Carceri minorili: istruzione e attività culturali affinché la detenzione sia davvero riabilitativa di Marta Rizzo La Repubblica, 22 novembre 2017 Sono 453 i minori rinchiusi negli Istituti Penitenziari (Ipm) d’Italia. I giovani ristretti sono dunque in numero contenuto e cresce, piuttosto, la cura della persona all’interno degli Istituti. Nei 17 Istituti Penitenziari Minorili d’Italia, 453 ragazzi scontano vite mozzate da violenze che li precedono per (in)cultura e li superano per età. Sono troppo giovani per non pensare a un futuro diverso. Istruzione, sport e cultura sono la cura. Lo dicono Gemma Tuccillo, Capo del Dipartimento Minorile e di Comunità del Ministero di Giustizia; Giulia Agostini, Presidente della Fondazione Onlus CO2; Stefano Anastasia, Garante delle persone private della libertà. La pena minorile in Italia. Il sistema di giustizia minorile nasce in Italia nel 1934, con conseguenze deleterie per quelle generazioni sotto il regime fascista. Con la Costituzione, la pena minorile assume una connotazione rieducativa per il reinserimento sociale e, nel 1956, nascono le figure del servizio e dell’assistente sociali. Ma il minore resta un individuo da “sorvegliare e punire”. Solo nel 1988 vengono istituiti i servizi della giustizia minorile legati al territorio: Centri di Giustizia Minorile, Uffici del Servizio Sociale per i Minori, Istituti Penali per i Minori, Centri di Prima Accoglienza, comunità e istituti di semilibertà con servizi diurni. Dal 1992, si fa più costante l’attenzione alla tutela dei diritti del minore reo, per rendere residuale la carcerazione a favore delle misure alternative, soprattutto con la messa alla prova, che evita al minore l’ingresso nell’IPM. Inoltre, la legge consente, a chi ha commesso il reato da minore, di scontare la pena in IPM fino ai 25 anni (giovani adulti). Il Tribunale per i minorenni è oggi un organo di 4 magistrati: 2 togati e 2 esperti di pedagogia e psicologia, che consentano una più complessiva valutazione della personalità dell’imputato. Pochi i minori reclusi in Italia. Il 15 novembre 2011, la Commissione Europea diffonde un programma per i diritti dei minori, su 3 principi fondamentali: costruire una giustizia minorile; garantire la protezione dei minori vulnerabili; tutelare i diritti dei fanciulli nel lavoro e la loro protezione nei conflitti armati. Sulle pena detentiva, la Commissione dice che questa deve rappresentare l’extrema ratio per i minori. L’esecuzione penale esterna si realizza negli istituti dell’affidamento in prova, detenzione domiciliare, libertà controllata, libertà vigilata, liberazione condizionale e messa alla prova. I dati del Ministero della Giustizia, Dipartimento Minorile e di Comunità, dicono che, al 15 ottobre 2017, nei 17 IPM ci sono 453 detenuti, di cui 65 ragazze presenti negli Istituti di Pontremoli, Roma e Nisida (misti, gli ultimi due). I minori reclusi sono 178 e i giovani adulti 275. Gli italiani sono 243, mentre 210 sono stranieri, di cui soprattutto africani (da Marocco e Tunisia) e, dall’ Europa, sono entrati in IPM nel 2017 per lo più giovani rumeni. Includere il minore recluso nella società. “Gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale del 2015 - spiega Gemma Tuccillo, Capo del Dipartimento per la Giustizia minorile e di Comunità del Ministero di Giustizia - hanno rappresentato un movimento culturale di confronto sul tema della pena, che è argomento doloroso, non popolare e, pertanto, questo sforzo di complessivo coinvolgimento della società è stato vissuto, da ciascuno dei 18 tavoli istituiti su tutti i possibili temi dell’esecuzione penale, come un’opportunità di riflessione e stimolo anche in vista di riforme normative. L’esecuzione penale esterna, per esempio, è stata messa al centro dell’attenzione per garantire la salvaguardia della dignità del condannato: un processo di inclusione e di sicurezza per la collettività, a fronte dei concreti rischi di uno sterile isolamento prolungato. Anche il tema dei minori è stato approfondito. Molte resistenze sono state vinte e i giovani si relazionano col mondo esterno in modo sempre più attivo”. Istruzione e cultura in carcere. “Le attività ricreativo-culturali hanno uguale valore di quelle formative di base - continua la Tuccillo - Penso, per esempio, alle iniziative dell’Unione Vela Solidale (unionevelasolidale.org) per i detenuti di Bari e Nisida. Lo sport favorisce il rispetto delle regole in modo diretto e immediato, tant’è che nessuna criticità si è mai registrata nelle manifestazioni fuori istituto. Penso, ancora, a un’iniziativa calcistica in cui una squadra di magistrati e avvocati sfidava quella di minori detenuti di Nisida e Airola (“Dare un calcio al passato” si è tenuto tra il 18 e il 24 Ottobre scorso nell’IPM di Nisida). Concretamente, poi, ciascun Istituto ha in sé pregi e difficoltà e nessuno è sottovalutato. A Firenze, sono in corso lavori di ristrutturazione; a Milano è stata riaperto il primo padiglione ristrutturato. Lavoro professionale degli operatori, adeguate condizioni di vita detentiva, svolgimento di programmi di trattamento individuali, momenti ricreativo-culturali sono tra gli obiettivi principali del Dipartimento: la detenzione per i minori deve essere davvero l’estrema ratio, con la seria presa in carico dei servizi esterni per il reinserimento sociale”. Cosa fanno i giovani detenuti. Dal punto di vista pratico, il Dipartimento di Giustizia Minorile e di Comunità scrive: “Tenuto conto che l’istruzione costituisce il presupposto per la crescita culturale e civile del detenuto e la base per la sua formazione professionale e culturale, negli IPM sono attivi corsi di alfabetizzazione per stranieri, scuola primaria, scuola secondaria di I e II grado. I corsi di formazione professionale variano da istituto a istituto e, in generale, le attività maggiormente svolte sono corsi di cucina, giardinaggio, lavanderia e cioccolateria. Per i giovani adulti esistono percorsi professionali per l’inserimento lavorativo e c’è l’opportunità di svolgere attività lavorativa extra muraria”. La formazione culturale per i minori detenuti. Le attività culturali negli IPM sono prevalentemente di laboratorio: teatro, musica, lettura, scrittura. “Dare a questi ragazzi un interesse sul quale concentrarsi - commenta Gemma Tuccillo - è decisivo. La conoscenza attiva dell’arte coinvolge molto i giovani detenuti e chi amministra lo sa. Tra il 15 e il 17 novembre, per esempio, il teatro Palladium ha ospitato la IV edizione della Rassegna di Teatro in Carcere “Destini incrociati” e un convegno per fare un bilancio sull’attività teatrale tra i detenuti. Tre giornate in collaborazione con Università Roma Tre, Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere (teatroincarcere.it), Mibact e Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. In questo contesto, il 17 novembre, il Dipartimento per la Giustizia minorile e di Comunità ha firmato un’ appendice al protocollo d’Intesa, già stipulato con il Dipartimento della Amministrazione penitenziaria, con Università Roma Tre e Teatro in Carcere, per estendere l’iniziativa al settore minorile “. Il Palcoscenico della Legalità. Tra le numerose attività regionali e nazionali svolte da Fondazioni e Associazioni esterne al carcere per i ragazzi detenuti, spicca quello della Fondazione Onlus CO2 (theco2.org), creata da Giulia Agostini e Giulia Minoli. Nel 2015 è partito il progetto Palcoscenico della Legalità in Campania e Sicilia, dove sono nati i laboratori nelle scuole, per usare il teatro e i suoi mestieri come strumento di educazione alla legalità. Parallelamente, è nata la parte di progetto negli IPM di Airola (BN) e Malaspina (PA), dove il linguaggio e le tecniche teatrali formano i detenuti al lavoro di squadra e per ragionare sulla responsabilità individuale e collettiva riguardo logiche e culture mafiose. L’obiettivo del progetto è sviluppare le capacità relazionali e personali dei giovani detenuti attraverso la scrittura creativa, ma anche fare laboratori pratici sulle maestranze teatrali, come possibilità di mestiere. Un ex detenuto è oggi un macchinista teatrale. “La parte del progetto Palcoscenico della Legalità che si svolge negli IPM è per noi di particolare importanza - spiega Giulia Agostini, Presidente della Fondazione CO2 - Le carceri minorili non possono essere solo luoghi di detenzione. Quello che cerchiamo di far vedere a questi ragazzi è che esiste una alternativa alla criminalità, tentiamo di farli riflettere sulla loro vita attraverso la scrittura creativa e cerchiamo di insegnare mestieri pratici. A oggi, grazie al progetto, un giovane ex detenuto ha trovato lavoro come macchinista in un importante teatro campano: questo è il risultato più grande raggiunto dal progetto Palcoscenico della Legalità”. Per lo sviluppo della personalità umana del minore. “Considerata la chiara preferenza che l’ordinamento attribuisce alla mediazione penale e alle alternative al carcere - spiega Stefano Anastasia, Garante delle persone private della libertà - negli IPM ci stanno ragazzi che hanno fatto reati più grandi di loro o che provengono da situazioni sociali fortemente svantaggiate. La detenzione deve garantire loro percorsi di istruzione, stimolarli nella costruzione di sé attraverso iniziative che ne esaltino curiosità, intelligenza e creatività e offrirgli opportunità di reinserimento anche quando e dove non abbiano una rete esterna, familiare e sociale, che, da sola, possa garantirle. Qui, più che altrove, si può misurare l’impegno costituzionale a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della personalità umana”. In carcere la parola costruisce libertà: i corsi di filosofia a Lecce e di scrittura ad Acireale di Francesca Rita Privitera sicilianpost.it, 22 novembre 2017 “Ogni individuo ha diritto all’istruzione e a partecipare alla vita culturale della comunità”: così recita l’Art. 27 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. In che modo si applica questo diritto nelle prigioni? In che senso l’esercizio del pensiero permette al futuro di emanciparsi dal passato? Nella sezione femminile del carcere di Lecce quest’anno si è tenuto un laboratorio filosofico: le detenute hanno discusso di amore, amicizia, tempo e libertà a partire dalla lettura di Platone, sant’Agostino e Aristotele. “Sono libera dentro” può affermare ognuna di loro da quel confronto, come recita il titolo del libro fresco di stampa frutto di questo percorso. È lo stesso spirito-guida dei laboratori di scrittura attivi in varie carceri italiane, come l’Istituto Penale per minorenni di Acireale: qui abbiamo incontrato Girolamo Monaco e Rita Scandura, due degli educatori che operano nella struttura, supportati da volontari come la psicologa Cristina Mandula. Libertà e rieducazione - Gli Istituti Penali per minori (Ipm) in Italia sono 16, per un totale di 449 detenuti; nei quattro istituti siciliani sono 124 i reclusi, fra cui 19 ad Acireale (dati Antigone 2015). La notizia che l’Ateneo di Perugia offre iscrizione gratuita ai carcerati umbri accende i riflettori sul ruolo dell’educazione, o meglio della rieducazione, quale trait d’union fra sicurezza e libertà. Nel Belpaese 175 dei detenuti degli Ipm frequentano la scuola fra medie e superiori, mentre tre studiano all’università, uno dei quali Scienze infermieristiche a Catania. Gli educatori dell’Ipm di Acireale spiegano la sensibilità di tutto lo staff in materia di formazione. Dai corsi di lingua italiana per ragazzi stranieri ai corsi professionali per aiuto ebanista, ornatista e per il settore edile; dalle attività sportive e religiose ai laboratori teatrali e di scrittura oltre ad iniziative promosse negli ultimi anni da enti del territorio. Diverse sono infatti le attività curate dagli scout, associazioni, club e Licei della città che hanno promosso laboratori artistici, naturalistici e ambientali, escursioni, progetti sulle pari opportunità; a maggio Eralavò - festival delle storie, ha curato per il secondo anno di fila, un breve percorso di scrittura che ha visto coprotagonisti i ragazzi dell’Istituto e i presenti al festival a Piazza S. Maria del Suffragio; a ottobre il Sabir Fest ha incluso nel palinsesto della prima giornata un incontro con i detenuti sul tema “Per una cittadinanza mediterranea: i diritti al primo posto”. “Così vicino alla felicita”: racconti dal carcere - Per gli educatori dell’Ipm di Acireale “la ricostruzione del sé passa attraverso il racconto autobiografico”. I laboratori narrativi sono condotti senza alcun obbligo e con la consapevolezza che dall’apertura all’altro, che sia esso il foglio o il compagno, è possibile un cambiamento. La scrittura è spesso il primo vero specchio attraverso cui i detenuti si guardano. Scrivere per evadere, scrivere per rinascere. Lo sa bene Antonio del carcere acese, che con il suo racconto “Il biglietto di Rosa Parks”, introdotto da Erri De Luca e scritto in seno al laboratorio di scrittura, è il vincitore della sezione “minori e giovani adulti” per la VI edizione del Premio letterario Goliarda Sapienza. “Così vicino alla felicità. Racconti dal carcere” (Rai Eri, 2016), curato dall’ideatrice del premio, Antonella Bolelli Ferrera, e con la prefazione di Dario Edoardo Viganò (prefetto della Segreteria per la comunicazione della Santa Sede), è il libro che contiene, oltre al racconto di Antonio, quelli di altri reclusi. Mogol, introducendone uno, ne sottolinea il valore terapeutico. Storie di un’infanzia negata: “Mi sento petaloso, ma cresciuto in un prato sbagliato” scrive il giovane “Valia”. Bambini che non hanno avuto il padre con cui dividere il peso dello zaino verso scuola, ma madri pie ad accompagnarli ai colloqui in carcere. In questi racconti danno vita a sentimenti sopiti a partire dalla domanda sul perdono. “Alle volte chiedere scusa è difficile. Alle volte chiedere aiuto è impossibile” (“Cemento urlante”). L’illegalità rinchiusa è la punta di un iceberg. L’immaginazione riesce a restituire la libertà ma in quelle righe non trovano spazio mondi fatati. Questi racconti sono favole all’incontrario in cui al posto della fata turchina c’è l’orco violento, come nei brani “L’orto delle fate” e “Deja vu”, mentre i supereroi sono i parenti che vendicano l’ultimo morto, come in “U sangu faci u murmuru”. Sono storie fin troppo umane, dalla prosa curata: gli aggettivi sono scelti con cura e gli oggetti sono accompagnati da descrizioni introspettive. Dal travaglio laboratoriale vengono alla luce 7 lettere, perdono: “Il verbo amare non si sposa con dare ma con perdonare” (“La vita fuori dal tango”). Scrive “Antonio”: “Il dolore finisce con il perdono”; per lui l’ora d’aria è un foglio bianco perché “le righe vanno più lontano dei passi in un cortile”, commenta Erri De Luca. Tutte quelle storie anche se non tessono tappeti volanti e non animano bacchette magiche, sono favole 2.0 con una morale e un lieto fine: la speranza. Libertà di informazione, giornalisti in piazza contro il carcere per la stampa Il Fatto Quotidiano, 22 novembre 2017 I consigli nazionali di Federazione nazionale della Stampa e Ordine dei giornalisti si riuniscono in piazza Montecitorio. Il tema della giornata è “Libertà precaria, lavoro precario, vite precarie”. La legislatura, ricordano, si era aperta con l’impegno a depenalizzare il reato di diffamazione. Invece ora con il decreto intercettazioni chi pubblica notizie rilevanti ma coperte da segreto rischia 3 anni di prigione. “Libertà precaria, lavoro precario, vite precarie”. È la fotografia del giornalismo italiano secondo il sindacato di categoria - la Federazione nazionale della Stampa - e l’Ordine dei giornalisti. Per questo mercoledì 22 novembre dalle 11 i consigli nazionali si riuniscono per la prima volta in piazza Montecitorio, a Roma. È la prima di una serie di iniziative di mobilitazione e di protesta che gli organismi di rappresentanza della categoria promuoveranno “per denunciare l’inerzia di governo e Parlamento sui problemi del mondo dell’informazione e per richiamare l’attenzione delle istituzioni e dell’opinione pubblica sulla necessità di salvaguardare il diritto dei cittadini ad essere correttamente informati”, spiega la Fnsi in una nota. Il tema della giornata, “Libertà precaria, lavoro precario, vite precarie”, appunto, “riassume la condizione dei giornalisti italiani ed evidenza le responsabilità di governo e parlamento. Una legislatura che si era aperta con l’impegno di depenalizzare il reato di diffamazione, cancellando il carcere per i giornalisti, si avvia alla chiusura senza alcun passo in questa direzione”. Al contrario, “con il decreto sulle intercettazioni, approvato dal governo e inviato alle Camere per i pareri di competenza, si prova a introdurre una forma di bavaglio in barba a tutte disposizioni della Corte europea dei diritti dell’Uomo, che ha più volte riconosciuto il diritto dei giornalisti a pubblicare notizie di interesse generale e di rilevanza sociale, anche se coperte da segreto. Così com’è, il testo rischia di esporre i giornalisti che dovessero pubblicare notizie irrilevanti penalmente, ma rilevanti sotto il profilo dell’interesse dell’opinione pubblica a conoscere determinati fatti, alla pena detentiva fino a tre anni, prevista dal codice penale per tutti coloro che pubblicano notizie coperte da segreto”. “Nessun provvedimento è stato invece adottato - sottolinea ancora il sindacato - per cancellare il carcere per i giornalisti, contrastare le minacce nei confronti dei cronisti e per introdurre nel nostro ordinamento misure per debellare il fenomeno delle cosiddette ‘querele bavaglio’, strumento sempre più utilizzato per intimidire i cronisti e impedire loro di occuparsi di temi giudicati scomodi. A fronte di questo immobilismo, suonano come messaggi di facciata le attestazioni di solidarietà ai colleghi aggrediti o minacciati dalla criminalità, giunte da esponenti del governo e del Parlamento. Ancor più inaccettabile è il comportamento di quanti, nel mondo politico, fingono indignazione per le condizioni di precarietà lavorativa e assenza di diritti in cui sono costretti a lavorare alcuni cronisti sotto tiro”. “Questa situazione, che indebolisce la libertà di stampa e il diritto dei cittadini ad essere informati, è aggravata dalla precarietà - affermano ancora Federazione della stampa e Ordine dei giornalisti - che pervade il mercato del lavoro. Nel mercato del lavoro giornalistico sono aumentate le diseguaglianze. Il lavoro regolare cede il passo al lavoro precario, i redditi scendono in picchiata fino a raggiungere livelli di indigenza, grazie a leggi che consentono alle aziende editoriali di utilizzare contratti di lavoro atipico. La recente legge di riforma dell’editoria è stata un’occasione perduta. Non è in discussione la concessione di aiuti diretti e indiretti alle aziende del settore, ma l’assenza di una sia pur minima misura che possa in qualche modo contrastare l’abuso di lavoro irregolare. Agli editori non è stato richiesto alcun impegno sul fronte dell’occupazione e del contrasto al precariato, a fronte di decine di milioni di euro elargiti non per creare posti di lavoro, ma per ristrutturare le aziende attraverso il ricorso, ormai sistematico, ai pensionamenti anticipati. L’assenza di interventi di riequilibrio da parte del governo mette in pericolo la tenuta dell’Istituto previdenziale dei giornalisti italiani e spalanca ancora di più le porte al lavoro senza diritti, senza tutele e senza garanzie. È singolare che il governo che ha abolito i voucher nel sistema generale non prenda neanche in considerazione i danni che l’abuso dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa sta provocando al mercato del lavoro giornalistico e agli istituti della categoria”. “Così non si indebolisce soltanto l’informazione di qualità, ma si mette a rischio la tenuta democratica del Paese. L’informazione di qualità richiede giornalisti ai quali vengano riconosciuti diritti e retribuzioni adeguate. I giornalisti lo diranno in piazza e invitano tutti, associazioni e cittadini comuni che hanno partecipato al presidio di Ostia, ad unirsi a loro. L’auspicio è che, negli ultimi mesi della legislatura, il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, da sempre sensibile ai temi dell’informazione - concludono - trovi il tempo e il modo per dare segnali concreti di inversione di rotta”. Libera stampa addio: sequestri e fonti a rischio di Giorgio Meletti Il Fatto Quotidiano, 22 novembre 2017 Redazioni e case private perquisite, l’ultimo caso è Nicola Borzi del Sole 24 Ore, autore di un’inchiesta sui soldi dei Servizi segreti. Una serie di decisioni illegittime di diverse procure della Repubblica stanno di fatto abrogando il segreto professionale dei giornalisti. Basta il semplice sospetto di una minima violazione di segreto d’ufficio e scatta la perquisizione per scoprire le fonti del giornalista. È una pratica più volte censurata dalla Cassazione e ancor più energicamente condannata da norme e sentenze europee. Eppure accade sempre più spesso. Il fenomeno si traduce, al di là della buona fede dei singoli magistrati, in una pressione per tutti i giornalisti. Il messaggio è chiaro: se scrivi una parola di troppo puoi trovarti gente in divisa che fruga tra i giocattoli dei tuoi bambini o che si prende il tuo telefonino e cartografa comodamente tutte le tue relazioni e tutte le tue fonti. Anche chi si affida al segreto professionale del giornalista, imposto dalla legge e tutelato anche dal codice di procedura penale, è avvertito: se vai a raccontare qualcosa anche senza commettere niente di illecito, sappi che prima o poi potrebbe esserci un carabiniere, un poliziotto o un magistrato che potrà ricostruire tutti i tuoi contatti con il giornalista. L’ultimo caso risale alla sera di venerdì 17 novembre. Gli uomini della Guardia di Finanza, su ordine del procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone, si sono presentati nella redazione del Sole 24 Ore a Milano, con un decreto di acquisizione di documenti per il giornalista Nicola Borzi. Quella mattina il giornale aveva pubblicato il secondo di due articoli di Borzi sui movimenti dei conti correnti dei Servizi segreti presso la Banca Popolare di Vicenza. Secondo Pignatone chi ha fornito i documenti al giornalista (che non è indagato ma solo testimone) ha violato il segreto di Stato, un grave reato che può costare fino a dieci anni di carcere. Borzi ha consegnato i documenti richiesti in una chiavetta, ma i finanzieri per maggior sicurezza hanno smontato il disco rigido del suo computer sequestrandogli tutto il suo archivio, le sue email, insomma tutti gli strumenti di lavoro. La stessa sera del 17 novembre, a Roma, trattamento simile ha ricevuto Francesco Bonazzi, giornalista de La Verità, che aveva scritto sullo stesso argomento il giorno prima di Borzi. Bonazzi però se l’è cavata consegnando una chiavetta con i documenti richiesti e sottoponendosi a un lungo interrogatorio da testimone non indagato. Per entrambi i giornalisti il solito trattamento, la richiesta in nome della legge di violare la legge che vieta di rivelare le fonti. Colpisce il silenzio che ha circondato anche l’ultimo di una lunga serie di episodi. Neppure il direttore del Sole 24 Ore Guido Gentili ha fatto alcun commento. Borzi è una delle principali fonti d’accusa nell’inchiesta sul falso in bilancio del Sole 24 Ore, per la quale ha presentato numerosi esposti. Eppure l’Ordine nazionale dei giornalisti non ha speso una parola, limitandosi a riprendere sul suo sito la protesta dell’Ordine della Lombardia, come se fosse una vicenda di interesse regionale. Salvo poi indicare come focus di principale interesse nazionale la libertà di stampa a Ostia. Il racconto confezionato da giornali e telegiornali considera il lavoro giornalistico messo a repentaglio più che altro dalla testata al giornalista precario della Rai Daniele Piervincenzi, dalle minacce mafiose a Paolo Borrometi dell’Agenzia Italia o dal disprezzo di Beppe Grillo per i “giornalisti da 10 euro al pezzo”. Fatti gravissimi. Tuttavia essi non sono causa ma effetto di un fatto molto più grave: se la libertà di stampa è messa in discussione dalla magistratura a chi potremo rivolgerci per difenderla? Purtroppo una politica capace di evocare a vanvera la “emergenza democratica” si gira dall’altra parte. Purtroppo molti credono che la libertà di stampa, il cui principale baluardo è la segretezza delle fonti, sia un privilegio dei giornalisti e non una garanzia per tutti. Il caso Paolucci - Il procuratore Spataro ha scritto a “La Stampa” una lettera di scuse Colpito pure il Fatto Visite per Marco Lillo e Vincenzo Iurillo per le intercettazioni Consip e Adinolfi-Renzi. Peggio ancora, molti giornalisti, quando viene perquisita una redazione concorrente, pensano che la cosa non li riguardi. E ci sono quelli che non reagiscono neppure quando viene perquisita la scrivania accanto alla loro. Così, quando il 30 giugno scorso la Procura di Napoli ha ordinato illegittimamente la perquisizione a tappeto di tutta la famiglia del vicedirettore del Fatto Marco Lillo, molti, soprattutto i garantisti a 24 carati, hanno pensato che gli stava bene. Blande reazioni anche il 21 luglio, quando la Guardia di Finanza si è presentata a casa di Gianluca Paolucci de La Stampa. Il suo racconto: “Restano in casa per due ore frugando dappertutto, tra i giocattoli dei bambini, nella culla, negli effetti personali della mia compagna (…) Sequestrano cd, chiavette Usb, vecchi telefonini in disuso”. Due settimane dopo, il procuratore capo di Torino Armando Spataro scrive una lettera di scuse a La Stampa: la denuncia dell’Unipol da cui era scaturito il blitz era sbagliata, le intercettazioni erano state rese pubbliche non da un reato del giornalista ma dall’errore di un magistrato. Anche le intercettazioni tra Matteo Renzi e il generale della Gdf Michele Adinolfi, due anni fa, costarono a Vincenzo Iurillo del Fatto l’acquisizione da parte degli inquirenti di tutto il contenuto del suo computer, salvo poi scoprire che l’unico atto illegittimo era stato l’attacco alla memoria informatica del giornalista. “Intercettazioni, indagini danneggiate”. L’allarme dei procuratori sulla riforma di Liana Milella La Repubblica, 22 novembre 2017 Nota di critica inviata al Parlamento e firmata da sei capi tra cui Greco (Milano) e Pignatone (Roma). “Diritto di difesa a rischio”. “Procedure dannosissime per le indagini”. “Creazione, questa sì veramente pericolosa, di brogliacci informali della polizia giudiziaria”. “Procedura macchinosa e irrealistica”. Sono queste le considerazioni negative sulla riforma delle intercettazioni che sei procuratori della Repubblica - Giuseppe Creazzo di Firenze, Francesco Greco di Milano, Giovanni Melillo di Napoli, Francesco Lo Voi di Palermo, Giuseppe Pignatone di Roma, Armando Spataro di Torino - hanno inviato alle due commissioni Giustizia di Camera e Senato che stanno esaminando il decreto legislativo del Guardasigilli Andrea Orlando. Nella nota, che Repubblica ha scoperto, e mandata anche a lui, si parla di “collaborazione istituzionale”, ma le soluzioni di fatto smontano alcuni punti chiave della riforma. Come il sistema per bloccare le intercettazioni irrilevanti, o il divieto di concedere agli avvocati una copia cartacea delle conversazioni, o ancora l’archivio riservato. Giunta al Senato, la nota ha prodotto due effetti opposti. L’indignazione del forzista Nitto Palma che parla di “invasione di campo” e quella di Felice Casson di Mdp che considera le osservazioni “pienamente condivisibili perché il decreto crea problemi enormi e non affronta le questioni della libertà di stampa”, temi su cui oggi scendono in piazza Montecitorio i giornalisti della Fnsi. Ma vediamo i punti critici. Innanzitutto il meccanismo per buttare via le intercettazioni irrilevanti che “crea notevoli problemi” perché “sembra poggiare su due presupposti irrealistici: che tutte le intercettazioni siano ascoltate e pienamente comprese e valutate in tempo reale e che la rilevanza di una conversazione sia sempre chiara in prima battuta”. Ma i sei dicono che “la realtà s ben diversa”. “Se la polizia giudiziaria non potesse avere a disposizione il compendio intercettato nelle settimane e nei mesi precedenti la possibilità di effettuare indagini sarebbe compromessa e non lieve sarebbe il pregiudizio per la difesa”. Al massimo la polizia potrà buttare via solo le intercettazioni che appaiono subito irrilevanti. Ma i procuratori contestano soprattutto che la polizia faccia dei “brogliacci informali”. La pecca del decreto s proprio questa: esso “sottrae al pm la valutazione ponderata della rilevanza e al cittadino le correlate garanzie, perché affida la selezione delle telefonate rilevanti alla polizia giudiziaria, che dovrebbe effettuarla nell’immediatezza e senza che il pm possa esercitare un controllo”. Per concludere. Via solo le intercettazioni “manifestamente” irrilevanti. Poi, ripristino delle copie cartacee per la difesa. E utilizzo delle intercettazioni raccolte dai Trojan horse, i captatori informatici, anche per i reati che si scoprono via via grazie al loro uso. A questo punto che faranno le due commissioni Giustizia e soprattutto che farà il governo quando a parlare sono i principali procuratori italiani? Condannato per mafia, gli tolgono la pensione, fa ricorso e vince di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 novembre 2017 La revoca della pensione per i condannati ostativi viola i principi fondamentali della Costituzione. Ripristinato, quindi, il diritto pensionistico in favore di un soggetto condannato per reati ostativi a seguito della revoca della prestazione in base alla legge Fornero. Parliamo di una sentenza emessa dal giudice del lavoro di Teramo Daniela Matalucci per un ricorso presentato dall’avvocato aquilano Fabio Cassisa, che aveva chiesto l’annullamento del provvedimento di revoca della pensione di invalidità civile disposta dall’Istituto previdenziale nei confronti di un suo assistito, L. S., soggetto condannato per gravi reati ostativi (tra cui l’associazione di tipo mafioso), attualmente sottoposto a sospensione della pena per gravi motivi di salute. A renderlo noto è l’avvocato stesso. “La revoca della pensione - spiega Cassisa in una nota - era stata disposta in base all’art. 2, commi 58/ 63 L. n. 92/ 2012 (meglio nota come legge Fornero), la quale prevede detta sanzione a carico di soggetti condannati per alcuni dei reati cosiddetti ostativi (quelli più gravi, ritenuti di maggior allarme sociale, quale l’associazione mafiosa) fino al termine del periodo di esecuzione della pena inflitta”. La questione era stata già sollevata sulle pagine de Il Dubbio. Negli ultimi anni si è parlato molto di riforma Fornero emanata durante il governo Monti nel 2011 con il decreto “salva Italia” e finalizzata a diminuire la spesa pubblica in materia di pensioni per evitare il default finanziario dell’Italia chiesto dall’Europa. La riforma, in un crescendo dilatato nell’arco di tempo 2011/ 2018, va a toccare la maggior parte delle categorie beneficiarie delle diverse tipologie di ammortizzatori sociali. Ai disoccupati, pensionati e invalidi civili: ai sensi dell’art. 2 commi 58, 59, 60, 61, 62 e 63 della riforma, dallo scorso mese di maggio, si sono aggiunti anche i detenuti o comunque condannati ai sensi degli articoli 270- bis, 280, 289- bis, 416- bis, 416-ter e 422 del codice penale. Infatti, da qualche mese, decine di detenuti, tra cui tanti invalidi civili, non si erano ritrovati semplicemente delle decurtazioni ma, bensì, la totale revoca del trattamento previdenziale precedentemente riconosciuto e percepito nonostante la legge all’art. 2 comma 61 esplicita la irretroattività dell’applicazione. Inoltre, sempre l’art. 2 al comma 58 prevede che, in fase processuale per i reati ai sensi degli articoli sopra richiamati, “il giudice disponga ulteriori accertamenti per verificare che le forme di assistenza previdenziale percepite e/ o riconosciute abbiano origine, in tutto o in parte, da lavoro fittizio o a copertura di attività illecite”. Con questa sentenza, il giudice del lavoro di Teramo ha annullato il provvedimento di revoca emesso dall’Inps, con conseguente ordine di ripristino della prestazione assistenziale a favore del ricorrente, condannando l’ente previdenziale al versamento degli arretrati dovuti dalla revoca in poi. “Si tratta del primo provvedimento giudiziario in Italia che dispone in tal senso - continua l’avvocato nella nota -, l’Inps, in base alla suddetta normativa e su disposizione del ministero della Giustizia, ha cominciato a revocare le prestazioni assistenziali solo a partire dal mese di maggio del 2017, nonostante la norma sia in vigore dal 2012”. Il ricorso era fondato su due distinti motivi, entrambi di rilievo costituzionale. Con il primo motivo l’avvocato del ricorrente ha dedotto come la normativa in questione non possa ritenersi applicabile nei confronti di soggetti non detenuti (perché in sospensione della pena per motivi di salute - come il proprio assistito -, o anche perché sottoposti a misure alternative alla detenzione, quali la detenzione domiciliare o l’affidamento in prova ai servizi sociali), ancorché condannati in via definitiva per i gravi reati previsti dalla normativa in questione. Ciò violerebbe l’art. 38 della Costituzione, che prevede come principio assoluto che ogni cittadino inabile al lavoro e provvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. Con il secondo motivo, l’avvocato Cassise, ritenendo che la misura della revoca delle prestazioni assistenziali costituisca una sanziona amministrativa accessoria alla condanna penale e che, dunque, detta sanzione abbia natura penale, ha eccepito come la stessa non possa trovare applicazione retroattiva, in quanto diversamente detta normativa finirebbe col violare l’art. 25 della Costituzione, il quale dispone l’irretroattività della legge in ambito penale e, dunque, anche delle sanzioni accessorie a condanna penale. Ora questa sentenza crea un precedente e ci si aspetta una valanga di ricorsi. Il super-pentito di ‘ndrangheta torna a rapinare e finisce in carcere sotto falso nome di Piero Colaprico La Repubblica, 22 novembre 2017 I clan della ‘ndrangheta, specie quelli di Platì, lo cercano da anni. Per ammazzarlo. Ma il loro nemico si trova in carcere e cammina nel terrore. Gioca a nascondino con la morte. Chi non lo conosce, non sa chi sia. La sua faccia è cambiata. L’unico velo, tra lui e un’esecuzione sommaria, sempre dietro l’angolo, è una circostanza che appare incredibile: Saverio Morabito, 66 anni, il gangster che ha satto arrestare duecento persone, capimafia compresi, che ha ucciso, sequestrato, trafficato droga per milioni di euro, è detenuto sotto falso nome. Soltanto in Italia l’arte d’arrangiarsi riesce a declinarsi in questo modo. Morabito non è un nome qualsiasi, è il principale collaboratore di giustizia contro la ‘ndrangheta del Nord. Una volta che scelse di tradire il clan, ed era nella stessa stagione di Tangentopoli, rivelò dettagli sconosciuti della stagione dell’Anonima rapimenti. Spiegò cause, mandanti ed esecutori di numerosi omicidi insoluti. Mappò gli itinerari dei Tir di eroina turca e delle navi cariche di cocaina. Dopo aver fatto terra bruciata intorno alle cosche, s’era eclissato dalle strade di Milano, di Baggio, di Corsico e Buccinasco. Si diceva anche dall’Italia. Invece l’hanno beccato in piena pianura padana. Per una serie di rapine. E non a banche o a furgoni blindati. Ha colpito in faccia una donna all’uscita del supermercato, per rubarle la borsetta. Manco c’è riuscito, le ha rotto un paio di denti. Mostrando la pistola a un’altra anziana, nel parcheggio sotterraneo di un altro supermercato, le ha preso tutto quello che aveva: meno di 50 euro. A un’altra pensionata, che arrancava in una strada isolata, trascinando un trolley con le verdure, ha dato una bastonata in testa, per rubarle 70 euro. Il suo bottino più cospicuo? Quando è ha forzato i cassetti di un ufficio pubblico, trovando circa tremila euro. Insufficienti a pagare i numerosi debiti che aveva accumulato. La targa dell’auto rubata sulla quale girava, dopo una delle sue rapine alle donne indifese era rimasta scolpita nella memoria elettronica della telecamera di un passaggio a livello. I poliziotti hanno cercato e trovato quell’auto, in una periferia cittadina. Si sono appostati. Finché, una mattina, vedono arrivare un uomo robusto, con i capelli corti e gli occhiali da sole gialli. Il quale - il sesto senso di Saverio Morabito è sempre stato formidabile - rallenta un secondo e prosegue. Anche gli agenti, però, non difettano di fiuto. Lo fermano e lo perquisiscono. In tasca gli trovano le chiavi d’accensione. E i “suoi” documenti. Morabito, che non è mai entrato nel programma di protezione, s’era costruito da solo una seconda vita, senza prendere dallo Stato né un euro, né un appoggio. Era stato un “manager calibro 9”, ma il mondo degli affari reali e del commercio, specie per una persona che non ha studiato, non è così semplice. L’uomo che è stato appena ammanettato, scoprono i detective, adesso mangia alla mensa della Caritas e dorme in un giaciglio, ricavato in un box. Era un lupo, un tempo. E adesso? Quando gli prendono le impronte digitali, le bugie inevitabilmente si sgretolano: “Ma allora chi sei?”, gli domandano. Allarmati e soddisfatti, i poliziotti, che già si pensavano impegnati in una bella conferenza stampa, e i magistrati, che si mettono la classica mano sulla coscienza, decidono però insieme che è meglio fingere di non aver catturato l’ex bandito-killer. Anche nei nuovi atti processuali usano l’Alias di Morabito, il suo nome fasullo. È un incensurato - e lui lo è davvero, la sua vecchia pena è stata scontata - quel signore angosciato e silenzioso che patteggia la pena: “Mi vergogno di quello che ho combinato”, sussurra al giudice, che gli appioppa poco meno di quattro anni di carcere. Da scontare. Le rapine risalgono alla sine del 2016, il processo è stato celebrato a primavera, sono otto mesi che Morabito sopravvive studiando ansioso ogni “nuovo giunto”, come si chiamano i detenuti in ingresso. A quanto si dice, dalle finestre del suo carcere vede la zona dei colli dell’Infinito, cari a Giacomo Leopardi. Con qualcuno del suo raggio, senza rivelare niente, scherza amaro: “Sono peggio del ragionier Fantozzi”. Il suo avvocato, Gianluca Maris, interpellato da Repubblica, non ammette e non smentisce: “Di Morabito resta l’importante contributo investigativo, è il più decisivo pentito di ‘ndrangheta al Nord. Per moltissimi anni, e ne sono sicuro, ha cambiato vita, ha avuto un’attività commerciale, e rigato dritto. Sul resto? Non so di che parla”, spiega, prima di rendersi irrintracciabile. Sia consentito al cronista esprimere una sofferenza personale: anche per le risate che, senza dubbio, si saranno i Papalia, i Barbaro, i Sergi, leggendo l’articolo sul destino che s’è abbattuto sull’uomo delle loro missioni delicate, su un duro che mai avrebbe mai picchiato una vecchietta per una miserabile borsa. Il fatto è che “Morsa”, quel genio criminale e milionario, che insegnava ai giovani della cosca a uccidere senza alcun senso di pietà, oggi non esiste più: se non nell’odio immortale di quelli che aveva contribuito a mandare in galera. Giusto processo nel rito fiscale. Applicabili i principi della Corte dei diritti dell’uomo di Andrea Bongi e Mario Cicala Italia Oggi, 22 novembre 2017 I principi del giusto processo provano a farsi spazio anche nel rito tributario. Il processo tributario, al pari di quello civile e penale, deve infatti svolgersi di fronte a un giudice terzo e imparziale, in condizioni di sostanziale parità fra le parti e assicurare una ragionevole durata. Tutto ciò alla luce di una recentissima ordinanza della Corte di cassazione (n.22627 del 27 settembre 2017 Pres. Iacobellis Rel. Conti) nella quale si stabilisce che anche al processo tributario si rendono applicabili i principi sanciti nell’articolo 6 della Carta europea dei diritti dell’uomo. Si tratta di una decisione innovativa che si pone in netto contrasto con un indirizzo giurisprudenziale della medesima corte che sembrava ormai consolidato e pacifico. Preso atto del contenuto dell’ordinanza in commento si tratta ora di capire se siamo di fronte a un vero e proprio cambio di passo da parte dei giudici di legittimità sul delicatissimo tema o se, come si suole dire, è soltanto una rondine che non fa primavera. Nell’ordinanza in commento si legge infatti che deve ritenersi certamente condivisibile l’argomentazione difensiva, nella parte in cui prospetta la necessità che il processo tributario sia coerente con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo - avendo il legislatore costituzionale e ordinario esteso le regole in tema di giusto processo di matrice convenzionale a qualunque controversia giudiziaria. La vicenda relativa all’applicazione dei principi del giusto processo anche alla giurisdizione tributaria è questione molto dibattuta e complessa. La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Sulla base delle disposizioni contenute nella legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 concernente l’inserimento dei principi del giusto processo nell’articolo 111 della Costituzione, ogni processo deve svolgersi nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge, prosegue la disposizione in commento, deve assicurare la ragionevole durata del processo. Sulla base di queste disposizioni sembrerebbe pacifico poter affermare che la nostra carta costituzionale ha esteso a tutti i processi, compreso quello tributario i principi del “giusto processo” ricavabili dalla Carta europea dei diritti dell’uomo In realtà per effetto della sentenza della Corte Ue del 12 luglio 2001 (Ferrazzini c. Italia) si è affermato che la tutela per l’eccessiva durata del processo non opera in campo tributario, perché “la materia fi scale fa parte ancora del nucleo duro delle prerogative della potestà pubblica”. E conseguentemente la giurisprudenza della Cassazione non applica ai processi tributari la legge Pinto che assicura un ristoro patrimoniale alla parte che non ottenga una tempestiva decisione sulla sua causa. Tutto ciò troverebbe la sua giustificazione nelle esigenze di natura giuspubblicistiche di rapida definizione dei rapporti fi scali e di certezza del gettito delle risorse erariali, che in quanto tali finirebbero per imporre una tutela più circoscritta del rito processuale tributario rispetto al processo civile e a quello penale. Il caso deciso con l’ordinanza n.22627 del 27 settembre scorso dimostra dunque come al di là delle argomentazioni sopra riportate in realtà la questione del giusto procedimento non possa essere semplicemente risolta in termini di primato di una Corte sull’altra o di rigida delineazione dei confini di competenza. Un esempio della crisi di questo tipo ragionamento è sotto gli occhi di tutti ed è quello creatosi in riferimento alla questione del contraddittorio preventivo che non può essere applicato solo per taluni tributi e non per altri in ragione della loro matrice comunitaria o interna. Il risultato al quale giunge la sezione tributaria della Cassazione con l’ordinanza in commento è quello di tentare un’armonizzazione del diritto e del processo tributario in nome dell’uguaglianza aprendo una profonda riflessione su come l’interpretazione possa contribuire ad aumentare la tutela dei diritti fondamentali dei cittadini nel nostro ordinamento. Reati fiscali, prevenzione da pesare di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 22 novembre 2017 Nessun automatismo nell’applicazione della misura di prevenzione della confisca nei confronti dell’evasore. La Cassazione, sentenza n. 53003 della Sesta sezione penale depositata ieri, ha puntualizzato che i reati di natura tributaria possono certamente fare “da presupposto di operatività della cosiddetta pericolosità generica, a condizione, tuttavia, che vi sia consapevolezza dei problemi che il relativo accertamento comporta”. E un elemento da tenere presente è l’adesione nei periodi di tempo considerati a meccanismi di conciliazione con l’amministrazione fiscale. È stato così annullato con rinvio il decreto della Corte d’appello di Roma con il quale era stata disposta la confisca di numerosi beni immobili e del capitale sociale di 3 società nei confronti di un notaio incensurato; decisione presa anche per effetto della rilevantissima e sistematica evasione fiscale posta in essere. La Corte d’appello aveva messo in luce come la confisca di prevenzione, per sproporzione del reddito, può essere disposta anche nei confronti dei soggetti che hanno compiuto illeciti fiscali in maniera abituale e non solo episodica, vista l’ampiezza della formulazione dell’articolo 1 del Codice antimafia (decreto legislativo n. 159 del 2011). Per la Cassazione, invece, il lavoro dei giudici di secondo grado poteva essere più accurato, visto che non è stato approfondito il legame tra delitti tributari (con una responsabilità peraltro ancora incerta a carico del notaio) e abituale dedizione, come richiede il Codice antimafia, a “traffici delittuosi”. Inoltre, premette ancora la Cassazione, non è vero che le nuove possibilità di aggressione ai patrimoni di origine illecita hanno necessariamente ristretto l’ambito di applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali. Piuttosto, la sentenza prova a dare un po’ più di concretezza a una nozione come quella di evasore fiscale seriale, rilevante per l’applicazione della misura di prevenzione. Infatti, anche restringendo il campo ai soli reati disciplinati dal decreto legislativo n. 74 del 2000, la struttura è molto variegata. E qual è un reato tributario rilevante in questa prospettiva? La Corte fa l’esempio delle frodi carosello, dove i soggetti coinvolti guadagnano non solo il mancato versamento dell’imposta ma anche maggiori ricavi per effetto delle vendite sottocosto rispetto ai concorrenti. Un caso che, se ripetuto nel tempo, può fare legittimamente pensare a un’abitualità della condotta criminale. Come pure i cosiddetti reati ostacolo, emissione di fatture per operazioni inesistenti oppure occultamento e distruzione di documenti contabili. Di natura diversa sono, a giudizio della Corte, altri reati come la dichiarazione infedele, ma non fraudolenta, o le omissioni di adempimenti o ancora la sottrazione fraudolenta di beni al pagamento di imposte “in cui la determinazione dell’imposta è già avvenuta e l’autore del reato attua le condotte nell’imminenza o a procedura di riscossione coattiva in corso o in quella di transazione fiscale”. In questa prospettiva va senz’altro tenuto presente se il sospetto evasore fiscale seriale, ha aderito a meccanismi di conciliazione con il Fisco. In questo caso, infatti, “l’eventuale recupero della imposta evasa sottrarre per definizione all’evasore la frazione illecita di redditi con cui ha arricchito il suo patrimonio”. Differenze tra bancarotta patrimoniale, documentale, per distrazione e dissimulazione Il Sole 24 Ore, 22 novembre 2017 Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale (articolo 216 legge fall.) - Gruppo di società - Accensione di un mutuo bancario - Garanzia reciproca dei debiti societari - Elemento soggettivo. Si rende colpevole del reato di bancarotta per distrazione l’amministratore della società che estingue, in danno della fallita, un mutuo acceso da un’altra società del gruppo con la banca. Nel reato di bancarotta documentale l’elemento psicologico del reato, quando all’imputato non sia imputata la mera omissione nella tenuta della contabilità, bensì l’impossibilità di ricostruire i movimenti finanziari della fallita in conseguenza della mancata o anomala contabilizzazione di determinate operazioni, si atteggia a dolo generico, dato dalla consapevolezza che tali modalità di registrazione contabile possano produrre le descritte conseguenze in tema di irricostruibilità dell’andamento gestionale. Integra la fattispecie di bancarotta patrimoniale a carico degli amministratori della società fallita il compimento di un’operazione, che, lungi dall’interessare nella sua interezza un gruppo di società, si traduca soltanto nel ripianamento dell’esposizione bancaria di una delle società attribuendo alla fallita un debito relativo alla restituzione della somma mutuata di consistenza superiore a quello attinente a una fideiussione precedentemente prestata, ovvero un rapporto nel quale le società risultavano garantirsi reciprocamente i rispettivi debiti, potendosi contemplare altresì l’aggravante del danno di rilevante gravità sia per la bancarotta societaria che documentale che impropria. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 2 novembre 2017 n. 50080. Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta (articolo 216 legge fall.) - Storno materiale di beni - Accertamenti di fatto - Rilevanza - Rettifica contabile - Irrilevanza - Il fatto non sussiste - Fattispecie. L’amministratore di una società non può essere condannato per bancarotta e neppure essere responsabile per falso in bilancio sulla sola base di una rettifica contabile essendo necessari, al contrario, ineludibili accertamenti di fatto per verificare la mancanza di fatto dei beni. Pur essendo certamente astrattamente possibile che un imprenditore o un amministratore societario distragga beni dell’impresa, mascherando la loro sparizione con un artificio contabile costituito da una rettifica del valore iscritto a bilancio, tuttavia, la prova di tale comportamento di sottrazione non può essere ricavata, sic et simpliciter, dalla sola circostanza dell’esistenza della rettifica contabile, non accompagnata dal benché minimo riscontro fattuale circa la mancanza fisica dei beni. (Nel caso di specie, la Suprema Corte sposa la tesi del ricorrente, l’amministratore di una Srl dichiarata fallita già condannato per bancarotta fraudolenta, il quale aveva rimproverato alla Corte territoriale di aver sostanzialmente confuso una sparizione fisica con una diversa valorizzazione contabile di beni, effettuata mediante rettifica della posta di bilancio, e cassa senza rinvio perché il fatto non sussiste). • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 27 ottobre 2017 n. 49507. Reati fallimentari - Bancarotta semplice (art. 224 legge fall.) - Elementi del reato - Mancata tempestiva adozione dei provvedimenti di legge (artt. 2447- 2482-ter c.c.)- Aggravamento del dissesto societario. Incorre nel reato di bancarotta semplice (articolo 224 legge fall.) l’imprenditore che non adotta con tempestività i provvedimenti previsti obbligatoriamente dal codice civile, quali la convocazione dell’assemblea dei soci in presenza di una riduzione del capitale sociale al di sotto del limite legale e la richiesta di messa in liquidazione, nel tentativo di salvare l’azienda, aggravando in tal modo il dissesto societario seppur da altri provocato (causa o concausa). • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 26 ottobre 2017 n. 49212. Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta documentale (art. 216, comma 1, n. 2, prima parte, legge fall.) - Elemento soggettivo del reato - Dolo specifico - Sottrazione delle scritture contabili - Onere della prova - Rinvio. In ordine al reato di bancarotta fraudolenta documentale, per configurare le ipotesi di sottrazione, distruzione o falsificazione di libri e scritture contabili previste dall’articolo 216, comma 1, n. 2, prima parte, legge fall. è necessario il dolo specifico, consistente nello scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori. Pertanto, l’omessa consegna al curatore dei libri contabili e fiscali e il fatto che la mancata tenuta delle scritture contabili non abbia consentito di ritenere provata la distrazione non costituisce prova del fatto che le scritture non vennero tenute allo scopo di celare le distrazioni e recare pregiudizio ai creditori. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 26 ottobre 2017 n. 49210. Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta per distrazione (articolo 216 legge fall.) - Gruppo di società - Vantaggi compensativi - Dimostrabilità - Rapporto di gruppo. In tema di bancarotta fraudolenta per distrazione, nel valutare come distrattiva un’operazione di diminuzione patrimoniale senza apparente corrispettivo per una delle società collegate occorre tenere conto del rapporto di gruppo, non potendo risolversi il vantaggio compensativo nella mera e astratta prospettiva di evitare che una società del gruppo subisca un pregiudizio dal perdurare o dall’aggravarsi della crisi di un’altra società del gruppo. Non è configurabile il reato di bancarotta fraudolenta se i benefici indiretti per la società fallita si dimostrino idonei a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi, tali da rendere l’operazione incapace di incidere sulle ragioni dei creditori della società, a patto che l’interessato dimostri il saldo finale positivo delle operazioni compiute nella logica e nell’interesse del gruppo e lecita l’operazione temporaneamente svantaggiosa per la società depauperata. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 20 ottobre 2017 n. 48354. Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta per dissimulazione - Reato di pericolo - Valutazione del danno - Diminuzione globale della massa attiva del riparto fallimentare. Integra la fattispecie di dissimulazione nella bancarotta fraudolenta, che è reato di pericolo, l’attività diretta a diminuire fittiziamente il patrimonio del fallito, mentre non è necessario che sia realmente conseguito il risultato al quale tende detta attività, bastando semplicemente la condotta volta alla dissimulazione. La valutazione del danno va effettuata con riferimento non all’entità del passivo o alla differenza tra attivo e passivo, bensì alla diminuzione patrimoniale cagionata direttamente ai creditori dal fatto di bancarotta; pertanto, il giudizio relativo alla particolare tenuità - o gravità - del fatto non si riferisce al singolo rapporto che passa tra fallito e creditore ammesso al concorso, né a singole operazioni commerciali o speculative dell’imprenditore decotto, ma va posta in relazione alla diminuzione - non percentuale ma globale - che il comportamento del fallito ha provocato nella massa attiva che sarebbe stata disponibile per il riparto, ove non si fossero verificati gli illeciti. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 19 ottobre 2017 n. 48203. Liguria: tossicodipendenti in carcere, serve più personale sanitario genovapost.com, 22 novembre 2017 Ieri mattina in consiglio regionale il capogruppo di FdI-An e presidente della commissione Sanità della Regione Liguria, Matteo Rosso ha interrogato l’assessore alla sanità ligure sulla possibilità di incrementare il servizio Ser.T all’interno del carcere di Marassi. Organico - “Il Ser.T è un servizio fondamentale all’interno della struttura, considerando che il 40% dei detenuti è tossicodipendente, ma la pianta organica del servizio è costituita da un medico e due infermieri per circa 280 pazienti detenuti con patologie legate alla dipendenza e un turn-over molto elevato per via degli accessi giornalieri - ha spiegato Rosso - Inoltre il sabato, la domenica e i giorni festivi la copertura del servizio è garantita dal medico di guardia e dalle infermiere dei Ser.T territoriali con turnazioni programmate per la somministrazione del metadone. L’attivazione di percorsi di trattamento strutturati per pazienti detenuti tossicodipendenti/alcoldipendenti riduce il rischio di recidiva nella commissione di nuovi reati ed è quindi estremamente importante potenziare il servizio”. Replica - Per la giunta ha risposto l’assessore alla Sanità e Sicurezza Sonia Viale che “ha ribadito l’attenzione che deve essere rivolta alla salute dei detenuti ed a il contesto in cui operano gli agenti di polizia penitenziaria. Inoltre ha illustrato nel dettaglio le diverse iniziative messe in campo in questo settore da Asl 3. Tra queste, in particolare, la prossima acquisizione da parte del Sert di un’assistente sociale par time, che si occuperà nello specifico dei problemi di tossicodipendenza”. Viale “ha aggiunto che è in atto una procedura per aumentare le ore di servizio del medico dedicato alle tossicodipendenze, portandole da 24 a 36 e ha puntualizzato che “ruotano” tre infermieri mentre l’Asl agisce in modo coordinato e congiunto con Comune e associazionismo. C’è la continua manifestazione di volontà di promuovere iniziative per le famiglie dei detenuti, che devono essere sostenute, anche per evitare recidive”. Cosenza: Radicali Italiani e Unical in visita al carcere quicosenza.it, 22 novembre 2017 “Presto un Polo Universitario per i detenuti”. Ieri mattina una Delegazione di Radicali Italiani e di Studenti e Docenti del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università della Calabria, autorizzata dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, ha fatto visita presso la Casa Circondariale di Cosenza “Sergio Cosmai”. Per il Movimento dei Radicali Italiani erano presenti Emilio Enzo Quintieri, recentemente eletto membro del Comitato Nazionale al XVI Congresso tenutosi a Roma, e Valentina Anna Moretti. Per l’Università della Calabria, il Prof. Mario Caterini ed il Prof. Sabato Romano, entrambi Docenti di Diritto Penale e per il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria il Direttore dell’Istituto Filiberto Benevento, il Comandante di Reparto Facente Funzioni della Polizia Penitenziaria Ispettore Superiore Francesco Bufano, l’Assistente Capo della Polizia Penitenziaria Raffaele Granata ed i Funzionari Giuridico Pedagogici Maria Francesca Branca e Tiziana Giordano. Insieme a loro, erano presenti alla visita quindici Studenti del Corso di Laurea in Scienze del Servizio Sociale. Nell’Istituto Penitenziario di Cosenza, al momento della visita, vi erano 217 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 218 posti, 98 dei quali appartenenti al Circuito dell’Alta Sicurezza (As3). Vi erano, infine, 4 detenuti lavoranti secondo quanto previsto dall’Art. 21 dell’Ordinamento Penitenziario, 14 alle dirette dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria che svolgono lavori all’interno dell’Istituto, 3 condannati in regime di semilibertà e 14 tossicodipendenti. La Delegazione visitante, dopo un breve colloquio con la Direzione nella Sala Cosmai, si è recata nella struttura detentiva ove ha visitato i locali adibiti allo svolgimento delle attività trattamentali (Teatro, Biblioteca, Aule Scolastiche, etc.), l’Area Sanitaria, l’Area Sicurezza (Ufficio Comando, Matricola, Laboratorio Dna, etc.) ed infine le Sezioni detentive dei Circuiti di Alta e Media Sicurezza, incontrando anche i detenuti ed interloquendo con gli stessi, senza rilevare criticità o disagi degni di nota. Finalmente, dopo qualche anno di battaglia, siamo riusciti a far approvare definitivamente il Regolamento interno dell’Istituto da parte degli Uffici Superiori dell’Amministrazione Penitenziaria, afferma Emilio Enzo Quintieri, esponente dei Radicali Italiani. Ora chiederemo che venga diffuso in tutti i Reparti detentivi in modo tale che tutti i detenuti possano prendere conoscenza dei loro diritti e dei loro doveri. A breve verrà nuovamente indetta la gara di appalto per il rifacimento del Campo Sportivo e dell’Area Verde visto che quella che è stata bandita è andata deserta. Speriamo che, al più presto, vengano realizzati entrambi i progetti, da tempo approvati dalla Cassa delle Ammende del Ministero della Giustizia con un finanziamento di circa 100 mila euro. Inoltre, con viva soddisfazione, abbiamo appreso che, anche per i detenuti del Circuito dell’Alta Sicurezza, è stato possibile avviare un corso di istruzione secondaria superiore (Istituto Tecnico Commerciale), al quale hanno già aderito circa 30 persone. Tra le cose positive da segnalare, conclude Quintieri - l’istituendo Polo Universitario da realizzare presso la Casa Circondariale di Cosenza proprio in collaborazione con l’Università della Calabria che consentirebbe ai detenuti di poter iniziare e proseguire adeguatamente gli studi accademici. Nei prossimi giorni, Radicali Italiani ed Unical, proseguiranno le visite agli altri Istituti Penitenziari della Provincia di Cosenza. Martedì 28 saranno alla Casa Circondariale di Paola, martedì 5 dicembre alla Casa di Reclusione di Rossano ed infine martedì 12 dicembre, ultima tappa, alla Casa Circondariale di Castrovillari. Complessivamente, circa 60 Studenti del Corso di Laurea in Scienze del Servizio Sociale dell’Università della Calabria, faranno ingresso nelle Carceri, previamente autorizzati dal Consigliere Marco Del Gaudio, Vice Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Pozzuoli (Na): visita del Garante regionale alla Casa circondariale femminile linkabile.it, 22 novembre 2017 Nella mattinata di ieri, continuando il suo giro negli Istituti Penitenziari Campani, il Garante dei Detenuti Ciambriello ha visitato la Casa Circondariale femminile di Pozzuoli dove attualmente sono detenute 152 donne, rispetto ad una capienza regolamentare di 109 e con un organico di Polizia Penitenziaria di 114 unità rispetto alle 177 previste. Nell’Istituto è presente anche un’Articolazione Psichiatrica dove sono detenute 4 donne assistite dall’Asl 2 di Pozzuoli. La Casa Circondariale è ospitata in un convento del XV secolo fondato dai frati minori. All’interno della stessa, tra le attività lavorative previste spicca la produzione del caffè, gestita da 6 anni dalla Cooperativa “Le Lazzarelle”. In questi anni di attività, 62 donne hanno lavorato regolarmente assunte, secondo il contratto Nazionale. Attualmente vi lavorano 2 donne ristrette insieme alle socie. L’anno scorso hanno prodotto 52 mila pacchetti di caffè. Da anni è in atto anche una lavorazione di borse, che terminerà a breve. Il Garante è stato informato che dal prossimo mese ci sarà un’esperienza micro-imprenditoriale di cravatte, per il personale penitenziario, attuato grazie al protocollo d’intesa con la ditta “Marinella” famoso imprenditore partenopeo. Il Garante ha visitato tutte le celle dell’Istituto, composte da 6, 8,10 e in alcuni casi 12 letti. Nel corridoio, a disposizione delle ristrette, vi è un frigorifero e in ogni sezione vi è un ampio spazio di socialità e un terrazzo per uso lavanderia. Il Garante dichiara “ho consegnato in ogni cella la guida “Diritti e Doveri dei Detenuti” comunicando alle detenute l’avvio di uno sportello socio-legale promosso dall’ufficio del Garante. Ho ascoltato molte storie, leggendo sui volti di queste donne un’unica maschera, quella della rassegnazione e dello stato di trascuratezza nel quale versa la maggior parte di esse. Ho comunicato altresì alla Direzione che, oltre all’avvio del sopraccitato sportello, sono in programma, a breve, altre iniziative progettuali sempre a cura del Garante: una per il reparto dell’Articolazione Psichiatrica; un’altra che riguarda percorsi di moda ed un’altra che vedrà coinvolte le detenute sia di Pozzuoli che di Lauro (Sa) denominato “Spazio: Genitori-figli” ovvero momenti di animazione pre e post colloqui. Fossano (Cn): i detenuti hanno prodotto seicento quintali di ortaggi di Erica Giraudo La Stampa, 22 novembre 2017 Hanno coltivato e venduto 600 quintali di ortaggi, ristrutturato la palestra del centro di formazione professionale salesiano di Fossano, accompagnato i visitatori alla scoperta delle opere di arte sacra del museo diocesano e supportato 200 famiglie in difficoltà con l’emporio solidale. Sono i detenuti, a fine pena o appena usciti dal carcere, le persone con disabilità o fragili che hanno partecipato a 4 progetti attivati a Fossano. Si tratta di: “Manuattenzioni”, “La Coop agricola-sociale Pensolato”, “L’Officina del possibile” e “Il Museo diocesano social club”. Il bilancio I risultati saranno presentati venerdì, dalle 14,30, al Cnos- Fap di via Verdi a Fossano. Parteciperanno, al confronto su fine pena, agricoltura sociale, beni comuni e nuovo welfare, i direttori dell’ufficio di esecuzione penale esterna del tribunale e del carcere, il garante dei detenuti, parlamentari, referenti delle Fondazioni bancarie e rappresentanti di amministrazioni, enti e associazioni di categoria. “Raccontare i risultati - spiegano i promotori - significa stimolare nuove sinergie. I progetti sono partiti a inizio 2017. “L’Officina del possibile”, coordinata dalla Fondazione NoiAltri con altre realtà sociali fossanesi, ha creato 30 opportunità di lavoro e supportato più di 200 famiglie nell’emporio. “Manuattenzioni”, guidato dal Centro di formazione professionale salesiana della provincia di Cuneo, ha dato la possibilità a detenuti, nel delicato passaggio del fine pena, di frequentare un corso di manutenzione e bioedilizia e ristrutturare la palestra dei Salesiani restituendola più bella ed efficiente, dal punto di vista energetico, alla città. Attraverso La Coop agricola-sociale “Pensolato” della Caritas e degli “Orti del Casalito”, 10 detenuti hanno realizzato 5 serre nelle quali hanno coltivato, e venduto, 600 quintali di ortaggi freschi. Il prossimo obiettivo è l’inserimento di persone con disabilità. E ancora, “Il Museo diocesano social club”: le opere di arte sacra sono diventate occasioni di dialogo tra detenuti, che hanno dimostrato di saper ricominciare e guardare oltre, e la comunità. Siena: solidarietà al gusto di caffè, due progetti a favore dei detenuti sienanews.it, 22 novembre 2017 “Caffè Sospeso” e “Salute e Alimentazione in Carcere”: la casa circondariale di Siena si apre alla solidarietà e ai progetti del territorio. Presentate le due iniziative realizzate con il Comune: rispettivamente in collaborazione con Confesercenti e Caffè Batani, e con l’azienda Usl 7 Toscana sud est. Due originali iniziative nel segno dell’attenzione per i detenuti della casa circondariale “Santo Spirito” di Siena dal punto di vista della somministrazione alimentare. I progetti “Caffè sospeso” e “Salute e alimentazione in carcere” sono stati presentati stamani in conferenza stampa a Palazzo Berlinghieri dal direttore del carcere di Santo Spirito, Sergio La Montagna, insieme al vicesindaco Fulvio Mancuso e all’assessora al Sociale, Anna Ferretti; con loro, per illustrare il primo, il presidente provinciale di Confesercenti, Leonardo Nannizzi, e Belinda Batani dell’omonima ditta produttrice di caffè, mentre sul secondo è intervenuta la dietista Gloria Turi del Dipartimento delle Professioni tecnico-sanitarie, della Riabilitazione e della Prevenzione dell’azienda Usl Toscana sud-est. Patrocinata dal Comune e sostenuta da Confesercenti, “Caffè sospeso” è un’iniziativa solidale che si sviluppa intorno al rito del caffè, una delle bevande di maggior consumo a livello nazionale, anche all’interno delle carceri. Come ha introdotto il vicesindaco Mancuso, “il patrocinio del Comune segue, con coerenza, l’attenzione che rivolgiamo, ormai da anni, al carcere di Santo Spirito con una progettualità di carattere inclusivo e assistenziale finalizzata a far sentire la vicinanza della città a chi sconta un percorso di pena e riabilitazione. Dal progetto editoriale sulle fiabe scritte dai detenuti, alle attività di cura di un piccolo appezzamento di orto all’interno della struttura penitenziaria, realizzate in collaborazione con il Comitato di cittadini Siena2, vogliamo promuovere il messaggio che l’Amministrazione comunale non dimentica nessuno”. La pratica del caffè sospeso attinge dalla tradizione napoletana e sta trovando una progressiva diffusione in molte parti d’Italia. Secondo tale usanza, gli avventori dei bar pagano un caffè e lo lasciano a credito per i meno indigenti che non se lo possono permettere. “In questo caso - ha aggiunto Nannizzi - si tratta di creare una connessione tra gli esercizi pubblici della città e la casa circondariale, tramite la quale i caffè sospesi dei bar si tradurranno in dosi di miscela da moka per i detenuti. Un’azione che intende stimolare la solidarietà dei senesi, i quali, sono certo, risponderanno positivamente alla campagna, e che denota la sensibilità di Confesercenti e dei nostri associati a favore di un’iniziativa mirata al sociale”. Nel suo intervento, il direttore La Montagna ha rivelato come la preparazione e la somministrazione del caffè costituiscano un importante momento di condivisione tra i detenuti, oltre che di alleggerimento della condizione carceraria. “Dall’incontro e dagli scambi tra varianti regionali e, talvolta, internazionali, vengono fuori le più svariate conoscenze e molti aneddoti: qualcuno, assieme alla miscela, mette un chicco di sale grosso o una fogliolina di menta; quasi tutti preparano, poi, la crema con lo zucchero appena salgono le prime gocce di caffè nella macchinetta”. “Tuttavia la diffusa condizione di indigenza tra la popolazione detenuta - ha specificato - non sempre consente di acquistare regolarmente il caffè: da qui l’idea di appellarsi alla generosità della collettività senese per permettere a chiunque il piacere di gustare una tazzina di caffè”. Allo scopo di conferire visibilità all’iniziativa, sulle vetrine dei bar aderenti sarà affissa una locandina realizzata a partire dal progetto fotografico di Alessio Duranti. L’iniziativa annovera anche la collaborazione della ditta Caffè Batani “che ha recepito con entusiasmo la proposta del direttore La Montagna - ha affermato la titolare Belinda Batani - per un’azione solidale che vede il caffè come un elemento di socialità in un contesto difficile quale il carcere. Con l’approssimarsi del periodo natalizio, ci recheremo in visita ai detenuti per offrire loro una prima fornitura di polvere per la moka e tracciare, a ritroso, il percorso del prodotto: dal pacchetto al chicco”. Per quanto riguarda, invece, il progetto “Salute e alimentazione in carcere”, elaborato in collaborazione con la Usl Toscana Sud Est, l’assessora Ferretti ha ricordato che è risultato vincitore della menzione speciale per la dimensione “Innovazione e originalità del progetto” da parte della Rete Città Sane OMS nell’ambito dell’Oscar della salute 2017 tenutosi a Torino a fine ottobre: “Si tratta di un’azione che intende ridurre le disuguaglianze di salute in un contesto molto sensibile e particolare come quello del carcere. Siamo molto fieri di questo riconoscimento che abbiamo raggiunto grazie all’impegno del personale della Usl che, con grande professionalità, ha proposto un approccio educativo e proattivo nei confronti del settore penitenziario, il quale richiede la collaborazione delle altre istituzioni”. L’iniziativa, che ha coinvolto anche gli istituti alberghieri della provincia di Siena, è già stata attuata nel corso del 2016 nei confronti dei detenuti dei penitenziari del territorio di competenza dell’azienda Usl Toscana Sud Est, in particolare Siena e San Gimignano, con l’obiettivo di adeguare i piani nutrizionali delle case circondariali locali alle linee guida per una sana alimentazione italiana. Oltre ai detenuti sono stati coinvolti anche gli operatori di Polizia Penitenziaria secondo le linee guida della Regione Toscana “Pranzo sano fuori casa”. “Il progetto - ha specificato Gloria Turi, recatasi a Torino a ritirare il premio insieme all’assessora Ferretti - mira a ridurre le disuguaglianze di salute in un contesto molto sensibile e particolare come quello di un carcere, ed è stato premiato per il suo “obiettivo estremamente coraggioso”, come ha sottolineato la commissione che ha preso in esame i progetti all’interno del XV meeting nazionale della Rete Città Sane Oms dedicato, quest’anno, ai temi della salute mentale. Un riconoscimento di merito ulteriormente ribadito dalla stessa Rete con un piccolo finanziamento che sarà girato alla casa circondariale”. Napoli: “perché i quartieri generano belve?”, città divisa sull’accusa del questore di Titti Marrone Il Mattino, 22 novembre 2017 È impossibile sorvolare sul peso delle parole usate dal questore Antonio De Iesu nel commentare la sparatoria di Chiaia, avvenuta a margine di una movida sempre più intrecciata con la criminalità. Parole nette come “branchi” e “belve”, riferite ai ragazzi dei quartieri delle periferie che popolano le agitate notti cittadine, dove da qualche anno la dimensione delinquenziale si va sovrapponendo a quella del divertimento, fino a cancellarla del tutto. “Quello usato dal questore mi sembra un lessico quasi etnologico, per non dire razzista”, riflette il filosofo Roberto Esposito. Che subito aggiunge: “Non ci dobbiamo nascondere che però il trasferimento di gruppi giovanili da una parte all’altra della città ponga problemi che sono sotto gli occhi di tutti. Non mi pare, però, che affrontarli con simili valutazioni faccia fare passi avanti alla città”. Lo storico Giuseppe Galasso in parte concorda con il questore: “Ha ragione perché il centro cittadino viene invaso, in certe ore, da ragazzi e non solo provenienti dalle periferie, come sulla scaturigine psicologica e sociale della violenza. Ma non è fondata l’esclusiva provenienza periferica di quella violenza. La cronaca cittadina ci ha segnalato casi in cui i loro protagonisti sono a volte dei quartieri alti”, ricorda. “La violenza di cui parliamo deriva dalla mancanza di un’effettiva vita comunitaria, anch’essa non esclusiva delle zone periferiche o dei quartieri degradati”. Un urbanista come Vezio de Lucia, assessore comunale della prima sindacatura di Bassolino e ideatore del progetto Bagnoli, si dice assai sconcertato, dalle parole del questore. “Ma che, torniamo alla bonifica dei Quartieri spagnoli di cui si parlava negli anni 60, quando si discuteva sul piano regolatore poi attuato nel 1972? Torniamo all’idea dello sventramento dei Quartieri da attuare perché lì ci sarebbero le cose descritte dal questore?”. De Lucia dice di trovare quelle parole “gravi e pericolose” e aggiunge: “A Napoli sembra che si ricominci sempre daccapo. E si scivola sempre più indietro: fino ai tempi di Matilde Serao e del Risanamento successivo al colera del 1884. Anche se poi, dopo Il ventre di Napoli, la Serao scrisse Il paravento, in cui descriveva il risanamento edilizio seguito al suo straordinario reportage come un’illusione: dietro al Rettifilo rimaneva tutto uguale”. D’accordo con De Iesu è invece Raffaello Capunzo, ordinario di Diritto pubblico alla Federico II. “Il questore ha posto una questione importante di ordine pubblico”, afferma. “La gestione della città va realizzata nel rispetto di tutti, di chi la abita e di chi vi si reca per il divertimento serale. Che però dev’essere divertimento e non può sconfinare nelle risse, nelle violenze, nello spaccio. I miei nipoti una volta frequentavano i locali della movida nelle sere del fine settimana. Hanno smesso perché temono la pericolosità di quella che è ormai diventata una vera guerra”. Il giurista conclude: “Ci sono certamente profili sociologici di cui tener conto, ma non possono diventare prevalenti rispetto alla sicurezza di tutti i cittadini, compresi i ragazzi che vogliono divertirsi in pace senza trovarsi in mezzo a sparatorie”. Il preside-architetto Paolo Pisciotta, dirigente scolastico di una scuola di frontiera come l’Ipia “Davide Sannino” di Ponticelli, precisa che “la periferia è vissuta come tale perché, anche metaforicamente, percepita come distante dal centro cittadino, ma con il sistema di mobilità urbana i suoi abitanti si sono sentiti giustamente più cittadini di prima”. Che fare, però, per evitare che con essi arrivino in città elementi di devianza e violenza? “Adottare la lettura che dei quartieri periferici dà il questore non aiuta affatto. Fin quando i ragazzi delle periferie si sentiranno estranei, ci sarà il rischio di quei comportamenti, ma se garantiamo loro la possibilità di sentirsi cittadini come gli altri, non credo che si riprodurrebbero”. Poi da architetto il preside aggiunge: “La città deve porsi il problema di avere nuove centralità, creando nelle periferie nuovi luoghi di aggregazione. Non per ghettizzarli lì, ma per farli sentire cittadini in tutti i sensi, con una rete adeguata di servizi e di occasioni d’incontro culturale e sociale”. Su analoga lunghezza d’onda è sintonizzata Chiara Ciccarelli, insegnante nella scuola di Rachele Furfaro “Dalla parte dei bambini” e animatrice a Scampia dell’associazione “Mammut”. “La criminalizzazione delle periferie fatta dal questore non aiuta, bisogna capire che lì i ragazzi, come del resto in aree tutt’altro che periferiche quali il Pallonetto, i Quartieri spagnoli, Fuorigrotta, vivono scenari che non aiutano a produrre altro”. L’educatrice sposta dunque il problema sull’immaginario dei ragazzi, da valorizzare con attività adatte a svilupparne le potenzialità creative, e soprattutto sul lavoro. “Il confronto con la vita reale e la città reale respingente deve portare a interrogarsi sul tipo di società che si sta creando per i giovani. Capendone le sofferenze e creando una comunità che dia loro sicurezza”. Il punto di vista di Samuele Ciambriello, da sempre impegnato nel sociale e ora anche garante dei detenuti, è che “della camorra, degli uomini della camorra sappiamo tutto, delle donne in ascesa sappiamo molto più di prima, dei fanciulli, degli adolescenti che crescono, di questi “bambini a metà” non conosciamo progetti e sogni. Ma da loro dobbiamo ripartire, intercettare il loro consenso, il loro senso di appartenenza, il loro sentirsi diversi e superiori. Io non li chiamerei belve”. E continua: “Questa umanità non deve pensare solo ai suoi bisogni materiali, ma deve essere felice nella bellezza delle arti e nella cultura, devono scoprire la forza della conoscenza e del sapere, vivere la scuola come una grande opportunità. Con fatica, con intelligenza, con investimenti nel sociale, a poco a poco, si possono portare questi adolescenti a vivere una vita normale. Non ci sono quartieri che generano “belve”, ma disvalori e diseguaglianze. Le Istituzioni ai vari livelli, le parrocchie, le associazioni, i mass-media, devono fare rete. Liberare i minori, educare gli adulti”. Le parole del questore trovano il sacerdote-scrittore don Gennaro Matino “in parte d’accordo”, anche se gli sembra venire “da uno che non conosce la città, che ospita al suo stesso interno aree di profondo degrado non appannaggio delle sole periferie. Meravigliarsi di quanto accade ha dell’ipocrita perché si tratta di un disastro già annunciato, conseguenza dell’abbandono delle famiglie ma anche delle istituzioni. C’è l’impegno alacre delle forze dell’ordine” conclude don Gennaro “ma la qualità della vita è fatta di piccoli spazi costantemente violati anche in virtù di un’assenza dello Stato particolarmente grave a Napoli, nel nostro Sud”. Bari: madre fa arrestare il figlio latitante. “Ti ho tradito per salvarti la vita” di Cenzio Di Zanni La Repubblica, 22 novembre 2017 Bari, madre fa arrestare il figlio latitante e gli scrive una lettera: “Ti ho tradito per salvarti la vita”. Una madre ha fatto arrestare il figlio latitante consegnandolo ai carabinieri. Quando i militari sono arrivati all’ospedale di Terlizzi (Bari), la mattina di martedì 31 ottobre, il figlio non ha potuto fare altro che consegnarsi. Era ricercato da tre mesi. Cioè da quando era fuggito da casa, dov’era agli arresti domiciliari per spaccio di droga. Al momento dell’arresto il latitante 24enne di Corato non poteva sapere che a fare la soffiata ai carabinieri era stata sua madre Daniela, 47 anni, un matrimonio in frantumi e un lavoro come vigilante antitaccheggio in un negozio di Bari. Per spiegare il suo gesto al figlio recluso nel carcere di Trani, la donna ha deciso di scrivere una lettera aperta e di consegnarla alle pagine web di Coratolive.it. “Carissimo figlio mio, l’altra mattina - scrive Daniela nella lettera - ho fatto qualcosa che una madre non vorrebbe e non dovrebbe mai fare: ho tradito la cieca fiducia che riponevi in me consegnandoti nelle mani di qualcuno che di te non sa nulla, se non il tuo nome e le tue ‘bravatè“. Nel conto in sospeso con la giustizia del 24enne ci sono accuse per rapina, furto, spaccio e, da ultimo, evasione: fatti di cui dovrà rispondere ai magistrati tranesi. Ma è stato quando ha scelto di darsi alla fuga che la madre non ha retto. “Le notizie frammentarie e confuse che mi giungevano durante la tua assurda latitanza - continua la lettera - mi trafiggevano il cuore e, purtroppo, non avevo modo di poterti raggiungere e aiutarti a ragionare”. Da qui, quello che la signora definisce “un gesto necessario e inevitabile”. Avrebbe accompagnato la giovanissima fidanzata del figlio in ospedale per una visita ginecologica: la coppia aspetta un bambino e la gravidanza è ormai agli sgoccioli. Soltanto al mattino di quel martedì aveva saputo che il 24enne si sarebbe fatto trovare a Terlizzi. Sarebbe stata l’occasione giusta per farlo arrestare dai carabinieri. Un tradimento soltanto apparente, rimarca la donna, che ricorda al figlio “il terrore di quando sul display del cellulare compariva un numero sconosciuto che potesse annunciare una disgrazia, un fatale incidente, un tragico epilogo della tua vicenda”. Ad angosciare la madre del 24enne è stata anche la possibilità di un’azione sopra le righe da parte delle forze dell’ordine, accentuata dai controlli serrati anche a casa di amici e conoscenti. “Temevo che se ti avessero trovato - ricorda Daniela - anche solo un tuo innocente movimento, una innocua mossa falsa avrebbe potuto scatenare una loro reazione tragica e sproporzionata”. Poi, prima di tornare con la mente alla mattina del blitz, la signora ricorda l’esperienza di un’altra madre rimasta a piangere il figlio morto, un amico fraterno del 24enne ricercato. “Quando mi avvicinai per le condoglianze - si legge - mi sussurrò: ‘Daniela, avrei preferito andare in carcere a fargli visita per tutta la vita. Almeno avrei potuto vederlo, abbracciarlo e parlargli ancora”. Parole che hanno affilato l’ansia di una madre, ormai impotente rispetto alle scelte del figlio. O quasi. E poco importa se - mette ancora nero su bianco la signora - al momento dell’arresto “mentre ti circondavano e ti inducevano a mantenere la calma, io ti chiedevo perdono per quello che avevo fatto e più volte mi hai ripetuto che mi avresti odiata per il resto della tua vita”. L’epilogo: “Odiami ragazzo mio, odiami finché vorrai. Io, al contrario, continuerò ad amarti con la stessa intensità di sempre e anche di più. Un giorno ammetterai che in cuor tuo era ciò che volevi anche tu: porre fine a questo supplizio. Forse mi vorrai incontrare e io avrò la conferma di essere una madre fortunata - conclude Daniela - perché potrò ancora vederti abbracciarti e parlarti”. Bolzano: privazione della libertà, Malles si confronta sul tema. Il progetto della Caritas Alto Adige, 22 novembre 2017 Ha fatto tappa a Malles il tour di presentazione del progetto “L’utente che non c’è” della Caritas che mira all’accompagnamento delle persone private della libertà personale attraverso il coinvolgimento della comunità sui temi dell’esecuzione penale e della giustizia riparativa. Formazione e senilizzazione sono cardini dell’iniziativa che nel paese venostano è stata illustrata da Paolo Spagnoli e Matthias Scharz. Il progetto intende stimolare la percezione che la comunità ha rispetto a coloro i quali sono privati, per via di reati, della libertà personale, con lo scopo di facilitare il potenziamento della relazione fra la comunità e chi vive quell’esperienza. Il decano Stefan Heinz ha dato massima disponibilità di dare il suo contributo assieme ai volontari dell’associazione Vinzenz. Macerata: convegno “Il carcere che verrà. Verso la riforma del sistema penitenziario” mediterranews.org, 22 novembre 2017 Organizzato dal Garante regionale dei Diritti dei Detenuti in collaborazione con l’Università di Macerata, l’Ordine degli Avvocati di Macerata, l’Ordine degli Assistenti Sociali delle Marche e la Società di San Vincenzo De Paoli, venerdì 1 e sabato 2 dicembre si volgerà a Macerata il convegno “Il carcere che verrà. Verso la riforma del Sistema penitenziario”. La prima sessione inizierà alle 15 di venerdì nell’auditorium dell’Università e avrà per tema: “Infanzia e carcere: quale tutela”. Interverranno Francesco Cascini, magistrato e Capo Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità; Antonio Crispino, giornalista collaboratore del Corriere della Sera; Antonio Marsella, docente di Politica Sociale Università del Salento; Lia Sacerdote dell’Associazione Bambini senza Sbarre e Piergiorgio Morosini, componente del Consiglio Superiore della Magistratura. Introdurrà i lavori Gian Piero Turchi, psicologo dell’Università di Padova. A presiedere la sessione sarà Andrea Nobili, Garante Regionale dei diritti di adulti e bambini. Porterà i saluti della San Vincenzo De Paoli Claudio Messina, volontario penitenziario e delegato nazionale del Settore carcere. La sessione di sabato 2 dicembre si terrà invece presso il Polo didattico Pantaleoni e affronterà il tema della riforma dell’Ordinamento penitenziario, sulla base delle risultanze degli Stati generali dell’esecuzione penale. L’introduzione sarà affidata a Lia Caraceni, docente di Diritto penitenziario all’Università di Macerata. Si confronteranno sul tema: Glauco Giostra, che presiede la Commissione di Riforma dell’Ordinamento penitenziario; Fabrizio Siracusano dell’Università di Catania; Marcello Bortolato, presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze; Gabriele Terranova, dell’Unione Camere Penali e Lucia Castellano, D.G. dell’Amministrazione Penitenziaria - Ufficio Esecuzione Penale Esterna. In veste di moderatore Maria Cristina Ottavianoni dell’Ordine degli Avvocati maceratese. Per partecipare al convegno è necessario accreditarsi inviando una e-mail a: garantediritti@consiglio.marche.it Note - Si calcola che nell’Unione Europea siano circa 800.000 i minori che vivono una situazione di separazione a causa delle detenzione di uno o di entrambi i genitori. Ogni anno in Italia sono circa 100.000 i minori che varcano le soglie degli Istituti penali per andare a trovare i loro cari (padri, madri, fratelli, sorelle, nonni, zii). I dati sopra citati sono una stima molto prudente, poiché non rilevata nelle statistiche ufficiali, ma frutto di un’analisi di associazioni di volontariato che si occupano dei detenuti e dei loro figli. Nelle carceri italiane ci sono attualmente circa 60 bambini di età compresa da pochi mesi a 6 anni, che vivono dietro le sbarre con le loro madri, anche se in regime di custodia attenuata rispetto alle altre detenute. La presenza dei bambini in carcere è una scelta della madre, che spesso non ha altre alternative che tenere con sé il figlio, perché anche il marito è detenuto o non ci sono parenti cui affidare il bambino. Dal 1975 ad oggi vi sono stati vari interventi legislativi tendenti a correggere questa stortura, poiché i bambini sono per definizione innocenti e hanno diritto a vivere una condizione adatta al loro sviluppo fisico e mentale, cosa che il carcere, pur con tutti gli accorgimenti possibili, non può garantire. “Mai più bambini in carcere” è diventato lo slogan di varie associazioni (come “A Roma insieme”) che da anni si battono per eliminare questa palese ingiustizia, ma i bambini che vivono in cella con la madre continuano a crescere con i ritmi carcerari, ad orari fissi, tra divise e chiavistelli, sbarre e blindi, odori e rumori del carcere. Un’alternativa assai più vivibile per le madri ed i bambini sono gli Icam (Istituti a Custodia Attenuata per detenute madri). Il primo sorse nel 2006 a Milano, ma in questi anni solo pochi altri se ne sono aggiunti (a Venezia e a Torino, ma questi nelle pertinenze del carcere). Gli Icam sono concepiti per essere al di fuori delle strutture carcerarie, seppure in case attrezzate per garantire la sicurezza. Quindi ancora porte blindate e sbarre alle finestre, ma i locali sono assai più accoglienti e colorati, molto simili ad un ambiente familiare. Gli agenti hanno abiti civili, ci sono più educatori e il volontariato è molto attivo nel seguire i bambini, accompagnandoli fuori durante la giornata. Tuttavia i piccoli continuano a percepire le inevitabili restrizioni, vedono persone femminili di cui non comprendono il ruolo, mentre manca completamente la figura maschile di riferimento. La Casa famiglia protetta è un’altra possibile soluzione nei casi in cui alla madre vengano concesse misure alternative alla detenzione. Vi sono associazioni disponibili ad accogliere, con tutte le precauzioni e i vincoli imposti, ma passare all’attuazione pratica non è così scontato. È una situazione molto complessa da districare per il legislatore, che deve comunque garantire l’espiazione della pena della madre, tutelare i diritti del bambino e il rapporto madre-figlio, particolarmente importante in tenera età. Massa Carrara: nel carcere minorile femminile di Pontremoli l’arte contro la violenza cittadellaspezia.com, 22 novembre 2017 Sono riprese a novembre le attività dell’Associazione Culturale La Poltrona Rossa che utilizza l’arte come scambio interculturale, come possibilità di incontro, contaminazione e rispetto delle diversità, in particolare con i giovani degli istituti penitenziari italiani. Anche quest’anno il progetto, che è stato battezzato “Artificium, arte e artigianato oltre le sbarre”, è finanziato dai fondi dell’8 per 1000 destinati alla “Chiesa Valdese” con il partenariato del Ministero della Giustizia - Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità, del Centro per la Giustizia Minorile per il Piemonte, la Valle d’Aosta e la Liguria e del Centro per la Giustizia Minorile per la Sicilia. Novità di questa edizione è che i laboratori non si svolgeranno più in un’unica struttura bensì in due distinte realtà. Oltre all’Istituto Penale femminile per Minorenni di Pontremoli, infatti, che già dal 2013 è teatro delle attività dell’Associazione, questa volta nella seconda fase verrà coinvolto anche l’Istituto Penale per Minorenni Bicocca di Catania. Si tratta, pertanto, di un progetto di “scambio” rivolto ai minori detenuti e svolto attraverso la realizzazione di prodotti artistici e artigianali all’interno dei rispettivi istituti durante laboratori ad hoc. Il percorso porterà anche all’acquisizione di una maggiore consapevolezza delle identità dei gruppi vicini e lontani, dal nord al sud, dato che i partecipanti avranno modo di confrontarsi e di ascoltarsi senza che ci sia un reale incontro. La prima fase di attività nell’ambito di Artificium, attualmente in corso, coinvolge le ragazze ospiti dell’IPM di Pontremoli che in occasione della giornata contro la violenza sulle donne, il prossimo 25 novembre, avranno la possibilità di esprimere il loro pensiero attraverso scritti e opere pittoriche. Il progetto, che si concluderà a maggio 2018, è il naturale proseguimento del precedente, “Isole invisibili, i luoghi da inventare”, che ha portato alla realizzazione di una mostra finale a Pontremoli a maggio 2017, in occasione del premio Bancarellino, con l’esposizione di numerose opere dipinte dalle detenute nel corso dei laboratori. Anche nel 2018, al termine degli incontri presso i due istituti, verrà organizzata una presentazione aperta al pubblico con i lavori realizzati. Ancora una volta l’arte, dunque, si rivela un prezioso strumento di riabilitazione ed educazione volta a favorire lo sviluppo di creatività, attenzione e partecipazione. Uno strumento di cui ben conosce le potenzialità La Poltrona Rossa associazione culturale di Catania che da anni opera su tutto il territorio nazionale, in particolare tra Liguria, Toscana, Piemonte e Sicilia. Roma: ergastolano di Dio; intervista a padre Vittorio Trani, cappellano a Regina Coeli di Orazio La Rocca sanfrancescopatronoditalia.it, 22 novembre 2017 Sono oltre 40 anni che vivo in carcere, come un ergastolano. Ma il fine pena non credo che arriverà presto perché la mia vita è qui, vicino ai miei fratelli carcerati. “Sono oltre 40 anni che vivo in carcere, come un ergastolano. Ma il fine pena non credo che arriverà presto perché la mia vita è qui, vicino ai miei fratelli carcerati sull’esempio di Francesco d’Assisi e come ci insegna papa Francesco”. Scherza, ma non troppo, padre Vittorio Trani, cappellano storico del carcere romano di Regina Coeli, quando parla della sua missione pastorale dietro le sbarre di uno dei più grandi e affollati penitenziari del nostro Paese. Scherza quando si autodefinisce con una buona dose di ironia “ergastolano di fatto”, ma è tremendamente serio quando parla del suo impegno accanto ai carcerati, con il Vangelo in mano e sempre pronto ad offrire la parola di Cristo a chi - costretto ad espiare una colpa commessa per svariati motivi - chiede aiuto, speranza, calore e, non di rado, voglia di riscatto. Settantatré anni (è nato in provincia di Latina nel 1944), frate francescano conventuale, padre Trani il primo settembre scorso ha tagliato il traguardo dei “primi” 39 anni vissuti come cappellano di Regina Coeli, dove arriva dopo aver svolto una prima esperienza pastorale per circa 3 anni nell’altro grande carcere romano, Rebibbia. Complessivamente, quindi, ben 42 anni al servizio dei detenuti, sia italiani che stranieri, che aiuta ogni giorno “come un fratello, senza guardare a nazionalità, eventuali colori politici, stato sociale, durata della pena da scontare, con una carica umana che affonda le radici nella sua formazione umana e sacerdotale intimamente legata ai valori francescani e a quella parte del Vangelo in cui Cristo ci invita a visitare i carcerati”. Padre Vittorio Trani c’è un feeling che lega il suo essere cappellano carcerario e francescano? “Nel Dna di ogni francescano c’è l’esempio e l’insegnamento che ci è stato donato dal Poverello di Assisi, specialmente l’attenzione ai poveri, agli ultimi e agli ammalati. Stare vicino ai carcerati è una scelta pastorale che ogni cappellano di qualsiasi congregazione fa per motivi personali e di formazione spirituale. Per un francescano la scintilla nasce, inevitabilmente, dal ricordo dell’abbraccio di san Francesco al lebbroso di Rivotorto, un gesto illuminante per il suo tempo, quando i malati di lebbra erano gli esclusi della società, gli ultimi tra i reclusi. Una scelta di vita fatta oltre 800 anni fa, ma che è valida ancora oggi”. Scelta umana valida, quindi, dopo oltre 8 secoli grazie all’esempio di san Francesco. Ma lei come lo spiega? “Lo spiego col semplice motivo che il carcerato oggi, magari per motivazioni differenti da ieri, vive in uno stato sociale a dir poco disagiato: come allora è tagliato completamente fuori dal contesto cittadino, troppe volte senza speranza, specialmente se è costretto a vivere dietro le sbarre senza il conforto di una famiglia, di una moglie, un marito, un figlio. Più o meno come i reclusi dei secoli passati. E per questo non si esagera nel dire che i carcerati che oggi vivono in qualsiasi penitenziario, in un certo senso, sono i lebbrosi dei nostri tempi”. Rispetto ad una quarantina d’anni fa l’identikit del carcerato è rimasto sempre lo stesso? “No, è cambiato molto. Prima, e parlo della mia esperienza iniziata alla metà degli anni ‘70, nelle carceri si incontravano detenuti politici degli anni di piombo, esponenti di bande criminali organizzate, oltre a quanti scontavano pene legate a crimini di vario genere, criminalità quotidiana, spesse volte non organizzata. Oggi la popolazione carceraria è cambiata. Le bande organizzate sono calate, ma gli stranieri sono la maggioranza, con tutti i problemi che ne conseguono legati alla scarsa conoscenza dell’italiano e agli usi e ai costumi dei loro paesi d’origine. Il mercato della droga poi, che come un flagello ha rotto schemi e strutture continua a mietere vittime specialmente tra i giovani. Ogni detenuto, però, se non è supportato dalla famiglia, al di là della sua provenienza e della pena da scontare, vive ancora peggio per la mancanza di contatti con figli, congiunti, calore umano che solo il nucleo familiare può dare”. In questi casi la presenza del cappellano diventa indispensabile. Un francescano cosa fa? “Un francescano offre la sua presenza senza costrizione, con tatto, delicatezza, amicizia, partendo sempre dai valori spirituali ed evangelici che si provano nel vedere in ogni carcerato il volto del nostro Signore Gesù Cristo”. Anche Madre Teresa di Calcutta, a venti anni dalla morte avvenuta il 5 settembre 1997, vedeva negli ammalati e nei moribondi il volto di Cristo. C’è feeling anche con Madre Teresa? “Certamente, la Santa di Calcutta come san Francesco ha abbracciato malati scartati dalla società, moribondi, poveri tra i più poveri. Un esempio imprescindibile, come papa Francesco che, oltre alle storiche visite nelle carceri italiane sull’esempio dei suoi predecessori Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI, è solito telefonare ai detenuti per dare loro conforto e speranza, ricordando che un vero cristiano, per essere tale, non deve mai dimenticare di guardare anche alla popolazione carceraria con gli occhi della Divina Misericordia che ci è stata insegnata e tramandata da Gesù Cristo. È quel che cerco di mettere in pratica nel mio piccolo”. Pesaro: lettera da un detenuto di Villa Fastiggi “il rugby mi fa sentire vivo” viverepesaro.it, 22 novembre 2017 “Extra: il Rugby per rieducare” è il nome progetto che, dal febbraio 2016, propone attività motoria e conoscenza della “palla ovale” ai detenuti della Casa Circondariale Pesaro - Villa Fastiggi. “Perché iniziare a giocare a Rugby? Per noia o curiosità... ma per rispondere è necessario che descriva la mia situazione, accompagnando il lettore nella spiegazione di cosa significhi fare in carcere una scelta, anche se “banale”. Porto da anni il mio viso appiccicato alla testa e la mia ombra ai piedi, ma ancora non riesco a capire quale delle due pesi di più. Qualche volta, provo l’impulso irrefrenabile di staccarle e appenderle a un chiodo, restando lì, seduto a terra come un burattino al quale una mano pietosa ha tagliato i fili. A quel punto le cose sono due: o ti chiudi, cercando di lasciare le cose alle spalle, oppure ti fermi e le affronti; qualunque cosa tu scelga, ti cambia e tu hai solo la possibilità di decidere se in bene o in male. Se li affronti, la cosa ti può fare a pezzi, ma dopo hai tutto il tempo e la forza per metterli insieme; se scappi... sarai in frantumi e, nello stesso tempo, il rimorso farà di te un uomo a pezzi per tutto il tempo che ti resta. E, credetemi, quando scrivo che quei pezzi saranno ogni giorno più piccoli. Il Rugby mi fa sentire utile, sì ripeto utile, mi fa sentire vivo, mi fa andare avanti; oddio, all’inizio non lo credevo, visto che non sapevo nulla di questo sport, ma le cose che mi hanno colpito subito sono state il gruppo multietnico di partecipanti e soprattutto il coach, “Beppe” De Rosa. È una persona vera e con i coglioni, che ha un tipo di colla magica, capace di unire e amalgamare (cosa non facile) un gruppo composto da uomini che provengono da realtà brutali; riesce a trasformare le tre ore trascorse insieme... come posso dire... in “un respiro” e, per me, in una “evasione legale” da questo posto assurdo. A lui devo molto e, anche se mi vergogno ad ammetterlo, a livello umano ne ho conosciuti pochi come lui; certo, non è solo “rose e fiori”... è “insaziabile”, come dimostra la sua stazza, perché pretende il massimo da ognuno di noi. Mi piace perché crede in noi, in questo gruppo di persone che incontra ogni sabato; lo ammiro, tira fuori il mio lato competitivo, ma allo stesso tempo la lealtà verso i miei compagni. Così, poco a poco, sono riuscito ad integrarmi completamente e ogni volta dò il massimo di me, cercando sempre di superare il mio limite. Cosa c’è di più bello? Quando dai il massimo e ti ritrovi ogni volta sfiancato; a fine allenamento, non finisci subito dietro le sbarre, ma hai la possibilità di avere un dialogo con lui e con i compagni, durante il “Terzo Tempo”. Il coach, sarà “avido”, “ingordo” e “senza fondo” (scherzo), ma è capace di una visione più ampia e profonda per tutti noi, dal primo all’ultimo arrivato. Ecco, caro lettore, metti di fronte una persona delusa da sé stessa e dalla società e qualcuno che gli porga amichevolmente la mano per rialzarsi. Ecco come mi sento, utile e vivo anche dietro le sbarre! Grazie”. R.K. Civitavecchia (Rm): il cinema entra in carcere come progetto terapeutico maremmanews.it, 22 novembre 2017 Si intitola “Risveglio” ed è il film che è stato realizzato con la collaborazione dell’Associazione Culturale Real Dreams, come prodotto finale di un laboratorio di cinema-terapia condotto su un gruppo di detenuti del carcere di Civitavecchia. “Il film - spiega Davide Boninsegna presidente dell’Associazione culturale Real Dreams - è il prodotto del laboratorio di cinema terapia che abbiamo realizzato con un gruppo di detenuti del Nuovo Complesso Penitenziario di Civitavecchia. L’associazione culturale Real Dreams ha prodotto l’intero progetto grazie al sostegno della Regione Lazio e della Cassa Edile di Viterbo, al patrocinio del Comune di Civitavecchia e l’ausilio del settore educativo del Carcere di Civitavecchia; per la regia del film che si intitola “Risveglio”, ci siamo affidati al regista Pietro Benedetti che svolge anche il ruolo di protagonista nel film. Il senso alla base di tutto questo laboratorio era dare uno spazio anche ai detenuti, farli sentire, anche se per poco tempo, liberi con i loro sogni con le loro emozioni, liberi di esprimersi oltre a dargli delle indicazioni e una formazione attoriale che chissà un domani potrebbero fare anche come professione; il senso del film è la solidarietà tra carcerati, loro non avevano quasi battute abbiamo puntato più sulla loro spontaneità, come si vede nel film, e speriamo che questa cosa possa essere percepita. Vorrei citare Giovanni Cavallini per la preziosa consulenza sul colore, e per le musiche Enrico Capuano, per la colonna sonora, e Marco Giardina per gli inserti musicali, anche se abbiamo voluto lasciare più i rumori del carcere perché in fondo i detenuti è quella la musica che sentono, le porte di ferro che si chiudono; la durezza del carcere e la sensibilità e solidarietà dei detenuti tra loro”. Naturalmente attori professionisti hanno affiancato il gruppo dei detenuti e hanno recitato veramente col cuore. Si tratta di Luisa Stagni e di Pino Di Persio. Un ringraziamento particolare da parte degli organizzatori va all’Ospedale San Paolo di Civitavecchia, per la cortesia e la disponibilità offerta. Una bella esperienza, e ne è convinto il presidente dell’Associazione Real Dreams, che visti i risultati di come il gruppo ha reagito, potrebbe essere anche un modello da seguire per altri carceri, perché attraverso il cinema si smuove qualcosa dentro e i detenuti si rendono partecipi in prima persona di un progetto, di creare qualcosa. “Il caso di Giuseppe Gulotta”. Così la mia lunga odissea adesso rivive a teatro di Viola Centi Corriere Fiorentino, 22 novembre 2017 A Certaldo pièce su Gulotta, 36 anni in galera da innocente. Ha lottato per trentasei anni, ha resistito al carcere, alle sentenze, ai processi, grazie alla consapevolezza della propria innocenza. Giuseppe Gulotta, certaldese d’adozione, oggi ha una vita serena, con la compagna e quattro figli. Ma per raggiungere questa serenità, ha combattuto contro lo Stato, che lo ha accusato, processato e incarcerato ingiustamente per l’omicidio di due carabinieri, avvenuto a Alcamo Marina il 27 gennaio del 1976. Un duplice omicidio ancora senza colpevole che si intreccia con il più grave errore giudiziario della storia italiana: “La verità, è che due poveri carabinieri sono morti, e non si sa chi è stato. E noi abbiamo pagato per altri” dice. Gulotta è stato sballottato, in balia di decisioni di altri, senza poter avere il controllo della propria vita, per 36 anni, proprio Come un granello di sabbia: è questo il titolo dello spettacolo teatrale ispirato alla sua vita, e in scena stasera al teatro Boccaccio di Certaldo. Un monologo di un’ora, interpretato da Massimo Arena di Mana Chucui ma Teatro, compagnia di Reggio Calabria, per la regia dello stesso Arena e di Massimo Barilla. “Rivivo continuamente la mia storia, quegli anni hanno segnato la mia vita, nessuno me li ridarà mai più. Avevo 18 anni, lo spettacolo inizia proprio da lì, da quando mi arrestarono. Ero a casa a dormire facevo il muratore, e dovevo alzarmi presto la mattina. I miei genitori testimoniarono al processo, ma non valsero a nulla le loro parole”. I due militari erano stati crivellati di colpi mentre dormivano, dopo che la porta della stazione era stata aperta con la fiamma ossidrica. Gulotta e altri tre ragazzi di Alcamo furono accusati da un altro giovane del luogo, e arrestati. “In questa storia, ci sono sette vittime, i due carabinieri e noi cinque, le vite sono state cancellate per tutti quegli anni”. Gulotta, per sette anni, non è mai uscito dal carcere. “Poi ho cominciato a poter lavorare fuori. Ma non era una vita normale. Dovevo tornare in carcere. Non potevo stare con la mia famiglia, che mi ha sempre sostenuto. Ero solo un numero. Ma sapevo che ero innocente, e ho sempre creduto che la verità sarebbe venuta fuori”. La tenacia e la costanza di Gulotta lo hanno premiato: viene assolto con formula piena il 13 febbraio del 2012 dalla corte d’Appello di Reggio Calabria, 36 anni dopo l’arresto. Viene riconosciuto anche un maxi-risarcimento di 6,5 milioni di euro, investiti da Gulotta nella Fondazione che porta il suo nome, e che, con il comune di Certaldo, ha contribuito a portare lo spettacolo al teatro Boccaccio. “Ho voluto la Fondazione per aiutare innocenti come me. Vorrei che gli avvocati ci sottoponessero i casi in cui, secondo loro, c’è stato un errore giudiziario. Nessuno deve vivere quello che ho vissuto io”. “Il Consiglio d’Egitto”. Sciascia e il peso della menzogna di Edoardo Semmola Corriere Fiorentino, 22 novembre 2017 Grazie agli “Amici” dello scrittore Firenze per tre giorni sarà crocevia di studiosi e appassionati. Si parlerà del romanzo “Il Consiglio d’Egitto” ricco di temi attuali come l’impostura, la libertà, la tortura. “Hai scritto che la tortura è contro il diritto, contro la ragione, contro l’uomo: ma su quello che hai scritto resterebbe l’ombra della vergogna se tu ora non resistessi… Alla domanda quid est quaestio? hai risposto in nome della ragione e della dignità: ora devi rispondere col tuo corpo, soffrirla nella carne, nelle ossa, nei nervi; e tacere…”. Tra le pagine della letteratura più crude, realistiche, terribili dedicate dell’atto di tortura, quelle scritte da Leonardo Sciascia ne Il Consiglio d’Egitto (Einaudi 1963) occupano un posto di rilevanza, per bellezza e chirurgica precisione dei dettagli. Per la studiosa Maria Teresa Giaveri, docente dell’Accademia delle Scienze di Torino, si tratta di “una delle più belle perorazioni contro la tortura e la pena di morte applicate all’ingenuo tentativo libertario di un’anima bella”. Ecco dunque perché la Festa della Toscana “incontra” idealmente Leonardo Sciascia ospitando, da domani al 25 novembre a Palazzo Neroni, sede della Soprintendenza Archivistica e Bibliografica della Toscana, una tre giorni dedicata all’intellettuale siciliano e a uno dei suoi romanzi storici più amati dove sono raccontate le vicende che videro coinvolti, nella Palermo di fine ‘700, l’abate maltese Giuseppe Vella, artefice di una falsificazione di codici arabi in grado di minare le basi del privilegio feudale, e l’avvocato Francesco Paolo Di Blasi, promotore di una fallimentare congiura giacobina. A ridosso delle celebrazioni del 30 novembre, quando la Toscana ricorda al mondo di essere stata il primo stato della storia ad abolire tortura e pena capitale, gli Amici di Leonardo Sciascia si ritrovano così a Firenze per un doppio appuntamento: domani per la presentazione della cartella “Omaggio a Sciascia” con l’opera grafica inedita di Emilio Isgrò Il Consiglio di Sciascia e un testo critico di Maria Teresa Giaveri. E poi venerdì e sabato con l’ottavo convegno Leonardo Sciascia Colloquium, dedicato al romanzo e ai primi risultati del progetto internazionale “Sciascia e la Francia”. “Siamo alla prima tappa di una ricerca triennale su Sciascia e la Francia, che segue quelli su Sciascia e la Jugoslavia e Sciascia e la Svizzera - spiega Giaveri, specialista di letteratura francese comparata e di Paul Valery in particolare e direttrice scientifica del Colloquium - La Francia non è solo la sua patria ideale, il paese della sua cultura di formazione e il primo a tradurlo, ma anche il luogo in cui sceglieva ogni anno di ritirarsi per un periodo di tempo”. Questa ricerca sfocerà in un grande convegno alla Sorbona di Parigi nel 2019 per l’anniversario della morte dello scrittore. “Su Sciascia all’ombra di Voltaire molto è stato detto e scritto ma mi sembrava importante aiutare a mettere in luce quanto ancora in luce non è: archivi, epistolari, rapporti con gli editori, svelano quale Italia porta Sciascia in Francia e quale Francia lui “legge” in Italia. Sappiamo che Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia non nasce come romanzo ma come un progetto di traduzione del Candide, al quale lavora per anni, ma poi rinuncia e ne fa un romanzo. Troviamo tutti i riferimenti culturali a un certo tipo di mondo del ‘700 che gli arriva dalle letture francesi e poi tutto un universo di riflessioni politiche sugli anni 60-70”. Esistevano due scelte per l’approfondimento: o partire dal Candido o dal Consiglio d’Egitto. “La scelta è ricaduta sulla seconda ipotesi perché in questo caso possiamo analizzare il tentativo utopico di cambiare un sistema politico, quello della Sicilia del ‘700 e il tema della politica come modello e riferimento per l’attualità”. Su questo aspetto interverrà nella giornata inaugurale Giuseppe Campione, che è stato governatore della Sicilia dopo gli attentati a Falcone e Borsellino. “Con lui parliamo anche della recente legge sulla tortura in Italia e affrontiamo il tema della tortura e della pena capitale ne Il Consiglio d’Egitto, un libro meraviglioso proprio nel mettere in risalto, con l’abolizione dell’Inquisizione e il tentativo di riforma illuministica, il celebre assunto gattopardista del cambiare tutto per non cambiare nulla, la condanna a una immutabilità che si realizza nella doppia dimensione dell’enorme frode dell’astuto abate Vella che viene perdonata mentre l’ingenuo tentativo libertario dell’avvocato Di Blasi che viene punito con una terribile e crudele tortura narrata in maniera così lucida da risultare insopportabile”. Esistono due dimensioni parallele del pensiero sciasciano, spiega Giaveri: “Una collegata al suo tempo, ai temi politici suoi contemporanei, e una che esce fuori dal tempo, come fosse una situazione di eterna contemporaneità: lo Sciascia più moralista che politico, che indaga le questioni di giustizia, libertà, il ruolo del cittadino e dello Stato rispetto al cittadino”. Nel Consiglio d’Egitto “ricostruisce il rumore di sottofondo di una società aristocratico-borghese, e una sordità di quella che oggi chiamiamo “società civile”, con la costruzione di un certo modo cinico e miope di sentire, che ritroviamo nelle conversazione tra l’abate e la duchessa, come fosse la costruzione di un muro su cui la struttura spaventosa della giustizia si appoggia”. Da una parte “quella che oggi chiamiamo “la gente”, l’ottusità e il geloso principio di tutela dei propri interessi oltre ogni senso di giustizia di tutti i protagonisti che nel loro insieme si svelano essere disposti ad accettare la truffa dell’abate purché sia loro utile, e dall’altra la facilità con cui sono disposti a vituperare un tentativo di cambiamento in senso civile, proprio per la paura che non gli sia utile: alla fine la voce di fondo che emerge è più cinica della stessa voce del potere, e della giustizia che ne è il braccio armato”. Il convegno sarà anche l’occasione per ammirare la stampa d’artista di Emilio Isgrò che ha lavorato sulla prima pagina del romanzo con la sua tecnica di cancellature: “Ha messo in evidenza il peso della menzogna, trasformando la parola in elemento grafico di eleganza”. Dalle fake news al copia-e-incolla, il network italiano delle bufale di Carlo Brunelli La Repubblica, 22 novembre 2017 Un’inchiesta di BuzzFeed fa luce su una galassia di siti (circa 60) e pagine Facebook (ora oscurate) di proprietà della Web365, società a conduzione familiare. Disinformazione made in Italy con titoli sensazionalistici e contenuti copiati e modificati ad arte. Con un unico obiettivo: acchiappare clic. C’È un network italiano che lega siti di politica, news, Chiesa, proclami nazionalistici e disinformazione. Lo rivela un’inchiesta di BuzzFeed che ha scandagliato decine di siti e pagine social scoprendo che sono tutti di proprietà della stessa azienda, la Web365. Un’azienda a conduzione familiare composta da sei persone più un team di giornalisti, a detta del proprietario Giancarlo Colono. Non è certo una novità che esistano network di questo genere, già lo scorso anno i proprietari di LiberoGiornale erano dovuti uscire allo scoperto dopo che la bufala su l’allora neo-premier Gentiloni si era diffusa oltremodo. Il meccanismo è semplice: un solo proprietario dietro decine di siti, un unico account pubblicitario, tanto clickbait e il guadagno è assicurato. La pagina Facebook del principale sito del network della Web365 - Direttanews.it - conta circa 3 milioni di like, e secondo il software di analisi CrowdTangle ha ottenuto più di 5 milioni di condivisioni ai suoi articoli nell’ultimo anno. Non male per un network a conduzione familiare, considerando che DirettaNews24 è solo uno dei 175 siti controllati dalla Web365 di Colono, che spaziano dallo sport al gossip, dalla salute agli animali domestici, dall’attualità alle quote delle scommesse. Inoltre il fratello di Giancarlo, Davide Colono, risulta dipendente di un’altra azienda - secondo BuzzFeed appartenente alla stessa famiglia - che conta altri 60 siti internet, la NextMediaWeb. Un unico filo conduttore li lega, il titolo sensazionalistico sul sito e i titoli clickbait sui social network. Cercare di portare più persone possibili sui propri domini facendole credere in cure miracolose con titoli come “Incredibile, 10 minuti e il tumore sparisce”, articoli che fanno leva sul sentimento anti-immigrati vengono pubblicati con titoli come “Germania, la Merkel parla e gli immigrati hanno in mano la città”, “Birmingham, la città più islamizzata si prepara per il Natale”. Ma non sono solo bufale, la strategia è molto più complessa. Dopo la stretta di Facebook contro le fake news, i siti del network si sono adeguati. Niente più notizie sensazionalmente inventate, ma notizie vere, copiate in toto dai quotidiani nazionali, che vengono anche citati, e rese più attraenti - o indignanti - come ad esempio questa: “Pensioni, la Cgil boccia anche l’ultima proposta del governo: Mobilitazione il 2 dicembre”, ripresa completamente dal sito di Repubblica, alla quale viene aggiunto un piccolo trafiletto introduttivo: “Camusso sfancula gentiloni sulle pensioni”, con linguaggio scurrile e il nome del premier scritto in minuscolo. La notizia a questo punto è pronta per essere rilanciata sui social con un titolo sensazionalistico (il vernacolare trafiletto introduttivo di cui sopra) e viene postata da una delle pagine del network dal nome “Quello che i Tg non dicono” (forse non lo diranno i Tg, ma la notizia è interamente presa, ancora una volta, da Repubblica). La notizia ovviamente scatena commenti indignatissimi: “troia..... ma non nel senso della città greca...... come tutti i suoi compari traditori”, scrive un utente. Così parlano alla pancia del Paese. Ma la vera passione della famiglia Colona è la fede religiosa. La Luce di Maria, la cui pagina Facebook conta 1 milione e mezzo di follower, è stata spesso rilanciata anche dagli altri siti del network. Miracoli, apparizioni, testimonianze. I profili social privati dei membri della famiglia Colono sono quasi monotematici: video su YouTube, post su Facebook e tweet, tutto sulle miracolose apparizioni. Non mancano poi gli entusiasmi nazionalistici. Una delle pagine del network più frequentate, iNews24, ha un gruppo collegato dal nome “Prima gli italiani - inews24.it”. La pagina di Direttanews.it un anno fa condivideva gli spot referendari di Matteo Salvini. Non mancano le proteste contro i diritti Lgbt e contro le leggi anti-discriminazione. Oggi di quello che è stato rivelato dall’inchiesta di BuzzFeed resta molto poco. Le pagine e i gruppi Facebook sono stati chiusi o oscurati dal social. Ma probabilmente stanno aspettando di non essere più sotto la luce dei riflettori. I siti invece sono ancora online, pronti per essere visitati. Bullismo, le vittime alzano la voce di Luca Dondoni e Barbara Cottavoz La Stampa, 22 novembre 2017 Novara, all’incontro de “La Stampa” con Emma Marrone i ragazzi escono allo scoperto. 900 ragazzi ieri hanno riempito il Teatro Coccia di Novara per parlare di bullismo con “La Stampa” ed Emma Marrone. Chi si sarebbe mai aspettato che una volta apertosi il grande sipario del Teatro Coccia con Emma Marrone avremmo vissuto due ore e mezza di emozioni da pelle d’oca. I 900 ragazzi presenti all’incontro con una delle cantanti più amate del nostro Paese sapevano che ieri non si sarebbe parlato di musica. L’argomento li riguardava da vicino, a Novara è morta suicida a 14 anni Carolina Picchio, la prima vittima italiana di cyberbullismo, ma non era facile da affrontare. Un conto è parlare di bullismo e un conto è farsi raccontare come si sente chi le vessazioni le soffre tutti i giorni. Per questo, dopo aver ascoltato le esperienze di vita (“alzi la mano chi non ha mai vissuto sulla sua pelle qualche sopraffazione da parte di qualche coetaneo”) di un’artista che da sempre si batte perché la parola “bullismo” sparisca dal vocabolario ed essere entrati fin dentro le viscere di un problema sfuggente e strisciante, il microfono si è spostato in platea. È bastato che uno solo degli studenti dicesse la sua, Kevin è il suo nome e gliene siamo grati, per dare il via a un flusso ininterrotto di testimonianze. Una dopo l’altra le giovanissime vittime sono uscite allo scoperto, hanno confessato soprusi, violenze verbali o fisiche. Un pugno allo stomaco e più volte i nostri occhi si sono incontrati mentre ci asciugavamo lacrime. Chi si sarebbe aspettato che apertosi il grande sipario del Teatro Coccia anche il nostro cuore si aprisse così. “I miei genitori mi dicono ignora, ignora, ignora. Ma ora che sono qui con un microfono in mano davanti a novecento persone, voglio parlare. Qui ci sono i miei compagni, quelli che ogni giorno ridono di me chiamandomi “bambino” o “gay”. Voglio che sappiano quanto dolore mi sto tenendo dentro da anni”. Alessio rivela a Emma Marrone e al pubblico del Teatro Coccia le sue lacrime nascoste. Come lui fanno Gaia, Marco, Kevin, Ilaria e tutti gli altri. Parole dure come pietre. Parole che chiedono solo di essere ascoltate, senza commenti. “Tre anni fa sono stata picchiata davanti a tutti. L’ho raccontato ai miei genitori, abbiamo fatto causa ma per lo Stato italiano il bullo che mi ha fatto del male era solo un ragazzino che non capiva che cosa stava facendo. Ma io credo che a 15 anni uno capisca. Dite tutti: parlate, denunciate, ribellatevi. Ma se alla fine per lo Stato sono tutti innocenti, allora è soltanto una presa in giro”. Rebecca “Ho 11 anni. A scuola mi hanno bullizzato per più di un mese. I miei genitori hanno chiamato la polizia: li hanno beccati e la cosa è finita lì. Ma un conto è parlare, un conto è esserci dentro. Credetemi, non è affatto bello: è brutto, bruttissimo”. Samuele “Per tutte le medie mi insultavano, mi chiamavano frocio. Sono stato male per?anni. Poi in seconda superiore, grazie a delle amiche dolcissime ho capito quello che sono e ho accettato la mia omosessualità. Ma per colpa loro sono stato male: per anni mi hanno fatto sentire non normale”. Kevin “In prima due bambini tutti i giorni mi buttavano in un cespuglio e mi picchiavano. Ho chiesto aiuto a casa, alla maestra, al preside. Non cambiava mai niente e ho dovuto andare via. Poco tempo fa ho incontrato uno di quei bulli mi ha chiesto scusa e ora siamo amici”. Alessio “I miei genitori, quando parlano di quelli come me usano parole terribili. Non sanno che così insultano anche me. A scuola mi chiamano gay, e c’è da dire che lo sono. La sera non riesco a dormire, piango tutte le notti. Da anni”. Marco “Da bambina non ero bella, giocavo a calcio, mi piaceva cantare. Non mi andava di giocare a mamma e figlia come facevano le compagne. Così le altre mi picchiavano: non avevo amici, anche in famiglia c’erano problemi. Per 5 anni sono stata sola. Poi ho incontrato un’amica e mi ha insegnato a difendermi. È stata lei a salvarmi”. Ornella “Qui a Novara Carolina si è uccisa per colpa dei bulli. A suo papà io voglio dire che non è stato un caso. Anch’io mi sono chiesta spesso: che senso ha continuare a svegliarsi la mattina per trovare altri insulti su WhatsApp?”. Ilaria “In classe ero l’unica nera, facevo fatica a imparare mi sentivo diversa. Un giorno la maestra mi ha detto: “Devi studiare altrimenti finirai a lavare i cessi come tua madre”“. Stella “Alle medie mi chiamavano “troia”. C’erano dei ragazzi interessati a me e questo bastava: ormai dare della puttana a una ragazza è come dire ciao. Adesso sono al liceo classico. Ho pensato: se sto zitta le cose cambieranno. Così sono diventata timida. Ma qui se sei timida ti dicono stupida. Un ragazzo me lo ha detto, e tutti gli altri ridevano. Se scherzo e piaccio ai ragazzi sono una troia, se sto per conto mio sono una stupida. Ma adesso me lo spiegate come cazzo devo essere io?”. Gaia Gianfranco Bettin: “I migranti organizzati sono un salto di qualità” di Ernesto Milanesi Il Manifesto, 22 novembre 2017 Il presidente della municipalità di Marghera sulla marcia della dignità di domani. Dopo la “piccola Selma” nel cuore del Veneto, marcia anche la volontà di “cambiare l’ordine delle cose”. L’accoglienza dei migranti come priorità: domani nell’ex base militare di Conetta torna in visita una delegazione parlamentare (Giulio Marcon di Si con Michele Mognato e Davide Zoggia di Mdp) e il 3 dicembre al centro Frentani di Roma è convocato il Forum nazionale promosso da Amnesty, Banca Etica, Msf, Jole Film e ZaLab. “La marcia della dignità da Cona fino a Codevigo, Mira, Piove di Sacco ha attraversato le nostre strade, i nostri paesi e il nostro sguardo. Il ritorno sulla scena dei migranti era, e resta, impossibile da rimuovere”, chiosa Gianfranco Bettin, presidente della municipalità di Marghera che ha promosso con tanti altri l’appello della “società civile veneziana” nel ricordo di Sandrine Bakayoko e di Salif Traorè. E aggiunge: “La marcia dei migranti rappresenta un salto di qualità. È la presa diretta d’iniziativa da parte degli ospiti dell’hub che mette, finalmente, in campo un attivizzarsi strategico. Penso sia anche un salto di qualità nella ricezione, perché la marcia ha toccato molti che prima non avevano reagito al problema. Certo, c’è pure avversione e ostilità, che non vanno nascoste. Tuttavia, la marcia ha spinto istituzioni e opinione pubblica a misurarsi con quell’esodo. Con rare eccezioni momentanee, il fatto che i migranti fossero ammassati a Cona o nella vicina Bagnoli di Sopra era stato accantonato, rimosso. Invece, sono usciti dall’angolo e hanno piazzato la loro vicenda al centro dell’attenzione”. Una “piccola Selma” nel Veneto dei campanili e delle piccole patrie: perché? E le reazioni neo-fasciste cosa ci dicono? Avevo fatto subito riferimento alla “strada della libertà” negli Usa, perché come nel 1965 anche ora a Nord Est si pone con forza la questione dei diritti. I migranti di Cona, e non solo, vogliono sapere se sono o meno rifugiati. E soprattutto hanno ricordato a tutti che non possono venir lasciati in un limbo che facilmente si trasforma in un piccolo inferno. D’altro canto, lo striscione di Forza Nuova contro il patriarca Francesco Moraglia è un’odiosa reazione. Del resto, nel Veneziano c’è un recente proliferare di pericolose iniziative che hanno per bersaglio chi si occupa di migranti o sociale. L’altro giorno le svastiche nella sede della coop sociale Gea e prima sui minibus del trasporto disabili. Un problema che va colto, registrato e affrontato fino in fondo. Tornando all’accoglienza, è davvero scattato un cambio di prospettiva? Non ci si può illudere di aver risolto tutto, trasferendo 250 migranti. A Cona ne restano altri 800, più quelli a Bagnoli o nell’ex caserma di Treviso. Il punto vero è chiudere la stagione dei grandi ammassamenti, della strategia “emergenziale” che non porta a niente, crea un impatto difficile e sofferenze a chi viene accolto. Serve un piano del governo e della Regione che consenta davvero un’accoglienza diffusa nel territorio, degna di questo nome, rispettosa dei diritti: per altro, si traduce in integrazione trasparente e sotto controllo. Altrimenti, si resta prigionieri di una logica timida, miope, tentennante che affida al “mercato” perfino i percorsi di integrazione (casa, lavoro, scuola dei figli) degli immigrati regolari. In Veneto, poi, si scontano l’inerzia e l’ostilità delle amministrazioni locali… Alla politica dell’emergenza dei vari governi fa da aggravante la chiusura dei Comuni, con in prima linea Lega e destra. Mero opportunismo, sulla base di egoismi e convenienze, che rifugge da qualsiasi responsabilità in una materia così impopolare. E a volte contagia municipi di centrosinistra. Ma se l’accoglienza diffusa diventa impossibile, scattano i maxi-centri come Cona. Dobbiamo invece uscire dalla morsa fra politiche nazionali (insufficienti e ossessionate solo dalla riduzione del numero o dall’occultamento delle presenze) e falso “autonomismo” amministrativo, che impedisce il vero governo del fenomeno. Intanto, il governatore Luca Zaia tace. Cosa avrebbe dovuto fare? Se la chiesa non si è tirata indietro, insieme a tanti altri, la Regione avrebbe potuto eccome aprire subito un tavolo di trattativa con il governo. Poche settimane per organizzare la redistribuzione delle migliaia di migranti. E poi mettere in campo un’effettiva gestione dell’accoglienza e dell’integrazione. Invece Zaia continua a citare la Caritas per dimostrare che il Veneto non ha nulla da rimproverarsi. Equivoco alimentato senza verifiche. Perché il rapporto Caritas parla di integrazione sulla base della convenienza, cioè di integrazione della mano d’opera migrante e del business negli affitti. Dunque, “accoglienza” su basi socio-economiche e non grazie alla propagandata “buona politica” di Zaia. Del resto, l’immigrazione non fa certo parte delle 23 materie del contendere fra la Regione e il governo di Roma. Nati invisibili, dieci milioni di apolidi nel mondo di Germana Lavagna Corriere della Sera, 22 novembre 2017 A parlare di apolidia, vengono subito in mente i Rohingya, la minoranza etnica di religione islamica che sta fuggendo in massa dal Myanmar: 607 mila persone, a partire dal 25 agosto 2017. Più di un milione, se si aggiungono quelle fuggite nei mesi precedenti. Apolide, però, non significa per forza profugo. Apolide vuole dire una ancora più basilare: non poter godere di alcun diritto in quella che si definisce la propria casa. E di apolidi, nel mondo, ce ne sono milioni. Comunità minoritarie, discriminate su base razziale, religiosa, politica, o semplicemente per tradizione. Ci sono Stati che hanno leggi fatte apposta per discriminare le minoranze residenti nei propri confini. Ci sono eserciti che operano per ghettizzare, umiliare ed emarginare. Ci sono persone comuni che odiano e discriminano i propri stessi vicini di casa. Nel rapporto “This is our home”: Stateless minorities and their search for citizenship”(Questa è la nostra casa: minoranze apolidi e la loro ricerca di una nazionalità), pubblicato in occasione del terzo anniversario del lancio della campagna Unhcr #IBelong per porre fine all’apolidia, vengono raccontate le storie di persone apolidi, persone che lo sono state o persone appartenenti a minoranze a rischio di apolidia in Madagascar, Ex-Repubblica Jugoslava di Macedonia e Kenya. “La gente ci dice di tornarcene da dove siamo venuti. Di tornare a Mumbai. Ma non conosciamo Mumbai. Siamo nati qui.” Nassir Hassan è della minoranza dei Kerana, stanziata in Madascar da oltre in secolo. Circa 20.000 persone (i dati, però non sono certi) di questa minoranza di origine è indiana e, prevalentemente, di fede musulmana, sono formalmente apolidi. Questo vuol dire che non possono accedere ai servizi basilari di servizio pubblico: sanità, educazione, assistenza sociale. Ismael Ramjanali è riuscito ad ottenere la cittadinanza francese solo quest’anno. Non quella malgascia, perché la legge che stabilisce il diritto alla cittadinanza, in Madagascar, segue il principio dello jus sanguinis. Ismael non ha potuto frequentare l’università, perché per iscriversi ai corsi, occorre prima aver atteso al servizio militare, ma senza cittadinanza, non si ha il diritto di fare la leva. E così, un circolo vizioso che coinvolge la sua famiglia da generazioni. La madre di Ismail, Sougrabay, ha 84 anni è tuttora apolide e non ha mai potuto andare a scuola. In Macedonia, subito dopo la caduta di Tito e frammentazione della Yugoslavia, migliaia di rom si è ritrovata in una situazione di apolidia, non riconosciuti dal nuovo stato e incastrati in trafile burocratiche infinite. “La discriminazione contro noi rom è diffusa ovunque. Negli ospedali, nelle stazioni di polizia, nelle scuole. Chiunque si sente in diritto di prevaricarci. Le stesse istituzioni sono arroganti e ostili. Ci dicono di andarcene, ma questa è casa nostra. I nostri nonni sono nati e cresciuti qui”. Le stime ufficiali parlano di 54000 mila rom presenti in Macedonia, ma è possibile che la cifra si di molto superiore. Centinaia di migliaia di persone diventano così fantasmi nella loro stessa patria. In Kenia esiste una piccola comunità minoritaria, si chiama Pemba, come il nome dell’isola della Tanzania, di cui è originaria. Non si tratta di una comunità numerosa, le stime affermano che i Pemba in Kenia siano circa 3500. Altre vite incastrate nel limbo dell’apolidia. “Il problema più grosso è la povertà, causato dalla mia impossibilità di diventare cittadino. Senza documenti non posso ottenere la mia licenza di pesca e senza licenza non posso andare in mare aperto a pescare. Non ho i soldi per comprarmi una barca o per mantenere la mia attrezzatura: senza carta di identità, le banche non mi concedono finanziamenti. E anche se potessi comprarmi una barca, non avrei la possibilità di registrarla a mio nome. Un apolide non può possedere nulla”. “Gli apolidi cercano solo di godere degli stessi diritti fondamentali di cui godono tutti gli altri cittadini. Ma le minoranze apolidi, come i Rohingya, sono spesso vittime di discriminazioni e di una sistematica privazione dei propri diritti,” ha dichiarato l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati Filippo Grandi. “Siamo qui. Siamo i vostri vicini di casa. Quando piove, piove su tutti noi. Quando il sole splende, splende su tutti noi”. Bachir Ibrahim, apolide Kerana. Turchia. Le parole più potenti dei regimi di Asli Erdogan La Repubblica, 22 novembre 2017 La mia carriera di giornalista, durata 5 anni, in realtà è stata un disastro: mi hanno licenziata due volte, ho perso la posizione e la rispettabilità che mi ero guadagnata come scrittrice, ho assaggiato la povertà, un linciaggio sociale, ho ricevuto più volte minacce e infine mi hanno arrestata. Cosa posso dire della libertà da autrice e poi da giornalista dilettante? Che razza di mela ho mangiato o offerto persino ad altri per finire in questo concretissimo esilio? Esordendo come giornalista avevo dichiarato: “Non ho formule, né soluzioni, né ricette. Non avanzerò richieste né inviti al potere, cercherò solo di essere la voce dell’altro. Io cercherò di dar voce alle grida silenziose - silenziate o inascoltate della vittima”. Le parole sono gli unici strumenti che ho in cui le grida o sorse solo i loro echi vibrano e talvolta, raramente, diventano una canzone. Mai come dietro le sbarre le parole hanno avuto per me più lunga eco. Quando ti mettono in catene, come se fossi un animale feroce, senti l’eco della parola “libertà”. La parola “dignità” prende corpo, diventa tridimensionale, nel momento in cui ti urlano “Alzati! levati le mutande!”. Grazie a un’altra parola, così antiquata, così trita, “solidarietà”, sopravvivi al dolore, al freddo, alle umiliazioni. Aggrappandoti a una parola ti rialzi, puntellandoti a un’altra resti in piedi. “Libertà” è una parola che non può mai esser messa a tacere, scrissi in cella su un foglietto che riuscii a far uscire. Ero in carcere perché non riuscivo a restare troppo a lungo sorda e muta al richiamo di questa impossibile espressione, appartenente a un lontano passato e al suo stesso futuro: l’essere umano. Mi hanno chiusa in cella perché scrivevo delle atrocità commesse in una cittadina curda, Cizre. Ero (e sono tuttora) sotto processo per aver raccolto gli ultimi messaggi, le ultime voci, le ultime grida e le ceneri di 150 persone sepolte vive nei sotterranei, trasformandole in letteratura. Forse chi di voi ha letto i miei racconti e i miei articoli non riesce a capire perché questi testi “umanistici” possano essere considerati una minaccia. Immagino che l’unico motivo sia che questo genere di testi non scende a compromessi né può farlo. Ma questa assenza di compromessi sa parte della letteratura stessa, non di me come persona, rientra nella ‘parolà. La mia vicenda è molto comune in un Paese in cui attualmente 150 giornalisti si trovano in cella. Nella storia della Repubblica turca sono stati assassinati più di 100 giornalisti, in maggioranza curdi e armeni. Vorrei citare due nomi, con grande rispetto: Hrant Dink, giornalista armeno, direttore di Ayos, ucciso nel 2007 e Musa Anter, il settantenne intellettuale curdo assassinato negli anni 90. Vorrei concludere con un aneddoto. Al secondo mese di carcere una rivista per cui scrivevo, Fil (Elesante), preparò un numero speciale su di me. Uno dei loro cronisti era andato a Cizre, ormai cancellata dalla faccia della terra, a fare domande alla gente in strada sul mio arresto. Dissero al giornalista: “Le dica che anche se tutto il mondo la dimentica, noi non lo saremo”. Ho pianto di gratitudine. Tutto assumeva un significato e un sine. Termino con una frase famosa: “Se non conosci il potere delle parole non conosci la gloria dell’umanità”. (Traduzione di Emilia Benghi) Libano. Nella roccaforte dei sunniti sotto assedio: “per tutti siamo terroristi” di Giordano Stabile La Stampa, 22 novembre 2017 Nei quartieri di Tripoli l’incubo della guerra con gli sciiti. Domani Hariri tornerà a Beirut, vedrà il presidente Aoun. La pittura blu sui condomini sgarrupati della via centrale del quartiere Al-Tabbani si sta già scrostando. Era un “regalo” di Saad Hariri per il rinnovamento dell’area più povera di Tripoli, la città nel Nord del Libano roccaforte dei sunniti e del suo partito, Future. “Il quartiere doveva essere rimesso a nuovo - spiega Mohammed, 36 anni, percussionista dilettante che campa dando un mano all’officina meccanica dello zio - ma gli imprenditori che hanno preso l’appalto si sono mangiati i soldi, hanno dato una mano di blu ed è finita lì”. Il blu è anche il colore del partito Future e l’idea era di fare della strada un grande spot elettorale in vista del voto parlamentare, rimandato di anno in anno, e che ora si dovrebbe tenere a maggio. Sempre che i venti di guerra, come si è visto alla riunione della Lega araba, non mandino tutto all’aria. Hariri oggi volerà in Egitto a incontrare Abdel Fateh Al-Sisi; domani sarà in Libano per la festa dell’Indipendenza e il colloquio, molto più problematico, con il presidente Michel Aoun. Le posizioni su Hezbollah, e il suo “strapotere”, sono distanti. Tira aria di una lunga crisi. “Hezbollah, la Siria, l’Iran si sono presi il Libano, pezzo dopo pezzo - continua Mohammed -. Ora comandano loro. Solo l’esercito resta ancora nazionale, non so per quanto. Per il resto, se sei sunnita, sei un terrorista, non troverai mai un lavoro decente. Scuole, ospedali, anche le ditte private: assumono solo sciiti. Avevo la barba lunga, da salafita, me la sono accorciata ma non è servito, appena arrivo a un posto di blocco la polizia mi ferma e perquisisce”. Tripoli e Al-Tabbani in particolare sono la base elettorale dei partiti sunniti. Ma sono anche il covo di movimenti salafiti estremisti, che ruotano attorno allo sceicco Salim Rafei, sospettato di essere vicino al gruppo Al-Nusra, l’Al-Qaeda siriana. Nella centrale piazza Al-Nur i cartelli recitano: “Qalat al-muslimin”, Fortezza dei musulmani. La Siria è a quaranta chilometri e l’impatto della guerra civile si è fatto sentire. Fra il 2008 e il 2014, ad Al-Tabbani si è combattuto un conflitto a bassa intensità, fra i sunniti e gli sciiti che vivono nel quartiere accanto, Jabal al-Mohsen. Mohammed, piccoletto, occhi chiari e in testa il berrettino dei salafiti, fa capire che ha partecipato e si è fatto anche un anno e mezzo di prigione in Siria. Non chiarisce, però, se per i tumulti di Tripoli o perché è andato a combattere là. La longa manus siriana a Tripoli è stata pesante: nel massacro di Al-Tabbani, nel 1984, sono morte 400 persone. La voglia di vendetta non si è placata: fra il 2011 e il 2015 i gruppi salafiti hanno inviato trecento giovani a combattere contro Bashar al-Assad, ma “solo cento sono tornati”. Da quarant’anni ad Al-Tabbani “si combatte e si fa la fame”, ammette Mohammed. Eppure, prima della grande guerra civile (1975-1990) era “un quartiere ricco”, si chiamava ancora con il vecchio nome Bab al-Zahab, la porta dell’oro, “c’era molto commercio, depositi, magazzini”. Ora i condomini Anni Settanta, anneriti, cadono a pezzi. Fra le officine misere e luride, i banchetti che vendono succo d’arancia e melograno, ci sono le postazioni, in cemento armato, dell’esercito. Uno Stato sotto assedio. “Non abbiamo nulla contro l’esercito ma il governo, Hariri o non Hariri, ci ha lasciati all’abbandono, si ricorda di noi solo prima delle elezioni: un cartone con un po’ di cibo e cento dollari”. La stessa sensazione di abbandono la dà, in alto sulla collina, il quartiere sciita di Jabal a-Mohsen. Le facciate dei palazzi sono ancora crivellate dai proiettili. Un massiccio check-point filtra gli ingressi all’imbocco della strada che porta in alto. A Tripoli gli sciiti sono circa l’8 per cento, i cristiani il cinque. “Ho amici cristiani, e sunniti - spiega Khalil, 27 anni, al lavoro nella ferramenta dello zio ma con il sogno di diventare architetto - ma qui è così, oggi non succede niente, domani cominciano a sparare”. Per questo ora gli sciiti tengono un profilo basso: “Non esponiamo più i ritratti di Bashar (al-Assad) perché basta un niente per far riesplodere la guerra”, conferma lo zio. Tripoli, e il Libano, sono appesi a una scintilla che può far saltare tutto, e ai contrasti settari si aggiungono quelli sociali. Accanto alla miseria di Al-Tabbani ci sono i quartieri residenziali dove stanno alcune delle famiglie, sunnite, più ricche del Libano, come quello detto Mia Mia, “cento per cento”. Le vie alberate sono punteggiate dai cartelloni con il ritratto di Saad Hariri sorridente e le scritte “Natrinak”. “Ti aspettiamo”. Tutti, forse no. Afghanistan. Il boom dell’oppio e il ko Usa di Gianandrea Gaiani Il Mattino, 22 novembre 2017 L’aumento delle coltivazioni indica la mancanza di controllo del territorio. Le forze aeree statunitensi hanno bombardato lunedì laboratori per la produzione di droga nella provincia di Helmand, nel sud dell’Afghanistan. Il generale John Nicholson, comandante delle truppe Usa e dell’operazione Resolute Support della Nato in Afghanistan, ha spiegato che l’operazione congiunta con le forze afghane è solo all’inizio. Alle incursioni hanno partecipato bombardieri B-52 e caccia F-22 che hanno effettuato tre dei raid nel distretto di Kajaki, quattro in quello di Musa Qala e uno nel distretto di Sangin. Le nostre operazioni congiunte sono una dimostrazione della nostra volontà di sconfiggere i terroristi e chi li sostiene, soprattutto le reti del narcotraffico”, ha aggiunto Nicholson. Immediata è arrivata la smentita del portavoce talebano Qari Jusuf Ahmadi. “Non ci sono laboratori per la produzione di droghe nell’area. Vogliono solo nascondere il fatto che hanno bombardato i civili”, ha scritto su Twitter. I dati sulla produzione di oppio in Afghanistan hanno sempre costituito uno dei più importanti indicatori dell’esito delle operazioni militari tese a strappare ai talebani il controllo del territorio e soprattutto delle aree rurali in cui la coltivazione del papavero rappresenta una delle maggiori fonti finanziarie per la popolazione e l’insurrezione jihadista contro il governo di Kabul. Per questo il rapporto annuale reso noto nei giorni scorsi dall’Ufficio dell’Onu contro il traffico di droga e la criminalità organizzata (Undoc) è considerato “profondamente allarmante” dal direttore dell’agenzia del Palazzo diVetro, il diplomatico russo Yuri Fedotov. La produzione di oppio ha visto un incremento senza precedenti quest’anno, raggiungendo le 9mila tonnellate, in crescita dell’87% rispetto al 2016 che già aveva visto una crescita del 43% secondo quanto riferì nel febbraio scorso il rapporto al Congresso americano dell’Ispettorato generale speciale Usa per la ricostruzione in Afghanistan (Sigar). Dati che rappresentano il fallimento delle iniziative di eradicazione delle piantagioni di papaveri da oppio (costate 8,5 miliardi di dollari solo alle agenzie antidroga statunitensi) e rivelatesi ne12016 “pressoché impercettibili”, secondo l’Undoc che aveva stimato la produzione in 4.800 tonnellate valutando i proventi dell’oppio che finanziano l’insurrezione anti-governativa pari a 1,56 miliardi di dollari (il 7,4% del Pil afghano del 2015). Il rapporto dello scorso anno rilevava che “la resistenza dei contadini alle operazioni di eradicazione è talvolta stata violenta. Le province che coltivano papavero sono anche le uniche che possono fare a meno dell’assistenza internazionale” mentre “il papavero fornisce sostentamento a 4 milioni di afgani”, oltre il 10% della popolazione afghana. Quest’anno la situazione è quindi ulteriormente peggiorata con l’area coltivata a papavero cresciuta del 63%, passando da 201.000 a 328.000 ettari diffusi in 24 delle 34 provincie afgane. Solo 10 provincie sono considerate libere dalla coltivazione contro le 17 del 2012, anno in cui il Sigar stimò che il commercio dell’oppio rappresentasse il 60% del bilancio dei talebani e che segnò la progressiva espansione delle coltivazioni man mano che le forze di combattimento Usa e Nato (50 Paesi con 140mila militari schierati in Afghanistan nel picco raggiunto nel 2011) cominciarono il ritiro completato nel 2014 lasciando in Afghanistan meno di 15mila militari alleati con compito di supporto e addestramento delle truppe di Kabul. La provincia meridionale di Helmand rimane quella che registra l’ aumento maggiore (+79%) della produzione di oppio con un dato che ancora una volta è riconducibile alla situazione militare poiché negli ultimi 12 mesi le truppe afghane hanno perso il controllo di quasi tutto il territorio della provincia e lo stesso capoluogo, Laskhar Gah, è minacciato direttamente dagli attacchi. Seguono le altre province meridionali, occidentali e orientali di Kandahar, Badghis, Faryab, Uruzgan e Nangarhar, aree abitate per lo più pashtun e storicamente roccaforti dei talebani. Nangarhar, nell’est del Paese, vede attualmente la più massiccia presenza di milizie dello Stato Islamico combattute dal governo diKabul e dagli stessi talebani che li considerano rivali nel “monopolio deljihad”. La presenza di questa provincia nella “top ten” della produzione di oppio sembrerebbe indicare che anche l’Isis afghano utilizza i proventi del papavero per finanziarsi. Fedotov ha commentato il rapporto sottolineando il pericolo che gli insorti, ben finanziati dall’oppio, possano intensificare la minaccia contro le deboli istituzioni afghane, notando che le 9.000 tonnellate del 2017 “rappresentano una produzione perfino in eccesso rispetto alla domanda globale di droghe derivate dall’oppio” ma rilevando che non tutta la droga prodotta viene esportata poiché in Afghanistan sono in costante incremento i tossicodipendenti. Un dato già emerso negli anni scorsi dagli allarmanti esiti degli esami clinici effettuati tra le reclute arruolate nell’esercito e polizia afghani. “Gli sforzi economici dei Paesi donatori effettuati nell’ultimo decennio per incentivare gli agricoltori a passare ad altre coltivazioni ad elevato rendimento economico non hanno dato grandi risultati”, sottolinea il rapporto dell’Undoc. Del resto un ettaro coltivato a oppio rende il quadruplo del grano mentre altre colture più redditizie (come lo zafferano proposto anche dal contingente italiano nell’Ovest del Paese) hanno registrato difficoltà di accesso ai mercati internazionali a causa dell’isolamento dell’Afghanistan, delle minacce talebane e dell’assenza di collegamenti stradali praticabili e sicuri. Il boom della produzione di oppio è quindi la conseguenza diretta della sconfitta subita (ma mai riconosciuta) dalla Nato e soprattutto dagli Usa, vincitori sul campo di quasi tutte le battaglie ma (come in Vietnam) incapaci di mantenere il presidio del territorio il lungo tempo necessario a emancipare veramente le forze di Kabul. Una delle più gigantesche bufale della storia militare recente (ancora non andava di moda parlare di “fake news”) è rappresentata dal bombardamento mediatico con cui Usa e Nato hanno spiegato al mondo che le forze di Kabul erano sempre più capaci di gestire da sole le operazioni contro gli insorti. Una bugia necessaria a giustificare il ritiro preannunciato da Barack Obama nel 2010 e attuato a partire dall’anno successivo, ma a cui pochi credevano, soprattutto tra gli addetti ai lavori. Del resto era sufficiente osservare da vicino i kandak (battaglioni) dell’esercito o i reparti di polizia per rendersi conto che, salvo poche unità d’élite, erano composti il larga misura da analfabeti che non avrebbero potuto apprendere molto neppure dai migliori istruttori alleati. Solo l’anno scorso i caduti tra le truppe afghane sono stati più di 7mila (5mila nel 2015) e i feriti oltre 12mila. Un rateo di perdite, a cui aggiungere migliaia di diserzioni, che risulta ingestibile anche arruolando, addestrando e inviando ai reparti reclute quasi prive di addestramento. Una situazione che non potrà essere riequilibrata dalla decisione di Donald Trump inviare altri 3mila militari statunitensi ai quali si aggiungeranno forse 700 europei con compiti di supporto e addestramento. Rinforzi esigui con compiti limitati che confermano la discontinuità con cui Washington e gli europei hanno gestito 16 anni di guerra rendendo inutile il sacrificio degli oltre 3500 militari alleati (più di 2400 statunitensi, 54 italiani) caduti dall’ottobre 2001 in Afghanistan. Cina. Denuncia torture contro i detenuti: avvocato condannato a due anni di Eugenia Fiore Il Giornale, 22 novembre 2017 La sentenza che conferma il giro di vite meso in atto da Pechino contro i critici del regime. L’ultima vittima dall’arrivo al potere di Xi Jinping è Jiang Tianyong, attivista e avvocato cinese condannato a due anni di prigione per “incitamento alla sovversione contro lo stato”. Il motivo? Il 46enne avrebbe criticato la retata attraverso la quale più di 200 avvocati o attivisti per i diritti umani sono stati interrogati o fermati a partire dal 9 luglio 2015. Le torture in prigione - Secondo quanto riporta Le Figaro, la Corte di giustizia cinese ha dichiarato che l’avvocato avrebbe gradualmente cercato di sovvertire il sistema politico dopo essere stato influenzato da alcune “forze straniere anticinesi” durante un viaggio fuori dal Paese. Inoltre, l’uomo avrebbe aiutato un altro avvocato a rendere pubbliche alcune affermazioni in cui quest’ultimo raccontava di aver subito delle torture durante la sua detenzione. Il giro di vite - La sentenza che conferma il giro di vite messo in atto da Pechino contro i critici del regime. Jiang, 46 anni, in passato si era occupato anche di dossier delicati, come i seguaci del Falun Gong, le proteste in Tibet e le vittime del 2008 per il latte contaminato. Nel 2009 era stato destituito dall’ordine degli avvocati, ma aveva continuato a lavorare come attivista. A novembre dello scorso anno era stato portato via dalla polizia, dopo aver fatto visita alla moglie del collega avvocato Xie Yang vittima della repressione, e da allora i familiari non sono più riusciti a contattarlo. Dopo un processo che l’organizzazione per i diritti umani Amnesty International ha definito “una farsa”, la corte ha giudicato Jiang “colpevole di incitamento alla sovversione contro i poteri dello Stato e diffamazione del governo”, accusandolo anche per i suoi viaggi all’estero e per i suoi contatti con organizzazioni straniere. “Jiang Tianyong è stato a lungo influenzato dalle forze straniere anti-cinesi”, ha detto il giudice. La corte ha anche ritenuto colpevole il 46enne di aver usato i social media per attaccare il governo cinese per incitare altri a manifestare in pubblico.