazione dello stato di adottabilità. (Nel caso di specie giudici di merito hanno correttamente collegato, secondo la Suprema corte, l’abbandono del minore alla volontaria condotta del padre, escludendo di conseguenza la causa di forza maggiore, tale non potendosi considerare un fatto - la detenzione-,riferibile esclusivamente a una precisa scelta esistenziale del genitore; del pari correttamente hanno ritenuto non transitoria né reversibile la situazione di abbandono, avuto riguardo alla lunga durata della detenzione, che si sarebbe protratta “nella fase più delicata dello sviluppo” del bambino, privandolo di figure genitoriali valide). • Corte di cassazione, sezione I civile, sentenza 27 maggio 1995 n. 5911. Reato punito con il carcere il matrimonio rom con una minorenne di Silvia Marzialetti Il Sole 24 Ore, 23 novembre 2017 La convivenza more uxorio con una minorenne - anche se consenziente - configura sempre reato. E questo a prescindere che il convivente abusi della propria posizione dominante, o autorevolezza. Lo ha messo nero su bianco la Cassazione, con la sentenza 53135 del 22 novembre. Sotto i riflettori il caso di una coppia rom convivente a Sassari. L’uomo - trentenne - è stato condannato dal Tribunale di Sassari a un anno di reclusione (con le attenuanti generiche) per aver avuto rapporti sessuali con una quindicenne, con lui convivente. La sentenza è stata confermata dalla Corte di appello. Partendo da una disamina dell’articolo 609-quater del Codice penale, il difensore dell’imputato ha tentato di dimostrare quanto poco si attagliasse al caso esaminato lo spirito della norma incriminatrice. Essa infatti - a detta del ricorrente - si riferisce a tutti quei rapporti in cui il minore versi in una situazione di soggezione rispetto a un genitore, anche adottivo, un tutore, o comunque un convivente, nell’ambito di una relazione di affidamento. Si tratta cioè di un rapporto sbilanciato, in cui il soggetto attivo predomina sul quello passivo, imponendo la propria autorevolezza e innescando una forma di suggestione. Nulla a che vedere, secondo il ricorrente, con il proprio rapporto di convivenza. Non è dello stesso avviso la Cassazione che - enfatizzando la coincidenza della norma civile con quella penale - definisce reato i matrimoni o le convivenze contratti con persone sotto i 16 anni. Poco importa se la cultura rom ammette i matrimoni anche sotto i 14 anni in forma “avuncolata” (ossia tra zio e nipote o zia e nipote): la giurisprudenza ha sempre ritenuto la non validità del matrimonio rom nell’ordinamento italiano. Sul tema la stella polare è costituita da una sentenza della Corte Costituzionale risalente al 2000 (la numero 376), che valse l’espulsione a un rom coniugato e convivente con una donna della stessa etnia in stato di gravidanza. L’articolo 609 quater del Codice penale (che punisce gli atti sessuali con minorenni), prevede una tutela crescente e differenziata per età: si considera reato l’atto sessuale compiuto con giovani under 14 (anche se consenzienti), ma il valido consenso si ritiene raggiunto anche a 13 anni compiuti, se la forbice tra i due soggetti della coppia è contenuta entro i tre anni. Un caso a parte è rappresentato dai rapporti in cui l’imputato sia l’ascendente, il genitore - o il suo convivente, il tutore o altra persona che abbia obblighi di vigilanza e di custodia sul minore. In questo caso il valido consenso agli atti sessuali è stato innalzato a 16 anni. L’obbligo di dichiarare i redditi illeciti non viola i diritti difesa di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 23 novembre 2017 Corte di cassazione - Sentenza 22 novembre n. 53137. In caso di imputazione per omessa dichiarazione - anche con riguardo a proventi illeciti - non si può invocare a propria difesa il principio per cui: nessuno è tenuto a dimostrare la propria responsabilità penale (nemo tenetur se detegere), in quanto la denuncia dei redditi “non costituisce ex se una denuncia a proprio carico, ma soltanto una comunicazione inviata a fini fiscali, ed alla quale solo in via eventuale seguiranno accertamenti in ordine all’origine delle somme”. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 53137 del 22 novembre, dichiarando inammissibile il ricorso di un venditore ambulante di vestiti, accusato di omessa dichiarazione per un totale di 6,5 milioni di euro nel biennio 2005-06. Per i giudici infatti “l’omessa presentazione della dichiarazione costituisce violazione dell’art. 5 Dlgs n. 74 del 2000, anche quando abbia ad oggetto redditi di provenienza illecita”. “Al di fuori di espresse previsioni normative operanti nel campo sostanziale e nel caso di specie non ricorrenti - prosegue la Corte -, il principio del nemo tenetur se detegere si qualifica come diritto di ordine processuale e non può dispiegare efficacia al di fuori del processo penale, con la conseguenza che esso giustifica la non assoggettabilità ad atti di costrizione tendenti a provocare un’autoincriminazione, ma non anche la possibilità di violare regole di comportamento poste a tutela di interessi non legati alla pretesa punitiva; infatti, il diritto di difesa non comporta anche quello di arrecare offese ulteriori”. Per cui, prosegue la decisione, va confermato il principio per cui “la circostanza che il possesso di redditi possa costituire reato e che l’autodenuncia possa violare il principio nemo tenetur se detegere è sicuramente recessiva rispetto all’obbligo di concorrere alle spese pubbliche ex art. 53 della Costituzione, dichiarando tutti i redditi prodotti (effettivi), espressione di capacità contributiva”. Infatti “la ormai incontestata e riconosciuta normativamente tassabilità dei proventi illeciti, anche delittuosi, comporta il necessario superamento di ogni remora anche in ordine alla dichiarazione, essendo connaturale al possesso di un reddito tassabile il relativo obbligo di dichiarazione”. Né tantomeno sussiste la violazione dell’articolo 6 Cedu, il quale - nel riconoscere al soggetto il diritto a tacere e a non contribuire alla propria incriminazione, a conferma e garanzia irrinunciabile dell’equo processo - “opera esclusivamente nell’ambito di un procedimento penale già attivato, stante la sua “ratio” consistente nella protezione dell’imputato da coercizioni abusive da parte dell’autorità”. In questo senso anche il caso citato dalla difesa (Corte Edu 5 aprile 2012), conclude la Corte, riguardava la diversa ipotesi in cui il contribuente - nell’ambito di un accertamento fiscale a suo carico - “si era rifiutato di fornire all’autorità amministrativa documenti che potevano costituire prova dell’evasione fiscale, ed era stato perciò sanzionato”. Taranto: è morto fuori dal carcere, ma le sue condizioni si erano aggravate in cella di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 novembre 2017 Salvatore urbano era cardiopatico, iniziò lo sciopero delle cure e della fame. A ottobre non ce l’ha fatta. Il suo avvocato, Alessandro Cavallo aveva inoltrato un’istanza per il riconoscimento dello stato di incompatibilità con il regime carcerario per ragioni di salute, accolta a luglio, ma da maggio era in ospedale. Era morto lo scorso ottobre dopo una lunga agonia, finì in coma a causa del suo sciopero della fame e dei medicinali in carcere. Parliamo di Salvatore Urbano, ex uomo di punta della malavita locale di Manduria, provincia di Taranto. Venne recluso a maggio del 2013. Già sottoposto al regime della detenzione domiciliare, l’uomo era stato rinchiuso nella casa circondariale di Taranto per scontare una pena cumulativa di 6 anni, 4 mesi e 14 giorni di reclusione per i reati di evasione, estorsione e danneggiamento. Era molto malato e la sua cardiopatia si aggravò ad aprile di quest’anno, tanto da subire un intervento chirurgico a seguito di una ischemia. “Due detenuti che avevano il mio stesso problema cardiaco sono già morti poco tempo fa, ma purtroppo il tribunale di sorveglianza a cui mi sono rivolto lamentando il mio precario stato di salute, non se ne frega niente”, scrisse in una lettera rivolta ai giornali locali. Salvatore Urbano avrebbe così iniziato lo sciopero delle cure decidendo di sospendere la somministrazione di otto medicinali diversi che avrebbe dovuto assumere ogni giorno, a questo aggiunse anche la riduzione dell’alimentazione. Fu un gesto forte, eclatante, per protestare contro il regime detentivo che, a detta non lo avrebbe salvaguardato. Il suo avvocato, Alessandro Cavallo, del foro di Taranto, già informato della lettera fatta circolare dai familiari del recluso, aveva quindi inoltrato un’istanza per chiedere il riconoscimento dello stato di incompatibilità con il regime carcerario per ragioni di salute del suo assistito. Nel frattempo, colto da un malore, il 4 maggio scorso, fu ricoverato in rianimazione per le sue gravi condizioni dovute alla lunga assenza di corretta alimentazione dopo un primo periodo di ricovero nella cella di isolamento dell’ospedale tarantino. Lì aveva avuto una grave compromissione respiratoria che costrinse i medici a trasferirlo nel reparto di rianimazione. Da quel giorno entrò in coma. A luglio il tribunale di sorveglianza aveva finalmente deciso di dargli i domiciliari per incompatibilità con il carcere. Si era trattato però di una decisione presa fuori tempo massimo visto che Salvatore Urbano era già uscito dal carcere: ma perché fu ricoverato d’urgenza per essere poi intubato. Per un lungo periodo finì in rianimazione presso l’ospedale di Taranto, poi in quella di Manduria dove era stato giudicato inguaribile. Infine venne ricoverato in un centro per malati terminali di Martina Franca, provincia di Taranto. Il 17 ottobre scorso ha emanato l’ultimo respiro. Muore dopo una lunga agonia di 5 mesi. Il suo nome non compirà nella lista ufficiale delle morti in carcere, perché lui è morto su un letto di un ospedale e, in teoria, era stato scarcerato dal tribunale. Non è una morte dietro le sbarre, ma difficile immaginare che l’istituzione carceraria non c’entri niente. Torino: dà in escandescenze e la polizia lo porta in ospedale, dove muore d’infarto di Erica Di Blasi La Repubblica, 23 novembre 2017 Giallo sulle manette. L’uomo era in forte sovrappeso. Il caso segnalato alla Procura. Il padre più tardi trovato dai vigili in casa semisvenuto: è ricoverato al Maria Vittoria. Dà in escandescenze in casa, tanto che i vicini decidono di chiamare la polizia. Gli agenti intervengono e a fatica riescono a convincerlo e a farlo salire su un’ambulanza. L’uomo, Walter Zampredi, 46 anni, è stato quindi accompagnato al pronto soccorso del San Giovanni Bosco. Qui qualcuno dice di aver visto l’uomo in manette, almeno per un periodo, forse in attesa che si calmasse. Ma la polizia dice di non averlo mai ammanettato e che la situazione era così tranquilla - già prima del suo trasporto in ospedale - che non è stato nemmeno necessario scortare l’ambulanza. Chi può averlo dunque ammanettato? Questo è un particolare al momento da chiarire, ma sta di fatto che poco il ricovero Zampredi ha avuto un infarto ed è morto. Si trattava di una persona in forte sovrappeso, ma per fare chiarezza sull’accaduto e permettere quindi gli accertamenti clinici del caso, è stata inviata una segnalazione in Procura: il pm deciderà se e quali esami disporre. Nel pomeriggio, dopo la morte di Zampredi, la polizia municipale è stata incaricata di avvisare la famiglia del decesso: i vigili hanno raggiunto la sua abitazione hanno suonato e non ricevendo risposta hanno aperto la porta con le chiavi trovate nelle tasche della vittima. Una volta entrati è scattata un’altra emergenza: il padre di Walter era riverso a terra semisvenuto. I vigili hanno subito chiamato un’ambulanza per farlo accompagnare all’ospedale, in questo caso il Maria Vittoria. L’uomo, secondo quanto risulta, non è in pericolo di vita. Sala Consilina (Sa): “carcere e tribunale troppo piccoli per funzionare” di Pasquale Sorrentino Il Mattino, 23 novembre 2017 Il carcere di Sala Consilina e il fu Tribunale tornano a essere protagonisti. Per la Casa circondariale, chiusa dal Ministero, e per il Palazzo di Giustizia, il Comune sta portando avanti una battaglia quasi disperata per far valere le proprie ragioni. Disperata dopo la sentenza del Consiglio di Stato che ha dato in parte ragione al Ministero stesso. Una parola pesante sulle sorti della Casa circondariale però arriva dal procuratore Vittorio Russo durante una cerimonia di encomio a Polla. “È stata una valutazione tecnica - sostiene Russo. Si deve ragionare in una dimensione diversa e più ampia. Le strutture troppo piccole non riescono a funzionare. Siano carcere o tribunali. Il Tribunale di Lagonegro, ad esempio, ora può assicurare una efficienza al settore giustizia rispetto a due tribunali piccoli. La scarsezza di personale è stata sopperita. In alcuni casi, prima, si avevano difficoltà a portare avanti i processi”. Allo stesso incontro voluto dal sindaco di Polla, Rocco Giuliano, soprattutto per celebrare i carabinieri della locale stazione (i marescialli Danilo Marzullo e Giovanni Cunsolo) per aver arrestato un pericoloso rapinatore di banche, è intervenuto anche l’ex presidente del Tribunale, Claudio Zarrella. Da poco in pensione. È stato - per pura casualità locale e temporale - il presidente dell’annessione. “Sinceramente - ha detto Zarrella nell’aula del consiglio comunale ? mi è dispiaciuto molto della chiusura del tribunale di Sala, cui mio malgrado ho assistito. Ma i piccoli tribunali rischiavano di essere controproducenti per lo stesso discorso portato avanti dal procuratore”. Alba (Cn): smentito il cronoprogramma, il carcere non riaprirà prima del 2019 di Francesca Pinaffo Gazzetta di Alba, 23 novembre 2017 Gara d’appalto nei primi mesi del 2018 e conclusione dei lavori entro un anno dall’incarico affidato alla ditta aggiudicataria: ad oggi è questo il destino dell’istituto carcerario Giuseppe Montalto di Alba. Ad affermarlo è il ministro della Giustizia Andrea Orlando, interrogato durante il question time di oggi pomeriggio - 22 novembre - dal deputato albese Mariano Rabino. Al centro del quesito, il cronoprogramma diffuso a ottobre dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria circa i lavori all’impianto idrico da svolgere nella parte della struttura ad oggi inutilizzata e per i quali sono già stati stanziati 2 milioni di euro. Il documento dava per certa la conclusione della progettazione entro ottobre e la totale riapertura del carcere entro la fine del 2018. Termini che fin da subito hanno fatto storcere il naso al garante comunale dei detenuti, Alessandro Prandi, che aveva ipotizzato la conclusione dei lavori non prima della fine del 2019. Un’ipotesi confermata oggi dal ministro: “Per problemi inerenti alla progettazione esecutiva, contrariamente a quanto affermato in precedenza, la gara per l’aggiudicazione dei lavori si terrà nei primi mesi del 2018 e i lavori saranno conclusi entro un anno dalla consegna all’impresa aggiudicataria”. E ha aggiunto: “In base agli ultimi aggiornamenti forniti dall’amministrazione penitenziaria, non sono ravvisabili motivi che inducano a formulare previsioni negative circa l’attuazione del programma. Proseguirò in ogni iniziativa di stimolo affinché la casa di reclusione di Alba possa essere riattivata senza ulteriori ritardi, vigilerò sullo svolgimento delle procedure e nel caso assumerò le iniziative necessarie”. Così ha replicato Mariano Rabino: “Questa risposta conferma i dubbi del garante Prandi: tra la gara d’appalto, l’aggiudicazione dei lavori e la loro consegna entro un anno, si prevede la riapertura del carcere nel corso del 2019, se non si assisterà a ulteriori ritardi. Sono dichiaratamente insoddisfatto sul funzionamento del Dipartimento, che su questo tema ha dimostrato una serie di inefficienze che non possono essere censurate”, ha dichiarato, per poi concludere: “Questi sono esempi pessimi di pubblica amministrazione, che mortificano un’articolazione così importante dello Stato. La realtà è che oggi nel carcere di Alba ci sono 100 agenti per 46 detenuti, mentre la struttura dovrebbe arrivare ad ospitarne fino a 145: non si lavora così”. Opera (Mi): Siciliano “lascio un carcere più umano, conosco i detenuti uno a uno” di Luca Fazzo Il Giornale, 23 novembre 2017 Dopo dieci anni lo storico direttore dice addio a Opera per guidare San Vittore: “Ho dato a tutti una chance”. Dieci anni ad Opera, nel carcere che ha ospitato Totò Riina e gli ultimi brigatisti rossi, Fabrizio Corona e l’Olindo della strage di Erba. A dirigere tutto, Giacinto Siciliano, 51 anni: che ora lascia la prigione con vista sulla tangenziale per andare a dirigere San Vittore. È stata dura? “Sicuramente impegnativa. Opera ospita detenuti prevalentemente di criminalità organizzata e ad alto tasso di pericolosità. In questi anni abbiamo avviata una trasformazione che, senza cambiare la tipologia dei detenuti, puntasse a sperimentare nuove forme di gestione e di trattamento di chi è chiuso qua dentro. E per fare questo è stato necessario un cambiamento culturale sia delle persone che ci lavorano sia dei detenuti, che sono stati chiamati a assumersi responsabilità che prima non avevano”. Però l’immagine di Opera continua a essere quella di un posto dove non è facile cavarsela. “Ma oggi è anche un carcere vivo, dove le persone possono essere coinvolte in attività di rilievo, e dove si conciliano le esigenze di trattamento con quelle di sicurezza. Oggi, sinceramente, non penso che possa essere considerato un carcere particolarmente opprimente: certo, ha una sua storia, ha detenuti di un certo spessore, ma è un istituto in cui si è lavorato per dare delle chance a tutti a prescindere dal livello di pericolosità. A parte i detenuti di massima sicurezza, quelli al 41 bis: lì è un altro discorso. A dirmi che l’immagine di Opera è cambiata è anche l’atteggiamento della città. Una volta per Milano era come se questo carcere non esistesse, anche se siamo a dieci minuti dal centro. Oggi non è più così. Basti pensare alle migliaia di studenti che entrano qua dentro o che incontrano i detenuti nelle loro scuole”. Come ci si è arrivati? “La parola chiave è stata sfida. Se oggi si respira un clima diverso è perché abbiamo spinto i detenuti a mettersi in discussione, a farsi coinvolgere. Il problema era ridurre l’ozio, perché fin quando una persona è chiusa in una stanza è difficile che cambi. I fatti ci hanno dato ragione. Qui abbiamo una struttura tradizionale e una a trattamento avanzato, sull’esempio del carcere di Bollate. Ebbene: chi è passato in questo reparto e poi è uscito per fine pena o perché ha ottenuto misure alternative, ha avuto un tasso di recidiva che non supera il 15 per cento, che è un risultato eccezionale soprattutto se guardiamo allo spessore di alcuni vissuti criminali”. Come si dirige un carcere con millecinquecento detenuti? “La mia sfida è stata avere relazioni e rapporti diretti con quasi tutti. Per me non sono nomi, sono collegati a fatti e storie. Li ho martellati uno per uno: hai una possibilità, gli ho detto, puoi scegliere se metterti in gioco o tirarti indietro. Decidi, prenditi la responsabilità”. Quante porte chiuse ha trovato? “Ne ho trovate, non è tutto rose e fiori. Ma molte porte che erano chiuse nel tempo si sono aperte. A restare blindate sono veramente poche”. Ma poi ci sono quelli al 41bis, massima sicurezza. Per loro nessuna chance, e condizioni che alcuni considerano inumane. “Il 41bis è una norma eccezionale che risponde a esigenze eccezionali. In teoria la norma non impedisce un percorso di reinserimento. Certo serve che ci sia la disponibilità del detenuto a mettersi in discussione, una adesione a logiche culturali diverse. Ma il detenuto di mafia non parla con lo Stato. Se sceglie di farlo, se prende le distanze dal contesto che lo ha portato a delinquere, e avvia un reale percorso di revisione critica la situazione può cambiare”. Adesso la attende San Vittore, una bolgia sovraffollata. “Ma sa una cosa? Quando ero a Monza, un carcere fatto di celle singole o a due posti, la gente preferiva San Vittore, e se cercavamo di portarli a Monza si chiudevano in cella per protesta. Forse perché era più comodo, forse perché era considerato più vivo. Oggi il problema di San Vittore sono i numeri e anche la rapidità del turnover, le porte girevoli che rendono difficile un percorso di trattamento. A Opera avevo tempo, adesso dovrò reinventarmi”. Da trent’anni, ogni tanto salta fuori qualcuno che dice: chiudiamolo. “San Vittore è una struttura vecchia per definizione, inadeguata agli standard attuali, che verranno ulteriormente alzati. Ma avere una struttura carceraria al centro della città costringe tutti a fare i conti con questa realtà. Il carcere esiste ed esistono i detenuti”. A un milanese che sta per finire in carcere, quale dei tre consiglierebbe? “Fino a ieri avrei ovviamente risposto Opera. Adesso dico che è l’intero sistema penitenziario milanese ad essere una realtà avanzata. Sono sempre prigioni. Ma meglio di tante altre”. Che tipo era Riina? “Se fosse ancora vivo le risponderei”. Nola (Na): rendite sicure su sorveglianza e punizione, ecco come nasce il maxi-carcere di luigi romano napolimonitor.it, 23 novembre 2017 Quando si parla di carcere gli animi non sono mai distesi. Il desiderio di sicurezza, tema centrale della prossima campagna elettorale, è stato uno dei principali motivi di azione dell’attuale governo, con gli interventi del ministro Orlando sul codice e il processo penale, e quelli del Viminale con il provvedimento sulla cosiddetta “sicurezza delle città”. Il quadro sarà completato dalla riforma dell’ordinamento penitenziario, anzi fa riflettere il silenzio che avvolge il provvedimento, lasciando intendere la precisione tattica con cui il ministero “maneggia” l’affare giustizia. L’impostazione repressiva delle ultime manovre legislative non si giustifica però con i dati. Le relazioni presentate dal ministero degli interni negli ultimi due anni testimoniano come l’Italia sia tra le nazioni più sicure d’Europa, perché diminuisce complessivamente il tasso di incidenza dei reati: le rapine (-10,62%), i furti (-6,97%), l’usura (-7,41%), lo sfruttamento della prostituzione/pornografia minorile (-3,03%). Del resto, lo stesso ministro Minniti ha spiegato nella relazione di presentazione al parlamento del decreto sulla sicurezza urbana, che la posizione del governo in materia è politica: “La nuova società, tendenzialmente multietnica, richiede una serie di misure di rassicurazione delle comunità […], finalizzate a rafforzare la percezione che le istituzioni concorrano unitariamente alla gestione delle problematiche, nel superiore interesse della coesione sociale”. Ciò che interessa, in sostanza, è calmare gli spasmi dello stomaco e i battiti del cuore: le strategie classiche di tutela del diritto penale non trovano spazio nel dibattito, risultando mediaticamente poco attraenti e offrendo la sponda a disposizioni repressive spesso ibride, come il cosiddetto “Daspo urbano”, o alle “creative” misure preventive personali (obbligo di dimora, sorveglianza speciale, foglio di via) fondate sulla presunta pericolosità del soggetto e non sulla commissione di un reato. Parallelamente al consolidamento di questo scenario, nel paese si costruiscono nuove prigioni. Allo stato attuale la Campania ne ha ben quindici per adulti, con un numero di detenuti di 7.278, più di mille reclusi rispetto a quanto previsto dagli organici. Dopo la Lombardia è la regione con la popolazione detenuta più numerosa, la prima se confrontiamo le reclusioni con il numero di residenti. I dati sono in netta crescita, sebbene la riforma Orlando debba ancora produrre i suoi effetti. L’aumento delle pene minime e massime per i reati contro il patrimonio, come il furto in abitazione e con strappo, infatti, non solo manterrà nelle carceri per un tempo maggiore oltre la metà dei detenuti, ma l’innalzamento dei limiti sanzionatori determinerà un ricorso ancora più massiccio alla custodia cautelare. Le linee di tendenza di questo quadro drammatico sono riscontrabili analizzando ciò che accade a Poggioreale, dove a fronte di una capienza tollerata di 1.644 detenuti, sono imprigionate oltre 2.000 persone. L’Italia, che ha subito diverse condanne dalla Corte di Strasburgo per il sovraffollamento e per il trattamento brutale dei detenuti, comincia a confrontarsi con questi dati. La soluzione identificata, naturalmente, non è il ricorso alle misure alternative, alla diminuzione delle pene, alla depenalizzazione dei reati minori; anzi, amnistie e indulti sono anni luce lontani dall’agenda politica del paese degli sceriffi e controllori. Il ministero della giustizia ha deciso piuttosto di chiudere un appalto, con la collaborazione del ministero delle infrastrutture, per la creazione di un nuovo istituto penitenziario a Nola, nella località di Boscofangone (Masseria Cianciulli). Un mega-carcere che ospiterà 1.200 detenuti, dunque tra i più popolosi in Italia, e che considerando gli attuali indici di sovraffollamento potrà arrivare a sforare la soglia dei 2.000. La struttura insisterà su diciotto ettari di terreno, e secondo quanto esposto dal Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) nella relazione illustrativa firmata dall’architetto Ettore Barletta, il costo stimato dell’opera ammonterà a centoventi milioni di euro. Il valore dell’investimento è però destinato a crescere, dal momento che prima della costruzione quel terreno dovrà essere bonificato, come in più occasioni ha ribadito l’architetto Corrado Marcetti (Fondazione Michelucci), insistendo su terreni oggetto per anni di interramento di materiale tossico. A questi già rilevanti costi si aggiungeranno quelli per il riassestamento del quadro idrogeologico, necessario dopo l’innalzamento della falda acquifera che ha già causato l’allagamento dei terreni confinanti con il centro commerciale Vulcano Buono. Sul progetto del supercarcere, il ministero stesso cade in contraddizione. Gli Stati generali dell’esecuzione penale (lavori durati circa un anno, organizzati per iniziativa del Guardasigilli in diciotto tavoli di esperti del settore e con costi quindi a carico della comunità) avevano indicato una strada precisa riguardo le parole-chiave per le ristrutturazioni e le nuove costruzioni penitenziarie. Prima di ogni cosa la capienza dell’istituto, che inizialmente, nel caso di Nola, doveva ospitare 450 detenuti, poi aumentata a 900, per arrivare infine a 1.200. Sebbene i tavoli tecnici avessero espresso tutt’altro parere, proponendo la nascita di strutture di contenimento per un numero minore di detenuti, al fine di favorire le attività delle cosiddette “aree trattamentali” e le misure di reinserimento, da questo punto di vista la posizione del governo è stata irremovibile: una enorme prigione dagli appetibili costi di gestione. La localizzazione geografica del carcere, centrale per la vicinanza delle arterie della A30 Caserta-Salerno e dell’asse mediano (che agevoleranno i trasferimenti e le traduzioni dei detenuti nei tribunali, in particolare in quello di Aversa Napoli-Nord, sempre più importante per la gestione del contenzioso penale campano) rende la struttura estranea ai centri urbani e alle comunità locali. Una scelta che renderà “impermeabile” il supercarcere: i familiari avranno problemi per i colloqui, e l’attività dei detenuti “lavoranti esterni” - oggi sempre minore per la mancanza di fondi pubblici e per il bigottismo dei nostri territori - sarà quasi impossibile. Costruire un istituto penale in un posto del genere significa tenere reclusi i soggetti in una dimensione sospesa, dove non c’è nulla fuori e nulla dentro. Inoltre, all’interno del Tavolo 1 degli Stati generali, si era deciso di non costruire dentro il perimetro degli istituti di pena i locali per il personale non residente della polizia penitenziaria, perché si voleva scongiurare l’eccessiva militarizzazione dello spazio, evitando di creare un accasermamento che avrebbe contribuito a tendere i rapporti nelle carceri. Anche gli immobili destinati alla semilibertà dovevano essere dislocati in un contesto di vita sociale attivo, per permettere il reinserimento dei soggetti, ma entrambe le direttive risultano completamente ignorate dal progetto nolano. Per quanto riguarda la costruzione degli spazi interni, il progetto è blindato. Se gli Stati generali avevano cercato di valorizzare quanto più possibile la “vigilanza dinamica” - con l’idea di diminuire le zone di esclusiva reclusione, disincentivando l’ozio e la “sorveglianza statica”, creando maggiori spazi per la socialità e le attività lavorative, ricreative e scolastiche - a Nola si costruirà un vero e proprio lager, con alte torri sovrastanti la struttura e lo schema disorientante dei bracci, proprio come la Prison de la Santé di Parigi (1867), Le Nuove di Torino (1870) o il più “recente” carcere di Poggioreale (1901). L’associazione Antigone e la Fondazione Michelucci il 22 marzo di quest’anno, in occasione di un incontro tenuto all’Università di Roma Tre, hanno criticato fortemente il progetto del Dap. La “progettazione di massima” è però passata come definitiva - la planimetria, il bando, il calcolo compensi, le note di fattibilità, le relazioni di presentazione dell’opera sono pubblicate sul sito del ministero delle infrastrutture, l’area è stata individuata e pare che proprio in questi giorni siano cominciati gli espropri. La gara per affidare la progettazione esecutiva è stata chiusa e vinta dalla società Mythos Consorzio Stabile, impegnato già in precedenza nella costruzione delle cosiddette Grandi opere, per 3,7 milioni di euro. Non resta che vigilare ora sui delicati sviluppi (affidamento lavori, bonifiche, gestione) di quello che è stato propagandato come “modello illuminato di carcerazione”, ma che a totale dispetto delle indicazioni degli Stati generali, si realizzerà nell’ordinaria ed ennesima istituzione totale. Genova: apre uno sportello antiviolenza nel carcere femminile di Pontedecimo genova24.it, 23 novembre 2017 L’iniziativa è nata in occasione della giornata internazionale contro la violenza di genere in collaborazione con la cooperativa sociale Il Cerchio delle Relazioni/Centro Antiviolenza Mascherona. Lo scopo è soprattutto la presa in carico dei vissuti legati alla genitorialità con le violenze subite in passato e i traumi che ne sono seguiti e che abbiano inevitabilmente compromesso o interrotto il legame tra madre e bambino. Alla presentazione, in programma venerdì, interverranno alcune operatici del centro Antiviolenza Mascherona, il direttore di Pontedecimo Maria Isabella De Gennaro che ne ha reso possibile la realizzazione e Anna Solaro, del Teatro dell’Ortica, che leggerà brani tratti dal libro di Serena Dandini “Ferite a morte”. Airola (Bn): così entrano telefoni e droga nel carcere della paranza dei bambini di Antonio Crispino Corriere della Sera, 23 novembre 2017 Ad Airola, in provincia di Benevento, in una cella sono state scoperte anche antenne wi-fi e un router. In quelle celle sono reclusi i baby boss della cosiddetta “paranza dei bambini”. Neonati trasformati in corrieri della droga, cellulari, nascosti nelle parti intime femminili, introdotti durante i colloqui, antenne wi-fi installate nelle celle per telefonare e trasmettere messaggi all’esterno. Nei penitenziari minorili della Campania accade questo e anche di più. Ad Airola, in provincia di Benevento, dove sono reclusi i baby boss della cosiddetta “paranza dei bambini”, feroci ragazzini che aspirano a scalciare i vecchi capi della camorra napoletana, il carcere è un luogo per dimostrare la loro potenza. Lo scorso 17 novembre sono stati sequestrati 25 grammi di hashish. Li hanno trovati nell’ano di un detenuto, altri pallini di droga erano nello stomaco. “Quest’anno è l’ottava volta che sequestriamo droga in quel carcere - racconta uno degli agenti che presta servizio proprio ad Airola -. Entra di tutto. Durante la sorveglianza notturna ci siamo accorti di uno strano cicalare proveniente dalle celle. L’appostamento ci ha permesso di scoprire che i ragazzi erano in possesso di un micro telefono cellulare poco più grande di due monete da un euro. Lo usavano per chiamare i parenti ma anche per impartire ordini all’esterno”. Il baby boss in questione aveva scavato una nicchia nella suola della scarpa sinistra. Lo sfruttava per le sue comunicazioni ma anche come strumento di ricatto nei confronti degli altri. “In cambio di una telefonata il compagno di cella doveva sottomettersi - spiega Emilio Fattorello, segretario regionale del sindacato di Polizia penitenziaria -. In questo modo creava il suo clan anche all’interno dell’istituto. In qualche modo erano riusciti a far entrare persino due antenne wi-fi e un router per la navigazione internet”. Non usavano la rete solo per le chiamate Whatsapp ma anche per postare su Facebook i selfie sorridenti in carcere. Tra l’altro, si appoggiavano alla rete wi-fi gratuita e senza password del Comune di Airola per creare profili falsi con i quali probabilmente mandavano messaggi in codice. Su questo sta indagando la Procura di Benevento che nei giorni scorsi ha inviato cinque avvisi di garanzia ad altrettanti detenuti per ricettazione. Il rapporto tra poliziotti e detenuti è di uno a dodici, fa sapere il sindacato autonomo della Polizia Penitenziaria. “Ma siamo in difficoltà anche perché o non abbiamo proprio strumenti tecnologici come metal detector o raggi rx oppure li abbiamo ma non funzionano - denuncia Fattorello. Ciò che è emerso rappresenta solo quello che a occhi nudi siamo riusciti a notare. L’altro giorno nel carcere di Avellino un collega è stato incuriosito dal modo in cui un detenuto abbracciava il figlio neonato durante i colloqui. Gli infilava ripetutamente le mani nei vestitini”. In questo modo la Polizia penitenziaria ha scoperto che usavano il bimbo come corriere. La mamma aveva nascosto 80 grammi di hashish e un micro telefono cellulare tra il pannolino e la tutina. In altri casi sia gli ovuli di droga che i microtelefoni venivano occultati nelle parti intime delle mogli che andavano a fargli visita. “Questa situazione si è aggravata da quando hanno consentito l’ingresso negli istituti minorili di ragazzi adulti, anche di 24- 25 anni, che fuori sono già dei capi - sottolinea Donato Capece, segretario generale del Sappe. Senza contare che le disposizioni ministeriali ci invitano a evitare controlli oppressivi e raccomandano verifiche saltuarie per non turbare il minore. Invece dovremmo renderci conto che questi non sono ragazzini normali. Comportamenti così spavaldi servono proprio per dimostrare all’esterno che sono in grado di comandare anche in situazioni estreme come il carcere. In pratica fanno in cella l’università del crimine per poi diventare fuori i boss di domani”. Foggia: “Una pena più dolce…”, i futuri pasticceri nascono in carcere Redattore Sociale, 23 novembre 2017 Il corso, realizzato con il sostegno del Csv, nasce nell’Istituto penitenziario di Foggia che formerà 15 detenuti con l’obiettivo di un loro reinserimento lavorativo e sociale. E non sarà l’unico: altri percorsi sono in incubazione “La formazione allenta la tensione ed è importante per umanizzare la pena”. Un laboratorio di pasticceria in carcere come scuola di mestiere e di vita, che possa creare nuove figure professionali che possano lavorare anche all’esterno. È questo l’obiettivo del progetto “Una pena più dolce…”, iniziato oggi e presso l’Istituto Penitenziario di Foggia. Quindici detenuti acquisiranno le nozioni di base dell’arte pasticcera con un corso di 60 ore tenuto da Claudio Zingaro, un docente d’eccezione che ha partecipato a trasmissioni televisive ed è impegnato in numerose attività di beneficenza. Il progetto, realizzato con il supporto del Csv di Foggia, intende porre le basi per il reinserimento lavorativo e sociale fuori dal carcere delle persone che scontano una pena. “Questo è il primo percorso che viene realizzato, altri sono in incubazione e speriamo possano vedere presto vedere la luce, con l’obiettivo di esternalizzare ciò che ora viene fatto all’interno dell’istituto”, spiega Luigi Talienti, tutor e motore del progetto. “La formazione può essere utile per allentare la tensione e l’ incontro dei detenuti con le persone esterne al carcere affievolisce il loro senso di abbandono, con ricadute positive anche sulla sicurezza interna - continua Talienti. Si tratta di una funzione molto importante nel processo di umanizzazione della pena, aspetto che resta indispensabile”. Lavorare in carcere è quindi un’opportunità che mette alla prova non solo i detenuti, istituzioni e operatori. L’esperienza dell’Istituto penitenziario di Foggia verrà presentata nel corso di un convegno, organizzato dal Centro provinciale istruzione adulti “Cpia1”, in programma il prossimo dicembre. Roma: “Destini incrociati”, rassegna nazionale del teatro in carcere di Giancarlo Capozzoli huffingtonpost.it, 23 novembre 2017 Si è tenuta a Roma nei giorni scorsi una bella rassegna, “Destini incrociati”, rassegna nazionale del teatro in carcere. Una rassegna, la quarta, organizzata in collaborazione con il coordinamento nazionale teatro e carcere, il dipartimento di Filosofia, comunicazione e spettacolo della Università Roma3, il Ministero di Giustizia, Teatri di Roma e la Casa circondariale Femminile di Rebibbia. Incontri spettacoli e dibattiti che per tre giorni hanno visto partecipare tra gli altri il Prof. Franco Ruffini, uno tra i massimi esperti di critica ed estetica teatrale in Italia, Vito Minoia, direttore generale del coordinamento, Mauro Palma, garante nazionale delle persone private della libertà personale e molte realtà che realizzano e organizzano laboratori e spettacoli negli istituti di pena. Tanti gli incontri, come detto, occasione di riflessione e spunto su questo mondo “dentro”, come la messa in scena “Amleta” della giovane regista Francesca Tricarico, che ha proposto la sua lettura del testo shakespeariano con le detenute della sua compagnia del carcere femminile di Rebibbia, “Le donne del muro alto”. A uno dei dibattiti era presente, tra gli altri autori e registi di teatro in carcere, oltre al garante stesso, anche Valentina Venturini, docente di teatro di Roma3 e direttrice artistica del coordinamento teatro e carcere. Incontro importante proprio perché rivolto agli studenti universitari, a quella parte di società, voglio dire, che sta ancora formando la propria personalità di cittadini, e partecipi di una comunità, appunto. Comunità e società di cui fanno parte hanno coloro che temporaneamente ne sono esclusi, i detenuti appunto. Partecipare a un dibattito come questo è fondamentale per discutere di questo mondo, dunque. Partecipare per aprire la possibilità a un confronto, a una relazione, a una apertura di senso. Aprire le porte del carcere, sembra un ossimoro, ma è necessario invece se si vuol tendere realmente a quanto sancisce la Costituzione Italiana. Partecipare e discutere è determinante nella formazione di questi studenti, nella percezione che questi stessi hanno dei detenuti, della condizione dei detenuti, dei pochi diritti, dei diritti negati e di conseguenza nelola possibilità ulteriore di trasformazione della società a cui tutti appartengono, studenti e detenuti stessi. Una rassegna come questa è infatti l’occasione per incontrare, vedere, osservare, studiare, ammirare persino, uomini che, pur nella responsabilità personale del reato commesso, cercano il tentativo, altrettanto personale, di andare oltre se stessi, di superare la percezione, la sensazione che un uomo che ha sbagliato, non possa cambiare strada, idea, vita. Destinazione. La propria. Ho detto ammirare. Si dà l’occasione di ammirare, voglio dire, uomini che, dentro, scoprono nuove risorse, nuove prospettive, nuovi stimoli e che tentano davvero un ripensamento di sé, con un superamento, un oltrepassamento di se stessi. Il teatro è solo uno di questi strumenti, forse il più efficace, il più immediato, in termini di confronto e stimoli. Io realizzo questo tipo di agire con i detenuti del mio gruppo, a Rebibbia. Questo agire che può sembrare anche solo uno stare a guardare questo cambiamento, esserne responsabile e allo stesso tempo, spettatore. Cambiamento che è inesorabile. Potrei dire che si è come dei reporter fermi in attesa che qualcosa prima o poi accada davanti all’obiettivo, degno di essere fermato, colto. Prima o poi succede davvero. Succede realmente. Succede davvero che uno che non ha mai letto un libro in tutta la sua breve esistenza, possa chiederti di prestargli quel libro a cui, apparentemente con distrazione, hai raccontato, citandolo appena tra gli altri, come per stimolare, appunto, curiosità e interesse. Ho parlato di scambio reciproco. E tale è davvero. Si riceve attenzione e amicizia reali se si dà in cambio qualcosa di altrettanto reale. I bisogni e le mancanze sono tante. Ho pensato che anche solo l’esser-presenti lì, sia un dare, un dono. E in parte è vero. Per loro, però, è l’occasione di anche altri scambi. Domandare e rispondere è uno scambio anche. E allora chiedono, vogliono sapere, si informano, si aprono. Pertanto oltre all’esser-presenti è tutto il proprio bagaglio che uno si porta dietro, e la propria esistenza e curiosità. Tentare di lasciarsi dietro un lampo di quanto si è avuto occasione d’incontrare, leggere, studiare, approfondire, nel corso del proprio cammino personale, è lo stimolo determinante per lasciare qualcosa di sé, a queste persone. Nel mondo penitenziario ci sono molti religiosi. Un religioso porta con sé il proprio bagaglio spirituale. Io che religioso non sono, posso tentare di lasciare quel po’ di cultura laica che ho avuto modo di studiare e approfondire. Questa cultura, questo pensiero è la base, credo, per tentare di smontare quelle costruzioni metafisiche (inconsapevoli, non-spiegate) a cui questi uomini (non liberi, ma pur sempre uomini), acuì queste persone si rifanno nella costruzione del proprio soggetto personale. Costruzioni metafisiche che altro non sono che pregiudizi, categorie, paradigmi privi di contenuti reali. È questo vuoto, questa assenza allora che va riempita, concretamente, con un questionare reale e concreto, al fine di consegnare a questi uomini quegli strumenti, quelle armi per rivolgersi verso se stessi, per rivoltarsi contro quel sé inconsapevole e colpevole, per superare i propri limiti e le proprie incapacità. Ho detto porre domande, non dare risposte. Domande altrimenti mai poste, per caso o per sfortuna, per incapacità, per pigrizia, o per ignoranza. Questi sostantivi sono i sostantivi che caratterizzano la grande maggioranza della popolazione detenuta. Sostantivi che caratterizzano queste persone già prima del loro esser declinate come detenute. È dunque a partire da questo fraintendimento culturale, sociale, politico, metafisico, epocale che va ripensato l’autore di un reato. Se si vuole andare alla radice della questione, è in questo fraintendimento che bisogna volgere sguardo e attenzione. La responsabilità personale resta, naturalmente, ma è responsabilità della società stessa, da parte dei suoi governanti, cercare di prevenire l’aumento dei reati, la realizzazione di ulteriori reati, la trasformazione, cioè, di cittadini in delinquenti. In cosa consiste questo fraintendimento è allora la domanda da porci. Un’ipotesi è, potrebbe essere, la gerarchia di valori posti a base di una comunità, per esempio. Alcuni di questi valori (guadagno/successo/accumulazione/esibizione) su un carattere non forte, non determinato, non formato, possono rappresentare lo scopo a cui tendere attraverso la realizzazione di una vita criminosa. Detto banalmente: se i valori posto alla base di una società è “fare soldi”, una persona può essere tentata dalla possibilità di “realizzarsi” in ogni modo, tanto più se non si hanno altri strumenti e altre possibilità, in mano. La via illegale è solo il modo più facile e più veloce di raggiungere quel modello (frainteso perché fraintendibile) di società. Questa rassegna, questi incontri servono pertanto a sottolineare e a dire di nuovo, quali e quante possibilità ulteriori siano del teatro, per la sua stessa natura. Possibilità di una lira vita, di un’altra via. È la riflessione culturale e filosofica, in generale, che ci svela un’altra possibilità, la possibilità di una svolta diversa. Essere invece di apparire, invece di avere. Riflettere più che accumulare. Conoscere più che consumare. La cultura (ma parlo di cultura in generale) è apertura su altre possibilità di esistenza, di esistere, oltre quel singolo soggetto che altrimenti è (solo) destinato ad accumulare/consumare per poter affermare di essere, semplicemente. Tempio Pausania (Ot): “Teatro dello Scambio”, una compagnia teatrale per i detenuti olbia.it, 23 novembre 2017 La struttura detentiva di Nuchis ha un teatro tutto suo. La Settimana della Giustizia riparativa si manifesterà in modo significativo nel carcere di Nuchis. La giustizia riparativa o giustizia rigenerativa è una proposta che consiste nel ritenere il reato principalmente in termini di danno alle persone. Da ciò consegue l’obbligo, per il reo, di rimediare alle conseguenze lesive della sua condotta. Nella struttura carceraria di Nuchis, la giustizia rigenerativa conoscerà uno dei suoi momenti più significativi grazie al “Teatro dello Scambio”, nome assegnato all’auditorium in cui sarà fatta la seconda replica del “Corno di Olifante” della Compagnia Stabile Assai di Rebibbia. Un gruppo teatrale, questo, che ha fatto da apripista in Italia ad altrettante esperienze con spinta rigenerativa per le carceri, e che si sta espandendo anche in Gallura. Il carcere di Nuchis ha un teatro tutto suo e al suo interno si sta sviluppando una vera e propria compagnia. Entro il 2018 verrà messo in scena “Rinaldo in campo”, una pièce teatrale che coinvolgerà diversi detenuti nel ruolo di attori sotto la regia di Alessandro Achenza. Il ruolo di Achenza si estende anche a direttore artistico del Teatro dello Scambio e della Compagnia di Nuchis. Il progetto ha avuto un costo non indifferente. Nel 2014 si credeva che quello del teatro all’interno di una struttura penitenziaria dovesse rimanere un sogno nel cassetto. Invece, grazie al sindaco di Golfo Aranci, Giuseppe Fasolino, la realizzazione del teatro è stata possibile anche grazie ad un suo intervento concreto e materiale. Trento: Shakespeare e Bukowski nel carcere di Spini di Gardolo giornaletrentino.it, 23 novembre 2017 Il 16 dicembre nel carcere di Spini, lo spettacolo dell’attore trentino Emilio Frattini “A nord di nessun sud”. Dietro le sbarre il poeta maledetto e il grande drammaturgo. Il 16 dicembre arriva nel carcere di Spini di Gardolo an Trento lo spettacolo della “Compagnia degli Scatenati” intitolato “A nord di nessun sud”. Il progetto è dell’attore trentino Emilio Frattini che da una quindicina d’anni che gira le carceri italiane. “Il teatro aiuta chi ha bisogno di capire sé stessi e la vita. La letteratura e il teatro rendono liberi”, spiega Frattini. “A nord di nessun sud”, della “Compagnia degli Scatenati”, musiche composte da Angel Veliz Ballester e Alberto Masella, andrà sul palco, per poco più di un’ora, nel pomeriggio di sabato 16 dicembre nella casa circondariale di Trento nord, protagonisti alcuni attori della compagnia e poi diversi detenuti, perlopiù stranieri, più di una decina. In platea gli “ospiti” del carcere ma anche una trentina di esterni. “Ringrazio che siamo vivi”, di Doriano Saracino. Lo specchio rovesciato della società di Erica Manna La Repubblica, 23 novembre 2017 Doriano Saracino racconta gli stranieri in carcere: “tutto dominato da una cultura distorta del denaro”. Sono ragazzi di vita: vite che non sono la nostra. Segnate dalla violenza, fin da giovanissimi. Dalla fuga, dalle torture, dalla morte, e dall’arrivo in un Paese che si s rivelato diverso dal paradiso che pensavano di trovare. Non sono storie facili, quelle dei giovani stranieri in carcere di “Ringrazio che siamo vivi” (Jaca Book) di Doriano Saracino, il libro che sarà presentato lunedì 4 dicembre alle 17.30 a Palazzo della Meridiana, con l’avvocata Alessandra Ballerini, Carlo Imparato, vicepresidente di Teatro Necessario, Maria Milano, direttora della casa circondariale di Marassi, Andrea Torre (Centro studi Medì), Stefania Tallei e Andrea Chiappori della Comunità di Sant’Egidio. Doriano Saracino, volontario in carcere dal 2004, affronta un tema spinoso nei panni, questa volta, di ricercatore. Spinoso, sì: perché la Liguria s la regione con l’incidenza di stranieri in carcere più elevata rispetto al resto d’Italia. E perché, in questo viaggio all’interno di dieci case circondariali del centro-nord e colloqui con cento detenuti, va ad affondare la lama dell’analisi proprio nello stereotipo che fa più paura: quello dello straniero che delinque. “La ricerca nasce come domanda - racconta l’autore - ovvero: cosa non ha funzionato? Il carcere, infatti, s lo specchio rovesciato della società. Può far capire cosa occorre fare, per cambiarla”. Intanto, i dati: in Liguria, gli stranieri sono l’8,8 per cento della popolazione. La percentuale di immigrati sul totale delle persone denunciate e arrestate s tra le più alte sul territorio nazionale: il 43,9 per cento, solo dopo la Lombardia. Ma, accanto all’analisi approfondita dei numeri, ci sono le storie. “Ho chiesto ai detenuti di poterli intervistare - spiega l’autore - dicendo loro che era per evitare altri come loro arrivassero qui”. Sono racconti di personalità ferite: dalla Storia, dalla vita. Come C.P.D.J., ecuadoriano, 25 anni, una condanna a 4 anni e otto mesi, “ho mollato tutto, la droga, tutto, perché o andavo in carcere o mi ammazzavano”. Come A.S., che viene dal Pakistan, un Paese dove il numero di omicidi dal 2000 ad oggi s cresciuto di oltre il 50 per cento. Lì, ancora adolescente, subisce una rapina e viene picchiato perché consegni ai banditi un braccialetto, ma gli va bene rispetto ad altri, uccisi per meno. “Molti provengono da una cultura della violenza, contesti difficili che hanno segnato fortemente le loro vite - spiega Saracino - in molti casi il progetto migratorio s stato carente, arrivano minorenni, soli. Alcuni vengono coinvolti dallo spaccio, sia come consumatori che venditori. In altri casi, i problemi nascono da una distorta cultura del denaro da parte di chi non ce l’ha, ma attraverso questo crede di conquistarsi rispetto”. “Bisogni e aspettative dei detenuti in vista del loro rientro in società: uno studio esplorativo” criminalmente.com, 23 novembre 2017 Questo è il titolo del libro scritto da Elena Rossi, autrice di CriminalMente. L’abbiamo intervistata in vista della presentazione che si terrà a Torino, il 23 novembre alle ore 17:00. Location dell’evento sarà il Museo del Carcere “Le Nuove”, in via Paolo Borsellino, 3. L’autrice del libro è Elena Rossi, nata a Città di Castello (PG). Ha conseguito la laurea triennale a L’Aquila in Scienze dell’Investigazione e la laurea magistrale a Torino in Psicologia Criminologica e Forense. A febbraio 2017 è entrata a far parte dello staff di CriminalMente come autrice e come conduttrice. Come ti senti e quali sono le tue sensazioni alla vigilia della presentazione del tuo primo libro? “Sono emozionata e, perché no, anche un po’ ansiosa. Ci sono state molte adesioni, questo mi lusinga e mi rende felice. Vuol dire che l’argomento ha una risonanza da non sottovalutare. Il tema è tanto attuale quanto spigoloso”. Quanto ha contato la tua formazione universitaria nel prodotto finale? “Sicuramente la mia formazione, tanto quella triennale, quanto quella magistrale hanno contato e influito. Mi sarebbe stato molto più difficile “avvicinarmi” all’ambiente penitenziario con una preparazione diversa. Sono molti di più gli aspetti sociologici, quelli alla base della mia ricerca, rispetto a quelli psicologici. Ma lo sfondo è il “mondo criminale”, con i suoi aspetti sociologici, psicologici, relazionali ed istituzionali”. Hai in mente di ripetere questa esperienza o hai altri progetti nel tuo futuro? “Sarebbe bello poter condurre altre ricerche, è stato un lavoro lungo ma assolutamente formativo e stimolante. Avrei in mente altri aspetti cruciali che necessitano di approfondimento. Quello che vorrei è che il lavoro che c’è dietro a certi tipi di ricerche, non rimanga “solo” un libro, ma che abbia anche delle applicazioni concrete, reali e funzionali”. Periferie dimenticate: 15 milioni di persone in Italia vivono nel degrado di Flavia Amabile La Stampa, 23 novembre 2017 I numeri della Commissione parlamentare di inchiesta. Da Milano a Palermo cresce il racket delle case popolari. Quartieri illegali e ghettizzati dove lo Stato sembra assente. Investimenti carenti e inutili, occupazioni abusive di case popolari, campi rom come luogo di illegalità e di smaltimento illecito di rifiuti, centri urbani degradati e periferie dimenticate: sono i principali problemi che l’Italia dovrà affrontare secondo la Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni di sicurezza e degrado delle città che sta per concludere il suo lavoro di indagine. Il governo Gentiloni, con le decine di protocolli di intesa firmati con le principali città, ha stanziato già 500 milioni per migliorare la situazione. E proprio oggi il premier firmerà a Viterbo la convenzione del Bando Periferie. Ma ancora non basta. “L’Italia ha bisogno di un Piano Marshall delle periferie, è una questione di democrazia”, sostiene Andrea Causin, presidente della Commissione. Sarà una delle richieste che entreranno nella relazione conclusiva che sta preparando con gli altri 19 parlamentari che hanno diviso con lui un lungo anno di lavoro. Secondo Roberto Morassut, il vicepresidente Pd della commissione, “bisogna rendere stabile il finanziamento delle periferie con un investimento di almeno 20-25 miliardi”. I parlamentari hanno ascoltato decine di persone in grado di fornire pareri competenti, sono stati a Scampia, tra i carruggi di Genova, nel quartiere Zen e alla Vucciria a Palermo, nelle periferie torinesi e in quelle romane, e ovunque vi sia un’area degradata in Italia. “Bisogna riportare le periferie al centro dell’agenda politica. Almeno 15 milioni di persone in Italia vivono in situazioni soggette a degrado situate nelle periferie ma anche nei centri urbani. È un problema anche di democrazia”, avverte il forzista Causin. I problemi emersi in questi dodici mesi di lavoro sono molti. È evidente il profondo degrado in particolare delle costruzioni realizzate negli ultimi cinquant’anni. In tutte le grandi città italiane - fanno sapere dalla commissione - le scelte architettoniche di pianificazione delle periferie compiute per affrontare l’emergenza abitativa, invece di risolvere il problema lo hanno aggravato. Accade in quartieri come Scampia a Napoli, Zen a Palermo, Corviale a Roma, le Dighe a Genova, San Paolo a Bari. Un secondo fenomeno riguarda la necessità di ripensare il concetto stesso di periferie come luoghi dove si concentra il degrado. “Anche i centri delle città ne sono fortemente investiti. Lo abbiamo visto a Palermo, a Napoli e a Genova, ad esempio”, racconta Roberto Morassut. La commissione consiglierà di ripensare il modello di sviluppo delle aree urbane. In passato erano state immaginate come luoghi in perenne sviluppo. In realtà ora sono alle prese con un forte calo demografico. Le città invecchiano e spesso gli anziani si trovano a vivere in una situazione di solitudine e di povertà in zone della città dove gli edifici sono in degrado e i servizi di trasporto, assistenza sanitaria e sociale sono molto più carenti che in centro. Nel frattempo esistono vaste aree nei centri urbani dove sarebbe più utile demolire e ricostruire invece di continuare a spingere le costruzioni in zone dove è più difficile e costoso portare servizi e trasporti e quindi è più probabile che si creino sacche di emarginazione. La commissione chiederà un intervento per fermare le occupazioni abusive di immobili pubblici e privati. È un fenomeno diffuso da nord a sud ma in particolare nel centro e nel sud dell’Italia dove il 30-40% di case popolari sono occupate da abusivi ma si arriva anche a quote record del 100% a Palermo. È una problematica talmente grave da aver creato in alcune città, come Roma e Milano - denuncia una prima bozza di relazione messa a punto dalla commissione -, un vero e proprio racket, che è in mano a gruppi e organizzazioni criminali di italiane di stranieri, che dà vita a una sorta di commercio illegale della casa popolare, con gravissimo pregiudizio per le fasce più deboli e anziane della popolazione”. “È urgente un intervento per ripristinare la legalità - spiega Andrea Causin. Sono a favore dell’introduzione del reato di associazione per delinquere e di una generale revisione del Codice penale in materia di reati urbani”. I parlamentari della commissione hanno visitato diversi campi Rom. I più problematici si trovano a Roma, Torino, Milano e Napoli ma le difficoltà sono diffuse in tutta Italia. “Alcuni sono regolari e altri non regolari. Concentrano migliaia di persone a ridosso di zone periferiche già segnate da forti criticità. Da alcuni anni l’attività principale che sostenta chi vive in questi campi è il traffico e lo smaltimento illecito dei rifiuti, che avviene attraverso “roghi” tossici che creano gravissimo pregiudizio alla popolazione residente nelle aree limitrofe”, sottolinea la commissione. “Anche in questo caso è necessario un intervento delle forze dell’ordine pur salvaguardando gli altri interventi da un punto di vista culturale e di inserimento che però risultano inutili se manca l’ordine”, sostiene Causin. Un ultimo consiglio della commissione riguarda il superamento della politica dei bandi finora seguita. Le leggi di stabilità 2015-2016 hanno messo a disposizione circa due miliardi. La critica della commissione è ai criteri di premialità che “hanno portato i Comuni a richiedere fondi su progetti infrastrutturali spesso poco attinenti ma che avevano il solo vantaggio di rendere immediatamente accessibili i fondi, che raramente sono stati impiegati per alleviare o migliorare le condizioni di vita dei residenti nelle aree periferiche o degradate”. Migranti. Ius soli in bilico, ecco i voti perduti di Goffredo De Marchis La Repubblica, 23 novembre 2017 La “fine ordinata della legislatura”, che non è il titolo di un inedito di Garda Marquez ma il mantra quirinalizio per le settimane che restano prima del voto, si traduce in maniera semplice: Paolo Gentiloni non deve essere né dimissionario né sfiduciato. Per scongiurare il primo caso ci sono i precedenti: Sergio Mattarella può sciogliere le Camere senza l’addio formale del premier, “sentiti” i presidenti di Camera e Senato che peraltro sono già in campagna elettorale. Per il secondo caso il rischio invece è che si renda necessario il sacrificio dello Ius soli. I numeri del Senato per approvare la legge sulla cittadinanza con la fiducia hanno sempre ballato. Non a caso il governo rinviò il voto prima dell’estate ammettendo la fragilità di una maggioranza oltretutto spuria. La promessa era riprovarci appena riaperto il Parlamento a settembre, ma la situazione non era cambiata. Altro rinvio, dando la precedenza alla legge di bilancio. L’impegno ora, come ripetono i ministri del Pd e lo stesso Gentiloni, è farcela entro dicembre. Ma il pallottoliere, nel frattempo, è addirittura peggiorato. Rispetto a una lista con nomi e cognomi (che è la richiesta tassativa di Palazzo Chigi e del Colle per tentare l’azzardo) preparata a ottobre si contano le defezioni e non le aggiunte. Allora erano 157 i senatori favorevoli, contrapposti a 157 colleghi del “no”. Pareggio. In realtà, tra i contrari, su tutti i provvedimenti, si registrano molte assenze. Dunque, quota 157 era un’ottima base di partenza. Però si sono persi dei pezzi. E l’avvicinarsi delle elezioni rende tutto più ingestibile. Lo Ius soli s’intreccia al tema delle alleanze a sinistra, ai ritorni di molti nell’ovile del centrodestra, alle intese sui territori per la battaglia dei collegi. Il Pd, ad esempio, ha bisogno di un patto con gli altoatesini della Svp per cercare il pieno in Trentino Alto Adige. I senatori autonomisti sono fermamente contrari alla cittadinanza, infatti non erano contati tra gli 8 favorevoli del gruppo Autonomie. Ma per siglare un nuovo patto elettorale con Matteo Renzi potrebbero pretendere la rinuncia allo Ius soli. Oggi la certezza viene dai 98 del Pd (al netto delle intese con l’Svp), dai 16 di Mdp, dai 19 del gruppo Misto (compresi i senatori di Sinistra italiana disponibili a votare una fiducia tecnica al governo). Ala, la forza di Denis Verdini, è destinata a perdere due voti che erano dati per certi, quelli dei siciliani Compagnone e Scavone transitati nel centrodestra in occasione delle regionali. Gli incerti D’Anna e Falanga rimangono incerti. Alternativa popolare, il partito di Alfano, porta solo i voti di Pier Ferdinando Casini e di Mario Dalla Tor. In verità su un foglietto Casini ha scritto il suo nome e quello del collega aggiungendo “+ 2”, come si fa per gli inviti in discoteca. Difficilmente Gentiloni e Mattarella decideranno il via libera sulla base di quella anonima promessa. Il punto è chiaro: il presidente della Repubblica vuole blindare il premier durante il periodo pre-elettorale, a Camere sciolte. Con un occhio anche al dopo voto, in previsione di uno stallo, ovvero di una maggioranza inesistente e di un ipotetico ritorno alle urne nel giro di qualche mese, magari a giugno. Va detto che nel momento in cui le nuove Camere si insediano le dimissioni del governo sono obbligate, ma sostanzialmente l’obiettivo è offrire sullo scenario internazionale l’immagine di un Paese che mantiene una certa stabilità. Lo fece Scalfaro con Carlo Azeglio Ciampi, rifiutando le sue dimissioni con una motivazione impegnativa: “L’esecutivo ha ben operato in un momento di grave crisi istituzionale ed economica”. Lo scioglimento tecnico, in prossimità della scadenza naturale, potrebbe ripetersi e il Quirinale in questo modo darebbe la stessa patente “privilegiata” al governo Gentiloni. Se la strada non è quella delle dimissioni, figuriamoci come viene accolta al Colle l’ipotesi di un esecutivo che spara l’ultimo colpo e cade, sfiduciato dal Parlamento. Impossibile. Uno scenario da evitare a tutti i costi. La frenata sullo Ius soli, per’ motivi che non hanno niente a che vedere con la legge, viene dunque dal Quirinale. Che si prepara a chiudere la legislatura nella prima quindicina di gennaio per avere elezioni alla fine di marzo. Con Gentiloni in sella. Eppure i sostenitori della cittadinanza vedono ancora uno spiraglio. Luigi Manconi ha preparato un appello firmato da tutti i ministri dell’Interno degli ultimi 20 anni (Napolitano, Pisanu, Iervolino, Scajola, Bianco, con l’eccezione di Alfano e Maroni) che incoraggiano il “sì” allo Ius soli proprio in nome di una maggiore sicurezza. La quota sicura si è abbassata, verosimilmente a 150, numero che ha consentito l’approvazione di altre fiducie. Ma non è sufficiente per Gentiloni e Mattarella. Può aiutare il buon clima instaurato sul nuova regolamento del Senato, provvedimento che sarà esaminato prima del rush finale sulla cittadinanza. La speranza è che qualche assenza strategica nel centrodestra faccia abbassare il quorum. Ancora non basta, per le esigenze del Quirinale. Il capogruppo del Pd Luigi Zanda continua a crederci. Quello che oggi è cambiato in peggio può virare al meglio nelle prossime tre settimane. “La vera lista dei “sì” verrà stilata due giorni prima del voto. Oggi è inutile fare previsioni”. Tutti i tifosi della cittadinanza sanno che lo scoglio, ora, è diventato grande come il palazzo del Colle. Problema non da poco. E forse la lista dovrà essere aggiornata fino a dieci minuti prima dell’ora X. Due giorni sono anche troppi. Basta ricordare clamorosi scivoloni del passato: il tentato ribaltone ai danni di Berlusconi, salvato da Razzi e Scilipoti, e il pallottoliere di Arturo Parisi che non salvò il governo Prodi 1 nel 1998. Mladic condannato all’ergastolo per i crimini commessi nella guerra di Bosnia di Alberto Abburrà La Stampa, 23 novembre 2017 Il “boia di Srebrenica” colpevole di 10 capi d’accusa tra cui genocidio. Prima della sentenza ha insultato i giudici ed è stato allontanato dall’aula. Il Tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia dell’Aja ha deciso: Ratko Mladic, il “boia di Srebrenica”, è colpevole di genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità e per questo dovrà scontare l’ergastolo. Dopo l’arresto nel 2011, l’ex generale e comandante dell’esercito serbo-bosniaco (oggi 75enne), è stato processato per le atrocità commesse durante la guerra di Bosnia (dal 1992 al 1995). Un iter durato 5 anni che oggi arriva al verdetto di primo grado. Per i giudici Mladic ha “condiviso l’intenzione” e “l’obiettivo criminale” di sterminare i musulmani durante la guerra nell’ex Jugoslavia. In particolare Mladic è stato riconosciuto colpevole di 10 degli undici diversi capi d’imputazione, tra cui quelli relativi al massacro di Srebrenica (in cui persero la vita oltre 8.300 musulmani di Bosnia) e all’assedio di Sarajevo (in 44 mesi morirono oltre 12 mila persone). Non è stata invece riconosciuta l’intenzione di genocidio per i fatti commessi nelle municipalità della Bosnia nord occidentale. Mladic si è presentato in aula con una giacca scura, una camicia bianca e una cravatta rossa. Al suo ingresso ha salutato i presenti con ampi gesti delle mani, sorrisi e pollici alzati. Una scena già vista in passato, il marchio di sfida di un uomo che non si è mai pentito e ha continuato a dichiararsi innocente. Mentre il giudice Orie elencava nel dettaglio i crimini a lui imputati (esecuzioni, torture, deportazioni e stupri), i legali difensori di Mladic hanno chiesto un rinvio dell’udienza per una crisi ipertensiva. Dopo il rifiuto da parte della corte, Mladic si è alzato per protestare e ha inveito contro gli stessi giudici. Al quel punto è stato allontanato dall’aula e l’udienza è ripresa senza di lui. Momenti di tensioni si sono verificati anche all’esterno del Tribunale poco prima dell’inizio dell’udienza. In particolare quando la presidente dell’associazione “Donne vittime della guerra”, Bakira Hasecic, ha sfidato un uomo che sventolava una bandiera serba cercando di strappargliela dalle mani. La polizia olandese è dovuta intervenire per evitare la colluttazione. “È triste vedere come oggi si glorifichino persone che si sono macchiate dei crimini più orrendi”, ha detto la donna all’emittente balcanica N1. “È triste assistere all’esaltazione del genocidio e degli stupri di massa ai danni delle donne non serbe, in particolare bosniache. Io sono una di quelle donne violentate”, ha aggiunto. Presenti all’Aja anche le rappresentanti delle “Madri di Srebrenica” oltre a decine di organizzazioni di vittime della guerra. Nel periodo della guerra nei Balcani, Mladic fu il comandante dell’esercito dell’autoproclamata Repubblica serba di Bosnia che in quel periodo aveva come presidente Radovan Karadzic, l’altro responsabile della pulizia etnica. Orfano di padre, Mladic aveva iniziato la sua carriera militare come ufficiale nell’esercito di Tito. Nel 1991 era arrivata la nomina a capo del nono corpo dell’esercito jugoslavo, poi la direzione del secondo distretto militare e infine la gestione dell’esercito serbo-bosniaco, quello che si macchio dei crimini oggetto della sentenza. La latitanza di Ratko Mladic era durata 15 anni e si era conclusa il 26 maggio del 2011. Durante questo periodo non aveva lasciato la Serbia e non aveva cambiato look. Si faceva chiamare Milorad Komadic e viveva a Lazarevo, un villaggio nelle vicinanze della città di Zrenjanin, nella regione della Vojvodina. L’arresto ha fatto scattare l’estrazione all’Aja (1 giugno dello stesso anno) e dato avvio al processo (nel 2012) che oggi ha portato alla sentenza di primo grado. Il verdetto arriva a oltre 20 anni dalla fine di una guerra che ha provocato oltre 100 mila vittime e più di 2 milioni di sfollati. Mladic sarà l’ultimo degli imputati di spicco processati dal Tribunale per l’ex Jugoslavia che, dopo 24 anni e 161 persone incriminate, a fine anno cesserà la sua attività. Ratko Mladic, quale futuro dopo la condanna? di Daniele Archibugi* Il Manifesto, 23 novembre 2017 La sentenza fa emergere i fallimenti della comunità internazionale. Il primo: la maggior parte dei 83 condannati sono serbi, mentre molti dei crimini di croati e musulmano-bosniaci sono stati tralasciati, così come quelli della Nato. Il secondo:il territorio jugoslavo è oggi diviso proprio sulle linee ottenute grazie a quei crimini. Dopo Radovan Karadžic, anche Ratko Mladic è stato condannato dal Tribunale Onu per i crimini nell’ex Jugoslavia. Una condanna perentoria: accusato di genocidio e ritenuto colpevole per quasi tutti i capi di accusa, non poteva che ricevere l’ergastolo. Il suo più efferato crimine, la strage di Srebrenica del luglio 1995, quando circa ottomila uomini e ragazzi musulmani furono sterminati a sangue freddo, è ben documentato da tanti video, foto e testimonianze, diligentemente raccolte dal Tribunale. Le vedove e le madri musulmano bosniache esultano perché è stato finalmente punito uno dei principali colpevoli. L’opinione pubblica mondiale si compiace perché un altro capo spietato è stato condannato a seguito di un regolare processo. Una delle tante vittime riunite per ascoltare la sentenza a Sarajevo ha commentato: “È un messaggio mandato a tutti coloro che ritengono ancora che più grandi siano le atrocità commesse e più è probabile farla franca”. C’è solo da sperare che il messaggio sia recapitato perché né ad Aleppo né a Raqqa, né tantomeno a Washington e Mosca, è stato finora percepito. Dopo vent’anni dalla fine delle guerre di Bosnia, la sentenza non può che far emergere i tanti fallimenti raccolti dalla comunità internazionale e dai popoli dei Balcani. Il primo, strillato a gran voce dai serbo-bosniaci, riguarda la parzialità di cui è accusato il Tribunale dell’Onu. La maggior parte dei 83 condannati dal Tribunale sono infatti serbi, mentre molti dei crimini commessi dai croati e dai musulmano-bosniaci sono stati tralasciati. I serbi sono stati la fazione militarmente più forte e quindi anche più spietata, ma il Tribunale ha anche avvalorato una narrazione secondo la quale i musulmani (e, in minor parte, i croati) fossero le vittime, mentre solo i serbi i carnefici. Il fatto poi che il Tribunale non abbia indagato sui crimini di guerra commessi dalla Nato durante la guerra del 1999, rendendo vani i tentativi del Procuratore Carla Del Ponte, ha avvalorato la percezione dei serbi che si trattasse di uno strumento creato per punire solamente loro. Il secondo è, invece, la capacità stessa dei procedimenti penali di facilitare la riconciliazione. Il fatto stesso che all’Aja e a Sarajevo ci siano oggi gruppi che gioiscono e altri che, invece, santificano Mladic come un martire, dimostra che né il Tribunale né tantomeno la cura più antica - l’inesorabile scorrere del tempo - abbiano rammendato le profonde ferite inferte dalla guerra civile. Siamo così di fronte ad una situazione paradossale: da una parte Mladic, come Karadžic prima di lui, è fermamente condannato per i crimini di guerra commessi. Dall’altra, il territorio è oggi diviso proprio sulle linee ottenute grazie a quegli stessi crimini. Le sentenze del Tribunale sembrano dunque lacrime di coccodrillo versate da chi non ha avuto il coraggio di impegnare maggiori mezzi e risorse per evitare che la guerra civile divampasse fino a prendere quelle atroci dimensioni. Si deve oggi invocare la riconciliazione dal basso, quella che fa presente che tutte le etnie hanno subito crimini disumani, tanto che dalla guerra civile non è scaturito alcun vincitore, ma solo vinti. Ma anche che capi sanguinari come Mladic sono stati possibili solamente perché ci sono stati migliaia di fanatici disposti a seguirlo. Oggi lo offrono come capro espiatorio di una follia collettiva, assolutamente necessario affinché i nuovi stati scaturiti dalla ex Jugoslavia possano partecipare al banchetto offerto dall’Unione Europea. Anche in Ruanda ha operato un Tribunale ad hoc dell’Onu, che ha potuto condannare solo poche decine di colpevoli. Ma in Ruanda, anche grazie all’ispirazione proveniente dal Sudafrica di Nelson Mandela, i processi penali sono stati poi accompagnati da capillari azioni di condivisa riconciliazione, le cosiddette Corti Gacaca, che hanno raggiunto ogni villaggio. In tutti i territori della ex Jugoslavia, tentativi simili si sono infranti per la mancata disponibilità a riconoscere le sofferenze degli altri. Ci vorrà ben altro di una sentenza per ricostruire una comune narrazione del passato e, ancor di più, per rendere possibile la coabitazione futura. Lo aveva forse intuito già nel 1994, prima di tanti altri, la figlia di Mladic, Ana. Dopo aver perso il proprio fidanzato al fronte, decise di spararsi con la pistola del padre a soli 23 anni. Oggi la sentenza che ha condannato suo padre ha reso giustizia anche a lei. *Co-autore di “Delitto e castigo nella società globale. Crimini e processi internazionali”, Castelvecchi, 2017 Afghanistan. La Cpi pronta a indagare sui crimini di guerra di talebani e soldati Usa asianews.it, 23 novembre 2017 Migliaia le persone colpite dalla violenza dei talebani. Numerosi i detenuti sottoposti a tortura nelle carceri afghane. La procura della Corte penale internazionale (Cpi) ha fatto richiesta formale di aprire un’inchiesta sui crimini di guerra compiuti in Afghanistan. Nel mirino della procuratrice capo, Fatou Bensouda, non ci sono solo i talebani, ma anche i militari americani, la Cia e le forze di sicurezza afghane. La richiesta è stata presentata il 20 novembre. Secondo la procura della corte, i talebani e i loro alleati sono sospettati di crimini contro l’umanità e crimi di guerra che hanno colpito 17.700 persone fra il 2009 e il 2016, in atti che i documenti definiscono “parte di una campagna diffusa e sistematica di intimidazione, omicidi mirati, e rapimenti di civili”. Le forze di sicurezza afghane sono accusate di essere coinvolte in “schemi sistematici di tortura e trattamenti crudeli contro alcuni carcerati legati al conflitto nelle prigioni afghane, inclusi atti di violenza sessuale”. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, Bensouda afferma che documenti in loro possesso mostrano che vi sono “ragionevoli basi per credere” che i militari Usa e gli agenti della Cia abbiano compiuto “atti di tortura, trattamento crudele, insulto alla dignità personale, stupro e violenza sessuale” contro almeno 78 (rispettivamente 54 e 24) prigionieri detenuti in Afghanistan, in particolare fra il 2003 e il 2004. Gli Stati Uniti non riconoscono la giurisdizione della Corte sui propri cittadini, che però possono essere accusati di crimini perché l’Afghanistan riconosce il Tribunale internazionale. Il dipartimento di Stato americano afferma di star valutando la richiesta, ma di opporsi al coinvolgimento della corte in Afghanistan. “Un’indagine della Cpi sul personale statunitense sarebbe del tutto immotivato e ingiustificato”, dichiara in un comunicato, aggiungendo che essa “non servirà gli interessi né di pace o giustizia in Afghanistan”. Stabilita nel 2002, la Cpi è la prima corte mondiale permanente per la persecuzione di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio. Di norma, la Cpi rappresenta l’ultima risorsa per sottoporre a processo sospetti di alto grado, nel momento in cui le autorità nazionali non agiscano o prendano azioni legali contro di essi, perché impossibilitate o riluttanti. Il governo afghano e i talebani non hanno ancora risposto alle accuse. Non c’è una scadenza entro cui i giudici del Cpi debbano esprimersi sulla richiesta della procuratrice, ma le vittime hanno tempo fino al 31 gennaio 2018 per inviare ai giudici la loro opinione sull’indagine proposta. Colombia. Un anno fa l’accordo di pace con le Farc, ma per molti non è cambiato nulla di Riccardo Noury Corriere della Sera, 23 novembre 2017 Un anno dopo la firma dell’accordo di pace tra il governo e le Forze armate rivoluzionarie di Colombia (Farc), altri gruppi guerriglieri e paramilitari si contendono ancora parti del territorio portando avanti un conflitto che continua ad avere conseguenze drammatiche per la popolazione civile. Lo ha denunciato Amnesty International, secondo la quale l’accordo del 24 settembre 2016 sta avendo effetti molto limitati sulla vita delle comunità native e di quelle di discendenza africana nel dipartimento di Chocó, nella Colombia occidentale, dove il 60 per cento della popolazione è riconosciuta come vittima del conflitto armato. L’accordo di pace era stato concepito per porre fine a un conflitto armato iniziato 50 anni prima, che ha causato la morte di oltre 220.000 colombiani e lo sfollamento forzato di quasi sette milioni di persone. Sebbene dall’accordo di pace tra il governo e le Farc il numero delle vittime civili sia diminuito, il conflitto armato è ancora una realtà per milioni di colombiani. Amnesty International ha svolto una lunga ricerca nel dipartimento di Chocó, una regione ricca di risorse e ambita sia dai gruppi armati della guerriglia che dai paramilitari. Qui lo stato non si vede da alcuna parte. In compenso, la presenza di vari gruppi armati ha costretto migliaia di persone a lasciare le loro case e i loro mezzi di sostentamento, senza ottenere protezione e sostegno da parte dello stato. In alcuni casi, le comunità si sono trasferite in zone altrettanto pericolose e sovraffollate, senza accesso all’acqua potabile, con cibo insufficiente e con poche prospettive di fare rientro. I difensori dei diritti umani e i leader delle comunità locali che denunciano le violenze subiscono minacce e sono persino uccisi. Una delle ultime vittime è stata Aulio Isaramá Forastero, leader indigeno del Chocó, assassinato il 24 ottobre dall’Esercito di liberazione nazionale (Eln). Nella zona è molto diffusa anche la violenza di genere, ma molte donne e ragazze hanno paura di denunciare gli abusi. La Colombia, secondo Amnesty International, è di fronte a un grande bivio. Se il governo non coglierà l’occasione di proteggere comunità terrorizzate per tanto tempo dai gruppi armati, il futuro continuerà a essere tetro. Le autorità devono assicurare che l’accordo di pace venga attuato fino in fondo e che saranno presi ulteriori provvedimenti per impedire che gli altri gruppi guerriglieri e paramilitari proseguano a seminare terrore nella popolazione. Myanmar. Amnesty: “è apartheid verso i rohingya” di Emanuele Giordana Il Manifesto, 23 novembre 2017 L’Ong va oltre la denuncia dell’esodo forzato più consistente in un paese non in guerra e parla di apartheid, un crimine contro l’umanità. Si chiama “In gabbia senza un tetto” l’ultimo rapporto di Amnesty International sui rohingya, la minoranza musulmana cacciata dal Myanmar nell’esodo forzato più recente della Storia da un Paese non in conflitto. E aggiunge una nuova parola a un vocabolario dove si è letto di stupri, eccidi, violenze, incendi, disastri umanitari, genocidio e pulizia etnica: apartheid. Questa volta Amnesty, che lavorava al caso da due anni, documenta infatti la condizione interna dei rohingya in Myanmar, dove fino a qualche mese fa viveva poco più di un milione di questa minoranza ora ridotta drasticamente a meno della metà (oltre centomila vivono in campi profughi nel Paese mentre 600mila sono stati espulsi). Chi vive in Myanmar era ed è intrappolato “in un sistema vizioso di discriminazione istituzionalizzata sponsorizzata dallo Stato che equivale all’apartheid”. Il rapporto (in italiano sul sito www.amnesty.it) disegna il contesto della recente ondata di violenze, quando le forze di sicurezza hanno incendiato interi villaggi e costretto centinaia di migliaia di rohingya a fuggire verso il Bangladesh. Molti, non si sa quanti, sono stati uccisi o sono morti cercando di attraversare la frontiera. Fa un salto in avanti la condanna che per ora ha visto soprattutto la società civile impegnata in un’operazione di denuncia (Amnesty, Human Rights Watch, il Tribunale permanente dei popoli e diverse ong come Msf) con le Nazioni Unite (molte le prese di posizione e le denunce) ma, per il momento, non si sono viste forti pressioni internazionali anche se, nel suo recente viaggio in Myanmar, l’Alto commissario Federica Mogherini non è stata tenera con Aung San Suu Kyi. Nondimeno per ora, l’Unione europea si è limitata a confermare il divieto alla vendita di armi e ha riattivato il meccanismo (soppresso quando i militari hanno ceduto il potere) che vieta agli alti gradi dell’esercito birmano di venire nel Vecchio continente. Poco o nulla ha invece fatto il Consiglio di sicurezza, come se la questione riguardasse semplicemente i rapporti tra Myanmar e Bangladesh. Il rapporto di Amnesty dice chiaramente che il Myanmar ha confinato i rohingya in un’esistenza ghettizzata dove è difficilissimo avere accesso a istruzione e cure mediche in un quadro di esodo forzato dalle proprie case. Questa situazione corrisponde da ogni punto di vista alla definizione giuridica di apartheid, “un crimine contro l’umanità”. “Questo sistema appare destinato a rendere la vita dei rohingya umiliante e priva di speranza - dice in una nota Anna Neistat, direttrice di Amnesty per le ricerche - e la brutale campagna di pulizia etnica portata avanti dalle forze di sicurezza del Myanmar negli ultimi tre mesi è l’ennesima dimostrazione di questo atteggiamento agghiacciante. Le cause di fondo della crisi in corso devono essere affrontate per rendere possibile il ritorno dei rohingya a una situazione in cui i loro diritti e la loro dignità siano rispettati”. Difficile, anche perché, dice il rapporto, i rohingya vivono esclusi da qualsiasi contatto col mondo esterno. Messico. Gli Zeta e il carcere degli orrori, più di 150 omicidi a Pedras Negras euronews.it, 23 novembre 2017 Un carcere statale controllato da una delle più temute organizzazioni criminali del paese e usato come base per assoldare sicari e gestire il traffico di droga con gli Stati Uniti. Tutto questo con la complicità delle autorità locali. Un’inchiesta di oltre 1.500 pagine appena presentata a Città del Messico svela nel dettaglio le attività criminali degli Zeta nella prigione di Pedras Negras, nello stato di Coahuila, distante appena sei chilometri dal confine con il Texas.Il periodo considerato è il biennio 2010-2011, durante il quale gli Zeta avevano un controllo totale della prigione. I suoi componenti potevano entrare e uscire a piacimento, in molti casi con l’aiuto dei secondini. Gli altri detenuti vivevano sotto la loro costante minaccia. Il carcere era usato anche come campo di sterminio. Al suo interno gli Zeta sequestravano, torturavano e assassinavano le loro vittime, bruciando i loro resti. Nell’inchiesta si legge che sono più di 150 gli omicidi commessi a Pedras Negras.Attività criminali portate avanti con la complicità delle autorità dello stato di Cohauila, che non consentivano al governo federale di entrare a Pedras Negras senza il consenso del direttore del carcere, che era però nominato dagli Zeta. L’arresto del leader Omar Treviño Morales nel 2015 ha dato il via a una guerra intestina nell’organizzazione, che si è scissa in due gruppi in lotta tra loro per il controllo del territorio. Formatisi a metà anni ‘90 come gruppo paramilitare, gli Zeta sono stati per anni il braccio armato del Cartello del Golfo. Nel 2010 la fine del periodo di alleanza ha segnato il loro ingresso nel mondo del narcotraffico.