Gli “ottimi frutti” del 41bis li vede solo il dott. Di Matteo di Valter Vecellio Il Dubbio, 21 novembre 2017 È sempre utile, istruttivo, leggere le analisi e le riflessioni del sostituto procuratore della Direzione Nazionale Antimafia dottor Nino Di Matteo. Emanuele Macaluso, nel suo blog, giorni fa, con sottile perfidia sottolinea che assieme all’ex collega Antonio Ingroia, Di Matteo è protagonista di arringhe “nei processi (persi) che anticipavano quello in corso sulla cosiddetta trattativa Stato-Mafia. Eroe di questi processi, com’è noto, è stato Massimo Ciancimino, figlio di Vito, con testimonianze epiche e trasmissioni in tv, esaltazioni di giornali e financo di libri, e infine sbugiardato nel corso di questi stessi processi e di altri”. Sempre Macaluso ricorda che recentemente Ciancimino figlio “è stato condannato a sei anni per calunnia e ha collezionato altre condanne e processi per detenzione di candelotti di dinamite, per riciclaggio, per falsa testimonianza”. Ma questo è contorno. Val la pena di prestare attenzione a quanto, attraverso “La Repubblica” il dottor Di Matteo ci rammemora. Si lancia un allarme su ancora possibili “azioni eclatanti” da parte della Cosa Nostra; e chi ritiene che non sia più interessata a delitti eccellenti viene invitato a una “maggiore prudenza”. Questo perché “nella pancia dell’organizzazione, soprattutto nelle carceri, c’è una generazione di cinquantenni che mostra insofferenza verso i mafiosi che sono fuori, vengono accusati di non essere stati capaci di rapportarsi con le istituzioni e la politica, per indurre lo Stato ad un allentamento della repressione”. In altre parole è quello che il defunto Totò Riina faceva filtrare dal carcere dov’era detenuto, utilizzando le microspie di cui doveva ben essere a conoscenza: il rimprovero a Matteo Messina Denaro di farsi i fatti suoi. Che poi è quello che fanno tutti gli affiliati della Cosa Nostra “fuori” : con buona pace di quelli condannati in sede definitiva. Riina e Provenzano se ne fottevano di Luciano Liggio; Provenzano se ne fotteva di Riina; Messina Denaro se e fotteva di Riina e Provenzano. I vecchi “boss” e le loro famiglie erano sì riveriti e rispettati; ma una volta che non c’era, per loro, la possibilità di uscire dal carcere, gli “affari”, i “piccioli”, il “cumannari è megghiu di futtiri”, sono da sempre appannaggio di chi è fuori, libero. Chi è “dentro” è insofferente, ma chi è “fuori” se ne fa una ragione. Da questo punto di vista, la Cosa Nostra ha una coerenza storica: quella dell’estremo pragmatismo dei comportamenti. Letteralmente, per usare la battuta alla “Padrino” : niente di personale, affari. Il dottor Di Matteo poi mette in guardia dal credere che i conti con la Cosa Nostra siano saldati: “La ‘ ndrangheta sarà anche più forte economicamente, ma Cosa Nostra conserva segreti inconfessabili del passato che restano un’arma di ricatto, pericolosa quanto arsenali ed esplosivo”. Può essere. Però sarebbe interessante precisare un poco meglio in cosa consistono questi “segreti inconfessabili”. Non ci si sogna di negare complicità, connivenze, protezioni, aiuti, agevolazioni con la mafia da parte di poteri reali, e anche istituzionali; ci sono stati, chissà se ci sono ancora, e il catalogo di queste protezioni e connivenze lo si conosce (e di scriverne, e perfino parlarne in televisione…). Chissà se questi “inconfessabili” segreti sono ancora arma di ricatto: non foss’altro per ragioni anagrafiche, i protagonisti di queste vicende sono razza in via di estinzione. Chi, e come, ricatta chi, e come? Infine, dice il dottor Di Matteo, “lo Stato farebbe un errore gravissimo se desse dei segnali di allentamento. Sul 41 bis, che ha dato ottimi frutti, sull’ergastolo, sul sequestro dei beni. Segnali che verrebbero interpretati dai mafiosi come un cedimento”. A costo di una impopolarità a cui si è del resto temprati, e con grande rispetto: quali sarebbero gli ottimi frutti conseguiti con l’ergastolo, il fine pena che contrasta vistosamente con quella Costituzione che a parole tutti noi vogliamo difendere, e che diciamo essere “la più bella del mondo” ? Stesso discorso sul “sequestro dei beni”. Che si debba inseguire la traccia lasciata dal denaro ce lo raccontava negli anni 60 Leonardo Sciascia ne “Il giorno della civetta” ; prima di lui, il generale Renato Candida; e poi - pagando con la vita - hanno cercato di farlo Falcone, Borsellino, Chinnici, Terranova, Ciaccio Montalto, Cassarà, Giuliano e tantissimi altri. Ma un bilancio su limiti, lacune, anche disastri provocati dal “sequestro dei beni” toccherà un giorno farlo, per individuare e apportare i necessari rimedi e rendere questo strumento più efficace e rispondente alle sempre nuove esigenze. Senza il timore di dare segnali di cedimento. Anzi: sarebbe il contrario. Quanto al 41bis, intendiamoci una buona volta: come si può sostenere che Riina (e Provenzano prima di lui) erano ancora pericolosi, in grado di “cummanari”, di gestire potere e denaro, “ordinare” e coordinare, se erano, come erano, nel fondo di una cella, guardati a vista e sottoposti a un inflessibile 41bis? Se ha dato “ottimi frutti”, erano sovrani deposti, sostanzialmente impotenti; se erano quello che ancora oggi si dice e ripete, gli “ottimi frutti” in cosa consistono? E comunque, giusto per inciso, si tratta di un istituto che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo condanna come tortura. Il 2 dicembre il Partito Radicale Nonviolento Transnazionale Traspartito organizza a Trabia, vicino Palermo, un convegno: “Antimafia? Stato di Diritto”, con Rita Bernardini, Giampaolo Catanzariti, Pietro Cavallotti, Andrea Cuzzocrea, Sergio D’Elia, Salvatore Galluzzo, Baldassarre Lauria, Pino Maniaci, Massimo Niceta, Andrea Saccucci, Salvo Vitale, Elisabetta Zamparutti. Forse il dottor Di Matteo dovrebbe trovare il tempo e il modo di farci un salto (o ascoltarne le relazioni da “Radio Radicale” ). Ho idea che gli interventi di Cavallotti, Cuzzocrea e Lauria in particolare siano degne del massimo interesse. 41bis, sovraffollamento, suicidi: viaggio nel carcere italiano di Gaetano De Monte osservatoriodiritti.it, 21 novembre 2017 La morte di Totò Riina mentre si trovava al regime 41 bis riaccende il dibattito sul sistema carcerario italiano. Mentre il Comitato Onu contro la tortura chiede chiarimenti al nostro Paese. La notizia della morte dell’ex capo di Cosa Nostra, Salvatore Riina, mentre si trovava ancora al 41 bis, ha riacceso il dibattito sulle condizioni del sistema carcerario italiano. Pochi giorni prima, il 14 novembre, erano arrivate le censure mosse all’Italia da parte del comitato delle Nazioni Unite contro la tortura, formulate nel corso della 62esima sessione. Una serie di constatazioni da cui partire per una sorta di viaggio-inchiesta all’interno del nostro ordinamento penitenziario. I rilievi mossi dalle Nazioni Unite riguardano la nuova legge sulla tortura di recente approvata dal Parlamento italiano, considerata insufficiente e non adeguata ai parametri della Convenzione Onu contro i trattamenti inumani e degradanti, perché “è basata sull’assenza di una serie elementi che rendono il reato di tortura difficile da dimostrare, in primis la crudeltà e il trauma psichico. Inoltre, la genericità della previsione ne rendono difficile l’accertamento. Si evidenzia anche la mancanza di un fondo per risarcire le vittime”. E non è l’unico monito mosso dalle Nazioni Unite contro l’Italia. Carcere duro del 41 bis al vaglio delle Nazioni Unite - Susanna Maietti, la coordinatrice nazionale dell’associazione Antigone che ha partecipato nei giorni scorsi alle audizioni a Ginevra, ha detto: “In ambito penitenziario, il Comitato dell’Onu ha sollevato delle perplessità sul fatto che un detenuto possa essere sottoposto al regime di carcere duro del 41 bis anche per più di vent’anni, ritenendo eccessivamente lungo il periodo di isolamento a cui sono sottoposti”. Non solo. Prosegue la coordinatrice di Antigone: “L’Italia è stata invitata a limitare l’uso della custodia cautelare, anche al fine di ridurre il sovraffollamento nelle carceri”. E ancora: “Sotto la scure degli esperti dell’Onu sono finite anche le celle zero”. Cella zero: dove i detenuti dormono per terra - Quasi tutti i reparti di isolamento dei penitenziari italiani contengono almeno una “cella zero”. Sono state definite in questo modo perché sono completamente vuote, prive di mobili, letti, di qualsiasi oggetto. Qui il detenuto è costretto a dormire sul pavimento, e, nello stesso spazio, anche ad esercitare i bisogni primari e fisiologici. “Lì dentro si può essere rinchiusi per qualche ora, al massimo per qualche giorno”, dicono le circolari in materia emanate in passato dal Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. All’interno ci possono finire i carcerati in preda a crisi isteriche o psichiatriche, e, soprattutto, chi disobbedisce alla disciplina carceraria. Carcere Poggioreale: polizia penitenziaria a processo - Intanto è cominciato a Napoli il 16 Novembre, subito rinviato a marzo 2018, il primo processo che vede imputati dodici agenti della polizia penitenziaria, accusati di aver pestato diversi detenuti nelle celle zero del carcere di Poggioreale. Sul giudizio incombe la prescrizione, dato che i fatti risalirebbero a diversi anni fa. Ma come ha rivelato proprio qualche giorno fa Pietro Ioia - che fu il primo a parlare dei violenti pestaggi subiti a Napoli negli anni Ottanta e Novanta ed è oggi presidente dell’associazione degli ex detenuti organizzati napoletani, “ultimamente abbiamo presentato alcune denunce relative a presunti pestaggi che avrebbero ancora luogo a Poggioreale”. Dice Ioia: “Una di queste denunce è stata accolta dalla procura che ora ha aperto un’inchiesta. Si tratta della vicenda che riguarda un uomo di nazionalità slava che sarebbe stato picchiato soltanto perché si era opposto all’inserimento di un altro detenuto nella sua cella, motivandolo con il sovraffollamento”. In effetti, il carcere di Napoli risulta sovraffollato. Attualmente vi sono ospitate 2.100 persone, a fronte di una capienza massima che è di 1.500 detenuti. Suicidi in prigione: diritti umani e regime 41bis - L’eccesso di suicidi, le violenze, il sovraffollamento, la negazione di qualsiasi diritto nei confronti dei reclusi a cui viene applicato il regime di carcere duro del 41bis sembrano essere i tratti distintivi dell’ordinamento penitenziario italiano secondo il monitoraggio quotidiano dell’Osservatorio sulle carceri Ristretti Orizzonti. Secondo le ricerche del centro studi di Padova, dal 2000 a oggi (dati aggiornati al 9 novembre) sono morte in carcere 2.717 persone. Tra questi decessi, 980 sono quelli classificabili come suicidi. Soltanto nell’anno in corso, 47 persone si sono tolte la vita in cella, su un totale di 106 persone che sono decedute quest’anno (per svariati motivi) mentre si trovavano reclusi. Il Comitato Onu contro la tortura chiede chiarimenti - Oltre i numeri, però, ci sono le ferite, spesso le morti, legate al disagio della detenzione. Per alcune di queste vicende, il Comitato Onu contro la tortura ha chiesto al Governo italiano di avere chiarimenti, lamentando la mancanza di informazioni al riguardo. Per alcuni di questi casi considerati oscuri, tuttavia, la giustizia italiana sta facendo il suo corso. Giuseppe Rotundo, detenuto per una modica quantità di cocaina nel carcere di Lucera, vicino a Foggia, ora ha finito di scontare la pena. Nel gennaio del 2012 aveva denunciato di essere stato denudato e picchiato, fino allo svenimento, dagli agenti della locale polizia penitenziaria. Rotundo ha raccontato di essere stato legato, trascinato, nudo e sporco di sangue, in due diverse celle di isolamento. Il suo corpo sopravvissuto al supplizio è stato fotografato pieno di lividi ed ematomi. Così, date le prove fotografiche, il processo giudiziario per poter stabilire la verità dei fatti si è potuto celebrare. Ed è tuttora in corso. Detenuto con problemi psichici in carcere a Roma - Più recente è un’altra storia su cui il Comitato Onu ha chiesto di fare luce. Quella di Valerio Guerrieri, 21enne con problemi psichici, suicidatosi il 24 febbraio del 2017 all’interno del carcere romano di Regina Coeli, è una vicenda ancora avvolta da mistero su cui la procura di Roma sta cercando di vederci chiaro. Agli inizi di ottobre, il pubblico ministero Attilio Pisani ha chiesto il rinvio a giudizio di due agenti della polizia penitenziaria. L’accusa è di omicidio colposo per non aver applicato correttamente il protocollo, che imponeva di sorvegliare il detenuto ogni quindici minuti in quanto affetto da manie suicide. Valerio Guerrieri in carcere non sarebbe dovuto esserci, dato che era in attesa da diversi mesi di essere trasferito in una Rems, cioè in una residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Questo tipo di struttura dal 1° Aprile 2015 ha sostituito definitivamente i vecchi ospedali psichiatrici giudiziari. Le Rems sono destinate a persone “non imputabili” a causa di infermità psichica, intossicazione cronica da alcool o da sostanze stupefacenti, sordomutismo e che siano socialmente pericolosi. “Regina Coeli è un caos, io ogni mattina mi sveglio e soffro, mentalmente e psicologicamente. Io vi do la mia parola di uomo che se mi trasferite seguirò tutte le terapie che mi avete dato, andrò al Sert. Io sono convinto di curarmi, perché voglio avere una vita normale. Ho 21 anni”. Sono le parole dette da Valerio Guerrieri ai giudici di Roma nell’udienza del 14 febbraio 2017. Dieci giorni prima di impiccarsi con un lenzuolo in carcere. Carceri e giustizia due grandi problemi irrisolti di Roberto Fronzuti pensalibero.it, 21 novembre 2017 I detenuti sono costretti in spazi individuali inferiori ai 3 metri quadrati (1,75 per 1,75) il minimo consentito; uno spazio angusto - di per sé palesemente insufficiente - che lo Stato non riesce a garantire. Il nostro Paese ha collezionato numerose sanzioni da parte della Corte Europea dei diritti dell’uomo (nel 2013 ha condannato lo Stato italiano al pagamento di 100mila euro a sette detenuti), per il permanente sovraffollamento delle carceri, che versano in uno stato vergognoso. Dopo gli effetti positivi del provvedimento cosiddetto “svuota carceri”, con l’attuale costante aumento stiamo ritornando alla situazione pregressa al decreto, emanato con la pretesa di risolvere il problema. Non è stato così… Rispetto alla situazione di emergenza del 2010, il provvedimento del governo teso ad alleggerire il numero dei detenuti, aveva dato ottimi risultati, ma con il ritmo d’incremento attuale di 3000 all’anno, arriveremo ben presto a superare ogni record. Attualmente la popolazione carceraria è di 56.187 mila, oltre 6.000 in più di quanti ne sono previsti dalla legge. I detenuti sono costretti in spazi individuali inferiori ai 3 metri quadrati (1,75 per 1,75) il minimo consentito; uno spazio angusto - di per sé palesemente insufficiente - che lo Stato non riesce a garantire. Il trattamento disumano riservato dallo Stato ai detenuti, comporta una situazione inaccettabile, che porta tanti giovani a togliersi la vita. Quest’anno, nei primi sei mesi ben 30 persone si sono tolti la vita dietro le sbarre; eppure basterebbero delle regole meno rigide per migliorare il morale di chi vive in prigione. Consentire più visite, telefonate anche in video, l’arrivo di pacchi ed altro ancora, ma anzitutto aumentare la quota di lavoro esterno da parte di chi deve espiare una pena, per migliorare le condizioni dei condannati. Lo Stato non dovrebbe far gravare la sua inadeguatezza su chi è già stato colpito - a torto o a ragione - da un grave problema, infliggendo una pena aggiuntiva ben più dura di quella sanzionata dal magistrato: una condanna a vivere in condizioni disumane. Gli unici che da sempre si occupano seriamente della situazione delle “carceri” sono i Radicali; sì perché agli uomini politici nostrani interessa la demagogia, quella che porta voti. Noi abbiamo provato a far pervenire un pacco a un detenuto a San Vittore; le difficoltà sono inimmaginabili, in termini di orari e generi consentiti. Per non parlare della possibilità di avere dei colloqui, anche da parte dei giornalisti; non è affatto facile. Carcere e giustizia, sono due grandi problemi legati fra di loro: un terzo della popolazione che occupa i penitenziari è in carcerazione preventiva (in attesa del processo). È un dato inaccettabile, perché si priva della libertà una persona presunta innocente fino al terzo grado di giudizio. A maggior ragione se si considerano gli innumerevoli errori giudiziari dei quali sono rimasti vittime anche degli uomini politici illustri come Clemente Mastella (cadde il governo e dopo nove anni è stato assolto), Calogero Mannino, l’ex ministro Antonio Gava (riconosciuto innocente dopo morto, i familiari hanno ricevuto un indennizzo di 200 milioni di lire), l’avvocato Serafino Generoso, mentre dopo tanti anni il caso di Enzo Tortora, grida ancora vendetta. Per risolvere il problema dell’affollamento dei luoghi di reclusione basterebbe applicare i domiciliari al 50% dei detenuti in carcerazione preventiva. Non è difficile, basterebbe la volontà politica di affrontare le cose una volta per tutte. Mentre per la giustizia diventa sempre più inderogabile una riforma radicale, che comprenda anche la separazione delle carriere, fra pubblici ministeri e magistratura giudicante. Don Ettore Cannavera nominato commendatore: “il carcere minorile deve essere abolito” di Alessandra Sallemi La Nuova Sardegna, 21 novembre 2017 Il sacerdote è stato nominato commendatore da Mattarella: mi hanno chiamato dal Quirinale e ho pensato a uno scherzo. Don Ettore Cannavera, fondatore della comunità per minori La Collina, è stato nominato commendatore dell’Ordine al merito della Repubblica italiana dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, assieme ad altri 29 italiani che si sono distinti per impegno sociale o culturale, gesti di coraggio o di grande rilevanza morale. Lo ha saputo sabato mattina con una telefonata dalla presidenza della Repubblica che lo avvertiva, anche, dell’imminente arrivo di una troupe televisiva di Raitre per una prima intervista. Nella pace della comunità, costruita fuori Serdiana (Ca) proprio sulla sommità di una collina, don Ettore sorride e racconta: “Mi ha telefonato il segretario della presidenza della Repubblica. Ho pensato a uno scherzo, non avevo mai ricevuto una telefonata così. Sono contento, certo, anche se è ovvio che il premio non è per me, è un riconoscimento al lavoro con i ragazzi che hanno commesso reati e non vanno in carcere. Bisogna far capire che devianti non si nasce, ma si diventa. Guardate il Papa, dovunque vada vuole incontrare i detenuti. Ci sono responsabilità degli adulti se un ragazzino realizza se stesso nella devianza, e allora, un bambino che è stato privato del diritto all’educazione, quando è ragazzino lo priviamo anche della libertà?”. Per rispondere a questa domanda, don Cannavera nel 1993 fondò la comunità. Si rivolse al presidente del Tribunale per i minori, il dottor Gianluigi Ferrero, che avallò il progetto. Ma don Ettore non l’ha sempre pensata così: “Quando ero in seminario - ricorda - anch’io credevo che il carcere per i minori fosse necessario. Ho cambiato idea andando all’istituto minorile, nel contatto con i ragazzi. Li vedevo entrare con strafottenza e poi, quando li andavo a trovare in cella, scoprivo esseri fragili e molto spaventati. Ho iniziato a leggere e a studiare. L’istituto minorile è un po’ più vivibile, ma nel carcere per adulti si diventa delinquenti. In comunità prendo sempre i ragazzi con condanne lunghe proprio per evitare che vadano nell’istituto per adulti. Io dico che il carcere minorile deve essere abolito, non c’è in Nicaragua, né in Messico. Il pedagogista brasiliano Paulo Freire dice che educare è pratica di libertà. L’articolo 18 della Costituzione parla di pena (che deve tendere alla rieducazione), non di carcere. Qui, in comunità, si sconta la pena, ci sono regole ferree, se i ragazzi le violano tornano in carcere. E in vent’anni è successo una sola volta. Qui si deve rientrare alle 21, un ragazzo arrivò alle 21.15 e fui io stesso a chiedere al giudice che tornasse in carcere. Mi maledì. Tre mesi dopo mi fece chiamare: aveva capito e, pur potendo uscire, chiese di tornare da noi perché voleva vivere con le nostre regole”. Don Ettore 20 anni fa tirò su il primo caseggiato nel terreno di suo padre, per 4 anni andò avanti con i volontari, “poi la Regione riconobbe la validità del progetto e costruì tutto il resto”. Non da oggi don Ettore Cannavera sostiene che ci vuole una scuola per genitori: “Ci sono anche i finanziamenti - spiega - in vari paesi della Sardegna stanno cominciando ad avviarle, io dico che anche la Chiesa, nel corso prematrimoniale, dovrebbe garantire un’attività pedagogica e non solo religiosa. Bisogna sostenere i genitori, i bambini hanno bisogno di adulti credibili e non sempre è facile esserlo”. Don Ettore si congeda per andare all’istituto minorile di Quartucciu. Non nasconde che, questo premio, una speranza gliela suscita. Si augura infatti che, dopo il riconoscimento del lavoro coi minori arrivato dal presidente della Repubblica, anche la burocrazia regionale sia meno lenta nell’erogare i fondi stanziati. I soldi del 2016 sono arrivati con 15 mesi di ritardo, don Ettore ha dovuto bloccare i nuovi arrivi e i ragazzi ammessi dal Tribunale alla sua comunità sono rimasti in carcere. Violenza sulle donne, leggi inefficaci di Flavia Amabile La Stampa, 21 novembre 2017 L’analisi della commissione parlamentare: denunce sottovalutate e scarsa formazione degli operatori. Quasi 3 milioni di vittime da parte di compagni ed ex. Umbria maglia nera per i delitti di genere. La violenza di genere e il femminicidio sono ancora una realtà in Italia, nonostante leggi, manifestazioni e battaglie condotte a ogni livello. Il documento messo a punto dalla Commissione parlamentare di inchiesta istituita a gennaio denuncia con chiarezza i problemi, i vuoti legislativi, gli ostacoli ancora da superare. Si va dalla formazione dei soggetti che hanno il compito di agire in caso di violenza di genere per evitare che sottovalutino gli episodi denunciati, all’assenza di coordinamento di chi deve prendere provvedimenti, alla necessità di creare a livello investigativo pool antiviolenza sul modello di quelli antimafia nella lotta alla criminalità organizzata. Sono alcuni dei suggerimenti segnalati dalla Commissione in quello che viene definito un documento “che si propone di fornire un quadro intermedio” del fenomeno ricordando anche i dati portati durante le audizioni da Istat, ministero dell’Interno e forze dell’ordine. In base ai dati risulta che l’Italia è quel Paese dove calano gli omicidi volontari, del 39% nei sei anni che vanno dal 2011 al 2016. Non calano invece gli omicidi con vittime di sesso femminile; negli ultimi quattro anni restano stabili, circa un quarto degli omicidi complessivamente commessi, spiega la Commissione. E, quindi, come ha sottolineato il comandante dell’Arma dei Carabinieri, il generale Tullio Del Sette, durante la sua audizione, c’è stato “un innalzamento in termini relativi del numero di omicidi con vittime di sesso femminile rispetto al numero degli omicidi degli individui di sesso maschile”. Gli autori delle violenze più gravi - scrive la Commissione nella relazione - “sono prevalentemente i partner attuali o gli ex partner. Due milioni e 800mila donne sono state vittime delle loro violenze”. E una su 10 ammette di aver subito violenze prima dei 16 anni. La tendenza resta inalterata nei primi 9 mesi del 2017 quando “si sono registrati, in media, oltre 400 interventi della Polizia e Carabinieri a seguito di segnalazione di episodi di violenza domestica. Su 3.607 casi segnalati, in ben 3.061 gli aggressori erano di sesso maschile (quasi l’85% ndr), con un’età media di 42 anni; per converso le vittime erano di sesso femminile in 2.944 occasioni (l’81% ndr) ed avevano un’età media di 41 anni. In 1.228 occasioni (pari al 34% dei casi) gli aggressori erano di nazionalità straniera. In 2.872 casi (pari a quasi l’80%) il luogo dell’evento era costituito dall’abitazione”. Le regioni dove maggiori sono le violenze di genere denunciate sono Umbria, Calabria e Campania se si tiene in considerazione il rapporto degli omicidi rispetto alle donne residenti. Femminicidio e violenza di genere, insomma, restano ben radicati. A nulla sono valsi l’introduzione del reato di stalking con una legge del 2009, la legge contro il femminicidio del 2013 e i programmi di formazione e prevenzione annunciati. “Emerge chiaramente un problema di sottovalutazione delle violenze denunciate - avverte Francesca Puglisi, presidente della Commissione parlamentare di inchiesta. Chi si occupa di accogliere le denunce e di contrastare il fenomeno deve essere in grado di distinguere la violenza domestica da una qualsiasi lite coniugale. È fondamentale farlo perché diverse sono le azioni da mettere in campo in seguito, soprattutto se ci sono dei minori coinvolti. In questo senso la formazione di chi ha a che fare con le violenze a ogni livello può fare molto. Come commissione, ad esempio, chiederemo che già nella formazione iniziale dei giuristi ci sia un insegnamento sulla violenza di genere. Anche la ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli si è già detta d’accordo”. La Commissione, infatti, ha fra i suoi obiettivi non solo l’indagine sul fenomeno ma anche di fornire indicazioni al prossimo parlamento e al governo dei punti deboli del sistema su cui può essere utile intervenire. “Oltre alla formazione - prosegue Francesca Puglisi - occorre proseguire nell’istituzione di protocolli di coordinamento territoriale che permettano ai soggetti di agire insieme in caso di violenze. Purtroppo oggi soltanto 13 prefetture, un decimo del totale, hanno questi protocolli creando complicazioni che potrebbero essere evitate. Esistono buchi normativi da colmare come la durata delle misure cautelari che spesso è insufficiente a garantire la protezione della donna che ha denunciato una violenza. Ed è necessario andare avanti nella specializzazione dei magistrati inquirenti con la creazione di veri e propri pool antiviolenza”. La lotta contro la violenza è una battaglia di civiltà di Maria Elena Boschi Il Sole 24 Ore, 21 novembre 2017 Il 7 settembre, abbiamo presentato il prossimo Piano triennale sulla violenza maschile contro le donne, frutto del lavoro condiviso negli ultimi mesi con Cabina di regia e Osservatorio. Il Piano verrà ora sottoposto all’esame della Conferenza Unificata e, successivamente, adottato dal Consiglio dei ministri. Il Piano triennale del Governo punta sulla formazione di tutti gli agenti in causa, dalla magistratura alle forze dell’ordine, fino ovviamente agli operatori sanitari e sociali, ma anche sulle politiche attive per il reinserimento lavorativo e l’autonomia abitativa delle vittime. Soprattutto, il Piano pone al centro l’investimento sulle nuove generazioni, perché solo una vera e propria rivoluzione culturale può evitare che tutte le altre azioni risultino effimere. Le famiglie, ma anche la scuola, giocano un ruolo fondamentale per diffondere sin da piccoli l’educazione alla parità di genere e al rispetto delle differenze, la lotta ad ogni forma di violenza. Per questo, con il Miur abbiamo finanziato progetti nelle scuole e in attuazione alla legge sulla “buona scuola” la ministra Valeria Fedeli ha emanato il “Piano per l’educazione al rispetto” : un pacchetto d’iniziative che si compone delle linee guida nazionali per la promozione nelle scuole dell’educazione alla parità tra i sessi, della prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni e delle linee di orientamento per la prevenzione e il contrasto del cyber-bullismo nelle scuole. Da ultimo, la conferenza Stato-Regioni dovrà approvare le prime linee guida nazionali per le aziende sanitarie ospedaliere in tema di soccorso e assistenza socio sanitaria per le donne vittime di violenza, che abbiamo predisposto cercando di far tesoro delle migliori esperienze già diffuse a livello locale, seppure ancora troppo eterogenee sul territorio. Una donna che subisce violenza deve avere gli stessi diritti e le stesse opportunità, a prescindere dalla città in cui vive. Ovviamente, il lavoro svolto contro la violenza sulle donne non deve farci dimenticare l’attenzione puntuale che il Governo ha riservato alle vittime della tratta che subiscono una forma specifica di violenza. Il Governo ha varato nel 2016 il primo “Piano nazionale d’azione contro la tratta e il grave sfruttamento”, raddoppiando i fondi a supporto passati da 8 milioni di euro nel 2014 a circa 15 milioni nel 2015 e 2016, per arrivare ai 22,5 milioni del 2017. Il Governo italiano ha poi organizzato durante la propria presidenza di turno del G7 la prima ministeriale dedicata alle pari opportunità che si è svolta a Taormina il 15 e il 16 novembre 2017. L’Italia ha voluto rimarcare che solo una piena parità di diritti e opportunità tra uomini e donne può garantire un adeguato sviluppo economico, ma soprattutto la costruzione di una società più giusta. La battaglia per i diritti delle donne, a cominciare dall’essenziale diritto alla propria integrità fisica e psicologica, a vivere senza paura e minacce, sarà ancora lunga, ma la possiamo vincere. Abbiamo tutti, quindi, dalle istituzioni al mondo dell’informazione, una sfida ambiziosa ma necessaria davanti a noi. Dobbiamo combattere gli stereotipi di genere e ogni forma di discriminazione, per scardinare i principi di un sistema che in troppi ambiti è ancora pensato da uomini per uomini, per sradicare i pilastri - marci, ma ancora troppo presenti - di una mentalità che si lega a storie di violenze di cui quasi quotidianamente, purtroppo, veniamo a conoscenza. Per riuscirci serve anche il coraggio delle donne che la violenza l’hanno subita e che di fronte ad essa non si sono piegate, non si sono arrese. Come Lucia Annibali e Gessica Notaro. Come Antonella e Valeria, che si raccontano nelle pagine conclusive di questo libro. Abbiamo bisogno del coraggio delle donne, ma anche di quello degli uomini. La lotta contro la violenza sulle donne non è la “rivendicazione” di una parte, ma una battaglia di civiltà, di giustizia che deve vedere dalla stessa parte, con la medesima forza e determinazione, donne e uomini. Dobbiamo acquisire la consapevolezza che tutte le energie e le risorse messe in campo per prevenire e contrastare la violenza sulle donne non rappresentano un costo per la società, ma un investimento che produce benessere collettivo. Riuscire a fare tutto questo, diffondere una cultura che valorizzi la differenza di genere, che sradichi una volta per tutte ogni forma di violenza sulle donne, che rimetta al giusto posto vittima e carnefice e non lasci dubbi su chi debba ricadere la “vergogna”, è davvero il modo migliore per dire “no alla violenza”. Ed è il migliore investimento sul futuro che la nostra società possa fare. *Sottosegretaria alla presidenza del Consiglio dei ministri Super procura, stavolta il Pd è d’accordo di Francesco Grignetti La Stampa, 21 novembre 2017 La proposta di Giovanni Legnini, ossia concentrare le indagini sulle banche e la criminalità finanziaria in pool analoghi a quelli Antimafia, con una Superprocura a coordinamento, comincia a farsi strada. Dice il vicepresidente della Commissione d’inchiesta sulle banche, Mauro Maria Marino, Pd: “Guardiamo con estremo interesse alla proposta. Già in sede di audizione, tra l’altro, i procuratori Giuseppe Pignatone e Francesco Greco avevano sollevato il problema, evidenziando l’assenza di pm specializzati nelle procure più piccole”. Anche i senatori dem Camilla Fabbri e Daniele Borioli sono d’accordo: “Ci appare non solo condivisibile, ma addirittura indispensabile”. Riconosce il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Ferri, che il normale coordinamento potrebbe non essere sufficiente. Sarebbe d’accordo anche lui a formalizzare dei pool specializzati, “attribuendo alle Procure distrettuali le competenze in materia di Testo unico Bancario e di usura bancaria”. Sarebbe ovviamente più semplice il coordinamento a livello nazionale e l’interlocuzione internazionale. E intanto Laura Puppato chiede al governo uno sforzo “per evitare che i processi contro gli ex-vertici delle popolari venete fallite cadano in prescrizione”. Quelli che son felici solo se mettono qualcuno alla gogna di Piero Sansonetti Il Dubbio, 21 novembre 2017 Sono tre storie diverse, e riguardano tre personaggi diversissimi tra loro, ma tutte e tre hanno in comune un elemento: la voglia di gogna, di linciaggio, di ricerca del capro espiatorio e poi di realizzazione della cerimonia dello scannamento. Le storie di Carlo, Cateno e Fausto. Chi sono lo capite dalle fotografie: Carlo è Carlo Tavecchio, presidente della Figc (cioè della federazione italiana gioco calcio) fino a ieri verso mezzogiorno, quando si è dimesso, travolto dalla sconfitta della nazionale con la Svezia e dalla furia dei giornali e dell’opinione pubblica. Cateno (nome singolarissimo) è Cateno De Luca, consigliere regionale siciliano appena eletto, arrestato per motivi francamente misteriosi due giorni dopo la vittoria elettorale, e ieri finalmente scarcerato dopo essere stato trattato dai giornali come un criminale conclamato. Fausto, infine, è il regista Fausto Brizzi, annientato da giornali e Tv, dipinto come un maniaco sessuale e uno stupratore, demolito nell’immagine e nel morale ma, forse, innocente. Le dimissioni di Tavecchio, diciamolo pure, erano doverose e scontate. Perché dopo una grande sconfitta sportiva è vecchia usanza che l’allenatore e il capo della federazione siano sostituiti. Successe così nel 1958, dopo la mancata qualificazione ai mondiali di Svezia, e successe così anche nel 1966, dopo l’eliminazione ai gironi per mano della nazionale della piccola Corea del Nord (gol di un dentista, calciatore dilettante) che allora era governata dal nonno del terribile Kim Yong (anche il nonno, Kim Il Sung, era parecchio spietato). Doverose le dimissioni ma non era doveroso il linciaggio. Tavecchio non è un personaggio simpaticissimo, il suo mandato in Figc è stato costellato di gaffe ed errori diplomatici. Tuttavia non è stato il peggio dei peggio. È lui che nel 2015 riuscì a reclutare Antonio Conte, uno degli allenatori più forti del mondo. E riuscì a trovare gli sponsor che permettessero di pagare il suo stipendio altissimo senza prosciugare le casse della federazione (e Conte ottenne ottimi risultati con una nazionale modesta); è lui che ha introdotto la Var nel campionato (sarebbe la moviola Tv in campo: clamorosa innovazione); è lui che ha messo in ordine i conti della Figc (l’Italia è quasi l’unica federazione calcistica coi conti in ordine). Forse, prima di mandarlo via, potevamo dirgli grazie, invece di coprirlo di sputi. Ha sbagliato a prendere Ventura quando Conte ha lasciato? Non c’era di molto meglio sul mercato degli allenatori. E poi, Ventura, prima del pasticcio svedese era stato un discreto allenatore e aveva avuto diversi successi. Su Brizzi non voglio sbilanciarmi. Non conosco i fatti. Se ha molestato, se ha stuprato, se ha commesso dei reati, che a me paiono gravissimi, deve essere processato. Però mi sembra che nessuno lo abbia denunciato, e quindi che è impossibile processarlo. Allora forse l’uso vigliacco della potenza dell’informazione (senza certezze, senza riscontri, senza prove, con pochi indizi) non è uno strumento di avanzamento della trasparenza ma piuttosto di una idea giustizialista che sfiora il totalitarismo. Poi c’è Cateno, che ieri finalmente è stato scarcerato e ha rilasciato dichiarazioni dure. Questo Cateno è stato processato negli anni scorsi 14 volte e sempre assolto. Quindi, tecnicamente, è un perseguitato. Quando l’altro giorno l’hanno messo in mezzo di nuovo, e arrestato, i mass media si sono scatenati (scusate il gioco di parole) contro di lui. Impresentabile, corrotto, mafioso. Quando due giorni dopo è arrivata la quindicesima assoluzione, silenzio. Nemmeno un accenno di scuse. Anzi, Il Fatto Quotidiano ha pubblicato un articolo di Massimo Fini che chiedeva che gli fossero tolti i domiciliari e fosse sbattuto il cella. Crucifige, Crucifige. Era il verso ripetuto di una famosa poesia del duecento, di Jacopone da Todi. A lui era chiaro che il giustizialismo era un’infamia. Quasi mille anni fa. Oggi invece torna, il giustizialismo, e torna sempre più tronfio, spietato, altezzoso. Sulle ali del grillismo. Su twitter, ieri (per fortuna) ho letto un twitt di Enzo Bianchi, teologo e monaco piuttosto noto nel mondo cristiano. C’era scritto così: “Ancora oggi ci sono persone rigide e legaliste che passano la vita a spiare i peccati degli altri e a scovare le presunte eresie degli altri: dopo una tale fatica, incattiviti, hanno la faccia che si meritano”. E di seguito al twitt don Enzo - che oltre ad essere un teologo è anche molto spiritoso - ha pubblicato la faccia che viene ai giustizialisti. È quella che vedete in questa pagina, sotto il titolo. Sì a richiesta per ingiusta detenzione se la misura cautelare non è giustificata di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 21 novembre 2017 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 20 novembre 2017 n. 52645. Legittima l’istanza di riparazione per l’ingiusta detenzione non solo in merito alla custodia cautelare in carcere ma anche per gli arresti domiciliari. Questo il principio espresso dalla Cassazione con la sentenza n. 52645/17. I fatti - La Corte, infatti, ha puntualizzato come l’imputato fosse stato completamente scagionato dall’imputazione principale che lo aveva condotto in carcere. Tuttavia la Cassazione non ha compreso il motivo con cui i giudici di seconde cure non avessero accolto il ricorso dell’imputato contro gli arresti domiciliari. Misura cautelare che era stata emessa per il solo fatto che l’imputato avesse frequentazioni con il soggetto che in realtà era risultato colpevole nella vicenda escludendo a priori che tra i due potesse esserci un rapporto di amicizia e non necessariamente di una cooperazione criminale. La Corte d’appello di Firenze si era limitata a ribadire l’idoneità degli indizi a giustificare l’emissione dell’ordinanza cautelare, effettuando una semplice elencazione degli elementi posti alla base della stessa e omettendo, invece, di procedere all’analisi demandata già in passato dalla stessa Cassazione. Il giudice della riparazione, si legge nella sentenza, non deve ritenersi giudice d’appello della sentenza di assoluzione e sindacare l’assoluzione, inoltre la formula dell’assoluzione risulta neutra anche ai fini della riparazione in quanto il diritto all’equa riparazione per la custodia cautelare subita spetta a chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile di assoluzione con una delle formule indicate nella prima parte dell’articolo 314 del Cppe a tal riguardo non ha rilievo se a tale formula il giudice penale sia pervenuto per la accertata prova positiva di non colpevolezza o per la insufficienza o contraddittorietà della prova, se cioè l’assoluzione sia stata pronunciata sulla base del primo o secondo comma dell’articolo 530 del Cpp. Il principio di diritto - La Corte ha così espresso il principio di diritto secondo cui “in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, il giudice della riparazione, per decidere se l’imputato vi abbia dato causa per dolo o colpa grave, deve valutare il comportamento dell’interessato alla luce del quadro indiziario su cui si è fondato il titolo cautelare, e sempre che gli elementi indiziari non siano stati dichiarati assolutamente inutilizzabili ovvero siano stati esclusi o neutralizzati nella loro valenza nel giudizio di assoluzione”. Il reato sessuale anche solo tentato non elimina le misure accessorie di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 21 novembre 2017 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 20 novembre 2017 n. 52637. Il delitto tentato è fattispecie autonoma per cui operano le pene accessorie previste dall’articolo 609-novies del codice penale. Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza n. 52637/2017. I fatti - La Corte si è trovata alle prese con una vicenda in cui l’imputato aveva adescato un adolescente per commettere violenza sessuale. Fortunatamente il proposito non era finito in porto per una serie di coincidenze che hanno fatto sì che il reato fosse stato tentato e non consumato. La Corte d’appello di Ancona, in funzione anche della richiesta del giudizio abbreviato, aveva ridotto la pena inflitta in anni 2 e mesi 2 di reclusione revocando la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per anni 5, riducendo la misura di sicurezza personale ad anni 1 e mesi 6, con riduzione della somma liquidata alla parte civile per danni a euro 6mila. La difesa in Cassazione ha puntato a eliminare le pene accessorie ex articolo 609 novies del Cp. Si trattava, infatti, di delitto tentato che è un titolo di reato autonomo e quindi non dovevano trovare applicazione le pene accessorie, e la misura di sicurezza, previste solo per i reati consumati. Il principio di diritto - Sul punto i Supremi giudici, invece, hanno espresso il principio di diritto secondo cui “pur costituendo il reato tentato una figura criminosa autonoma, non può ritenersi che in ogni caso quando la legge si limita a fare riferimento all’ipotesi tipica, debba ritenersi esclusa quella tentata, dovendosi invece aver riguardo alla materia cui la legge si riferisce e alla sua ratio onde stabilire se sia compresa o no l’ipotesi del tentativo. Nel caso delle pene accessorie per i reati contro la libertà personale di natura sessuale, considerato il particolare rigore del legislatore sulle sanzioni accessorie non sarebbe logico escludere le ipotesi caratterizzate dal solo tentativo, che ancorché meritevoli di una pena principale meno grave comunque postulano l’applicazione delle pene accessorie ai fini della tutela contro reiterazioni di comportamenti di aggressione alla libertà personale di natura sessuale”. Piantine marijuana, da valutare non punibilità per particolare tenuità di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 21 novembre 2017 Corte di cassazione - Sentenza 20 novembre 2017 n. 52721. La Cassazione, sentenza 52721 di ieri, apre alla “particolare tenuità”, e dunque alla non punibilità, anche per il caso della coltivazione di 18 piante di canapa indiana. I giudici infatti, rinviando al giudice di secondo grado campano, hanno accolto il ricorso di un uomo condannato dalla Corte di appello di Salerno per produzione di sostanze stupefacenti nella parte in cui lamentava “violazione dell’art. 131 bis c.p. e difetto di motivazione circa la mancata applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, pur sollecitata dal ricorrente all’udienza tenutasi del 12/1/2016 dinanzi alla Corte di appello”. Per i giudici di legittimità infatti la decisione impugnata “evidenzia una mancanza di motivazione in ordine all’invocata applicazione della causa di non punibilità, formalmente sollecitata dal ricorrente dinanzi alla Corte di appello, laddove invece l’istituto in questione non era stato ancora introdotto nell’ordinamento al momento della presentazione dell’atto di appello”. “Né, nel caso in esame - prosegue -, dalla motivazione delle decisioni di merito si evince un apprezzamento di evidente insussistenza dei presupposti necessari per l’applicazione dell’istituto”. Mentre, conclude la Corte, ai fini della configurabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall’art. 131 bis c.p., “il giudizio sulla tenuità richiede una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza e dell’entità del danno o del pericolo”. Sarà dunque la Corte di appello di Napoli a decidere sulla questione verificando la possibilità di applicare la nuova fattispecie di non punibilità. Inquinamento, sequestro ampio di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 21 novembre 2017 Corte di cassazione - Sentenza 52436/2017. Il reato di inquinamento ambientale è di danno. Serve quindi un evento di danneggiamento che si può concretizzare in due modi. Uno, più lieve, è il deterioramento e “consiste in una riduzione della cosa che costituisce oggetto in uno stato tale da diminuirne in modo apprezzabile il valore o da impedirne anche parzialmente l’uso, ovvero da rendere necessaria, per il ripristino, un’attività non agevole”. Mente nel caso della compromissione, scatta se è presente “uno squilibrio funzionale che attiene alla relazione del bene aggredito con l’uomo e ai bisogni o interessi che il bene deve soddisfare”. Nel caso della richiesta di applicazione di una misura cautelare allora, per fare scattare il sequestro preventivo basta accertare l’elevata probabilità di un deterioramento significativo o di una probabile compromissione. Queste le conclusioni della Corte di cassazione con la sentenza della Terza sezione penale n. 52436. Nel caso affrontato dalla Corte erano stati contestati, dalla difesa del rappresentante legale di una società per azioni, i decreti di sequestro emessi per violazione dell’articolo 452 bis del Codice penale: secondo il quadro accusatorio infatti veniva continuamente versato in mare da un sistema di depurazione gestito dalla Spa un prodotto refluo che dalla campionatura effettuata risultava assai peggiore biologicamente della somma de reflui confluenti. Affrontando la questione, la Cassazione mette in evidenza come la condotta in discussione sia del tutto abusiva. Manca infatti un’autorizzazione che era stata anzi negata in precedenza. La condotta di inquinamento ambientale, sulla base del nuovo articolo 452 bis del Codice penale introdotto due anni fa, comprende non solo quella svolta in assenza delle autorizzazioni previste, ma anche quella posta in essere in violazione di leggi statali o regionali o anche solo di prescrizioni amministrative. Era poi stata contestato il fatto che le misurazioni non avevano permesso un accertamento puntuale della consistenza del deterioramento, ma, sul punto, la Cassazione ricorda che si tratta di un giudizio cautelare e che per fondare il sequestro è sufficiente la plausibilità del verificarsi dell’evento dannoso. Nel caso esaminato a venire valorizzata era la durata prolungata nel tempo dello scarico dei reflui e la loro quantità (si trattava di un insieme di composti che provenivano da due impianti che veniva sospinto in mare da una conduttura sottomarina). C’era cioè un robusto quadro indiziario. Inoltre, per la configurabilità del reato non è necessaria l’irreversibilità del danno ambientale. Le condotte poste in essere cioè dopo un iniziale deterioramento o compromissione del bene non “costituiscono un post factum non punibile, ma integrano invece singoli atti di un’unica azione lesiva che spostano in avanti la cessazione della consumazione”. Ex viola la posta anche se conosce la password di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 21 novembre 2017 Corte di cassazione - Sentenza 52572/2017. Commette il reato di accesso abusivo al sistema informatico l’ex moglie che entra nella casella elettronica del marito perché ne conosce la password, la cambia, e scrive un insulto. La Cassazione, conferma a carico della ricorrente il reato previsto dall’articolo 615-ter del Codice penale che, anche se prescritto rileva comunque ai fini del risarcimento danni. Inutile per la difesa spiegare ai giudici che la signora non era consapevole di aggirare le misure di sicurezza, visto che era stato proprio il suo ex marito a comunicargli la password per accedere alle sue mail. La circostanza non esclude, infatti, il carattere abusivo dell’” intromissione” anche in considerazione del risultato ottenuto - cambiare la password e insultare l’ex - certo non gradito al titolare della casella elettronica. La condotta della ricorrente ha inoltre impedito all’uomo, anche se temporaneamente, di utilizzare il servizio. Per questo - chiariscono i giudici - “è pienamente provato il superamento da parte dell’imputata dei limiti intrinseci connessi con la conoscenza della password”. Una conclusione in linea con la giurisprudenza dominante, secondo la quale il reato scatta anche a carico del soggetto abilitato se entra nel sistema violando “le condizioni o i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l’accesso”. La ricorrente si “risparmia” però la condanna per ingiuria che sarebbe stata inevitabile - vista la frase non proprio elegante destinata all’ex - se nel frattempo non ci fosse stata la depenalizzazione. Attività consentite al giudice nell’incidente di esecuzione penale Il Sole 24 Ore, 21 novembre 2017 Esecuzione penale - Incidente di esecuzione - Poteri del G.E. - Verifica della sola regolarità della sentenza esecutiva - Aumento di pena in applicazione della continuazione - Competenza del giudice di merito. In sede di incidente di esecuzione il giudice deve limitare il proprio accertamento alla regolarità formale e sostanziale del titolo giuridico-processuale su cui si fonda l’intera esecuzione penale e non può attribuire rilievo alle nullità eventualmente verificatesi nel corso di svolgimento del processo di cognizione in epoca precedente al passaggio in giudicato della sentenza stessa. Inoltre, la determinazione dell’aumento di pena in continuazione è una scelta di merito che non può essere sindacata in sede esecutiva se non nell’ipotesi di pena illegale. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 10 agosto 2017 n. 39046. Pena - Esecuzione - Incidente di esecuzione - Vizi - Procedimento di cognizione - Titolo esecutivo. L’incidente di esecuzione non può essere utilizzato per far valere vizi relativi al procedimento di cognizione e la sentenza che lo ha concluso, ostandovi le regole che disciplinano la cosa giudicata, la quale si forma anche nei confronti di provvedimenti affetti da nullità assoluta. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 13 ottobre 2017 n. 47346. Pena - Esecuzione - Incidente di esecuzione - Titolo esecutivo - Esistenza - Sentenza di condanna - Omessa notifica. Le nullità prospettate come incorse nel giudizio di cognizione non possono essere fatte valere con l’incidente di esecuzione, che affida al giudice soltanto il controllo sull’esistenza del titolo esecutivo e sulla legittimità della sua emissione, con l’effetto che sarebbe stato abnorme il provvedimento con cui il giudice dell’esecuzione avesse dichiarato non esecutiva una sentenza di condanna, sul rilievo dell’omessa notifica dell’avviso di udienza al difensore di fiducia dell’imputato, nel giudizio svoltosi dinanzi alla Corte di cassazione. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 13 ottobre 2017 n. 47346. Esecuzione penale - Giudice dell’esecuzione - Incidente di esecuzione - Revoca della sospensione condizionale - Valutazione - Presupposti - Casellario giudiziale. Il giudice dell’esecuzione, investito, con incidente di esecuzione della richiesta di revoca della sospensione condizionale della esecuzione della pena, deve valutare, al fine di apprezzare la sussistenza dei relativi presupposti, tutto ciò che risulti dal certificato del casellario giudiziale. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 21 aprile 2017 n. 19372. Esecuzione penale - Esecuzione (in genere) - Incidente di esecuzione -Art. 670 c.p.p. - Titolo esecutivo - Esistenza - Controllo. In sede d’incidente di esecuzione attivato ai sensi dell’articolo 670 c.p.p., l’indagine affidata al giudice è limitata al controllo della esistenza di un titolo esecutivo e della legittimità della sua emissione, e che pertanto non si estende all’apprezzamento di questioni concernenti la fase della cognizione che avrebbero dovuto essere denunciate con i mezzi di gravame disposti dalla legge, ovvero all’apprezzamento di nullità, anche assolute e insanabili, eventualmente verificatesi nel corso del processo di cognizione in epoca precedente alla data del passaggio in giudicato della decisione, quali quelle correlate alla contestata ritualità delle notificazioni relative alla instaurazione del rapporto processuale, che avrebbero potuto eventualmente giustificare una richiesta di restituzione nel termine. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 19 settembre 2017 n. 42831. Esecuzione - Giudice dell’esecuzione - Revoca della sentenza per abolizione del reato - Strumento utilizzabile - Incidente di esecuzione e non ricorso straordinario per errore di fatto - Fattispecie in tema di abolitio criminis in materia di stupefacenti. In tema di “abolitio criminis” non rilevata dal giudice della cognizione, lo strumento per ottenere la revoca della sentenza di condanna va individuato nell’incidente di esecuzione ex art. 673 c.p.p. e non nel ricorso straordinario per errore di fatto ex art. 625-bis dello stesso codice.(Fattispecie in cui la S.C. ha riqualificato come incidente di esecuzione, ordinando la trasmissione degli atti al tribunale competente, il ricorso straordinario per errore di fatto proposto avverso l’ordinanza con cui era stato dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione contro la sentenza della corte territoriale confermativa della condanna per il reato di cui all’art. 73, comma primo-bis, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, non più previsto come tale già prima dell’ordinanza stessa, giusta sentenza della C. Cost. 25 febbraio 2014, n. 32). • Corte di cassazione, sezione II penale, ordinanza 7 dicembre 2016 n. 52242. Sicurezza pubblica - Misure di prevenzione - Appartenenti ad associazioni mafiose - Provvedimenti del giudice delegato - Impugnabilità - Esclusione - Opposizione nelle forme dell’incidente di esecuzione - Ammissibilità - Fattispecie. In tema di procedimento di prevenzione, i provvedimenti adottati dal giudice delegato non sono autonomamente impugnabili, in considerazione del principio di tassatività di cui all’art.568 c.p.p., è tuttavia consentita l’opposizione nelle forme dell’incidente di esecuzione. (Fattispecie relativa al rigetto della richiesta di nomina di uno stimatore, presentata dai promissari acquirenti di beni sequestrati al promissario venditore). • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 17 marzo 2016 n. 11426. Salerno: impieghi sociali per i detenuti della Casa di reclusione di Vallo della Lucania di Andrea Passaro La Città di Salerno, 21 novembre 2017 Firmata la convenzione tra il sindaco e il presidente del Tribunale. I detenuti del carcere di Vallo della Lucania verranno impiegati in prestazioni di pubblica utilità sul territorio comunale. La possibilità della “messa alla prova” per i detenuti non pericolosi viene offerta grazie ad una convenzione stipulata tra il presidente del Tribunale Gaetano De Luca e il sindaco Antonio Aloia. Nei procedimenti per reati con pena non superiore a quattro anni, l’imputato può chiedere la sospensione del processo con messa alla prova. Questa comporta la prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato. La concessione della messa alla prova è subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica utilità, che consiste in una prestazione non retribuita, operata dal detenuto, affidata tenendo conto anche delle specifiche professionalità ed attitudini lavorative dell’imputato. Deve essere di durata non inferiore a dieci giorni, anche non continuativi, in favore della collettività. I soggetti interessati potranno venire impiegati per prestazioni di lavoro per finalità sociale; prestazioni di lavoro a favore di disabili, malati anziani o minori; per la fruibilità e la tutela del patrimonio ambientale, culturale e archivistico; manutenzione e utilizzo d’immobili e servizi comunali, o di beni del demanio e del patrimonio pubblico, compresi giardini e parchi. Questa non è la sola iniziativa messa in campo per i detenuti che vengono impiegati in diversi laboratori, tra i quali certamente spiccano quelli teatrali e artistici. Ma anche in attività molto pratiche ed utili nella vita quotidiana e lavorativa, come corsi di pizzaioli e di ristorazione. Costituiscono un modo per favorire il recupero e il successivo reinserimento sociale del detenuto una volta che questi avrà scontato la pena per i reati commessi. Fermo (Ap): i detenuti al lavoro per i colori della Fermana informazione.it, 21 novembre 2017 Un impegno concreto, un piccolo lavoro che ha riempito del tempo che altrimenti resterebbe vuoto e infinito. I detenuti del carcere di Fermo si sono impegnati in un progetto di assemblaggio che li ha portati a realizzare alcuni pregevoli orologi da parete, pensati per tutti gli appassionati della Fermana calcio. I colori e il logo sono proprio quelli della squadra cittadina, nei giorni scorsi la direttrice del carcere, Eleonora Consoli, ha consegnato i primi dieci orologi con il brand Fcc Fermana Football club, nelle mani del Team Manager della squadra canarina Walter Matacotta. Gli oggetti sanno venduti nello store della squadra Fermana, in piazza Sagrini, e la speranza è che incontrino il gusto dei tifosi canarini, soprattutto in vista del prossimo Natale. Gli orologi realizzati in legno verniciato sono stati prodotti da alcuni detenuti che partecipano al corso di bricolage sotto la direzione di Tarcisio Mora dell’Associazione Amelia, che da svariati anni collabora attivamente con l’istituto di reclusione fermano, proprio per offrire occasioni di formazione ai detenuti, spazi anche per imparare un mestiere e provare a guardare fuori con più ottimismo. Il corso è sostenuto dall’Ambito XIX nel quadro delle iniziative della legge regionale n. 28/2008 legate al progetto l’Altra Chiave. Da evidenziare che parte dei proventi della vendita degli orologi sarà devoluto dall’associazione ad iniziative di sostegno ai detenuti dell’Istituto di Fermo, proprio per organizzare sempre nuovi progetti che possano in qualche modo arricchire l’esperienza umana che si vive dietro le sbarre, ma anche per accompagnare i detenuti con una seria progettualità verso un futuro migliore. Roma: il Garante “i minori in quel Centro di Pronta Accoglienza oltre il tempo dovuto” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 novembre 2017 Rapporto del Garante dei detenuti dopo il sopralluogo nel Cpsa nel Municipio VIII di Roma. Tempi di permanenza poco rispettati, definizioni di categoria discriminanti, procedure d’identificazione non aggiornate. Parliamo di alcune criticità rilevate da una delegazione del Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma durante un sopralluogo effettuato nel centro di pronta accoglienza per minori di 14- 18 anni (CpsA) nel Municipio VIII di Roma. La visita è stata effettuata il 23 giugno di quest’anno, mentre il rapporto è stato reso pubblico in questi giorni sul sito del Garante. Il centro si tratta di un servizio di accoglienza residenziale temporanea ed è rivolto principalmente a minori stranieri non accompagnati, di età compresa tra i 14 ed i 18 anni, in situazione di abbandono o di urgente bisogno di allontanamento dall’ambiente familiare e che richiedono un intervento di protezione sociale tempestivo. Pertanto, in attesa di soluzioni più adeguate, viene assicurato il soddisfacimento temporaneo di vitto, alloggio, tutela, sostegno sociale ed educativo. Il tempo massimo di permanenza previsto dalla legge è di 96 ore. La delegazione del Garante era composta da Daniela de Robert (membro del Collegio) ed Elena Adamoli (componente dell’Ufficio). Alla visita ha partecipato anche il garante della Regione Lazio, Stefano Anastasia, accompagnato da due suoi esperti. Si legge nel rapporto che la struttura presenta delle caratteristiche che la rendono un luogo di privazione della libertà da parte dell’Autorità pubblica: agli ospiti non è consentito allontanarsi, è fatto loro divieto di disporre e fare utilizzo dei propri telefoni cellulari e di ogni altro tipo di dispositivo elettronico, i contatti con la famiglia sono possibili solo con apparecchi del Centro, le visite di familiari e volontari devono essere autorizzate ed è assolutamente vietato agevolare ingressi abusivi. Anche la sua conformazione architettonica con un’alta recinzione in muratura video sorvegliata e un’elevata cancellata in ferro all’ingresso lo connota come una struttura chiusa. Le prime criticità che emergono dal rapporto del Garante riguardano i tempi di permanenza e la distinzione tra “categorie”. “Malgrado il tempo di permanenza massimo sia indicato in 96 ore - si legge nel Rapporto -, dai dati relativi al 2016 risulta che solo 773 minori hanno lasciato il servizio entro le 96 ore previste, mentre 782 sono rimasti in un arco temporale compreso tra 5 e 10 giorni, 118 tra 11 e 29 giorni e 18 tra i 20 e i 51 giorni. All’atto delle dimissioni, i minori vengono suddivisi in quattro categorie individuate in: minori stranieri non accompagnati; minori a rischio o vittime della tratta; rom e italiani e sulla base di ciò indirizzati verso altre strutture”. Mauro Palma esprime serie perplessità sulla definizione di categoria a sé stante di “rom”. “Come è noto - sottolinea il Garante nel rapporto - coloro che sono impropriamente inclusi in tale categoria possono essere, e spesso sono nel nostro Paese, italiani e non possono costituire quindi un raggruppamento a sé stante”. Per quanto riguarda la procedura di identificazione dell’età, il Garante ha annotato alcune criticità. Nel Rapporto viene precisato che nel Centro vengono collocati i minori “per i quali è indispensabile procedere a una celere identificazione, alla chiarificazione della situazione personale e fornire una risposta a necessità esistenziali non procrastinabili”. In base all’informativa fornita ai minori in ingresso, sembrerebbe che la mancanza di documenti validi da parte del minore determini automaticamente l’avvio degli accertamenti sanitari per la determinazione dell’età. Però le regole sono cambiate. Il Garante, infatti, ha ricordato che la nuova legge del 7 aprile 2017 sui minori stranieri non accompagnati (Msna), ha tolto questo automatismo e prevede che qualora permangano dubbi fondati in merito all’età, in ultima istanza, solo la Procura della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni può disporre la realizzazione di accertamenti socio-sanitari. Alla specifica domanda della delegazione del Garante se fosse stato approntato un aggiornamento delle procedure in attuazione della nuove previsioni normative, i responsabili del Centro hanno riferito di non esserne al corrente. Queste e altre criticità ancora sono state segnalate alle istituzioni competenti. Belluno: il volontariato che aiuta il carcere si ritrova a un tavolo di lavoro csvbelluno.it, 21 novembre 2017 Cinque associazioni di volontariato, un gruppo di docenti del Centro provinciale istruzione per adulti (Cpia), la fondazione Esodo, la Caritas diocesana, tre cooperative sociali e una decina di aziende fanno rete per dare occupazione, sollievo e motivazione agli ospiti della Casa circondariale di Baldenich a Belluno. Il tavolo convocato dalla direzione martedì 14 novembre e coordinato dalla capo area educativa è stata una preziosa occasione per gli operatori esterni al carcere di incontrarsi e raccontare le attività svolte nel corso del 2017, anche in vista della programmazione del prossimo anno. Il lato più interessante è stato indubbiamente relativo alle attività “ricreative”, ovvero tutte quelle che parallelamente al lavoro, che oggi impiega quasi l’80 per cento dei detenuti, offrono momenti di svago e di crescita alle persone recluse. L’associazione Il Tralcio di Tambre, attiva da diversi anni nella sezione transessuali con un gruppo di lettura e un cineforum, ha avviato a luglio una collaborazione con Jabar, che nella sezione maschile tiene un corso settimanale di informatica e coordina la redazione dentro-fuori della rivista “Sconfinamenti”. Ne è nato il progetto “Liber libri”, un percorso di lettura critica culminato nella visita in carcere dello scrittore romano Edoardo Albinati (premio Strega 2016). Da maggio Jabar ha preso sede al primo piano della Casa del Volontariato e sta intessendo un importante rapporto di collaborazione con il Csv di Belluno per integrare la parte di servizi alla persona marginalizzata. C’è poi il Csi di Belluno che da oltre un anno organizza corsi di pallavolo, basket e ora calcetto nei sabati pomeriggio. E poi il gruppo San Francesco coordinato dal cappellano padre Olindo, che raggruppa anche alcuni volontari della società San Vicenzo dè Paoli per raccogliere indumenti per indigenti, tenere gli incontri di catechesi e dal prossimo anno proporre anche un corso di chitarra. Nel 2018 saranno riconfermate tutte le attività in corso, con l’auspicio che assieme al lavoro torni anche il bisogno di rimettersi sui banchi di scuola. Torino: il rugby che fa “evadere” i detenuti, la favola della Drola di Valerio Vecchiarelli Corriere della Sera, 21 novembre 2017 All’inizio sembrava un azzardo senza futuro, un rischio non calcolato. Walter Rista, torinese, ex azzurro degli anni 70 si era messo in testa un’idea meravigliosa: portare il rugby dentro al carcere “Lorusso e Cotugno” della sua città. Un’idea che si era fatta strada nella sua testa da 25 anni, ma che non sapeva come rendere realtà: “Tutto successe - racconta - durante un tour in Argentina. Andavamo a giocare in Patagonia e il nostro pullman fu costretto a fermarsi perché si incastrò con uno che procedeva al contrario. Scendemmo per aiutare gli autisti, ma gli occupanti dell’altro mezzo rimasero immobili sui loro sedili. Notai che erano giovani con lo sguardo da vecchi. Le guardie mi dissero che stavano trasferendo un gruppo di carcerati. Da quel momento pensai che per dar loro un po’ di allegria avrei dovuto trovare il modo di farli giocare a rugby”. Per 20 anni il pensiero di Rista resta tale, fino alla fatale coincidenza: “Sono a casa di un mio amico psichiatra, a un certo punto prende il telefono e mi dice “illustra il tuo dannato progetto”. Io non sapevo chi ci fosse dall’altra parte, mi ascoltò e mi disse di presentarmi da lui la mattina dopo. Era Pietro Buffa, l’illuminato direttore del carcere”. Da quella telefonata, anno 2010, il rugby dietro le sbarre è diventato una realtà sorprendente. È il primo passo di quella che sarà la Drola (traduzione dal dialetto piemontese: cosa strana), la squadra del carcere di Torino che ha aperto una strada, buttato giù muri, rivoluzionato consuetudini. Il programma di allenamenti è fitto, 3 volte la settimana in campo, 2 volte in palestra, il sabato o la domenica la partita di campionato: “Così i ragazzi si stancano di una stanchezza salutare, pensano al benessere fisico, alla squadra, alla solidarietà con i compagni”. In sei anni il sogno di Rista ha provocato una rivoluzione: la squadra è stata iscritta al campionato di serie C costringendo la Federugby a scrivere un regolamento in deroga, perché per ovvi motivi la Drola può disputare solo partite in casa e ha un numero di atleti stranieri non contemplato dalle leggi sportive. Il giorno dell’esordio? “Andammo al reparto insieme con il direttore per vedere se era tutto a posto, non nascondo che eravamo preoccupati. C’era un silenzio irreale, ci venne incontro un agente di custodia e ci disse “I ragazzi sono già in campo”. Mentre andavamo a prendere posto in tribuna il direttore mi confidò: “Rista, abbiamo già vinto! In tanti anni mai avevo sentito un agente chiamare ragazzi i detenuti”. Oggi la Drola si allena con continuità, i suoi giocatori devono sottoscrivere un codice etico e per reclutare nuove forze l’Amministrazione Penitenziaria ha perfino emesso un bando nazionale per scovare nelle carceri italiane chi abbia i requisiti di moralità e buona condotta per giocare a rugby. Intanto l’utopia di Rista è volata oltre le sbarre: Pietro Buffa è stato promosso Provveditore in Emilia Romagna e ha portato con sé l’idea a Bologna. Subito è nato il Giallo Dozza, la squadra del carcere emiliano. Vari documentari, un film, un libro, raccontano l’avventura ovale dietro le sbarre e sulla scia torinese il rugby è entrato a Rebibbia, Saluzzo, Cuneo, Alessandria, Milano, nei carceri minorili Beccaria e Nisida, al punto che Amministrazione Penitenziaria, Coni e Federugby stanno per firmare un accordo quadro che regoli l’ingresso del rugby in tutti gli istituti di pena italiani. Scontata la pena, 24 ragazzi della Drola giocano liberi di far meta in vari campionati, Aziz e Christian hanno frequentato un corso da allenatore e insegnano rugby agli sfortunati ospiti del Cottolengo a Torino, Alex e Gonzalo giocano in Spagna dove hanno provato a ricostruirsi una vita dispensando placcaggi e aggressività. Nel rispetto delle regole. “La scuola prigioniera. L’esperienza scolastica in carcere” di Franco Brevini Corriere della Sera, 21 novembre 2017 Per un anno intero un gruppo di lavoro dell’università di Bergamo, guidato da Ivo Lizzola, ha seguito quello che succedeva nelle classi scolastiche della Casa circondariale della città. È nato un libro, “La scuola prigioniera. L’esperienza scolastica in carcere” (Franco Angeli, 208 pagine, 24 euro), che fa il punto su un modo fecondamente innovativo di intendere l’esecuzione penale. Oltre a Lizzola, gli autori sono Silvia Brena, formatrice, e Alberto Ghidini, docente al liceo del Seminario, cui si sono affiancati tre studenti, Lara Granelli, Luigi Mucelli e Sabrina Pauzzi, che in carcere hanno condotto il loro tirocinio di eccellenza, un percorso formativo particolarmente oneroso riservato agli studenti più volonterosi. Edoardo Albinati, lo scrittore che da anni insegna nel carcere di Rebibbia, sostiene che la scuola tutta dovrebbe confrontarsi con il carcere: quello che funziona dentro, funzionerà certamente anche fuori. E in effetti dalla ricerca del gruppo di lavoro del Dipartimento di scienze umane e sociali dell’ateneo bergamasco emerge in primo luogo che dentro le mura la scuola riscopre il suo fondamento più vero. Lì si capisce che arricchimento culturale non vuol dire altro se non aiutare le persone a riflettere sulla propria esperienza. In secondo luogo la scuola in cella conferma che il carcere può essere un luogo di vita, in cui le biografie possono aprirsi al futuro. La scuola fornisce concretamente questa opportunità, attribuendo un senso profondo a categorie quali responsabilità e soprattutto riparazione. In tal senso proprio a Bergamo sono attive due realtà che si occupano del problema: il Gruppo Giustizia Riparativa dell’università e l’Ufficio giustizia riparativa della Caritas. Sono in molti oggi a ritenere che occorra urgentemente andare oltre le vecchie logiche che incombono sul carcere, legate a idee come punizione, riconferma e destino, per ricucire con la società le vite di chi ha sbagliato. E proprio la scuola contribuisce a rimettere in primo piano la responsabilità rispetto alla convivenza e, subito dopo, l’attenzione verso le vittime vere e proprie dei gesti criminosi. Escono dal carcere, provano a ripartire: in un volume la vita dei detenuti lavocedeltempo.it, 21 novembre 2017 Problemi e aspettative dell’inserimento dopo la detenzione, a Torino la presentazione del libro. Esplorare le aspettative e i bisogni dei detenuti nella fase della loro uscita dal carcere e del rientro in società. L’elaborazione di due questionari, uno rivolto ai detenuti e l’altro al personale penitenziario, è diventato un libro scritto da Elena Rossi (“Bisogni e aspettative dei detenuti in vista del loro rientro in società”, Antonio Stango editore) che verrà presentato giovedì 23 novembre alle ore 17 presso il museo del Carcere Le Nuove di Torino, via Paolo Borsellino 3, ingresso libero. Presenteranno il libro Giampaolo Zancan (avvocato penalista), Antonio Pellegrino (psichiatra e coordinatore regionale dei servizi sanitari penitenziari del Piemonte), Marco Bozzi (psicoterapeuta presso la casa circondariale Lorusso e Cutugno” di Torino) e Giovanni Cellini (docente universitario). Moderatore il giornalista Paolo Girola. Al termine della presentazione è prevista la visita guidata al Museo del Carcere. Molestie e minacce online: da una ricerca di Amnesty International dati allarmanti di Riccardo Noury Corriere della Sera, 21 novembre 2017 Amnesty International ha commissionato a Ipsos un sondaggio sulle molestie online, che ha coinvolto circa 500 donne di età compresa tra i 18 e i 55 anni in ciascuno di questi otto paesi: Danimarca, Italia, Nuova Zelanda, Polonia, Regno Unito, Spagna, Svezia e Stati Uniti d’America. I risultati sono stati resi noti questa mattina. Delle 4.000 donne che hanno preso parte al sondaggio, 911 hanno risposto di aver subito molestie o minacce online, 688 delle quali sui social media. Per quanto riguarda l’Italia, su 501 donne intervistate, 81 hanno subito molestie o minacce online, 62 delle quali sui social media. In particolare, un quarto (23 per cento) delle donne ha subito molestie o minacce almeno una volta: dal 16 per cento in Italia al 33 per cento negli Usa. Particolarmente allarmante il dato del 41 per cento delle donne che in almeno un’occasione ha avuto paura per la sua incolumità fisica. Per quanto riguarda il tipo di molestie o minacce ricevute, appena meno della metà (il 46 per cento) delle donne che hanno subito molestie o minacce online ha specificato che erano di natura misogina o sessista. Tra un quinto (19 per cento in Italia) e un quarto delle donne ha riferito di aver subito minacce di aggressione fisica o sessuale. Il 58 per cento delle donne che hanno subito molestie o minacce online ha raccontato che includevano frasi razziste, sessiste, omofobiche o transfobiche. Il 26 per cento ha denunciato che informazioni personali e private o altri dati sensibili riguardanti la loro persona (il cosiddetto fenomeno del “doxxing” ) erano stati condivisi online. Oltre il 59 per cento delle donne intervistate ha detto che le molestie o le minacce on line arrivavano da perfetti sconosciuti. L’impatto psicologico di tutto questo può essere devastante. Il 61 per cento delle donne che hanno subito molestie o minacce online ha provato diminuzione dell’autostima e della fiducia in sé stesse; oltre la metà (il 55 per cento) ha provato stress e ansia e ha avuto attacchi di panico; complessivamente il 63 per cento (ma in Nuova Zelanda il 75 per cento) ha riferito disturbi del sonno; oltre la metà (il 56 per cento) ha avuto difficoltà di concentrazione per lunghi periodi di tempo. Il sondaggio evidenzia che le molestie e la violenza online sono una minaccia diretta alla libertà d’espressione. Da quando la discriminazione e la violenza contro le donne sono sbarcate sul mondo digitale, molte donne si tirano indietro dalle conversazioni o si auto-censurano temendo conseguenze per la propria privacy o incolumità. Oltre tre quarti (il 76 per cento) delle donne che hanno subito molestie o minacce online ha cambiato il modo di usare i social media, ad esempio i contenuti dei post: il 32 per cento ha detto di aver cessato di pubblicare opinioni su determinati argomenti. In tutti gli otto paesi, molte donne hanno dichiarato che le politiche governative di reazione alle molestie sono più inadeguate che adeguate, con un picco del 57 per cento in Svezia. Un terzo delle donne intervistate nel Regno Unito (il 33 per cento), negli Usa e in Nuova Zelanda (32 per cento) ha dichiarato che a essere inadeguata è la reazione della polizia. Dal sondaggio emerge che le donne ritengono che le compagnie che gestiscono i social media dovrebbero fare di più. Solo il 18 per cento ha risposto che la loro reazione era stata molto, abbastanza o del tutto adeguata. Sulla base dei risultati del sondaggio, Amnesty International ha chiesto alle compagnie di rafforzare le regole delle loro comunità, mettere in grado gli utenti di usare misure individuali di sicurezza e di privacy, come il blocco, la riduzione al silenzio e il filtro per contenuti e, infine, assicurare che i moderatori siano adeguatamente formati a identificare le molestie e le minacce online basate sul genere o su altre forme d’identità. Ai governi, Amnesty International ha chiesto che vengano adottate e applicate leggi, politiche, prassi e formazione adeguate a prevenire e a porre fine alle molestie e alla violenza online contro le donne. Ius soli, Boschi ci ripensa: “C’è il tempo per approvarlo” di Marina Della Croce Il Manifesto, 21 novembre 2017 Manifestazioni in tutta Italia a sostegno della riforma della cittadinanza ferma al Senato. Non sono passati neanche due mesi da quando (era il 27 settembre scorso) Maria Elena Boschi dava per spacciata la possibilità di vedere approvato lo ius soli “in questa legislatura”. Ieri, a ulteriore dimostrazione di come per il Pd sia importante dare un segnale a quanto si muove alla sua sinistra, la sottosegretaria ha fatto una brusca marcia indietro riaccendendo le speranze di quanti attendono da anni la riforma della cittadinanza. “Noi l’abbiamo approvata già due anni fa alla Camera - ha ricordato - quindi adesso sicuramente il Senato sta lavorando su questa legge molto importante. La legislatura sta finendo e noi ci auguriamo che i tempi possano consentire questa approvazione”. Sarà il tempo a stabilire quanto realmente il Pd sia intenzionato ad andare fino in fondo. Intanto - contrariamente a quanto detto dalla sottosegretaria, il Senato non riprenderà in mano la discussione sullo ius soli almeno fino al prossimo 5 dicembre quando, una volta licenziata la legge di Bilancio, si potrebbe aprire una finestra utile per approvare il provvedimento. Sempre a patto, però, che il governo si decida finalmente a porre la fiducia senza la quale, con 48 mila emendamenti da discutere e l’opposizione di tutte le destre e del M5S, non si va da nessuna parte. Intanto le aperture fatte del Pd (per quanto per ora siano solo a parole) permettono alle destre di fare campagna elettorale contro lo ius soli e promettono battaglia. “Siamo pronti a ogni forma di protesta, pacifica e legale, per fermare la legge”, assicura Matteo Salvini annunciando per i prossimi 2 e 3 dicembre due giorni di mobilitazione della lega contro la riforma della cittadinanza. “Sarà una grande mobilitazione alla quale ci auguriamo vorranno prendere parte anche tutte le forze sociali e politiche ce condividono il nostro progetto”, ha spiegato il segretario del Carroccio. Si accoda Renato Brunetta : “La sinistra pensa di risolvere tutto con lo ius Soli. In questo momento può essere una priorità dare un milione di cittadinanze automatiche? Già ne diamo 200mila all’anno, siamo tra i Paesi più generosi in tal senso. Se fossi cinico mi augurerei che Gentiloni riuscisse a far approvare lo ius soli, così noi dal giorno dopo potremmo raccogliere le firme per abolirlo in piena campagna elettorale”, ha spiegato il presidente dei deputati di Forza Italia. Chi la cittadinanza l’aspetta da quando è nato sono ovviamente i diretti interessati, i circa 800 mila ragazzi nati in Italia da genitori immigrati. Organizzate da “L’italia sono anch’io”, “Italiani Senza Cittadinanza”, “Insegnanti per la Cittadinanza”, “Movimento di Cooperazione Educativa”, “Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti”, “Cemea”, “A Buon Diritto” ieri si sono svolte manifestazioni in numerose città per sollecitare l’approvazione del provvedimento. A Roma sotto Montecitorio si è tenuto una girotondo con gli alunni di due scuole romane, mentre una delegazione di studenti è stata ricevuta dai presidenti della Camera e del Senato. Quest’ultimo ha ribadito l’impegno a far calendarizzare la legge tra i lavori di Palazzo Madama. “Questi sono giorni decisivi perché la discussione al Senato riprenda e volga a un termine positivo”, ha detto il senatore Luigi Manconi, presente anche lui all’incontro. “Per questo occorre tenere alta l’attenzione sul tema e sostenere con ogni mezzo la mobilitazione - ha proseguito il presidente della Commissione Diritti umani - a partire dal digiuno a staffetta ripreso proprio oggi (ieri, ndr) da 58 cittadini italiani”. La marcia della dignità è un punto di non ritorno per i migranti di Ernesto Milanesi Il Manifesto, 21 novembre 2017 Giovedì è prevista la visita della delegazione parlamentare composta da Giulio Marco (Si), Michele Mognato e Davide Zoggia (Mdp) insieme a Gianfranco Bettin e altri firmatari dell’appello a sostegno della marcia che, prima o poi, potrebbe davvero arrivare fino a Venezia. Dentro o fuori i cancelli dell’ex base militare Silvestri, la “marcia della dignità” fissa un punto di non ritorno per i migranti in Veneto. È la dignità umana da mantenere, al di là della propaganda di carta vetrata. Nel week end, almeno, lo staff della prefettura di Venezia ha aggiornato il censimento dei rifugiati ospiti nella struttura di Conetta, la frazione che conta appena 152 residenti. I protagonisti dell’esodo della scorsa settimana risultano complessivamente 248, mentre all’interno dei cancelli ne erano rimasti altri 871. Così si sono riaccesi i riflettori a Nord Est. Le statistiche ufficiali depositate a Montecitorio contabilizzavano all’inizio dell’anno in Veneto. 2.770 migranti nei tre “centri operativi di prima accoglienza”, di cui 1.234 nella sola Conetta. La regione garantiva altre 5986 “strutture temporanee” con 9.847 posti ma 10.448 presenze. Infine, i minori non accompagnati: 535 seguiti dai progetti Sprar che contavano 654 posti. E adesso è davvero “emergenza”, perché il muro dell’indifferenza non regge più. A gennaio era morta tragicamente Sandrine Bakayoko, 25 anni, ivoriana. Poi è toccato a Salif Traore, 35 anni, anche lui in fuga dalla Costa d’Avorio, travolto in bici sull’argine mentre cercava di raggiungere gli altri in cammino verso Codevigo. Due lutti che accompagnano non solo chi si è stancato di “essere trattato come le bestie” o “sopravvivere da quasi due anni senza documenti né prospettive”, ma che hanno costretto tutti a fare sul serio i conti con l’ingestibilità di Conetta. Di sicuro la soluzione alternativa non può essere l’ex caserma di Treviso: tant’è che chi era stato sbarcato dai bus ha rifiutato il trasferimento. Anche un’altra ventina di migranti ha scelto di rientrare da Mira e Oriago. Ieri mattina, però, la “marcia” è ripartita alla spicciolata da Conetta. I migranti si sono messi in cammino “scortati” dalle forze dell’ordine. E molti altri hanno lasciato alle spalle i cancelli, fermi nella zona di via Rottanova, scrutando verso piazza Dante al centro della frazione. Una situazione fluida, mentre divampa la polemica. Il patriarca Francesco Moraglia - come il vescovo di Padova, Claudio Cipolla - ha spalancato chiese e strutture parrocchiali. Di qui lo striscione d’odio che Forza Nuova ha appeso in piazza san Marco: “Giuda, l’euro il tuo dio”. E la coop Edeco (che fa capo a Sara Felpati e Simone Borile, moglie e marito già indagati in più fascicoli dalle Procure di Rovigo e Padova) prova a scaricare tutto sugli amministratori locali. Il sindaco di Cona, Alberto Panfilio, replica: “Accoglienza più decente? Servivano altre soluzioni in tutti questi mesi. Il ministro Minniti si è già impegnato a non autorizzare i prefabbricati. Piuttosto c’è da chiedersi: la convenzione con Edeco non è scaduta? Perché sono ancora lì?”. Ma nelle pieghe di tante pagine di cronaca brilla la notizia che scalda i cuori. Sara e Keita, entrambi di 23 anni, con la loro bambina di un anno. Un amore, e il matrimonio in municipio, sbocciato proprio a Conetta: “Si sono conosciuti tra le tende e la mensa, lui giovane malese in fuga, lei operatrice della coop. Giovani, felici e innamoratissimi. Hanno deciso di continuare a vivere a Cona” racconta Gloria Bertasi del Corriere del Veneto. Intanto, giovedì è prevista la visita della delegazione parlamentare composta da Giulio Marco (Si), Michele Mognato e Davide Zoggia (Mdp) insieme a Gianfranco Bettin e altri firmatari dell’appello lanciato dalla “società civile veneziana” a sostegno della marcia che, prima o poi, potrebbe davvero arrivare fino a Venezia. Minori stranieri non accompagnati: in Lombardia trecento tutor per i ragazzi in fuga di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 21 novembre 2017 Diventare tutori volontari per accompagnare i ragazzini stranieri che arrivano a Milano da soli. In quasi trecento hanno risposto al bando della Regione per prendersi questa responsabilità. Un atto di generosità che adesso va gestito. “Ne servono ancora, dovremmo arrivare a ottocento. Ed è urgente partire, questi cittadini potrebbero diventare davvero un punto di riferimento educativo, oltre che giuridico, e segnare la svolta”, dice Maria Carla Gatto, presidente del Tribunale per i minorenni. La storia di Elena Avidano, nella lista dei milanesi col coeur in man, e di Ahrammar, tunisino in Italia dall’età di 16 anni e ospite della comunità Oklahoma, al Gratosoglio. Quasi 300 milanesi hanno risposto al bando della Regione offrendosi come tutori volontari per accompagnare e sostenere i migranti ragazzini che arrivano a Milano da soli. Si sono offerti senza compenso. Atto di generosità enorme che adesso va gestito. “Ne servono ancora, dovremmo arrivare a 800. Ed è urgente partire, questi cittadini potrebbero diventare davvero punto di riferimento educativo, oltre che giuridico, e segnare la svolta”, dice Maria Carla Gatto, presidente del Tribunale per i minorenni. In altre Regioni i corsi (tre giornate di “lezioni” ) sono già iniziati. In Lombardia no: non ci sono state neanche le selezioni. “I corsi dovevano iniziare in autunno, poi sono slittati a dicembre, forse gennaio. Siamo in ritardo e la Regione finora non ha fatto molto neanche per pubblicizzare l’iniziativa”, ha fatto notare ieri nel corso di un convegno in Cattolica Annamaria Caruso, garante dei diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza del Comune, lanciando una stoccata al suo corrispettivo del Pirellone Massimo Pagani (è ai garanti regionali che la “legge Zampa” approvata lo scorso aprile affida infatti il compito di reclutare, selezionare e formare questi cittadini). “Speriamo che la situazione si sblocchi al più presto - smussa i toni Gatto. E che al contempo, per velocizzare il processo, a noi Tribunali venga consentito di gestire anche le nomine dei tutori, e non solo gli elenchi. Un decreto correttivo alla legge, in questo senso, è già al vaglio del Parlamento”. Arrivare ad un albo informatico dei volontari è un passaggio fondamentale. Ma a questo dovrebbe corrispondere una sorta di anagrafe dei minori stranieri non accompagnati che ad oggi non c’è, sottolinea ancora Caruso. “I minori si spostano sul territorio italiano e le tracce si confondono perché non esistono documenti con impronte e dati condivisi su di loro”. I tutori volontari dovrebbero fare un po’ da “genitori sociali”, creare anche un rapporto con i ragazzi, laddove invece oggi quelle stesse figure pubbliche hanno in carico centinaia di minori e “non ne conoscono quasi la faccia”. Si spera, adesso, che gli aspiranti non si tirino indietro, e che anzi se ne aggiungano molti altri. “Preoccupa l’assoluta gratuità dell’incarico, senza neanche il rimborso delle spese vive. Questo rende più arduo motivare persone valide, in prima persona mi sto attivando per reperire fondi”, promette Gatto. E Caruso: “Come verranno abbinati tra loro i ragazzini e i tutori? Solo secondo un criterio di vicinanza geografica? E poi: non sono previste assicurazioni, e nemmeno permessi speciali dal lavoro per accompagnare i ragazzi a sbrigare pratiche burocratiche. Sarà sempre così? Su questo progetto dobbiamo lavorare tutti insieme”. Cauto infine don Claudio Burgio, cappellano del carcere Beccaria dove metà dei detenuti sono minori stranieri non accompagnati. “Questi adolescenti arrivano con un grosso debito, economico e sociale, verso le famiglie, che hanno pagato loro il viaggio e chiedono ai figli un aiuto dall’Italia. Hanno fretta di guadagnare, ma in comunità è previsto invece che studino a lungo. È così che finiscono in giri di spaccio, o peggiori”. Le comunità sono un presidio, “i genitori sociali possono dare una ulteriore rassicurazione”. Ahmed, il Wiesenthal ivoriano che insegue i torturatori dei migranti di Alessandra Ziniti La Repubblica, 21 novembre 2017 Ne ha già fatti arrestare tre. Massacrato di botte nel famigerato Ghetto di Alì, il terribile campo di prigionia libico in cui sono transitati migliaia di profughi, appena è riuscito a sbarcare a Lampedusa si è rivolto alla polizia con una missione: catturare i suoi aguzzini. L’ultimo, un carceriere nigeriano, era mimetizzato tra i richiedenti asilo a Isola Capo Rizzuto. Quando gli hanno mandato la foto nel centro di accoglienza del Nord Italia in cui vive protetto lo ha riconosciuto senza indugi. E Gift Jofi, il carceriere nigeriano del famigerato Ghetto di Alì che tutti conoscevano come Sofi, è finito in manette, scovato dagli agenti della squadra mobile di Agrigento mimetizzato tra i richiedenti asilo del Cara di Isola Capo Rizzuto in Calabria. E sono tre. La “giustizia” di Hamed corre come un treno, senza pietà, neanche per chi, come l’ultimo degli arrestati, è diventato un “torturatore per caso”. Convinto con la forza dai trafficanti a passare dalle fila dei prigionieri a quelle dei carcerieri per assicurarsi così il passaggio gratis su un gommone per l’Italia. Lo avevano proposto anche ad Hamed, ma lui ha sdegnosamente rifiutato. E in quel momento è cominciato un nuovo inferno. Questo gigante tutto muscoli di 1,95, che piange in aula mentre ripercorre l’incubo vissuto nei tre mesi di prigionia nel Ghetto di Sabha, non aveva alcuna intenzione di venire in Italia. Lui voleva solo lavorare in Libia per trovare i soldi per continuare gli studi dopo la laurea in giurisprudenza che era riuscito a prendere nel suo paese, la Costa d’Avorio. “La mia famiglia aveva pagato il riscatto, io ero devastato dalle torture, non riuscivo neanche a camminare, così quando mi hanno liberato e sono riuscito a raggiungere Tripoli ho deciso di salire su un barcone per l’Italia per curarmi ma soprattutto per avere giustizia. Ho studiato e so che la tortura è condannata in tutto il mondo. E ora voglio andare fino in fondo”. La prima cosa che Hamed Bakayoko, 29 anni, ha fatto, appena arrivato a Lampedusa, a marzo scorso, è stata proprio quella di andare a bussare alla porta della polizia, aprendo così la breccia che ha portato poi all’identificazione e all’arresto di tre degli aguzzini del generale Alì, che la Dda di Palermo ha portato sul banco degli imputati per reati da ergastolo, associazione per delinquere, tratta di essere umani, omicidio, violenza sessuale. Ora trasferito in un centro di accoglienza del Nord Italia, Hamed comincia il suo racconto ringraziando “la polizia italiana, la magistratura e i medici che mi hanno curato”. “Tornerò in Sicilia tutte le volte che sarà necessario fino a quando non li vedrò condannati”. La storia di Hamed è emblematica perché conferma che molti di quanti vengono fatti salire a forza su un barcone non hanno in realtà come obiettivo l’Europa ma vengono rapiti alla frontiera e finiscono nel ghetto di Sabha in balia dei trafficanti. “Io volevo solo andare a Tripoli a lavorare per mandare i soldi a casa e poter continuare i miei studi. Ma, appena arrivato al confine tra Libia e Niger, ad Agadès, purtroppo mi sono fidato di uno degli autisti che si propongono per attraversare la Libia e invece sono al soldo delle milizie di Alì. Lì è cominciato il mio incubo”. Che sarebbe potuto durare anche solo pochi giorni perché i familiari e gli amici di Hamed avevano subito pagato il riscatto di duemila euro su un conto in Niger intestato ad Alagi Iakuba Isa, un prestanome utilizzato da Alì per raccogliere i riscatti. È stato in quel momento che, per paradosso, vista la sua stazza fisica, i carcerieri hanno proposto ad Hamed di diventare uno di loro. Il suo rifiuto ha scatenato la folle violenza degli aguzzini che adesso vuole vedere condannati all’ergastolo. “Io chiaramente ho rifiutato e loro sono tornati e hanno cominciato a torturarmi. Mi hanno messo delle manette, mi hanno sbattuto nella sezione più dura in cui si trovava Rambo, lì mi hanno detto che dovevo pagare cinque milioni di franchi”. Ogni giorno violenze su violenze. “Dormivamo con i piedi sollevati e lui ci colpiva alla pianta dei piedi con una frusta di caucciù. Soprattutto quando era sotto effetto di droghe era così violento che a volte le persone rimanevano inermi, senza mangiare, senza poter fare niente per giorni, quasi in fin di vita. Utilizzava ogni strumento di tortura, dai cavi elettrici all’acqua bollente”. Dopo sei mesi di torture, Hamed era ridotto come un fantoccio, una gamba spezzata, incapace di reggersi in piedi. “Uno di loro si è impietosito e mi hanno buttato fuori dal campo, non servivo più”. A quel punto il gommone in partenza per l’Italia era l’unica speranza di sopravvivere. Guinea. Due italiani condannati a 54 anni di carcere, ma nessuno ne parla di Federico Marconi L’Espresso, 21 novembre 2017 Fabio e Filippo Galassi, padre e figlio di 63 e 25 anni, sono in prigione nel paese centroafricano dalla primavera del 2015. Stanno scontando una pena per numerosi reati fiscali dopo essere finiti al centro di una controversa vicenda giudiziaria. La signora Strippoli, madre del ragazzo: “Politica e istituzioni mi hanno lasciata sola”. “Sono più di due anni che non vedo mio figlio. Senza una soluzione dovrò aspettarne altri diciannove prima di poterlo riabbracciare. È orribile, Filippo deve tornare a casa”. C’è tanta amarezza quanta tenacia nelle parole di Carla Strippoli mentre racconta la vicenda di cui sono protagonisti il figlio, Filippo Galassi, e l’ex marito Fabio, che sono stati condannati rispettivamente a 21 e 33 anni di carcere in Guinea Equatoriale per reati fiscali. I due Galassi, semplici dipendenti dell’azienda per cui lavoravano, la General Work, sono stati al centro di una vicenda giudiziaria ambigua e controversa. Padre e figlio si sono trasferiti nel 2010 nel paese centroafricano, uno dei più ricchi del continente per Pil pro capite, ma anche uno dei più corrotti: come scrive la Ong Human Rights Watch, lì “la corruzione è una forma d’arte”. La Guinea Equatoriale è governata ininterrottamente dal 1979 dal presidente-dittatore Teodoro Obiang e la sua famiglia è stata più volte accusata di arricchirsi sulle spalle dello Stato. Per fare solo un esempio il figlio di Teodoro, Teodorin, è stato condannato il 27 ottobre 2017 a tre anni di carcere da una corte francese per riciclaggio, abuso di beni sociali, appropriazione indebita, abuso di fiducia, corruzione, per somme pari ad almeno 100 milioni di euro. In Guinea Fabio e Filippo Galassi erano dipendenti della General Work, impresa del settore edile, di proprietà dell’italiana Annamaria Moro e della famiglia del presidente Obiang. Fabio Galassi si era trasferito nel paese centroafricano nel 2010. Lavora prima per il governo guineano, poi nel dicembre 2010 viene assunto dall’impresa della signora Moro, di cui diventa compagno di vita e braccio destro negli affari. Allora invita il figlio Filippo a raggiungerlo: lo farà poche settimane dopo. Nella primavera del 2015 Filippo e Fabio vengono arrestati con l’accusa di voler fuggire dal paese con una valigia piena di soldi. Accusa falsa: nelle valigie c’erano solamente effetti personali e tremila euro in contanti. Padre e figlio passano due mesi nel carcere di Bata prima di vedersi formalizzare le accuse. E sono tutte molto pesanti: bancarotta, appropriazione indebita, sottrazione fraudolenta di beni, corruzione, truffa e riciclaggio di denaro. Dopo sei mesi di processo, il 18 gennaio 2016 Filippo e Fabio sono stati condannati dalla Corte suprema guineana a 21 e 33 anni di reclusione. La signora Strippoli non si dà pace. “Mio figlio e il mio ex compagno erano due semplici dipendenti, non avevano nessuna quota dell’azienda” afferma mentre racconta di due anni di battaglie per farli uscire dal carcere, delle telefonate che ogni tanto riesce ad avere con il figlio, dei suoi continui appelli rivolti al ministero degli Esteri. Ed è convinta: “Filippo e Fabio sono due vittime sacrificali cadute in un gioco più grande di loro. Se ripercorre tutta la vicenda, si può rendere conto di tutte le cose che non tornano” afferma la signora Strippoli, “chiami Daniel. Anche lui ha vissuto quell’inferno, le potrà dire tutto”. Daniel Candio, 25 anni, è un amico di Filippo. Ha lavorato come responsabile delle risorse umane per la General Work dal febbraio 2012 al marzo 2015. Il 24 giugno 2015 è stato arrestato dalla polizia guineana e ha passato tre mesi in carcere prima di venire totalmente scagionato dalle stesse accuse rivolte ai due Galassi. “Fabio e Filippo mi hanno chiamato a dicembre del 2011, chiedendomi se ero interessato ad andare a lavorare con loro. Sono partito qualche mese dopo” dichiara Candio all’Espresso. Racconta della situazione critica in cui si trovava la General Work: pochi soldi in cassa e tanti stipendi da pagare. “Con molta fatica siamo riusciti a risanare l’azienda” continua “abbiamo ripreso a pagare gli stipendi ogni mese, le cose sembravano andare per il meglio”. Almeno fino all’autunno 2014. Con la crisi petrolifera che colpisce il paese, la situazione precipita. “Il governo, che era il nostro principale committente, ha smesso di pagare le commesse e noi abbiamo dovuto sospendere nuovamente il pagamento degli stipendi”. La General Work però prova a resistere: “I dipendenti si fidavano di Fabio e l’azienda continuava a lavorare”. La fiducia viene meno con il passare dei mesi. Ed è allora che iniziano i guai per i Galassi. A inizio 2015, Fabio si trovava in vacanza in Italia con Annamaria Moro, la proprietaria dell’azienda che all’epoca dei fatti era la sua compagna. Lui decide di tornare in Guinea per pagare i dipendenti e provare a risolvere i problemi dell’azienda. Lei preferisce rimanere in Italia. “Quando Fabio le ha detto che sarebbe tornato in Africa, la signora Moro gli ha risposto: “Se vuoi vai, ma io rimango qui” “afferma Candio. Un comportamento che Daniel non si spiega: “Fabio e la signora Moro avevano un rapporto molto stretto. Oltre a lavorare, vivevano insieme. Lei era molto gelosa, non lo lasciava mai solo. Forse sospettava qualcosa”. Annamaria Moro è la proprietaria delle quote di maggioranza della General Work. Aveva ereditato l’azienda dal marito, Igor Celotti, morto in circostanze misteriose in un incidente aereo in Guinea il 21 giugno 2007. Dopo la morte di Celotti, le quote dell’azienda passano non solo nelle mani della vedova, ma anche in quelle della famiglia del presidente guineano Teodoro Obiang. “Obiang e la Moro avevano un buon rapporto. Si vedevano spesso” afferma Daniel Candio. Un’amicizia nata con il tempo e rafforzatasi dagli affari in comune: “Il presidente guineano aveva quote sia della General Work, sia del gruppo Rangerbourg (altra società di Annamaria Moro). Noi eravamo in tutto e per tutto un’impresa statale: i soldi che utilizzavamo venivano dal governo”. A marzo le cose però si mettono male. “Fabio viene arrestato con l’accusa di voler fuggire dalla Guinea con valigie piene di soldi. I magistrati gli dicevano: “Lo Stato ha pagato l’impresa, i soldi per gli stipendi li avete ricevuti dal governo. Lei e Moro ve ne siete appropriati e fatti uscire dal paese”. Galassi però aveva dei documenti che dimostravano il contrario. Ma quando è riuscito a scagionarsi hanno cambiato l’accusa in bancarotta fraudolenta. Una follia: né l’azienda né i creditori avevano mai presentato un’istanza di fallimento” ricorda Candio. “Io volevo tornare in Italia, ma non me la sentivo di lasciare Filippo da solo: gli era stato tolto il passaporto, non poteva lasciare il paese per il solo fatto di essere un testimone. Lì funziona così. Io ho deciso di rimanere con lui. Per me più che un amico è un fratello. Ci conoscevamo da una vita. In Guinea poi lavoravamo nello stesso ufficio, condividevano l’appartamento, uscivamo insieme. Come potevo abbandonarlo?”. Candio rimane così nel paese centroafricano, ma presto iniziano i guai anche per lui: “Il 24 giugno mi chiamano in tribunale perché c’era un’udienza con il signor Galassi. Un poliziotto e due funzionari ministeriali mi dicono di accompagnarlo a prendere dei documenti a casa”. La casa però era sottoposta a sequestro. “Alla porta c’erano dei sigilli e il poliziotto ci ha fatti entrare dalla finestra. Dopo un’ora vediamo arrivare gli avvocati dell’accusa, alcuni dipendenti della General Work, dei militari, la televisione. C’erano addirittura dei ministri del governo Obiang”. Era scattata una trappola. “Galassi venne accusato di voler evadere e io di essere suo complice. Così hanno arrestato anche me. La televisione mandò in onda un servizio in cui Galassi usciva dalla finestra, dicendo che era stato fermato mentre tentava di fuggire dalla polizia. Tutte falsità”. In carcere Fabio e Daniel vengono raggiunti anche da Filippo: “Lo arrestarono al supermercato mentre faceva la spesa. Anche lui venne accusato di complicità e di voler scappare dal paese”. Daniel Candio, Fabio e Filippo Galassi vengono accusati di reati fiscali: “Appropriazione indebita, truffa, bancarotta. Reati su reati di cui non eravamo assolutamente colpevoli”. I magistrati dopo tre mesi si rendono conto di non avere nulla su Daniel, e a ottobre 2015 lo scagionano. I due Galassi invece rimangono in carcere. L’accusa li considera i responsabili della crisi dell’azienda: avevano trovato dei documenti in cui compariva la loro firma e questa, secondo loro, provava il fatto che erano i due a dirigere la General Work. Candio però li smentisce: “Né Fabio né Filippo erano nel consiglio di amministrazione della General Work. Filippo era un dipendente qualsiasi. E anche Fabio, nonostante fosse il braccio destro della Moro. Lei gli diceva spesso: “Sei qui solo per lavorare. Il giorno in cui non mi servi più, puoi benissimo tornartene in Italia”. La signora Moro sembra essersi disinteressata alla sorte dei due Galassi. E Candio non capisce il perché: “Annamaria era la compagna di Fabio, anche se dopo il suo arresto lo ha negato. In Guinea vivevano insieme, io e Filippo andavamo spesso a casa loro. Aveva un ottimo rapporto con entrambi. Sarebbe bastato una sua dichiarazione al processo per alleggerire la loro posizione”. Dichiarazione che non è mai arrivata. L’Espresso ha provato a contattare Annamaria Moro per chiederle un commento sulla vicenda dei Galassi, ma senza successo. Fabio e Filippo vengono così condannati a 33 e 21 anni dal tribunale guineano. La corte d’appello ha confermato la sentenza, e le richieste di grazia presentate al presidente guineano Teodoro Obiang non hanno ricevuto risposta. Anche la Farnesina si è mossa, ma le iniziative diplomatiche portate avanti dalla diplomazia italiana non hanno sortito alcun effetto. “La situazione qui è molto complicata” afferma all’Espresso il console italiano in Guinea Equatoriale Massimo Spano “e l’assenza di un ambasciatore fisso rallenta di molto le iniziative della diplomazia”. Anche Spano ritiene che i due Galassi siano finiti in un tranello: “Fabio e Filippo sono un capro espiatorio, perché tramite loro il governo può tenere buona l’opinione pubblica, che dà la colpa della crisi economica del paese agli imprenditori stranieri. Ma soprattutto tranquillizza così i lavoratori della General Work, che continuano a protestare per ottenere i salari arretrati”. C’è di più, secondo Spano “Fabio ha pestato i piedi a qualche autorità importante: c’è tutta la storia dei video che sono usciti fuori e che hanno trovato nel suo computer”. In queste riprese, pubblicate dal giornale guineano Diario Rombe, si vedono alcuni esponenti della politica e della magistratura del paese centroafricano mentre chiedevano - e ricevevano - soldi in cambio di favori a Fabio Galassi. “Fabio e Filippo la stanno pagando anche per questi video” afferma Spano “hanno infastidito alcune autorità della Guinea. Adesso gliela stanno facendo pagare”. Il console Spano è impegnato da due anni nelle manovre della diplomazia italiana per trovare una soluzione alla vicenda dei due Galassi. “Ma è tutto molto complicato” afferma il console “i tempi sono molto lunghi. In Guinea equatoriale non è presente un’ambasciata italiana. L’ambasciatore ogni volta deve venire dal Camerun e aspettare che qualcuno del governo lo riceva. Ma possono passare anche settimane: fanno fare molta anticamera qui”. L’Espresso ha contattato il responsabile dell’Unità di crisi per gli italiani all’estero, Luigi Vignali, per sapere in che modo il Ministero degli Esteri si è impegnato e s’impegnerà per far liberare Fabio e Filippo Galassi. Vignali al momento ha preferito non rispondere, in attesa di avere “qualche elemento più certo sulla situazione del Paese” dopo le elezioni legislative dello scorso 12 novembre. Elezioni che sono state - così come dal 1979 a questa parte - un plebiscito per il Partito democratico del presidente Teodoro Obiang, che ha ottenuto il 98 per cento dei voti. Nonostante tutto, Carla Strippoli - sostenuta dalla sorella di Fabio Galassi, Patrizia, e dall’avvocato Massimiliano Sammarco - sta cercando di smuovere il più possibile le acque per far accendere i riflettori sulla vicenda di Filippo e Fabio. “Abbiamo scritto all’ambasciatore guineano in Italia e presso la Santa Sede. Abbiamo scritto alle ambasciate spagnole, al ministero degli Esteri, persino all’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri Federica Mogherini. Ma in due anni tutto è rimasto immobile, perché?” si chiede la signora Strippoli “un ragazzo di 25 anni dovrà passare altri 19 anni in galera senza aver commesso alcun reato. Perché a nessuno interessa fare giustizia?”. Svizzera. Detenuti in sciopero chiedono uno spazio per contatti intimi di Pablo Gianinazzi La Regione, 21 novembre 2017 Circa 50 detenuti del penitenziario bernese di Thorberg hanno iniziato un sciopero venerdì per chiedere uno spazio per contatti intimi. Lo ha affermato oggi all’Ats il direttore del carcere Thomas Egger confermando quanto pubblicato dal Blick. Egger ha spiegato che gli scioperanti hanno scritto un elenco di tre pagine con le loro rivendicazioni. Il documento verrà ora analizzato e una prima risposta verrà data entro la fine della settimana, ha precisato. La prigione di Thorberg, situata tra Berna e Burgdorf (Be), ospita circa 180 prigionieri. Stando a Egger capita ogni tanto che persone si astengono dal lavoro, ma solitamente è per motivi personali. Secondo quanto riferisce il Blick, i prigionieri ricevono 320 franchi al mese. Durante lo sciopero non ricevono nulla, ha precisato Egger. Stando al Codice penale svizzero, i detenuti sono tenuti a lavorare. I loro incarichi devono essere adatti alle loro capacità individuali. A Thorberg ci sono, tra le altre cose, una selleria/tappezzeria, una legatoria, un atelier di pittura e uno di tessitura. I carcerati sono anche impiegati in cucina, in lavanderia, nella panetteria e nei “lavori domestici”. L’associazione per l’aiuto e la rappresentanza dei detenuti e degli emarginati Reform 91 ha espresso comprensione per le richieste degli scioperanti. La privazione di contatti sessuali, che l’organizzazione definisce “tortura bianca”, può infatti attaccare e danneggiare la psiche delle persone, ha spiegato il portavoce dell’associazione Peter Zimmermann. Cala il sipario sul tribunale dei crimini nella ex Jugoslavia di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 21 novembre 2017 È iniziato il conto alla rovescia che porterà alla chiusura del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia. A fine novembre, il Tribunale, il primo organo giurisdizionale internazionale dopo Norimberga, chiamato a processare gli autori di crimini di guerra, contro l’umanità e genocidio commessi durante il conflitto nell’ex Jugoslavia, chiuderà i battenti. Ma lascerà un’eredità preziosa e un preciso monito: gli autori di crimini efferati e di gravi e massicce violazioni del diritto internazionale umanitario, anche se capi di Stato, non godono dell’immunità e tanto meno dell’impunità. Prima della chiusura definitiva i giudici internazionali pronunceranno due sentenze: il 22 è atteso il verdetto su Mladic, accusato per l’assedio e il massacro di Srebrenica e il 29 la Camera di appello si pronuncerà sul caso Prlic. A chiudere, poi, le ultime attività del Tribunale ci penserà un meccanismo residuale voluto dall’Onu. Istituito dal Consiglio di sicurezza con la risoluzione n. 808 del 22 febbraio 1993, il Tribunale, con sede all’Aja (Olanda), è sorto come risposta alle gravi violazioni del diritto internazionale umanitario commesse nel territorio dell’ex Jugoslavia dal 1991 in poi. Gli orrori di quel conflitto, i campi di concentramento con individui torturati e affamati, le deportazioni, le donne stuprate, i cecchini, gli stermini della popolazione civile, comparsi nuovamente nel cuore dell’Europa, hanno spinto, in quegli anni, la comunità internazionale a trovare un’intesa per l’istituzione di un organo giurisdizionale internazionale che procedesse a punire gli autori di crimini. Anche perché le vittime dirette, le madri dei tanti giovani sterminati a Srebrenica, dovevano avere una risposta e ottenere giustizia. Ma il Tribunale aveva anche un’altra funzione: portare la pace attraverso la giustizia, missione compiuta visto che, dopo il Kosovo, i Balcani sono ormai pacificati e molti Stati sorti dalla dissoluzione dell’ex Jugoslavia e coinvolti nel conflitto bussano alle porte dell’Unione europea, dopo l’ingresso della Croazia. Sono stati 161 gli imputati accusati di crimini e per ben 154 sono stati conclusi i processi. 83 le sentenze: 56 condannati hanno già scontato la pena, 8 sono morti, 19 sono stati assolti. Tra i condannati “illustri” Karadzic, il leader serbo che, dopo dodici anni di latitanza, fu arrestato e condannato a 40 anni di carcere per il genocidio di Srebrenica. Prima di lui, Slobodan Milosevic, il primo capo di Stato in carica ad essere processato dinanzi a un tribunale internazionale, portato alla sbarra dal Procuratore Carla Del Ponte, morto prima della fine del processo anche se, grazie alle prove raccolte molti dei fatti da lui commessi sono comunque venuti a galla. Di quei processi, che hanno permesso di squarciare le zone d’ombra del conflitto, non restano solo le sentenze, ma un patrimonio costituito da un archivio in cui è possibile rintracciare le registrazioni delle udienze e, soprattutto, le testimonianze delle vittime che hanno raccontato gli orrori subiti. È grazie al Tribunale per l’ex Jugoslavia che le madri di Srebrenica hanno ottenuto un verdetto che ha riconosciuto che nell’enclave bosniaca in cui sono morte 8mila persone è stato commesso un vero e proprio genocidio. Ed è sempre grazie alle sentenze del Tribunale che è stato possibile scrivere la storia di quel conflitto. Tutto nel rispetto delle regole sull’equo processo. E dell’imparzialità dei giudici. Agli imputati è stato garantito ogni strumento utile per la difesa ed è stato assicurato il principio del contraddittorio. Un balzo in avanti notevole rispetto a Norimberga e il definitivo abbandono di una giustizia dei vincitori sui vinti. Rilevante anche il contributo dell’Italia: il primo Presidente del Tribunale è stato il professore Antonio Cassese a cui è seguito, dopo qualche anno, il giurista Fausto Pocar. Il Tribunale, malgrado alcuni aspetti negativi come la durata eccessiva di alcuni processi e gli alti costi legati al suo funzionamento, ha poi lasciato una grande eredità. Il patrimonio di principi di diritto internazionale umanitario e della giustizia penale internazionale affermati nel corso degli anni nelle proprie aule di giustizia, anche per individuare gli elementi costitutivi di crimini come tortura, stupro, genocidio. Un modello che ha fatto scuola, seppure tra luci e ombre. Dopo il Tribunale per l’ex Jugoslavia, è stata la volta di quello per i crimini commessi in Ruanda (chiuso da qualche anno). Poi, tra i più importanti, il Tribunale misto per la Sierra Leone frutto di un accordo del 2002 tra Governo di Freetown e Nazioni Unite che ha portato alla condanna dell’ex presidente Charles Taylor accusato di aver reclutato bambini soldato; le Camere straordinarie per la repressione dei crimini commessi dai Khmer rossi in Cambogia. Senza il Tribunale per l’ex Jugoslavia, poi, non ci sarebbe mai stata la Corte penale internazionale istituita nel 1998 e operativa dal 2002 che, però, si muove con molta più difficoltà. Una proliferazione che, in ogni caso, è positiva perché ha scardinato il principio dell’esclusiva competenza degli organi giurisdizionali statali in materia penale. Israele. Il presidente nega grazia a soldato che uccise terrorista palestinese ferito a terra di Vincenzo Nigro La Repubblica, 21 novembre 2017 Polemiche dell’estrema destra contro Rivlin, che non ha concesso il perdono a Elor Azaria, caporale di 20 anni condannato da un tribunale militare a 18 mesi di carcere: aveva freddato a Hebron un terrorista mentre era immobile al suolo. il presidente israeliano Reuven Rivlin da qualche ora è al centro di una tempesta politica esplosa dopo una decisione molto delicata che ha avuto la forza di prendere. Rivlin ha rifiutato la grazia a un giovane soldato condannato per l’uccisione di un terrorista palestinese che era già stato ferito e da 11 minuti era bloccato a terra senza possibilità di muoversi. Il presidente non ha concesso il perdono a Elor Azaria, un caporale di 20 anni condannato da un tribunale militare a 18 mesi di carcere per la morte di Abdel Fattah Sharif, 21 anni, freddato con un colpo di fucile a Hebron nel marzo del 2016. Pochi minuti prima di essere ucciso Sharif con un complice aveva ferito a coltellate due soldati di una pattuglia, era stato colpito ed era rimasto bloccato a terra, circondato dai soldati. Dal marzo 2016 la storia di Azaria era andata avanti diventando un caso molto delicato, un simbolo della polarizzazione sempre più radicale di parte della società civile e quindi dei movimenti politici. Il video in cui si vede tutta la sequenza dell’uccisione inizia riprendendo un gruppo di soldati arrivati sul luogo dell’attacco terroristico. I militari aiutano un soldato ferito a salire su un ambulanza e fanno avvicinare altri veicoli. Il palestinese è a terra, ferito da un colpo di mitra. Solleva per alcuni attimi la testa, muove le braccia, ma non riesce a fare nulla di più. Poi rimane fermo, in attesa che i paramedici israeliani si occupino anche di lui. All’improvviso il caporale Azaria, senza un motivo apparente, arma il mitra e da 4-5 metri di distanza spara alla testa del palestinese a terra. Il tutto viene ripreso dagli attivisti di una ONG israeliana, B’Tselem, che è presente nei territori palestinesi per verificare il comportamento dell’esercito e proteggere i diritti dei cittadini arabi che vivono sotto occupazione. Il video diventa virale in poche ore, e mentre serve a incolpare il soldato, viene comunque utilizzato da chi lo difende per sostenere la tesi difensiva. Il caporale infatti ha sempre detto di aver avuto la sensazione che il palestinese da un momento all’altro potesse farsi saltare in aria perché poteva avere un giubbotto esplosivo indosso. Azaria finisce di fronte a un tribunale militare e alla fine del processo viene condannato a 18 mesi (il procuratore aveva chiesto da 3 a 5 anni) per omicidio colposo. Dopo alcuni mesi di proteste, il capo di stato maggiore generale Gady Eizenkot ha ridotto la pena a 14 mesi: il generale motiva la riduzione di pena “in base a considerazioni di comprensione per lo stato di servizio di un militare in servizio in un teatro operativo”. Ma poi aggiunge che “la grave azione di cui il soldato non si è assunto responsabilità e per cui non ha chiesto scusa” giustifica una punizione, ricordando poi che “le decisioni dei tribunali vanno rispettare”. La decisione di Rivlin, membro di un partito di destra come il Likud, ha scatenato le reazioni negative di alcuni ministri nazionalisti. Il primo a criticare il presidente è stato proprio il ministro della Difesa Avigdor Lieberman, che ha detto che “il presidente Rivlin aveva la possibilità di mettere la parola fine a questa vicenda che la colpito la società israeliana. Il soldato Azaria ha fronteggiato un terrorista che era venuto per uccidere”. Il ministro nazionalista dell’Istruzione Naftali Bennett criticato Rivlin e ha telefonato alla famiglia Azaria. La ministra della Cultura Miri Regev, altra nazionalista, è arrivata ad accusare il capo dello Stato di aver “abbandonato il soldato sul terreno, e ha perso l’occasione della sua vita” per fare buon uso del perdono presidenziale.