Studenti in visita al carcere, un’esperienza che aiuta a crescere Il Mattino di Padova, 20 novembre 2017 Quante volte ci siamo sentiti dire che portare gli studenti in carcere, a un confronto con le persone detenute, in fondo è come esporli inutilmente al brutto della vita, e che è meglio piuttosto accompagnarli a teatro, a una mostra, farli crescere culturalmente a contatto con cose belle? Le lettere che seguono, scritte da ragazzi che di recente sono entrati in carcere a un incontro con la redazione di Ristretti Orizzonti, il giornale del carcere (in un progetto sostenuto da anni dal Comune di Padova e dalla Fondazione Cariparo), dimostrano invece con grande chiarezza il senso di questa iniziativa: perché sono lettere che indicano che questa esperienza serve ai ragazzi per porsi delle domande, per essere meno superficiali, per guardare alla propria vita con più consapevolezza, per vedere la realtà in tutta la sua complessità, non giudicare troppo in fretta ma cercare di capire e di farsi venire dei dubbi, essere più responsabili ed evitare quei comportamenti a rischio che possono costare davvero cari. Come possiamo noi umani non dare una seconda possibilità? Ciao ragazzi, ho voluto scrivere una lettera a più di voi, così oltre ad avere più punti di vista, volevo dare a tutti voi una possibilità per parlare ed esprimere un parere personale. Mi chiamo Sara, sono stata all’incontro di lunedì 23 ottobre. Sono stata molto colpita e vi ringrazio di permettere a noi giovani di conoscere non solo il lato ingenuo della vita, perché ormai la società, i giovani d’oggi, sono molto cambiati rispetto a quando (per quelli ormai da più di vent’anni detenuti) voi eravate giovani. E non necessariamente in bene, perché con internet, gli smartphone, i computer, i ragazzini d’oggi non sono veramente consapevoli dei pericoli, sono ingenui, incapaci di realizzare quale sia la giusta via da seguire. Per non parlare che i genitori sono spesso sin troppo egoisti ormai. Sto divagando, ho espresso un mio pensiero e vorrei sentire il vostro per cui vorrei riproporre la domanda che ho fatto quel giorno: “Poniamo caso che, per gli ergastolani, abbiate una seconda possibilità di uscire e reinserirvi nella società. Vi sentireste meritevoli di ritornare nella società alla quale siete andati contro, nonostante i crimini da voi effettuati?” Sentendo le vostre storie, scusate la mia crudeltà, mi sembravate fin troppo umani e probabilmente in quel momento non ero molto lucida. Ho pensato che forse dopo 20-25 anni voi meritereste una seconda possibilità. Eppure quando sono tornata a casa ho realizzato che magari il non sapere i dettagli dei crimini da voi commessi mi ha fatto pensare che forse non era molto grave quello che voi avete fatto. Dopo averne parlato/discusso con mio padre, sono stata definita ingenua, ma nel senso positivo a parer suo, perché io credo ancora troppo nell’umanità e per lui non è una cosa negativa. Ci siamo confrontati, lui ne ha passate fin troppe per capire i miei ideali e io troppo poche nella mia breve vita per capire i suoi punti di vista. Sto divagando ancora, scusate. Volevo aggiungere una cosa alla domanda fatta precedentemente. “Nel caso rispondiate di si, che ve lo meritate, come possiamo noi darvi una seconda possibilità se ci sono stati casi in cui, un detenuto che aveva già commesso un crimine grave come l’omicidio, resta rinchiuso anni, decenni, fino a quando non gli danno una possibilità, esce (dopo esser stato visitato accuratamente da medici e psicologi) e commette un nuovo omicidio?”. Basta anche solo pensare a quello che è accaduto col Papa, che due detenuti sono scappati. Come possiamo noi darvi una seconda possibilità con le probabilità che possa succedere una cosa del genere? Ma d’altro canto, come possiamo noi umani non dare una seconda possibilità? In fondo errare è umano. Questa è la mia opinione, ma se mi immedesimo nelle famiglie delle vittime sono sicura che cambierei opinione, perché se io subisco un torto posso capire, ma non perdonare. Ma chissà magari non è del tutto così. Penso che finché non lo vivo in prima persona, finché non subisco in prima persona non posso capire, e sinceramente preferisco non capire (scusate il mio egoismo) che subire un torto del genere. Poi avrei un pensiero diretto ad una persona (è possibile comunque che lo leggano tutti): ChaoLin, scusami se ho sbagliato il nome. Comunque, ti capisco. Io ho la madre cinese e il padre italiano, ma ho avuto la fortuna, che purtroppo tu non hai avuto, di sapere la lingua italiana. Ma capisco cosa vuol dire essere emarginato, non voluto, un po’ bullizzato. Per me essendo una femmina è stato sicuramente più leggero rispetto a magari un maschio, lo so perché mio fratello a un certo punto della sua infanzia non ha più reagito si lasciava trascinare, poi è esploso ha iniziato ad essere aggressivo, soprattutto con me che ero sua sorella più piccola, aveva bisogno di sfogarsi e faceva a me quello che facevano a lui, ma lo capisco, adesso lo capisco. Al tempo lo ho odiato ma adesso gli voglio un bene dell’anima come lui son sicura ne vuole a me. Ma ribadisco la nostra fortuna, il sapere la lingua italiana, il saper esprimersi e difendersi con le parole invece che con le mani. Quindi ChaoLin ti capisco e mi dispiace, per quel che vale mi scuso da parte “degli italiani” per quanto stupidi a volte sono. Sara Ma io non sono nessuno per giudicarti, ti tratto e ti ho visto come un uomo Salve Tommaso, sono uno studente di quinta superiore. L’esperienza di far visita al carcere mi ha fatto capire un modo di vivere troppo diverso da quello che vivo tutti i giorni. Ci hanno sempre propinato il carcere come un luogo orrendo, forse perché la società odierna lo gonfia tramite film o i soliti giornalisti che pur di guadagnare sparlano su cose che non hanno nemmeno idea di come funzionano, dato che una cosa che non si vive non la si capisce appieno. Invece vedendolo personalmente ti accorgi che le persone all’interno sono persone comunissime, che guardandole mai ti aspetteresti siano finite li. La giornata del 23 ottobre mi ha fatto capire quanto sia preziosa la libertà e di quanta voglia abbia di fare esperienze sempre nuove, di conoscere e di viaggiare. Nei miei 19 anni di età tra mille incertezze ho capito una cosa di cui sono fortemente convinto, ovvero che la vita è fatta di scelte. Il carcere è un ambiente che spero di non vivere mai personalmente. Ogni giorno infatti siamo costretti a decidere, dalle cose più semplici come l’andare a scuola in autobus o in macchina, alle cose più importanti per esempio l’accettare o rifiutare un lavoro. Tutti possono decidere, che sia una decisione giusta o sbagliata ognuno di noi ha il diritto di prenderla. Vivere è essa stessa una scelta. Morire è una scelta, ma togliere la vita ad altri è decidere per altri, e nessuno ha il compito di farlo. Ancora oggi sono confuso, da pensieri contrastanti, infatti mentre tu Tommaso ci raccontavi la tua storia mi facevi pena, è brutto da dire, ma pensare di passare una vita intera in carcere lontano da tutto e da tutti deve essere orribile, però d’altro canto c’è da dire che se sei dentro, te la sei cercata e hai fatto la tua scelta ben sapendo quello a cui avresti potuto andare incontro. Ma io non sono nessuno per giudicarti, ti tratto e ti ho visto come un uomo, ti ho conosciuto per il presente e non il te passato, di conseguenza in 25 anni hai potuto cambiare molto. Negli ultimi dieci minuti prima che arrivassero le guardie a riprendervi ti ho chiesto quali fossero le cose belle della vita. Tu sorridendo mi hai risposto: “Una bella giornata al mare con mia moglie e le mie due figlie”. Ti auguro di poter ottenere un permesso speciale per rivedere la tua famiglia all’esterno del carcere ed essere davvero felice, almeno per un giorno. Da figlio penso che ogni persona abbia bisogno della presenza dei genitori nella propria vita, allo stesso modo un genitore ha bisogno del contatto con i propri figli. Cerca di tenere duro e di non arrenderti, se non lo fai per te stesso fallo per loro. Spero che anche la visita della nostra istituzione scolastica abbia portato un po’ di conforto e di serenità. Simone Codice antimafia, oggi il debutto di Giovanbattista Tona Il Sole 24 Ore, 20 novembre 2017 Più attenzione nel valutare se mettere i sigilli alle imprese toccate dalla mafia. La riforma del Codice antimafia (legge 161/2017, che modifica il decreto legislativo 159/2011), entrata in vigore ieri e da oggi operativa, valorizza gli strumenti di prevenzione alternativi alla confisca e invita i giudici a intervenire in maniera graduata e proporzionata al grado di compromissione dell’azienda rispetto ai condizionamenti illeciti. Il sequestro e la successiva confisca rimangono necessari quando dalle indagini patrimoniali sui soggetti socialmente pericolosi emergono elementi certi circa la sproporzione dei beni di cui dispongono, anche indirettamente, rispetto ai loro redditi leciti o quando vi sia motivo per ritenerli frutto di attività illecite o reimpiego di proventi delittuosi. La “vecchia” normativa - Già prima della riforma, l’articolo 34 del Codice antimafia prevedeva che il tribunale disponesse l’amministrazione giudiziaria dei beni utilizzabili per svolgere attività economiche il cui libero esercizio da parte dei titolari potesse agevolare le persone ritenute socialmente pericolose. La misura toglieva il potere di amministrazione dell’impresa a chi disponeva dei beni, ma senza sequestrarli. Si trattava di un provvedimento cautelare a tempo (sei mesi prorogabili fino a 18), attraverso il quale il tribunale con un suo amministratore giudiziario gestiva l’impresa, verificava le sue condizioni patrimoniali, l’origine delle sue risorse e le modalità di esercizio dell’azienda, segnalava al pubblico ministero ogni profilo di illiceità e infine disponeva la confisca se riteneva provato che i beni fossero frutto di attività illecite o ne costituissero il reimpiego. In caso contrario, dopo aver “bonificato” le prassi aziendali e avere reciso eventuali legami anche di sola soggezione con soggetti pericolosi, restituiva l’impresa e il potere di gestirla al suo titolare. La riforma - Lo strumento dell’amministrazione giudiziaria viene rafforzato dalla riforma che riscrive l’articolo 34 e lo collega alle ipotesi di indagini finanziarie, di verifica di eventuali infiltrazioni mafiose per il rilascio della certificazione antimafia, di accertamenti dell’Anac in base all’articolo 213 del Codice degli appalti. Se a seguito di queste attività emergono sufficienti indizi per ritenere che il libero esercizio di alcune attività economiche sia sottoposto all’intimidazione mafiosa o possa agevolare persone sottoposte a misura di prevenzione o a procedimento penale per gravi reati (tra questi anche l’associazione finalizzata a commettere reati contro la pubblica amministrazione), il tribunale dispone l’amministrazione giudiziaria senza sequestro. L’applicazione dello strumento può essere chiesta dai soggetti legittimati a richiedere la misura di prevenzione. La durata è ora fissata in un anno, prorogabile di sei mesi solo per due volte, quando la relazione dell’amministratore giudiziario evidenzi la necessità di completare il programma di sostegno e di aiuto all’impresa e la rimozione delle situazioni di fatto e di diritto che hanno determinato la misura. Se durante l’amministrazione giudiziaria vi sia concreto pericolo che i beni vengano sottratti, alienati o dispersi, e vi sia motivo di ritenere che siano frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego, il tribunale può disporne il sequestro ma sempre per un tempo non superiore in totale a due anni. Il controllo giudiziario - A conclusione del periodo di amministrazione giudiziaria il tribunale ora ha più alternative rispetto a prima della riforma. Può restituire l’azienda “bonificata”, oppure, se sono emersi elementi univoci circa l’origine illecita dell’impresa, disporne la confisca dopo un’udienza in contraddittorio. Ma può anche attenuare la misura disponendo il controllo giudiziario, misura del tutto nuova prevista con l’articolo 34-bis del Codice. Il controllo giudiziario scatta quando l’imprenditore ha agevolato in maniera occasionale soggetti socialmente pericolosi e sussistono circostanze di fatto da cui si può desumere il pericolo concreto di infiltrazioni mafiose nell’azienda, idonee a condizionarne l’attività. In questo caso il tribunale fissa delle prescrizioni particolarmente intense a chi gestisce l’impresa e, senza togliergli i poteri di gestione, lo sottopone alla vigilanza di un amministratore giudiziario che riferisce al giudice delegato ogni due mesi. Il controllo giudiziario ha durata da uno a tre anni e può essere chiesto anche dalle stesse imprese destinatarie di interdittiva antimafia per affrancarsi dai sospetti derivanti dal provvedimento prefettizio. Omicidio stradale: meno pirati al volante, 35 guidatori arrestati di Alessio Ribaudo Corriere della Sera, 20 novembre 2017 Il bilancio un anno e mezzo dopo la legge. È calato del 20% chi scappa dopo gli incidenti grazie alle pene più severe per chi uccide con l’auto. A poco più di un anno e mezzo dall’introduzione della legge sull’omicidio stradale è tempo di un primo bilancio. Secondo i dati di polizia stradale e carabinieri - dal 25 marzo del 2016 sino al 29 ottobre di quest’anno - sono stati 35 i guidatori arrestati in flagranza dopo incidenti stradali gravissimi e altri 576 sono stati denunciati alla magistratura. Senza considerare che altri cinque automobilisti sono stati arrestati per lesioni gravi o gravissime e altri 1.124 sono stati denunciati per lo stesso motivo. Calano di oltre il 20 per cento i pirati della strada che si sono dati alla fuga e non hanno prestato soccorso dopo incidenti gravi. Un risultato di cui molti dubitavano, prima dell’approvazione della legge, sostenendo che con pene più elevate sarebbero aumentati i casi di guidatori in fuga dopo aver provocato incidenti gravissimi. La portata della riforma - “I numeri sono numeri ma per capire in profondità la portata di questa riforma del Codice, bisognerà attendere le prime sentenze definitive della Cassazione”, spiega il prefetto Roberto Sgalla, direttore centrale delle specialità della polizia di Stato, “e solo a quel punto potremo vedere se le pene più alte hanno avuto come reazione un effetto deterrente, dando maggiore consapevolezza alla guida”. Le prime sentenze - Ora si rischia sino a 18 anni e dai tribunali, arrivano le prime pesanti sentenze. A Messina, con rito abbreviato, un conducente ha avuto inflitti 11 anni per aver travolto, nel giugno del 2016, l’auto di Lorena Mangano, studentessa universitaria, che poi è morta in ospedale. La sentenza d’Appello è attesa per febbraio prossimo ma la pubblica accusa ha già chiesto la conferma del primo grado. “La nostra famiglia sente questa legge come profondamente giusta”, spiega Stefano, fratello di Lorena, “perché ha inasprito le pene però occorre anche educare gli automobilisti. Chi guida in modo spericolato, sotto l’effetto di sostanze o alcolici deve capire che è come se avesse una pistola in mano e spara alla folla. Lo hanno detto anche i giudici in aula durante il processo. Io spenderò tutta la mia vita a spiegarlo e ricordare Lorena. Se anche riuscirò a convincere una sola persona mia sorella non morirà mai nelle coscienze”. I dati degli incidenti nel 2017 - Intanto, sempre secondo i dati di Stradale e carabinieri - nei primi dieci mesi di quest’anno rispetto allo stesso periodo del 2016 - gli incidenti sono diminuiti del 3,3 per cento ma è aumentato il numero delle vittime dell’1,5 per cento. Un dato che sembra esiguo ma è allarmante perché l’Unione europea chiede una forte riduzione. “In Italia, entro il 2020, dovrebbero scendere del 50 per cento ma sarà molto difficile raggiungere questo obiettivo”, argomenta Sgalla, “malgrado l’impegno delle forze di polizia negli ultimi anni sia stato notevolissimo per contrastare antiche piaghe come gli eccessi di velocità o la guida in stato di ebrezza. Basti pensare che grazie anche a strumenti come autovelox o tutor abbiamo inciso nettamente sul numero di vittime in autostrada e siamo passati da poche migliaia di controlli con etilometri a 1,2 milioni nei primi 10 mesi del 2017”. Controlli - I controlli sono costanti e sono state ritirate anche 38.862 patenti, sottratti 2,5 milioni di punti e comminate 1,7 milioni di multe. In particolare, sono diminuite quelle per eccesso di velocità (-16,6%), mancato uso del casco (-16,6%) e guida in stato di ebrezza (-2,8%). A preoccupare, invece, sono i dati sulla guida mentre si usa lo smartphone (+9,7%), sul mancato uso delle cinture di sicurezza (+8,2%) e sotto effetto di droghe (+4%). Le cause e le possibili soluzioni - “Gli incidenti sono spesso causati da più fattori ma la distrazione, nel 2016, è stata la prima causa(16% nel 2016)”, sostiene Sgalla, “seguita dal mancato rispetto della precedenza e dei semafori (15%)”. Le soluzioni sono allo studio. “Dobbiamo scoraggiare al massimo l’uso di smartphone e tablet per chi è alla guida”, conclude Sgalla, “ma sarà più complicata di altre battaglie vinte. Dovrà passare dai maggiori controlli in strada, ricorrendo anche ad auto civetta e dalla collaborazione con le aziende di telecomunicazione che dovranno aiutarci a trovare soluzioni tecnologiche. Servirebbe, poi, far capire agli italiani che è meglio spendere soldi in optional salvavita come la segnalazione di oltrepassamento di carreggiata piuttosto che nella vernice metallizzata. Bisognerà pure migliorare le infrastrutture stradali diminuendo il numero di auto in circolazione. Specialmente in città dove possono essere sostituite da mezzi pubblici e biciclette. In ultimo, servono campagne sociali e di educazione stradale per i ragazzi che spesso, però, hanno una sensibilità maggiore al rispetto del codice rispetto ai genitori”. Dalle “Iene” a “Quarto grado”: quando la tv si sostituisce al tribunale di Chiara Maffioletti Corriere della Sera, 20 novembre 2017 Recentemente c’è stato un cambio di paradigma e il processo mediatico non è più un’operazione parallela al processo penale, ma si sostituisce completamente a esso. Seguendo una puntata di Quarto Grado in onda venerdì sera su Rete4, dedicata per larga parte alla storia criminale di Totò Riina e poi al consueto aggiornamento su casi di cronaca aperti, mi è parsa evidente un’importante modifica nel modo in cui la tv affronta ora i casi di giudiziari. Fino a poco tempo fa, il concetto di processo mediatico significava qualcosa di ben preciso. Terminata la prima fase di pura registrazione (Un giorno in pretura), la tv si affianca alla giustizia per svolgere un dibattimento parallelo a quello nelle aule di tribunale. Ascolta gli imputati e le arringhe dei loro avvocati, riesamina le prove (spesso seguendo opportune imbeccate provenienti dalle difese o dalle parti civili), ascolta le opinioni delle compagnie di giro fatte dai soliti criminologi, psichiatri e opinionisti mirando a convincere la “pancia” di colpevolisti e innocentisti. Dal caso Cogne in avanti, passando per tutti i crimini che hanno più scosso l’opinione pubblica, questo è stato il modello dominante e anche Quarto Grado è un programma che ha basato la sua fortuna proprio su queste logiche consolidate. Ma recentemente abbiamo assistito a un deciso cambio di paradigma, come ha dimostrato l’inchiesta delle Iene sullo scandalo sessuale nel cinema italiano, ripresa da molte altre trasmissioni (non ultima Piazzapulita di giovedì sera): non più affiancamento ma sostituzione. Il processo mediatico non è più un’operazione parallela al processo penale, ma si sostituisce completamente a esso: istruisce spontaneamente il caso, raccoglie le prove, convoca e ascolta i testimoni, sentenzia e condanna, senza nemmeno ci sia più nemmeno l’esigenza di un passaggio in aula, figuriamoci la presunzione d’innocenza. Non è un problema di merito (è giusto che se ci sono stati degli abusi vengano alla luce) ma di metodo, con la verità mediatica che soppianta inesorabilmente la verità processuale. Quel genio del male che scelse il terrore e finì per affossare Cosa nostra di Roberto Saviano La Repubblica, 20 novembre 2017 Cosa resta dell’era del Capo dei capi. E perché ‘ndrangheta e camorra non lo imiteranno. Chi è stato davvero Totò Riina? Come è riuscito un semianalfabeta, cupo e malmostoso, a diventare il capo carismatico di Cosa nostra? Totò Riina è stato il simbolo di un immaginario, di un marchio della mafia che ha fatto il giro del mondo. Potremmo dire che studiare Riina e il suo rapporto con le mafie è come, per gli storici della guerra, avere a che fare con le analisi di Karl von Clausewitz o Vegezio. Perché Riina cambiò la mafia. Quella che guidava lui e le altre nel mondo. Trasformò una struttura che andava verso un canone borghese nel metodo feroce e violento della provincia. Da un collaboratore di giustizia sappiamo che leggeva i giornali locali per sapere tutto ciò che succedeva in Sicilia, poi leggeva tre o quattro quotidiani nazionali. Era ossessionato dall’informazione. Maniacale come è stato con la sua carriera di boss, tutta rivolta a centralizzare le decisioni. Il contrario di ciò che voleva far passare ai processi: la scena del silenzio e del povero contadino ignaro era una recita, come l’esibizione della “quinta elementare” (strategia dei mafiosi per sminuirsi davanti al giudice). O come quando diceva che “questa Cosa… Cosa nostra…” l’aveva sentita solo dai giornali e dentro al cinema. Mentre in cella, parlando con altri detenuti, rivendicava le sue condanne a morte. E così fu per le stragi. Nessun azzardo: Riina sapeva che uccidere Falcone avrebbe scatenato la reazione delle forze dell’ordine e della stampa, sapeva che la strategia delle bombe avrebbe posto Cosa nostra sotto i riflettori di tutto il mondo. Ma lo fece ugualmente, scartando l’ipotesi di eliminare figure di culto di mondi come lo spettacolo o la politica. No, non lui. Lui doveva arrivare al cuore del problema. E scelse Falcone. Come fra Santoro e Costanzo, scelse Costanzo, per lo spazio dato in tv al metodo Falcone, con un attacco plateale e diretto: aveva bruciato una maglietta con la scritta Mafia made in Italy riferendosi proprio a lui, il capo dei Corleonesi. Una beffa che, lasciata correre, avrebbe minato il rispetto di Riina. E questo non si poteva consentire. Non per un uomo che si tiene dentro l’orrore di un bambino sciolto nell’acido: per lui la responsabilità di quella morte era imputabile solo al padre del bambino, un affiliato che, pentendosi, aveva tradito. Quindi la sua logica era la logica di un uomo che ha creduto in questo meccanismo di potere fino in fondo. La sua vita era maniacale anche in famiglia: i figli raccontano di un padre presente, che tornava sempre a casa per cena. La sua è stata una vita disciplinata, senza vizi, votata poi al carcere a vita. Sarebbe bastata una sola parola per ottenere benefici, ma il suo silenzio valeva di più. È il simbolo che gli ha permesso di preservare l’unica cosa che gli era rimasta: l’immagine di potente. Basti pensare che Riina è stato il capo operativo di Cosa Nostra per 11 anni, ma in realtà ne ha mantenuto lo scettro simbolico sino alla morte, quindi per 35 anni. In nessuna organizzazione criminale del mondo si è avuto un capo così a lungo al vertice. Un vertice che lui ha voluto tenere e che gli altri gli hanno volentieri lasciato, primo fra tutti Matteo Messina Denaro, ben felice di non avere l’alloro dei Cesari sul capo per avere maggiori spazi di manovra. L’altra stranezza della sua figura è che, dentro Cosa nostra, c’erano persone ben più capaci e ragionevoli di Totò Riina, ma non hanno raggiunto il suo ruolo. Perché questo ruolo Riina l’ha ottenuto con il sangue. Per lui il sangue è stato il capitale più prezioso. Riina riconosce alla ferocia un carattere mediatico che intende cavalcare. In pratica, teorizza e realizza il terrorismo mafioso. È questo che lo porterà ad essere odiatissimo dalle altre mafie, che hanno sempre considerato l’eco mediatico un problema: Riina ha reso visibile ciò che le organizzazioni criminali italiane erano sempre riuscite a tenere invisibile, e sempre per colpa di Riina sono state approvate leggi antimafia che hanno messo a dura prova gli affari e le strutture delle cosche. Fino a poter dire che Riina è il mafioso più odiato dai mafiosi. Quando negli anni ‘80 vennero confiscate delle proprietà a suo fratello Gaetano, per vendetta Totò Riina fece ammazzare a fucilate Alberto Giacomelli, un magistrato in pensione: sapeva benissimo che dopo l’omicidio sarebbero arrivati a lui, ma questo non gli importava, perché Riina non si è mai posto il problema delle responsabilità. È così che Rina ha portato a Cosa nostra un monopolio dell’immaginario del potere. Ma ecco che nel momento più alto questo meccanismo, che prima di allora aveva sempre funzionato, s’inceppa. Con l’eliminazione di Falcone la Cosa Nostra corleonese perde consenso. Riina era convinto che, come era successo con Chinnici e altre decine di uomini di Stato che non avevano creato nessun vero impatto sulla società se non qualche fiaccolata locale, anche l’omicidio di Falcone avrebbe lasciato Cosa Nostra illesa. Invece fu proprio allora che Riina cominciò a perdere consenso. Da quel momento ci fu un’emorragia di pentiti e, sull’onda delle stragi volute proprio da Riina, vennero varate leggi specifiche contro le organizzazioni mafiose (dal 41 bis al sequestro dei beni). Fu in questo momento che si ebbe la percezione formale del contrasto tra la Cosa nostra corleonese e le altre mafie, come i Nuvoletta di Marano di Napoli o i Piromalli di Gioia Tauro. E che Riina creò l’anti-Stato mafioso, un contropotere che usava il sangue come strumento di negoziazione. Riina è stato come un hub in cui far rientrare tutto, ogni tipo di trattativa, ogni tipo di strage. A lui stesso faceva comodo questo: più lo Stato si accaniva su di lui, più lo rendeva potente; più lo citavano i giornali, più si rendeva difficile l’ascesa di altri boss. La storia di Riina non è la storia di un pazzo, dunque, non è la storia di un mero criminale sanguinario, è la storia di un genio del male che scegliendo la strada dell’intransigenza, del rigido moralismo, la strada militare ha radicalizzato il ruolo delle mafie permettendo allo Stato di costruirsi degli anticorpi. Con le sue bombe, Riina ha costretto lo Stato a riconoscere l’esistenza delle mafie, a dichiarare la presenza di un pericolo assoluto e la necessità di entrare in emergenza. La ‘ndrangheta e la camorra studieranno Riina per evitare di fare quello che lui ha fatto. Ecco che così facendo, Riina ha dato un’aura di invincibilità a Cosa nostra ma, al tempo stesso, l’ha resa aggredibile. L’ha spiegato Attilio Bolzoni: Riina trasforma Cosa Nostra in Cosa Sua giustificando tutto in nome del rigore e del bene dell’organizzazione. Il risultato finale di Riina fu che nessuno ha più temuto Cosa nostra come nel momento in cui è stata governata dai Corleonesi e questo terrore ha protetto molti affari e pezzi della politica son stati ben felici di allearsi. Ma il prezzo di tutto questo? L’aver puntato la luce mediatica mondiale sulla Sicilia. Pensando al dibattito di oggi sull’esistenza o meno di una mafia a Ostia, a Roma o comunque fuori dal Mezzogiorno, è utile ricordare che prima di Riina il quesito era se esistesse una mafia in Italia o se si trattasse solo di bande e gruppi locali. Il reato di associazione mafiosa è stato introdotto solo nel 1982 con un ritardo enorme rispetto alla realtà quotidiana (basti pensare che l’esistenza della camorra è attestata già nella prima metà del Settecento) e per fare in modo che l’articolo del codice penale citasse tra le mafie anche la ‘ndrangheta si è dovuto aspettare fino al 2010 (eppure i Carabinieri già nel 1923 nei loro documenti ne tracciavano l’esistenza). Riina è morto al 41 bis, è morto da capo. La sua mafia è stata sconfitta, ma tutte le altre che lo hanno subìto, ne godono il vaccino. L’assoluta scomparsa nel dibattito politico elettorale non solo del tema mafie ma della competenza sulle mafie rende la morte di Riina amara, la fine di una vecchia mafia e le nuove sempre più potenti e sempre più in ombra. Ripristino della pensione Inps a detenuti e condannati per reati “ostativi” abruzzoweb.it, 20 novembre 2017 Il giudice del lavoro di Teramo, Daniela Matalucci, ha disposto il ripristino dell’erogazione della pensione che l’Inps, in base alla legge Fornero, aveva revocato a migliaia di detenuti e condannati (15mila secondo dati Inps) per reati “ostativi”, quelli cioè che incriminano atti che rappresentano solo il presupposto della concreta aggressione al bene giuridico, come ad esempio la detenzione di armi. Lo rende noto l’avvocato aquilano Fabio Cassisa, che aveva fatto ricorso chiedendo l’annullamento del provvedimento di revoca della pensione di invalidità civile disposta dall’Istituto previdenziale nei confronti di un suo assistito, L.S., soggetto condannato per gravi reati ostativi (tra cui quello previsto dall’art. 416 bis del Codice penale, cioè associazione di tipo mafioso), attualmente sottoposto a sospensione della pena per gravi motivi di salute. La sentenza è stata emessa e pubblicata nel mese di ottobre 2017. La revoca della pensione - spiega Cassisa in una nota - era stata disposta in base all’art. 2, commi 58/63 L. n. 92/2012 (meglio nota come legge Fornero), la quale prevede detta sanzione a carico di soggetti condannati per alcuni dei reati cosiddetti ostativi (quelli più gravi, ritenuti di maggior allarme sociale, quale l’associazione mafiosa) fino al termine del periodo di esecuzione della pena inflitta. Con questa sentenza il giudice del lavoro di Teramo ha giustamente annullato il provvedimento di revoca emesso dall’Inps, con conseguente ordine di ripristino della prestazione assistenziale a favore del ricorrente, condannando l’ente previdenziale al versamento degli arretrati dovuti dalla revoca in poi. Si tratta del primo provvedimento giudiziario in Italia che dispone in tal senso - continua l’avvocato. L’Inps, in base alla suddetta normativa e su disposizione del Ministero della Giustizia, ha cominciato a revocare le prestazioni assistenziali solo a partire dal mese di maggio del 2017, nonostante la norma sia in vigore dal 2012. Il ricorso era fondato su due distinti motivi di doglianza, entrambi di rilievo costituzionale. Con il primo motivo l’avvocato del ricorrente ha dedotto come la normativa in questione non possa ritenersi applicabile nei confronti di soggetti non detenuti (perché in sospensione della pena per motivi di salute - come il proprio assistito -, o anche perché sottoposti a misure alternative alla detenzione, quali la detenzione domiciliare o l’affidamento in prova ai servizi sociali), ancorché condannati in via definitiva per i gravi reati previsti dalla normativa in questione. Ciò in quanto diversamente si incorrerebbe nella violazione dell’art. 38 della Costituzione., che prevede come principio assoluto che ogni cittadino inabile al lavoro e provvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento ed all’assistenza sociale. Con il secondo motivo l’avvocato Cassise, ritenendo che la misura della revoca delle prestazioni assistenziali costituisca una sanziona amministrativa accessoria alla condanna penale e che, dunque, detta sanzione abbia natura penale, ha eccepito come la stessa non possa trovare applicazione retroattiva, in quanto diversamente detta normativa finirebbe col violare l’art. 25 della Costituzione, il quale dispone l’irretroattività della legge in ambito penale e, dunque, anche delle sanzioni accessorie a condanna penale (nel caso di specie, il reato era stato commesso dal ricorrente prima dell’entrata in vigore della norma). La pronuncia assume grande rilevanza giuridica - commenta Cassise - anche in considerazione del fatto che con essa il giudice del lavoro, sulla base dei motivi di ricorso, pur non rimettendo la questione alla Corte Costituzionale, come richiesto dallo stesso legale, per mancanza di specifica rilevanza nel caso sottoposto alla sua attenzione, ha dato una lettura costituzionalmente orientata della norma e nelle motivazioni della sentenza ha individuato i criteri ermeneutici a sostegno della natura penale della sanzione accessoria, assumendo come non possa legittimarsi alcuna applicazione retroattiva della sanzione accessoria della revoca della prestazione assistenziale, pena l’illegittimità costituzionale del disposto normativo. Come detto, si tratta della prima pronuncia in ambito nazionale che abbia disposto il ripristino del diritto pensionistico in favore di un soggetto condannato per reati ostativi a seguito della revoca della prestazione in base alla legge Fornero. La pronuncia è destinata ad avere eco e risalto nazionale - continua Cassise - anche per la grande rilevanza economica della questione, posto che, secondo dati Inps, in ambito nazionale le prestazioni assistenziali revocate in base alla normativa sopra richiamata sarebbero circa 15.000. In considerazione della novità della questione giuridica posta alla sua attenzione, il giudicante ha, infine, disposto per la metà la compensazione delle spese di lite, condannando per la seconda metà l’Inps alla refusione delle spese legali sostenute dal ricorrente. La pronuncia, allo stato non impugnata dall’Inps, anche se indirettamente ha ribadito principi costituzionali cardine dell’ordinamento giuridico italiano, evidentemente ignorati da chi ha promulgato la legge in esame - dice l’avvocato - Il primo principio giuridico da evidenziare attiene il diritto di ogni cittadino (art. 3 Costituzione) a vedersi corrispondere la pensione di vecchiaia, di invalidità o le altre forme assistenziali a prescindere dal fatto che abbia commesso gravi reati, in quanto il principio costituzionale in questione mira a garantire a tutti il diritto ad un sussidio economico necessario per una dignitosa sopravvivenza (art. 38 Costituzione). Il secondo principio, anche questo di rango costituzionale, prevede che nessuno possa essere punito e colpito da una sanzione avente natura penale, ancorché accessoria, per un fatto commesso prima dell’entrata in vigore della norma che dispone la sanzione (art. 25 Costituzione). Immagini diffamatorie pubblicate su Instagram: la reputazione va tutelata di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 20 novembre 2017 Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza del 7 novembre 2017. La tutela della reputazione va assicurata anche a chi subisce accuse diffamatorie su Instagram, attraverso la manipolazione di un’immagine. Di conseguenza, se i giudici nazionali non provvedono a punire chi lancia accuse false sul social network - classificando le informazioni come giudizi di valore, quando in realtà sono dichiarazioni di fatto - è certa la violazione dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che assicura il diritto al rispetto della vita privata, incluso quello alla reputazione. Quindi, via l’immagine diffamatoria. Il caso - Lo ha stabilito la Corte di Strasburgo con la sentenza depositata il 7 novembre, che è valsa una condanna all’Islanda (ricorso n. 24703/15). A rivolgersi ai giudici internazionali è stato un blogger e scrittore islandese che era stato accusato di stupro. L’uomo era stato prosciolto, ma su Instagram era stata poi diffusa una sua immagine, frutto di una manipolazione della copertina di un giornale, accompagnata da una frase offensiva che lo definiva “stupratore”. L’autore si era difeso sostenendo che l’immagine doveva circolare solo tra un gruppo limitato di persone e che era stata diffusa senza il suo consenso. I tribunali nazionali non avevano quindi accolto la richiesta di risarcimento da parte del blogger, sostenendo che la riproduzione dell’immagine con la didascalia contenesse un giudizio di valore. Così, al blogger non è rimasto altro che rivolgersi alla Corte europea, che gli ha dato ragione. La sentenza - È vero - osservano i giudici internazionali - che il blogger era un controverso personaggio pubblico e che, in quanto tale, può essere dunque sottoposto a critiche ad ampio raggio rispetto a un privato: ma ciò non vuol dire che non abbia diritto alla tutela della reputazione. La Corte europea dei diritti dell’uomo mette in primo piano la circostanza che la diffusione era avvenuta via internet e comporta maggiori rischi per il diritto alla reputazione rispetto a quella che avviene attraverso la stampa. Per Strasburgo, in ogni caso, l’errore di fondo è stato considerare un giudizio di valore l’espressione utilizzata da chi aveva postato l’immagine su Instagram. Se certo compete alle autorità nazionali dare una valutazione su ciò che è da classificare come una dichiarazione di fatto o un giudizio di valore, la Corte europea ha ritenuto di intervenire limitando il margine di apprezzamento degli Stati. Chiarendo cioè che l’uso di espressioni quali “stupratore” non può, al di là del contesto, essere considerata come un’opinione. È stata quindi sbagliata la valutazione dei tribunali islandesi, che avrebbero dovuto constatare la mancanza di una base fattuale, visto che le accuse di stupro nei confronti del blogger erano state archiviate. La Corte non esclude che una dichiarazione di un fatto possa, in un determinato contesto, essere considerata un giudizio di valore. Ma sottolinea che va sempre richiesta una base fattuale sufficiente. Poco importa, inoltre, il comportamento del diffamato: potrà anche aver assunto una condotta provocatoria, ma questo non giustifica l’accusa di un atto criminale senza un supporto “concreto”. La sentenza di Strasburgo conclude dunque che è stato violato l’articolo 8 della Convenzione europea, proprio perché i giudici nazionali non hanno raggiunto un giusto equilibrio tra i diversi diritti in gioco: da un lato, la libertà di espressione e, dall’altro, la tutela della reputazione privata. Professionisti, il preventivo non fa scattare l’esercizio abusivo di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 20 novembre 2017 Tribunale di Frosinone - Sezione lavoro - Sentenza 11 luglio 2017 n. 813 La redazione del solo preventivo di spesa non integra l’esercizio abusivo della professione, neppure in ambito medico, in quanto non fa leva sul patrimonio di competenze che la legge intende tutelare. Lo ha stabilito il Tribunale di Frosinone, sentenza 11 luglio 2017 n. 813, giudicando la condotta di un uomo che si era finto odontoiatra. Per la sezione penale invece sia la diagnosi che la sottoposizione all’accertamento tecnico disposto sempre dall’imputato integravano il delitto che però è risultato prescritto. La Procura, dunque, aveva contestato il reato previsto dall’articolo 348 del c.p., “per avere, nella qualità di odontotecnico e titolare dello studio odontoiatrico esercitato abusivamente la professione in assenza dei requisiti previsti dalla legge, e segnatamente compiendo su pazienti attività propria riservata dalla legge al medico odontoiatra”. Nel corso dell’istruttoria è emerso che il millantatore, a fronte delle plurime condotte contestate, aveva compiuto “un solo atto integrativo del reato di esercizio abusivo della professione di odontoiatra”. Il teste infatti ha dichiarato di essere stato visitato in una prima occasione ricevendo una diagnosi di piorrea e la prescrizione di un’orto-panoramica mentre, in un successivo incontro, visionate le risultanze dell’esame, l’imputato gli aveva presentato un preventivo di spesa per le prestazioni mediche da effettuare. Così stando le cose, prosegue la decisione, “si può ritenere che la predisposizione di un preventivo di spesa, secondo quanto stabilito dalla Cassazione (n. 7086714), non integra il reato di esercizio abusivo di una professione “trattandosi non già di un atto espressivo della competenza e del patrimonio di conoscenze tutelati dal legislatore attraverso l’individuazione della professione protetta, ma solo di un atto conseguente ed utile a quello tipico abusivamente posto in essere, che non assume autonomo rilievo qualora l’attività illecita sia connotata da continuità e professionalità”“. Mentre “appare indubbio” che la “diagnosi e la prescrizione siano riconducibili all’esercizio tipico della professione di odontoiatra”. Per la Cassazione poi il reato ha natura istantanea, “perfezionandosi anche con il compimento di un solo atto abusivo che realizza definitivamente il verificarsi dell’evento”. (Sez. Un. n. 11545/11). Successivamente (Cass. n. 15894/14) i giudici di legittimità hanno chiarito che “il concetto di esercizio professionale contiene in sé un tendenziale tratto di abitualità, da cui è corretto prescindere a fronte di atti che l’ordinamento riservi come tali, nell’interesse generale, a chi sia in possesso di una speciale abilitazione, onde, in questi casi, il reato di cui all’art. 348 c.p. si perfeziona anche uno actu”. “Ma il requisito dell’abitualità - prosegue - va recuperato laddove vengano posti in essere più atti riservati a chi sia in possesso della prescritta abilitazione. In questi casi si risponde comunque di un unico reato e non di una pluralità di reati, avvinti dal vincolo della continuazione”. In altri termini, “il delitto di cui all’art. 348 c.p., ha natura di reato eventualmente abituale: ove si tratti di atto attribuito in via esclusiva al soggetto regolarmente abilitato è rilevante, per l’integrazione degli estremi del reato, anche il compimento di un solo atto di esercizio abusivo della professione e quest’ultimo segna il momento consumativo del delitto”. Illeciti via web puniti ovunque di Luciano Daffarra* Italia Oggi, 20 novembre 2017 La Corte di giustizia europea ha deciso sulla competenza giurisdizionale in materia. Si risponde dove il danneggiato ha i propri interessi. Se si compiono atti illeciti tramite web, parliamo di diffamazione ma non solo, si può essere chiamati a rispondere non solo nel Paese di residenza del danneggiato ma anche nel luogo in cui tale persona fi sica o giuridica ha il centro dei propri interessi. Lo dice la sentenza datata 17 ottobre 2017 della Grande sezione della Corte di giustizia, che ha deciso la causa C-194/16 che verteva proprio sulla competenza giurisdizionale dei giudici civili per il risarcimento del danno derivante da illeciti commessi per il tramite della rete. La Corte dell’Ue ha stabilito infatti che l’interpretazione delle disposizioni comunitarie vigenti conduce all’identificazione della competenza del giudice dello Stato membro nel quale la persona fisica o giuridica ha il centro dei propri interessi sia per le domande di rettifica o di rimozione dei contenuti illeciti (diffamatori, nel caso di specie), che per quelle di risarcimento totale del danno. La Corte è pervenuta alle suddette conclusioni a seguito del rinvio pregiudiziale operato dalla Suprema corte dell’Estonia in una controversia che vedeva opposti una società svedese e due soggetti estoni, diffamati su un blog dalla prima. L’autorità estone aveva interrogato la Corte Ue anzitutto per conoscere se la competenza per tali fatti diffamatori potesse radicarsi di fronte a qualsiasi Stato membro in cui tali contenuti fossero accessibili. Inoltre, il tribunale estone aveva chiesto ai magistrati di Strasburgo se per i medesimi fatti commessi nei confronti di una persona giuridica (nella specie una società) la competenza a decidere dovesse o meno essere attribuita ai giudici dello Stato ove l’impresa ha il centro dei propri interessi, precisando altresì - per il caso affermativo - i criteri atti a stabilire ove risiedano detti interessi. La risposta della Corte di giustizia, nel contesto specifico di illeciti commessi via internet, ha offerto un’interpretazione peculiare dell’art. 7, punto 2, del Regolamento 1215/2012, il quale stabilisce che in caso di illeciti civili dolosi o colposi, una persona domiciliata nell’Ue, può essere convenuta dianzi il giudice del luogo in cui il fatto è avvenuto, asserendo che una persona lesa nei propri diritti della personalità deve essere in grado di “esperire un’azione di risarcimento per la totalità del danno cagionato di fronte ai giudici dello Stato membro in cui si trova il centro dei propri interessi”. L’incardinazione della causa risarcitoria nel luogo ove è sito il centro dei propri interessi, secondo la Corte di giustizia, rispecchia - nel caso di offese all’onore o alla reputazione - il luogo in cui il danno cagionato si concretizza. Lo stesso principio vale per le lesioni all’immagine della persona giuridica che, ove questa svolga la parte essenziale della propria attività economica in uno Stato diverso da quello in cui ha la sede legale, potrà fare riferimento al medesimo criterio di collegamento valevole per la persona fisica. La lettura di questa sentenza ci porta a rilevare che la sua valenza vincolante in tutta l’Unione europea, non si allinea appieno con i precedenti giurisprudenziali italiani. Oltre alla storica decisione Dulberg (sent. 27 dicembre 2000, sez. V) con cui la Corte di cassazione penale attribuì al giudice del luogo ove il soggetto diffamato aveva preso conoscenza dell’offesa all’onore e alla reputazione la competenza a giudicare il reo della diffamazione online, rileva - in un caso analogo a quello preso in esame dal tribunale di Strasburgo - la sentenza della Corte di cassazione civile a Sezioni unite del 13 ottobre 2009, n. 21661, la quale, facendo riferimento alle fattispecie di offese comunicate a mezzo della televisione (come pure via internet), stabilì che la competenza civile in materia di risarcimento del danno derivante da tali illeciti dovesse ricercarsi nel luogo di residenza della persona offesa, anziché nel luogo di consumazione del reato, in quanto la persona offesa in tale sede “sarà in grado di attivarsi a difesa della propria reputazione con minore dispendio di tempo e di risorse economiche”. Appare pertanto non ulteriormente procrastinabile il superamento delle barriere che si frappongono al varo di regole valevoli a livello planetario, atte a disciplinare un fenomeno ultra-territoriale. *C-Lex Studio Legale Tutte le parole hanno un peso. Lede l’onore assimilare la persona a esseri ripugnanti di Angelo Costa Italia Oggi, 20 novembre 2017 Le recenti pronunce sul tema della Corte di cassazione. Il diritto di critica non si concreta nella mera narrazione veritiera di fatti, ma si esprime in un giudizio che, come tale, non può che essere soggettivo rispetto ai fatti stessi, fermo restando, però, che il fatto presupposto e oggetto della critica deve corrispondere a verità. Così la Cassazione con l’ordinanza 25420/2017, che si inscrive nel novero di una serie di recenti pronunce in tema di diritto di critica. Vediamole. Assume rilievo determinante la valenza sociale delle parole, al di là e al di fuori della specifica intenzione di chi le adopera, con la conseguenza che obiettivamente lesive dell’onore sono quelle espressioni con le quali si “disumanizza” la vittima, assimilandola a cose, animali o concetti comunemente ritenuti ripugnanti, osceni, disgustosi. È quanto ribadito dai giudici della quinta sezione penale della Corte di cassazione con la sentenza n. 50187 dello scorso 3 novembre. I giudici di piazza Cavour hanno altresì ribadito nella sentenza in commento che, in ossequio anche a un ormai consolidato orientamento dettato dalla giurisprudenza, il diritto di critica va a concretizzarsi in un giudizio valutativo che postula l’esistenza del fatto assunto a oggetto o spunto del discorso critico e una forma espositiva non ingiustificatamente sovrabbondante rispetto al concetto da esprimere, e, conseguentemente, esclude la punibilità di coloriture e iperboli, toni aspri o polemici, linguaggio figurato o gergale, purché tali modalità espressive siano proporzionate e funzionali all’opinione o alla protesta, in considerazione degli interessi e dei valori che si ritengono compromessi. Ed è la stessa Cassazione (si veda: sez. 5, n. 37397 del 24/06/2016, C, Rv. 267866) che in particolare, ha evidenziato come “il requisito della continenza postula una forma espositiva corretta della critica rivolta, ossia strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita e immotivata aggressione dell’altrui reputazione”. Occorre, pertanto, una sorta di verifica della strumentalità dell’espressione nel bilanciamento tra la protezione della fondamentale libertà di espressione e l’esigenza di assicurare il rispetto dei diritti della persona, pur aspra, adoperata rispetto alle finalità di critica e coglie, nel superamento di tale fondamentale requisito funzionale, la gratuità della condotta. E, come sottolineato dai giudici, tale momento valutativo è certo strettamente legato agli obiettivi comunicativi perseguiti e allo specifico contesto nel quale l’espressione è adoperata, ma è necessariamente correlato anche al contenuto di quest’ultima, in quanto la pur giustificata critica dell’operato altrui impone, comunque, il rispetto di quelli che sono e restano limiti invalicabili, posti dall’art. 2 Cost., a tutela della dignità umana, con la conseguenza che alcune modalità espressive sono oggettivamente (e dunque per l’intrinseca carica di disprezzo e dileggio che esse manifestano o per la riconoscibile volontà di umiliare il destinatario) da considerarsi offensive e, quindi, inaccettabili in qualsiasi contesto pronunciate, tranne che siano riconoscibilmente utilizzate ioci causa (sez. 5, n. 19070 del 27/03/2015, Foti, Rv. 263711). Il diritto di critica non si concreta, come quello di cronaca, nella mera narrazione veritiera di fatti, ma si esprime in un giudizio che, come tale, non può che essere soggettivo rispetto ai fatti stessi, fermo restando, però, che il fatto presupposto e oggetto della critica deve corrispondere a verità, sia pure non assoluta, ma ragionevolmente putativa per le fonti da cui proviene o per altre circostanze oggettive, così come accade per il diritto di cronaca. Lo hanno sottolineato sempre i giudici della Cassazione (terza sezione civile) con l’ordinanza n. 25420 dello scorso 26 ottobre. Inoltre, sempre nell’ordinanza di cui sopra, si legge che in tema di diffamazione, “è necessario e sufficiente che ricorra il dolo generico, anche nelle forme del dolo eventuale, cioè la consapevolezza di offendere l’onore e la reputazione altrui, la quale si può desumere dalla intrinseca consistenza diffamatoria delle espressioni usate (Cass., 20 dicembre 2007, n. 26964, che richiama la giurisprudenza penale di questa Corte in materia)”. Circa poi la sussistenza di un danno non patrimoniale, quale conseguenza pregiudizievole (ossia, una perdita ai sensi dell’art. 1223 cod. civ., quale norma richiamata dall’art. 2056 cod. civ.) di una lesione suscettibile di essere risarcita, gli Ermellini hanno ribadito che deve essere oggetto di allegazione e di prova, sebbene a tale ultimo fine possano ben utilizzarsi anche le presunzioni semplici, là dove, proprio in materia di danno causato da diffamazione a mezzo della stampa, idonei parametri di riferimento possono rinvenirsi, tra gli altri, dalla diffusione dello scritto, dalla rilevanza dell’offesa e dalla posizione sociale della vittima (Cass., 25 maggio 2017, n. 13153). E, infine, circa le critiche mosse da un cittadino a un funzionario pubblico, i giudici della Cassazione (sez. feriale penale, sentenza n. 43139/17; depositata il 21 settembre) hanno ricordato il principio di diritto secondo il quale i cittadini hanno il diritto di segnalare liberamente alle autorità competenti i comportamenti dei funzionari pubblici che ritengano irregolari o illegali. Tale principio si attaglia perfettamente al caso sottoposto all’attenzione della Suprema corte, dove il cittadino Tizio aveva denunciato agli organi preposti al controllo dell’azione del funzionario Caio la condotta che questi aveva tenuto, nel trattare una pratica di suo interesse, che appariva, nella fase in cui era stata sporta la denuncia, irregolare, come aveva ex post dimostrato la ritenuta responsabilità dell’ente pur sotto il solo profilo della responsabilità precontrattuale. Tizio con una lettera inviata al sindaco e al magistrato della Corte dei conti, aveva inteso denunciare una condotta, che aveva ritenuto scorretta, tenuta da un funzionario del comune in una pratica di suo interesse. Lo stesso aveva utilizzato un linguaggio contenuto, limitandosi a prefigurare che il funzionario non avesse rispettato il suo dovere di imparzialità. Del resto il funzionario pubblico si era prima interessato della pratica per poi dichiarare che intendeva astenersene. Se è vero che, ex post, il tribunale amministrativo regionale aveva affermato che Tizio non aveva diritto a essere risarcito, lo stesso giudice aveva, nel contempo, affermato che l’ente era incorso in una responsabilità di tipo precontrattuale. Ne discende che, ferma rimanendo la contenutezza del linguaggio utilizzato nella missiva (peraltro indirizzata proprio agli organi di controllo dell’operato del funzionario la cui condotta si era sottoposta a critica), nella stessa non si erano superati i limiti della pertinenza dell’argomentazione e della verità dei fatti esposti, almeno in relazione alla posizione soggettiva del ricorrente e all’andamento della pratica di suo interesse. Lombardia: detenuti, una legge ad hoc per l’istruzione e la riqualificazione professionale di Marzia Paolucci Italia Oggi, 20 novembre 2017 Reinserimento lavorativo, istruzione e riqualificazione professionale: sono i tre capisaldi della nuova normativa regionale che si è data la Lombardia per tutelare i detenuti in carcere. L’obiettivo primario della legge approvata lo scorso 14 novembre è il ritorno alla società e la riduzione del tasso di recidiva. È stata approvata con 54 voti a favore da parte della maggioranza di centrodestra, Pd e M5S contro 5 astensioni delle liste Patto Civico e Insieme x la Lombardia che fa riferimento a Giuliano Pisapia. Il testo è il risultato di un giro di visite negli istituti di pena da parte della Commissione speciale carceri presieduta dal consigliere Fabio Angelo Fanetti della Lista Maroni. Per lui che ne è il relatore, “con questa legge, si prende atto del nuovo contesto normativo nazionale e degli effetti della riforma sanitaria che si conferma all’avanguardia credendo con i fatti alla funzione rieducativa del carcere. Stanziate risorse per la risocializzazione dei detenuti che passa dal lavoro, dalla scuola, dall’arte, ma anche dall’integrazione del carcere con la Pubblica amministrazione, con il Terzo settore e in generale con il contesto territoriale di riferimento. Per noi”, conclude, “sono fondamentali anche le nuove modalità di formazione delle guardie carcerarie. Una buona legge”, considera, “condivisa trasversalmente e che nasce per risolvere le criticità che abbiamo avuto modo di constatare sul campo”. Si tratta di 15 articoli scritti alla luce della riforma nazionale ma anche della legge di evoluzione del sistema sanitario in Lombardia. Obiettivo della legge è il recupero dei detenuti da indirizzare verso percorsi di reinserimento lavorativo, istruzione, formazione e riqualificazione professionale. Garantito il sostegno delle associazioni e le attività del volontariato penitenziario, in area penale interna ed esterna. Fondamentale e nuova è l’attenzione agli aspetti sanitari, anche grazie all’istituzione di un organismo inter-istituzionale con compito di monitoraggio della rete dei servizi sanitari penitenziari favorendo, per i casi più gravi e delicati, l’accesso alle comunità terapeutiche riabilitative e ai centri semiresidenziali, la presa in carico dei detenuti con problematiche psichiatriche. Va infatti ricordato che solo dal 2008, la sanità penitenziaria è transitata dalle competenze del Ministero della giustizia a quelle del Ministero della salute. Inoltre, grazie a interventi di prevenzione delle tossicodipendenze si intende migliorare le condizioni di vita delle persone recluse, limitando la recidività dei reati con un notevole risparmio di risorse pubbliche. Un approccio all’avvio di progetti concreti nell’ottica della giustizia riparativa, alla pena che coinvolge il reo, alla vittima e la comunità nella ricerca di soluzioni per provare ad arrivare alla riparazione del danno e riconciliare le parti. In quest’ottica la regione Lombardia prevede interventi in area penale interna ed esterna volti a mantenere e rafforzare i legami dei detenuti con i membri della famiglia, tutelando la relazione figli-genitori. Un articolo specifico del provvedimento riguarda il difensore regionale in qualità di garante dei detenuti a cui è affidata la tutela dei diritti delle persone incarcerate o ammesse alle misure alternative. Una fi gura introdotta di recente nel nostro sistema penitenziario e apprezzata giorni fa in sede internazionale dal Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura. Un piano innovativo e ambizioso che, secondo la clausola valutativa introdotta su parere del Comitato paritetico di controllo e valutazione, sarà monitorato ogni due anni in merito agli obiettivi raggiunti. In Lombardia sono 8 mila le persone detenute di cui 5 mila con condanna definitiva e 14 mila quelle condannate a misure alternative al carcere. Una situazione in cui il presidente del Consiglio regionale, Raffaele Cattaneo, nota: “I numeri ci dicono che per contrastare la recidiva l’unica misura veramente efficace è il recupero della persona. Là dove i detenuti seguono progetti di formazione e lavoro, la recidiva scende al 10%, contro una media del 90% di chi trascorre invece la detenzione in completa inattività. Questo provvedimento risponde meglio alle esigenze del mondo carcerario perché punta sul recupero del detenuto anche attraverso progetti specifici come quelli culturali e sportivi; la formazione degli operatori del settore e dei volontari, il rafforzamento dei legami con i famigliari, il contrasto alla dispersione scolastica ma, soprattutto, attraverso l’inserimento lavorativo anche con progetti sperimentali di imprenditoria sociale. Perché solo un investimento vero sulla persona umana può favorire un pieno reinserimento”. Veneto: progetto Esodo, dal carcere all’impresa “dal legno di riciclo oggetti di design” di Paolo Foschini Corriere Veneto, 20 novembre 2017 Duemila detenuti in sei anni coinvolti in un progetto Esodo sostenuto dalla Fondazione Cariverona: un laboratorio che produce orologi, arredi e contenitori: “Il reinserimento è interesse di tutti”. Una di quelle attualmente in piena espansione è partita tre anni fa con un corso di artigianato tutto particolare: un gruppo di architetti e designer ha preso a insegnare a una quindicina di detenuti come ricavare oggetti di arredo dai pallet di scarto, per dire, e adesso quegli oggetti prodotti in carcere vengono non solo venduti in tutta Italia ma alcuni dei detenuti sono stati assunti - pur stando tuttora in carcere - dal gruppo stesso dei designer e artigiani che li ha formati. Il progetto Esodo - È solo una tra le tante puntate del Progetto Esodo promosso e sostenuto dalla Fondazione Cariverona in collaborazione con varie Caritas diocesane del Veneto, per occuparsi di una di quelle categorie di persone di cui tanto si parla nei convegni dedicati all’impegno sociale quanto poco interessano in realtà - anzi - alla maggior parte della gente comune: e cioè appunto i galeotti. L’obiettivo del progetto, come sintetizza la responsabile che lo segue per la Fondazione, Marta Cenzi, è riassumibile così: “Creare per queste persone un percorso con tre punti di arrivo che sono lavoro, abitazione, formazione”. Non per buonismo ma per un senso di giustizia il cui beneficiario finale, come dicono i numeri laddove contati, è la società nel suo insieme: “Chi esce di prigione e trova un lavoro, una casa, un contesto in cui ricominciare una vita ha ovviamente meno probabilità di commettere di nuovo un reato. Il che è innegabilmente una vittoria non solo per lui ma per tutti”. Per verificarlo con le cifre in mano è appena iniziato un rilevamento da parte di Euricse, i cui risultati arriveranno l’anno prossimo. E i rilevatori avranno di che rilevare. Duemila detenuti - Dal 2011 a oggi infatti - questo è il suo tempo di vita finora - il Progetto Esodo si è allargato come un tappeto nelle case circondariali di Verona, Vicenza e Belluno, e poi in altre strutture esterne di esecuzione pena a Mantova e Ancona, toccando una popolazione carceraria di oltre duemila persone tra cui un centinaio di donne. Complessivamente sono state messe in piedi per loro in questi anni - il dato è aggiornato a qualche tempo fa - 2.107 iniziative tra “corsi di formazione, sostegno alla persone, accoglienza residenziale, orientamento al lavoro, contratti, esperienze di tirocinio, laboratori occupazionali”. Il tutto con un impegno finanziario che solo nel primo triennio aveva superato di molto da parte di Fondazione Cariverona la quota di 6 milioni di euro, a copertura del 90 per cento del totale delle spese. Per testimoniare il fatto che quando una cosa funziona crea imitazione è ancora Marta Cenzi: “Nonostante le percentuali esatte dei risultati non siano ancora disponibili possiamo già dire che su Trento e Belluno stanno crescendo in modo costante le imprese che collaborano con i vari progetti di inserimento lavorativo avviati negli anni”. Reverse LAb - Uno dei più innovativi, in questo caso su Verona, è come si diceva quello del gruppo ReverseLab: “Siamo una impresa sociale - dice Federica Collato che ne è stata tra i fondatori - di design sostenibile. Facciamo progettazione e produzione artigianale. Recuperiamo legno e lo reinventiamo: in oggetti, orologi, contenitori. Ora in vendita online e tramite i punti di Altro Mercato. Con i detenuti di Verona abbiamo iniziato nel 2014. Il primo anno sono stati 15 e hanno studiato per imparare. Via via ci siamo concentrati sull’approdo a un lavoro. Quest’anno abbiamo aperto una linea produttiva interna al carcere e assunto con un contratto regolare i primi due: scontano la loro pena, ma lavorano e guadagnano, quando usciranno avranno davanti un progetto da continuare”. Piemonte: cibo bio e filiera corta, ma il Tar blocca il bando per le carceri di Federica Cravero La Repubblica, 20 novembre 2017 Cibo biologico, uova di galline allevate a terra, formaggi Dop e frutta di filiera corta: quest’estate aveva fatto tanto parlare (e anche parecchio sparlare) la decisione del ministero della Giustizia di indire un bando per la fornitura delle derrate alimentari all’interno delle carceri che prevedesse una parte consistente di “acquisti verdi”, più sani, più buoni e più leggeri per l’ambiente, così come imposto dal Codice degli appalti. Tuttavia su quel bando pende la sospensiva decisa dal Tar del Piemonte, che ha bloccato la gara dopo il ricorso di un’azienda di ristorazione, la Alessio Srl. La società, che ha sede a Vercelli, è già fornitrice per il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Piemonte. Proprio per questo ha potuto confrontare i termini del nuovo bando triennale con quelli del precedente. Scoprendo alcune anomalie di non poco conto. A partire dal valore economico: 3 euro e 90 centesimi al giorno per ogni detenuto. Stessa cifra del bando precedente. Il problema è che nella vecchia gara d’appalto non c’erano requisiti così specifici come l’obbligo di inserire il 40 percento di prodotti biologici e il 20 percento Dop, che naturalmente sono più costosi, rendendo pressoché impossibile presentare un’offerta più bassa. E soprattutto il bando non è chiaro a proposito della tipologia di prodotti che devono rispettare i vincoli di qualità, né su come debbano essere calcolate le percentuali. Così, assistita dagli avvocati milanesi Maurizio Zoppolato e Laura Pelizzo e dalla torinese Antonella Borsero, la società vercellese ha presentato ricorso al Tar di Torino. Il tribunale amministrativo non ha ritenuto sufficienti le spiegazioni dell’amministrazione penitenziaria e disposto la sospensiva in attesa di decidere sul merito nella prossima udienza a gennaio. Di fatto il provvedimento del Tar ha valore solo per i lotti del bando che riguardano il Piemonte. Tuttavia il ministero ha dovuto prendere atto che del disappunto sollevato anche in altre regioni italiane. “Le materie prime di qualità sono uno degli aspetti che contribuiscono alla qualità del pasto - spiega il direttore del carcere Lorusso e Cutugno di Torino, Domenico Minervini - In generale che in cella si mangi bene è importante perché va tenuto conto che ci sono parecchi detenuti che non possono permettersi il sopravvitto “. E soprattutto è importante che il cibo allenti le tensioni all’interno degli istituti penitenziari, anziché aumentarle. “Ogni mattina - prosegue Minervini - le cassette di alimenti freschi che vengono consegnati nelle cucine sono controllati dalla commissione mensa, di cui fanno parte anche i rappresentanti dei detenuti. Ma sono anche molto importanti i cuochi: noi da anni inseriamo solo persone che abbiano esperienze certificate nella ristorazione o che abbiano seguito corsi di formazione durante la detenzione. Così come conta il fatto che le attrezzature siano ben funzionanti: per quattro mesi per esempio da noi si sono rotti gli ascensori e questo ha vanificato l’utilità dei carrelli scaldavivande che invece sono fondamentali per far arrivare i pasti caldi nelle celle”. Lecce: congresso scientifico sulla promozione della salute negli istituti di pena Corriere Salentino, 20 novembre 2017 Promuovere la Salute all’interno di un carcere è uno dei traguardi più ambiziosi per la psichiatria moderna. A Lecce, venerdì scorso, nella Sala Teatro della Casa Circondariale di Borgo San Nicola, si è riusciti a fare qualcosa di più: raccontare un’esperienza concreta e farla diventare patrimonio comune. C’è tutto questo nel congresso scientifico intitolato “Nuove sfide della psichiatria: i percorsi di cura per la gestione dei disturbi psichici in ambiente carcerario”, che ha raccolto attorno al “modello Lecce” psichiatri, medici, magistrati e operatori sanitari e giudiziari. Difatti, con l’attivazione nel settembre scorso della Sezione Intramuraria per la Tutela della Salute Mentale per le persone ristrette presso la Casa Circondariale di Lecce, la Asl Lecce ha completato la “filiera assistenziale” disponibile per questa specifica tipologia di utenza, un vero e proprio Pdta (Percorso Diagnostico Terapeutico Assistenziale), secondo il modello promosso dalla Conferenza Unificata Stato-Regioni, probabilmente unico nella realtà nazionale. La sezione intramuraria non è solo il primo reparto del genere in Puglia, e uno dei più grandi in Italia, ma è anche un modello avanzato di collaborazione, suggellato da un Protocollo d’intesa, tra Azienda sanitaria, Regione Puglia e Amministrazione penitenziaria. Con risultati concreti, in termini di servizi offerti alla popolazione carceraria (oltre un migliaio di detenuti), che promettono ulteriori sviluppi. Alla Sezione psichiatrica - un “reparto ospedaliero” dotato di 20 posti letto - sono infatti collegati poliambulatori e servizi sanitari specifici, compreso il sistema di telemedicina carceraria che consente di realizzare un’importante attività diagnostica in remoto, capace quindi di limitare drasticamente i trasferimenti all’esterno, a tutto vantaggio della sicurezza di detenuti e operatori. Il tutto inserito nella cornice della Carta dei Servizi sanitari carcerari. In questa dimensione globale si colloca dunque il congresso di Lecce, un intenso momento di approfondimento e riflessione che ha visto la presenza delle Istituzioni, al massimo livello di rappresentatività; tra gli altri: il dott. Antonio Maruccia, Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Lecce, il dott. Carmelo Cantone, Provveditore Dipartimento Amministrazione Penitenziaria della Regione Puglia e Basilicata, la dr.ssa Silvia Maria Dominioni, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Lecce, la dr.ssa Cristina Rizzo, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni di Lecce. Padroni di casa la dr.ssa Rita Russo, Direttore della Casa Circondariale di Lecce ed il dott. Serafino De Giorgi, Direttore del Dipartimento Salute Mentale ASL Lecce. Tra i partecipanti (circa 250) spiccava la presenza delle direzioni degli Istituti di pena della Puglia e Basilicata e dei loro comandanti, ufficiali ed agenti di Polizia Penitenziaria, oltre a numerosi operatori della Salute Mentale delle Asl di Lecce, Brindisi e Taranto. Professori universitari, giuristi e specialisti Asl hanno prodotto relazioni molto apprezzate dal pubblico. Il prof. Massimo Clerici, dell’Università di Milano, ha illustrato “Il progetto Insieme” ed i percorsi di cura per il detenuto con disturbi psichici; Silvia Maria Dominioni ha parlato degli aspetti problematici della detenzione nella persona con disturbi psichici gravi; del trattamento del paziente con disturbo psichico e abuso di sostanze ha invece trattato il prof. Sergio De Filippis, dell’Università di Roma, mentre Paola Calò ha puntato l’attenzione su depressione e gestione del rischio suicidario, illustrando protocolli e percorsi di cura integrati applicati nel penitenziario leccese. Tiziana De Donatis ha quindi approfondito il tema della detenzione e Psichiatria di Comunità, allargando lo sguardo verso le prospettive del Percorso Diagnostico Terapeutico Assistenziale e, in chiusura, Alessandra Moscatello ha spiegato come è organizzata e gestita nella prassi quotidiana la Sezione Intramuraria per la Tutela della Salute Mentale. Un percorso di conoscenza all’interno dei nuovi assetti dell’organizzazione sanitaria penitenziaria, con la forte consapevolezza che, proprio sul versante dell’assistenza psichiatrica, si è di fronte ad una nuova prospettiva da cogliere e, insieme, alle criticità più difficili da affrontare, poiché i disturbi psichici risultano tra le patologie maggiormente rappresentate nella popolazione detenuta. Una condizione di estrema fragilità che le statistiche rendono evidente. Secondo la Società Italiana di Medicina e Salute Penitenziaria, più di 42 mila detenuti italiani - circa il 77% degli oltre 54 mila totali - convivono con un disagio mentale: dai disturbi della personalità alla depressione, fino alla psicosi. Problemi gravi che possono portare a conseguenze estreme, come i circa 7mila episodi di autolesionismo registrati ogni anno nelle carceri italiane, o i 43 casi di suicidio e gli oltre 900 tentativi nel solo 2014. Uno scenario complesso, insomma, a cui l’esperienza maturata a Lecce mira a offrire una risposta credibile, da un lato promuovendo la salute dentro gli istituti di pena, dall’altro attraverso la costruzione di protocolli di cura accessibili e, soprattutto, di sistemi di sostegno multidimensionali in favore del paziente-detenuto ma anche di ogni operatore responsabile di azioni di trattamento. Singolare, infine, anche la cornice in cui si è svolto il congresso. Il teatro del carcere è stato rimesso a nuovo per l’occasione, ed in pochi giorni, dal settore specializzato della Polizia Penitenziaria e dai detenuti lavoranti, realizzando una “location” che non aveva davvero nulla da invidiare alle sedi congressuali convenzionali. Nel corso dei lavori è poi venuto alla luce un mosaico, un’opera d’arte coperta da intonaco e di cui si era perduta memoria. Una bella sorpresa per tutti, giacché la bellezza può trovare modi e luoghi insospettabili per farsi apprezzare. Napoli: in carcere per quattro anni da innocente, maxi risarcimento a un meccanico di Marina Mingarelli Il Mattino, 20 novembre 2017 Ha trascorso quattro lunghi anni tra il carcere di Poggioreale e Santa Maria Capua Vetere. Vittorio U., 40 anni, operaio in una officina del capoluogo ciociaro, era stato accusato di essere il capo di una organizzazione malavitosa la cui attività era quella di trafficare sostanza stupefacente proveniente dall’Olanda e dall’Inghilterra. La procura di Napoli che aveva avviato l’inchiesta aveva fatto scattare l’arresto per 48 persone in tutto il territorio nazionale. Le indagini avevano riguardato anche la provincia frusinate. E tra i soggetti indagati era finito nella rete della magistratura anche il quarantenne per il quale, in attesa del processo, era stata chiesta la custodia cautelare in carcere. L’avvocato Francesco Galella difensore dell’operaio, in sede dibattimentale aveva sempre sostenuto che si era trattato di un clamoroso errore giudiziario e che il suo assistito non aveva mai avuto nulla a che fare con quel traffico di droga. Di avviso diverso l’accusa: il pubblico ministero aveva chiesto 24 anni di pena. Il giudice però alla luce degli elementi portati in aula si è pronunciato per l’assoluzione. Ma l’uomo aveva già trascorso in carcere quattro anni della sua vita. Così l’avvocato Galella aveva presentato una istanza per ingiusta detenzione. Nei giorni scorsi i giudici dell’VIII sezione della Corte di Appello di Napoli, sezione specializzata per le richieste di riparazione da ingiusta detenzione, ossia per il risarcimento dei danni a chi ingiustamente patisce la custodia cautelare o il carcere definitivo, hanno accolto la richiesta dell’avvocato Galella disponendo un risarcimento per il meccanico frusinate pari a 352.079,16 euro. Questo denaro per l’uomo è arrivato come una manna dal cielo. Sposato e padre di tre figli, il 40enne per poter sbarcare il lunario era costretto ultimamente a svolgere piccoli lavori di officina. È difficile per un ex detenuto, entrare di nuovo a far parte del mondo del lavoro. Nonostante l’assoluzione, c’è sempre da parte dei cittadini una certa diffidenza nei confronti di chi è finito tra le sbarre. Vittorio U. era stato accusato di essere il capo di una associazione a delinquere dedita al traffico di droga. Accuse pesanti per le quali, così come aveva richiesto il pubblico ministero si possono scontare oltre venti anni di carcere. Ma gli elementi raccolti hanno indotto i giudici a pronunciarsi per l’assoluzione. Prato: teatro-carcere “Studio per un finale”, il nuovo spettacolo di Metropopolare pratosfera.com, 20 novembre 2017 La nuova produzione della compagnia Metropopolare coi detenuti della Dogaia, debutta al teatro Magnolfi mercoledì 22 novembre. Una riflessione sull’uomo e sulla morte. È stato presentato in anteprima a Roma la scorsa settimana, debutterà a Prato mercoledì prossimo: Studio per un finale è la nuova produzione della compagnia Metropopolare, il collettivo di artisti che opera all’interno della Casa circondariale La Dogaia di Prato. Mercoledì 22 novembre alle 21, la nuova produzione con protagonisti i detenuti del carcere di Prato sarà in scena al Teatro Magnolfi di Prato a ingresso libero: “il lavoro è frutto del confronto sui temi di prigionia e caduta - si legge nella presentazione dello spettacolo - che ha avuto luogo all’interno della compagnia, parole attorno alle quali si è concentrata la ricerca teatrale del collettivo, dando particolare attenzione ad alcuni autori del novecento come Ionesco, Beckett e i primi lavori di Pinter”. Il risultato, unito alle biografie degli interpreti, è una riflessione sull’uomo e sulla morte. “L’anno prossimo faremo i nostri 10 anni di lavoro dentro il carcere maschile di Prato - racconta Livia Gionfrida, fondatrice e regista dello spettacolo. Potrebbe essere considerato un traguardo, viste le infinite e paradossali difficoltà che abbiamo affrontato in questi lunghi e produttivi anni. Avevamo bisogno di uno spettacolo che parlasse una lingua radicale, asciutta, chiara per tutti. Un testo che sapesse raccontare il concetto di limite fisico e mentale, imposto o scelto, non ha importanza. Molti testi del Teatro dell’Assurdo parlano di barriere fisiche e psicologiche”. Ingresso gratuito, per ogni informazione contattare teatro@metropopolare.it. Museruola all’informazione Usa? Se l’assessore ruba chi me lo dice? di Mimmo Cándito La Stampa, 20 novembre 2017 Il tema é: il controllo dell’informazione. (Un tema al quale dedico una particolare attenzione, non soltanto per il lavoro che ho sempre fatto nella mia vita ma anche perché questo é poi il contenuto del corso che tengo all’Università di Torino). Tutto parte da una notizia che ho letto con qualche sorpresa ieri, sul “New York Times”, ma non tanto per il contenuto - che sto per raccontarvi - quanto per la collocazione: la seconda pagina del supplemento “Business”, che é una collocazione che segnala un grado di rilievo piuttosto ridotto, mentre mi sarei aspettato una ben più attenta considerazione, anzi la stessa prima pagina della foliazione nazionale. La notizia diceva che la Commissione federale degli Usa per le comunicazioni ha modificato le norme in corso, e ha autorizzato ora una singola impresa editrice a essere proprietaria non più soltanto di un giornale locale, ma anche di una televisione locale e di due stazioni radio locali. La motivazione del nuovo corso: adeguare il mercato dell’informazione al tempo d’oggi, ora che accanto ai media tradizionali vi é un ampio utilizzo delle informazioni on line. A leggerla così, non pare una rivoluzione. E tuttavia é un cambio radicale, tenuto conto della struttura del sistema mediale americano. Mentre da noi, in Italia, le grandi reti televisive nazionali guidano e sostanzialmente dominano i flussi informativi, insieme ai grandi quotidiani nazionali o anche interregionali, negli Usa é l’informazione locale a determinare la costruzione della conoscenza della parte maggioritaria della società. Da noi, le notizie del giorno le sappiamo dai canali Rai e Mediaset soprattutto, e poi principalmente da “Corsera”, “Repubblica”, e “Stampa”, e dal circuito che queste testate attivano anche sulle testate regionali; e invece in America é il “Miami Herald” in Florida, o il “Denver Post” in Colorado, o il “Los Angeles Times” in California, a far sapere quello che sta accadendo nella vita d’ogni giorno - assai più del consumo elitario (milioni di copie ma assolutamente elitario) che hanno i giornali nazionali “New York Times”, “Washington Post”, e “Usa Today”. E poi, più ancora dei giornali, sono le piccole e grandi stazioni televisive locali e le radio locali ad avere il controllo assolutamente maggioritario dei flussi informativi. Esse hanno l’autentico monopolio della conoscenza. Il Trump eletto Presidente a sorpresa é certamente una scelta nella quale sono intervenuti molti e complessi fattori sociali, politici, ed economici, ma vi ha operato anche un incisivo fattore culturale, quello dell’“America profonda”, assai diversa dell’America “metropolitana” di New York o di Chicago o di Boston alla quale siamo abituati a pensare quando discutiamo degli Usa. E l’America profonda é la stessa che - nella sua stragrande maggioranza - nemmeno possiede un passaporto, né gliene frega niente di averlo: bada strettamente alle proprie cose d’ogni giorno, senza grandi interessi ideologici, e lo scuolabus dei bambini, la polizia che pattuglia le strade, l’assessore comunale che deve assicurare la pulizia dei giardini, le rate del condominio da pagare. E su scuolabus, polizia, giardini, e truffe dell’amministratore, l’informazione la danno le tv locali, le radio locali, e i giornali locali. In Italia, le notizie dalle tv nazionali (schermo grande o pc) sono la fonte primaria delle informazioni per più di due terzi del nostro paese; negli Usa, quasi il 60 per cento ha invece come fonte primaria una tv locale. Locale. E questo significa che - se un editore ha una forte presenza in un mercato locale - sarà lui, e saranno i media che lui possiede e controlla, a far sapere quello che sta accadendo “in città” - o a non farlo sapere. Già ad aprile una fusione tra due grandi strutture editoriali - il Sinclair Broadcast Group e Tribune Media, per un valore di 4 miliardi di dollari - aveva portato a che le informazioni del Sinclair “occupassero” quasi il 70 per cento delle tv-radio locali degli Stati Uniti, con un orientamento non certamente liberale. Diceva ieri il prof. Pickard, dell’università di Pennsylvania: “Facebook e Google non offrono contenuti informativi diretti; non sono concorrenti reali dei flussi informativi di tv-radio-giornali locali”. La capacità dei social media di incidere sulla formazione diretta della conoscenza é dunque relativa, attiene alla definizione dello “sfondo” nel quale si colloca la voglia di sapere, piuttosto che alla determinazione dei singoli fatti e fattori che poi formano la conoscenza quotidiana. Si chiedeva ieri sul “Miami Herald” la signora Sue Wilson, fondatrice del Media Action Center: “Dopo questa nuova norma, se sui media locali non troverete nessuna notizia sull’assessore che rubava nei conti amministrativi del vostro Comune, non dovrete chiedervi perché. La nuova norma della Commissione federale vi avrà già raccontato tutto, consentendo un controllo delle informazioni che può tranquillamente ignorare quanto accade realmente là dove voi vivete”. Migranti. Come si ferma il massacro in Libia e più a sud di Pietro Ichino (Senatore Pd) pietroichino.it, 20 novembre 2017 Il flusso di profughi attraverso le vere e proprie sale di tortura del nord-Africa, mentre alimenta i redditi dei trafficanti, lascia irrisolto il problema della guerra e della fame nei Paesi di provenienza. I profughi africani appartengono per lo più alla parte meno povera delle popolazioni di quel continente afflitte da guerra e fame: la parte che ha le risorse e le informazioni necessarie per affrontare la difficilissima migrazione verso l’Europa. Per arrivare in Libia, oggi passaggio obbligato, essi si espongono a progressive estorsioni per importi fino a tre-quattromila euro. Ma per loro la Libia è una grande sala di tortura, in cui vengono sequestrati e seviziati finché dai Paesi d’origine le famiglie non pagano agli organizzatori del traffico riscatti pari a quanto già sborsato fino a quel momento. Il pagamento del riscatto consente loro di accedere al privilegio di una roulette russa: il passaggio verso nord sui barconi, che possono portarli alla salvezza o al naufragio. Su questo traffico negli anni passati gli organizzatori - tra di essi anche l’Isis - hanno lucrato miliardi. Qual è la strategia più efficace per arrestarlo? Consentire l’ultima tratta di questo viaggio dell’orrore dà agli attuali detenuti nella sala di tortura libica la possibilità di tentare la roulette russa per arrivare in Europa; ma così si perpetua il business dei trafficanti, consentendo il flusso attraverso la macchina del massacro di altre centinaia di migliaia di persone ogni anno. Se si vuole fermare quella macchina, le cose da fare, tutte insieme, sono tre: interrompere questi canali attraverso i quali il flusso oggi si svolge; consentire all’Onu e all’Unione Africana di entrare nei lager libici per cacciarne i mercanti di carne umana, gli aguzzini, e attivare flussi sicuri e controllati; operare perché cessino la guerra e la fame nei Paesi africani d’origine, con spedizioni umanitarie dedicate a ciascuno di essi. Chi teorizza la necessità, invece, di lasciare che il flusso attuale prosegua non si rende conto che, in questo modo, dalla guerra e dalla fame si può salvare forse l’uno per cento delle popolazioni interessate; ma al prezzo di sofferenze inaudite e di un pericolosissimo arricchimento dei loro aguzzini. I quali hanno tutto l’interesse a che guerra e fame nei Paesi d’origine continuino il più a lungo possibile. Libia. La sofferenza dei migranti detenuti è un oltraggio alla coscienza dell’umanità diasporaenligne.net, 20 novembre 2017 L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Zeid Ràad Al Hussein martedì ha denunciato il deterioramento delle condizioni di detenzione dei migranti in Libia. In una dichiarazione rilasciata a Ginevra, l’Alto Commissario ha stabilito “inumana” la cooperazione dell’Unione europea (Ue) con la Libia per arginare il flusso di migranti nel Mediterraneo. “La sofferenza dei migranti detenuti in Libia è un oltraggio alla coscienza dell’umanità”, ha detto Zeid. “Ciò che era già una situazione disastrosa è ora diventato catastrofico”, ha lamentato. Per l’Alto Commissario, la comunità internazionale non può continuare a chiudere un occhio sugli orrori inimmaginabili sopportati dai migranti in Libia e sostenere che la situazione può essere risolta solo migliorando le condizioni di detenzione. Zeid ha denunciato l’aiuto fornito dall’UE e dall’Italia alle guardie costiere libiche per fermare i migranti in mare, “nonostante le preoccupazioni espresse dai gruppi per i diritti umani” sulla situazione dei migranti. “I crescenti interventi dell’UE e dei suoi stati membri non sono stati finora utilizzati per ridurre il numero di abusi sofferti dai migranti”, ha affermato l’Alto Commissario. Il numero di migranti detenuti in Libia è quasi triplicato in meno di due mesi. Secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani questa situazione condurrebbe i migranti alla detenzione arbitraria e indefinita e li esporrà al lavoro forzato, allo sfruttamento e all’estorsione. “I detenuti non hanno l’opportunità di contestare la legalità della loro detenzione e non hanno accesso all’assistenza legale”, ha affermato Zeid. Ma sul campo, il “sistema di sorveglianza mostra in realtà un rapido deterioramento della loro situazione in Libia”, dice Zeid, aggiungendo che “gli osservatori dei diritti umani” si erano arresi, il 1er di novembre 6 a Tripoli per visitare i centri di detenzione del Dipartimento libico per la lotta alla migrazione illegale (Dcim) e intervistare i migranti detenuti. Secondo i dati delle autorità libiche citati dall’ONU, le persone 19.900 erano in questi centri all’inizio di novembre, contro circa 7.000 a metà settembre. Il forte aumento delle detenzioni segue scontri mortali a Sabratha, una città nella parte occidentale della Libia che è diventata la piattaforma per la partenza dei migranti verso l’Europa. Durante la loro visita in Libia, gli osservatori ONU sono rimasti scioccati da ciò che hanno visto: “Migliaia di uomini, donne e bambini traumatizzati e traumatizzati, ammucchiati uno sopra l’altro, intrappolati in hangar e spogliati della loro dignità “, ha detto Zeid. “Molti detenuti sono già stati trafficati, rapiti, torturati, aggrediti sessualmente, costretti al lavoro forzato, sfruttati, maltrattati fisicamente o esposti a carestie e altre atrocità, molto spesso trafficanti o contrabbandieri “. A questo proposito, l’Onu ricorda la testimonianza di un uomo detenuto nel centro Dcim di Tarik al-Matar, dove alcuni migranti 2.000 sono stipati in un hangar senza servizi igienici funzionanti. “Siamo come in una scatola di fiammiferi, non dormiamo, soffriamo di malattie e non facciamo la doccia da mesi”, ha detto il detenuto agli osservatori delle Nazioni Unite. “Moriremo tutti se non saremo salvati da questo posto, è l’ordalia. È estremamente difficile sopravvivere a questo odore soffocante di urina e escrementi. Molti sono incoscienti sul pavimento di questi centri di detenzione. Uomini, donne e bambini detenuti in questi centri hanno riferito al personale dell’Onu di essere stati picchiati dalle guardie. “Ci picchiano ogni giorno, usano manganelli elettrici, solo perché chiediamo cibo o cure (mediche) o informazioni su ciò che ci accadrà”, ha detto un migrante camerunense agli osservatori dei diritti umani dell’Onu. I servizi di Alto Commissario Zeid sono stati particolarmente colpiti dalle storie di donne vittime di stupro da parte di trafficanti di esseri umani ma anche dalle guardie di questi centri di detenzione ufficiali. In queste circostanze, “non possiamo essere un testimone silenzioso della schiavitù moderna”, ha concluso l’Alto Commissario, esortando le autorità libiche a non detenere i migranti. Secondo gli ultimi dati forniti dall’Agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite sono 152.341 i migranti arrivati in Europa (tra cui 114.250 in Italia, 24.739 in Grecia e 12.420 in Spagna) quest’anno dal Mediterraneo e 2.992 sono morti o sono scomparsi durante questa pericolosa traversata. Germania. Caso Vettorel: “giovane immaturo, il carcere preventivo lo rieduca” Il Mattino di Padova, 20 novembre 2017 Lo scrive il giudice di Amburgo che presiede il tribunale. La carcerazione preventiva? Ha un valore rieducativo, anche in uno Stato come la Germania dove vige la presunzione d’innocenza. Lo statuisce il giudice Wolkenhauer nell’ordinanza con cui concedeva la remissione in libertà di Fabio Vettorel, bloccata poi dalla pubblica accusa a colpi di ricorsi e controricorsi. Scrive letteralmente colei che sarà chiamata a pronunciare la sentenza nei riguardi del giovane feltrino in stato di detenzione dal sette luglio scorso: “Nella decisione (se scarcerarlo o meno, ndr) occorre tenere conto in misura determinante anche dell’effetto educativo della custodia cautelare”. Effetto educativo, sì. In tedesco: “die erzieherische Wirkung”. Con questa sua nuova ordinanza, Wolkenhauer disquisisce a lungo sulla possibilità (prevista per i ragazzi d’età compresa tra i 18 e i 21 anni) di giudicare Vettorel applicando il codice penale ordinario - e in questo caso rischierebbe una condanna da sei mesi a cinque anni, per le tre imputazioni che gli sono state mosse - oppure il diritto penale minorile. Il giudice, adesso, considera questa seconda ipotesi molto più probabile, e le motivazioni a sostegno di questa sua ipotesi sono legate anche alla sua presunta immaturità. Una fortuna, se così si può dire, per la difesa. La quale temeva che il lungo manifesto politico letto da Fabio in aula gli potesse costare l’applicazione del codice penale. Al contrario, ecco cosa scrive Wolkenhauer: “È molto probabile che verrà applicato il diritto penale minorile. L’imputato ha lasciato la scuola senza conseguire un diploma e non ha concluso una formazione professionale. Inoltre, vive da suo padre”. Conclusione: “Nella sua biografia (...) si evidenziano delle rotture - la traduzione dal tedesco è nostra, ndr - per via delle quali non sarà possibile escludere con certezza un eventuale ritardo dello sviluppo della maturità al moneto del fatto”. In altre parole: se a 18 anni ha abbandonato la scuola e vive (ancora) con il papà, è sicuramente un immaturo. Processo Mladic, una sentenza che servirà alla Bosnia di Mara Gergolet Corriere della Sera, 20 novembre 2017 La sentenza verrà, e se non a Mladic, servirà alla Bosnia. Sarà la parola fine. Una condanna, non una vendetta, di cui resterà memoria. Quando mercoledì all’Aja sarà pronunciata la sentenza su Ratko Mladic, le guerre balcaniche saranno finite. Ed è difficile, o quasi impossibile, che il generale serbo eviti l’ergastolo e che il suo nome venga per sempre associato con la parola genocidio, quello di Srebrenica. Inutili i tentativi dei suoi avvocati, compreso l’americano Dan Ivetic, di mostrare che la sua salute è compromessa (quanto si rivelano gracili i generali e gli sterminatori una volta deposti!), a nulla saranno servite le risonanze magnetiche che pur dimostrano come parti del suo cervello siano state lesionate da due ictus. Ratko Mladic è perfettamente in grado di ricevere la sua sentenza. E quindi, a giudizio il generale che ordinava: “Sparate sulla Bascarsija”, il cuore ottomano di Sarajevo, “tenete un fuoco costante sulla presidenza e il Parlamento, sparate piano e a intervalli, finché non vi ordino di fermarvi”. La parola finale sull’uomo che arrivò a Srebrenica, promettendo ai musulmani “sarete salvi se deponete le armi” e poi li braccò mentre erano in fuga nei boschi, fino a farne sterminare ottomila. Chi l’ha visto negli ultimi anni, sa il suo sguardo vuoto. Le occhiate di sfida alle madri di Srebrenica da dietro il vetro del tribunale all’Aja. Nessun pentimento. Colpisce piuttosto, come per i peggiori criminali della sua sorta, come per Adolf Eichmann, l’incapacità di vedere, l’inadeguatezza di fronte all’immensità del male che hanno commesso. Ma la sentenza verrà, e se non a Mladic, servirà alla Bosnia. Sarà la parola fine. Una condanna, non una vendetta, di cui resterà memoria. L’unica consolazione che possono avere le vittime, il fuoco da tener vivo per le successive generazioni. Stati Uniti. Morto Charles Manson, il pluriomicida che fece uccidere l’attrice Sharon Tate di Vittorio Sabadin La Stampa, 20 novembre 2017 È morto a 83 anni Charles Manson, uno dei più brutali e sanguinari assassini della storia americana. Nella notte tra l’8 e il 9 agosto 1969 l’attrice Sharon Tate, incinta all’ottavo mese, e tre suoi amici furono assassinati a colpi di pistola e a coltellate al 10050 di Cielo Drive, una lussuosa villa di Beverly Hills. A ordinare la strage, solo perché abitavano nella casa di un produttore discografico che aveva rifiutato di incidere le sue sconclusionate canzoni, era stato Charles Manson. Condannato nel 1971 alla pena di morte, poi comminata in nove ergastoli, Manson aveva 83 anni ed era stato ricoverato qualche giorno fa all’ospedale di Bakersfield in California per una gravissima emorragia intestinale. Il regista Quentin Tarantino sta pensando di realizzare un film sulla sua vita e per la prima volta non avrà bisogno di ricorrere a truculente fantasie per la sceneggiatura: la realtà basterà da sola. Manson è nato a Cincinnati, Ohio, da Kathleen Maddox, che lo ha partorito a 16 anni. Suo padre era probabilmente un certo colonnello Scott, ma Charles ha preso il cognome da William Manson, un uomo con il quale la madre era vissuta per qualche mese. Non c’è bisogno di essere psichiatri per capire come una vita passata tra uno squallido motel e l’altro con una madre che si prostituisce possa creare abissi profondi nella mente di un bambino. Affidato nei giorni buoni ai vicini di casa o agli zii, Manson ha cominciato con qualche furto, poi con piccole rapine ai negozi e a 16 anni è stato arrestato per avere portato un’auto rubata oltre il confine. È passato da un istituto correzionale all’altro e poi di nuovo in cella, dove si imparano tante cose, ad esempio a gestire un giro di prostituzione. Arrestato di nuovo per avere portato donne da uno stato all’altro, ha passato dieci anni nella prigione di McNeil Island nello stato di Washington, un lungo periodo di tempo che ha utilizzato per mettersi finalmente a studiare, diventando molto esperto di esoterismo, negromanzia, ipnotismo, scientologia e magia nera, e imparando anche a suonare la chitarra. Le chitarre e l’esoterismo erano molto apprezzati nelle comunità hippy di San Francisco, dove Manson arrivò nel 1967, giusto in tempo per la “summer of love” dei figli dei fiori. Suonava, cantava, era un abile comunicatore, ipnotizzava le ragazze ingenue e credulone: in poco tempo intorno a lui si formò una comunità di 50 giovani, che battezzò la Famiglia. Nella totale libertà di un ranch della San Fernando Valley, la Famiglia fumava hashish, si sballava con l’LSD, ingeriva funghi allucinogeni e progettava furti, rapine e omicidi. Era ammaliata dal suo guru, che sosteneva di essere la reincarnazione non solo di Gesù, ma di Gesù e Satana insieme. Da Satana Manson ha preso molto. Nell’agosto del 1969 aveva deciso di vendicarsi di Terry Melcher, il boss delle incisioni, che non voleva saperne delle sue canzoni. Lui pensava di essere bravo, aveva conosciuto Dennis Wilson, il batterista dei Beach Boys: La band aveva inserito un suo brano in un long palying, ma cambiandone i versi e la musica. Ora Melcher andava punito e poco importava che non abitasse più in quella villa, che aveva affittato al regista Roman Polanski e a sua moglie Sharon Tate, una promettente attrice di 26 anni. Uccidere gli ospiti del produttore discografico sarebbe stata una punizione sufficiente. Manson non partecipò al massacro. Incaricò alcuni suoi adepti: un uomo, Charles “Tex” Watson, e tre donne, Susan Atkins, Patricia Krenwinkel e Linda Kasabian. Arrivarono al 10050 di Cielo Drive intorno a mezzanotte, con coltelli, pistola calibro 22 e una lunga fune di nylon. In casa c’erano Sharon Tate, il suo parrucchiere Jay Sebring, lo scrittore Wojciech Frykowski e la sua fidanzata, Abigail Folger. Polanski era a Londra a girare un film. Il primo a morire fu Steve Parent, un ragazzo di 18 anni che era andato a trovare il custode e che passava nella via. Linda restò fuori a fare da palo. Watson spaccò un vetro per entrare in casa e la banda radunò Sharon Tate e i suoi amici in salotto. Sharon fu legata per il collo a Sebring, mentre Waston legava le mani di Frykowski. La Atkins disse all’attrice: “Puttana, stai per morire”, Sebring cercò di difenderla e fu ucciso da Watson, che gli sparò e lo accoltellò più volte, usando anche un forchettone. Patricia Krenwinkel accoltellò Abigail e la Atkins colpì più volte Frykowski, che riuscì però ad uscire di casa. Nel giardino Linda lo vide ricoperto di sangue e gli disse “mi dispiace”, prima che lo finissero sull’erba con 28 coltellate. Sharon Tate fu l’ultima a essere uccisa: fu pugnalata 16 volte, soprattutto nel ventre. Avrebbe partorito di lì a due settimane. Con il sangue delle vittime, la Atkins scrisse “PIG”, porco, sulla porta di ingresso. All’interno, lasciarono scritto Helter Skelter, il titolo di una canzone dei Beatles che significa confusione, rinfusa. “Vai alla rinfusa, rinfusa, rinfusa”, dice il ritornello. La notte dopo, Manson e la sua banda uccisero anche l’imprenditore Leno LaBianca e sua moglie Rosemary, non si sa perché. Si dice che avrebbe voluto uccidere anche Liz Taylor, Steve McQueen e Frank Sinatra, ma fu arrestato prima. Molte donne gli hanno scritto mentre era in carcere e una, Afton Elaine Burton, non ancora trentenne, avrebbe voluto sposarlo. Ottennero una licenza di matrimonio nel 2014, poi tutto saltò. Secondo lo scrittore Daniel Simone, la Burton voleva sposare Manson solo per esporre il suo corpo a pagamento dopo la morte, e ci mancherebbe solo questo.